di Mario Lombardo

A differenza di quanto promesso a partire dal 2009 dal presidente Obama, la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan continuerà a protrarsi ancora a lungo e farà anzi segnare un’escalation degli scontri e delle violenze nel prossimo futuro. Questo è il senso della decisione presa qualche giorno fa dalla Casa Bianca e che garantisce maggiore discrezione ai vertici militari USA per partecipare alle operazioni belliche delle forze armate indigene contro gli “insorti” Talebani.

La guerra in Afghanistan sembra continuare a rappresentare poco più di un dettaglio per l’opinione pubblica internazionale, ma il governo di Washington e il Pentagono stanno da tempo apportando importantissime modifiche ai precedenti piani di “disimpegno” da questo paese dell’Asia centrale, in modo da assecondare l’evoluzione del quadro strategico della regione in base agli interessi degli Stati Uniti.

Il cambiamento più significativo consiste nella facoltà assegnata alle truppe di occupazione di prendere parte ai combattimenti dell’esercito regolare afgano contro i Talebani. La nuova autorizzazione non riguarda solo le forze di terra, bensì anche quelle aeree. Secondo quanto riportato dal New York Times, “i bombardamenti aerei non avranno più soltanto una funzione difensiva”, poiché “i comandanti americani potranno ricorrervi quando lo riterranno necessario” per colpire le forze talebane.

In precedenza, a partire dall’annunciata cessazione delle operazioni di combattimento da parte delle forze USA a fine 2014, il contingente residuo rimasto in Afghanistan aveva ufficialmente soltanto compiti di addestramento e poteva tutt’al più fornire “assistenza” alle forze speciali di Kabul durante operazioni “anti-terrorismo”.

La decisione di Obama sarebbe stata presa dopo un’elaborata discussione all’interno del governo e con i vertici militari, ma in realtà la nuova impennata delle operazioni belliche in Afghanistan era in preparazione da tempo. Gli eventi degli ultimi mesi, in particolare, hanno evidenziato la persistente fragilità del governo di Kabul del presidente, Ashraf Ghani, la cui sopravvivenza come strumento degli interessi americani può essere garantita solo da un rilancio dell’impegno militare di Washington.

Il presunto relativo disimpegno dall’Afghanistan propagandato da Obama avrebbe potuto concretizzarsi soltanto con la stabilizzazione del governo e della situazione interna. In uno scenario simile, gli Stati Uniti si sarebbero garantiti il controllo del paese e delle rotte energetiche e commerciali, al centro delle quali è posizionato, nella migliore delle ipotesi con uno sforzo militare e finanziario minimo.

Il continuo precipitare della situazione interna, in seguito all’avanzata dei Talebani, e l’acuirsi delle tensioni a livello regionale, principalmente proprio a causa della dissennata e spesso confusa politica estera dell’amministrazione Obama, hanno però rimesso in discussione questo progetto. La Casa Bianca e il Pentagono si sono visti così costretti a ripiegare nuovamente sulla soluzione bellica, in una spirale distruttiva che non vede esito diverso dalla perpetuazione del caos in un paese già devastato da quasi quindici anni di guerra.

Che l’attribuzione di maggiori responsabilità in combattimento alle forze di occupazione non sia un dettaglio insignificante o un evento isolato è confermato anche da un’altra probabile imminente decisione di Obama sull’Afghanistan. Citando fonti governative, questa settimana i media americani hanno dato l’impressione dell’esistenza di un dibattito interno anche sul piano di ridimensionamento del contingente di occupazione.

Obama, nel quadro del già ricordato “disimpegno” dalla guerra in Afghanistan, aveva promesso di portare da circa 10 mila a 5.500 il numero di soldati USA nel paese entro la fine dell’anno scorso, mentre per il dicembre 2016 la presenza militare sarebbe stata limitata agli uomini necessari alla difesa delle rappresentanze diplomatiche americane.

A ottobre 2015, però, questo piano era già stato stravolto e Obama, cercando disperatamente di minimizzare le nuove disposizioni, aveva annunciato il rinvio della riduzione delle forze di occupazione alla fine del 2016 o all’inizio del 2017, in concomitanza cioè con il suo addio alla Casa Bianca. In quell’occasione, pur avvertendo che l’aggiustamento della strategia afgana non sarebbe stato l’ultimo, il presidente aveva assicurato che le truppe nel paese centro-asiatico avrebbero continuato a non avere compiti di combattimento.

Se quest’ultima promessa è saltata qualche giorno fa, nelle prossime settimane si attende la marcia indietro anche sui tempi della riduzione del numero delle truppe di occupazione. La decisione dipenderebbe dal risultato di una valutazione in corso della situazione in Afghanistan condotta dal nuovo comandante delle forze USA in questo paese, generale John Nicholson.

Il clima venutosi a creare attorno alle sorti della guerra, le pressioni dei militari e la recente direttiva firmata da Obama rendono però praticamente certo un altro rinvio del ridimensionamento del contingente di occupazione. La decisione ufficiale potrebbe essere annunciata in occasione del summit della NATO in programma a Varsavia l’8 e il 9 luglio prossimo.

A spingere per il mantenimento dei circa 9.800 soldati attualmente in Afghanistan anche dopo il gennaio 2017 sono stati anche alcuni ex generali e diplomatici americani, i quali hanno indirizzato recentemente una lettera aperta al presidente Obama, invitandolo a rimandare indefinitamente la riduzione del numero delle truppe. Più che un intervento indipendente, quest’ultima mossa sembra essere un’operazione concordata con la Casa Bianca per dare una qualche copertura alla decisione di Obama di fare marcia indietro dalla promessa di porre fine a una guerra che dura dall’autunno del 2001.

Il rilancio delle operazioni belliche USA in Afghanistan non è comunque determinato soltanto da fattori indipendenti dalla volontà americana. Anzi, Washington ha agito e continua ad agire attivamente per creare condizioni che facciano apparire inevitabile la permanenza di un cospicuo contingente militare in Afghanistan.

In questo senso va letta l’eccezionale decisione di assassinare con un missile lanciato da un drone il leader dei Talebani, Mullah Aktar Mansour, il 21 maggio scorso. Il raid era avvenuto in territorio pakistano al di fuori delle aree tribali di confine con l’Afghanistan, dove operano solitamente i droni americani con il tacito consenso del governo di Islamabad, il quale ha infatti immediatamente manifestato la propria irritazione.

L’uccisione di Mansour ha rappresentato secondo molti un messaggio esplicito di Washington alle parti coinvolte nelle difficili trattative per portare i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul al tavolo delle trattative e, in particolare, alla Cina e al Pakistan. Evidentemente, le discussioni in corso avevano convinto gli Stati Uniti dell’impossibilità di impostare gli eventuali colloqui di pace sui binari desiderati per la salvaguardia dei propri interessi strategici nella regione.

La decisione di colpire il numero uno dei Talebani, favorendo l’installazione di un nuovo leader considerato un fautore della linea dura, ha posto così le basi per un inasprimento del conflitto e il raffreddamento del Pakistan nei confronti di un possibile processo diplomatico.

Il riassestamento della strategia americana in Afghanistan, incrociandosi con la cosiddetta “svolta” asiatica finalizzata all’accerchiamento e al contenimento della Cina, costituisce dunque un ulteriore fattore di destabilizzazione per i già precari equilibri che caratterizzano l’Asia centrale.

La conferma di questa preoccupante evoluzione si è avuta dagli scontri registrati a inizio settimana tra le forze armate di Pakistan e Afghanistan. I militari dei due paesi si sono scambiati colpi di artiglieria nell’area di confine di Torkham, risultando in un numero imprecisato di feriti e provocando la morte di almeno un agente di frontiera afgano e di un ufficiale dell’esercito pakistano.

I combattimenti sarebbero esplosi in seguito alla costruzione in territorio pakistano di una barriera di confine, a cui l’Afghanistan si oppone perché in violazione di un accordo che prevederebbe la cooperazione tra i due paesi nella realizzazione di strutture di qualsiasi genere nelle aree di frontiera.

Gli scontri s’inseriscono però in un’atmosfera di crescenti tensioni e di deterioramento delle relazioni bilaterali, la cui origine va ricercata principalmente proprio nelle manovre destabilizzanti condotte dagli Stati Uniti nella regione centro-asiatica.

di Michele Paris

L’orribile tragedia avvenuta nella notte tra sabato e domenica a Orlando, in Florida, è stata puntualmente seguita da rivelazioni e commenti, rilasciati dagli esponenti politici americani, che ricalcano in maniera inquietante quelli già registrati in seguito a praticamente tutti gli episodi di sangue di questo genere accaduti in questi anni negli USA e altrove.

Le reazioni del presidente Obama e dei candidati alla sua successione, Hillary Clinton e Donald Trump, hanno avuto toni diversi, ma tutti hanno prevedibilmente mancato di fare anche un minimo riferimento alle ragioni di ordine sociale e politico che stanno dietro alla manifestazione violenta e distorta della profondissima crisi della società e del sistema di potere negli Stati Uniti.

Se le motivazioni ultime che hanno spinto il 29enne Omar Mateen, nativo di New York ma di origine afgana, a commettere una strage nel night club gay Pulse non si conoscono e forse non si conosceranno mai, è evidente che il moltiplicarsi di assassini di massa in America non può essere ricondotto semplicemente a concetti astratti come “odio” o “male”, né alla mancanza di regolamentazioni stringenti sulla vendita di armi in questo paese.

I possibili legami di Mateen a una qualche rete terroristica internazionale sono inoltre tutti da dimostrare, nonostante la dubbia rivendicazione dello Stato Islamico (ISIS) giunta poco dopo la sparatoria e il “giuramento” al califfato fatto dall’attentatore in una telefonata al numero di emergenza 911 durante l’assalto alla discoteca.

L’ex moglie di Mateen ha parlato di una (breve) vita di coppia fatta di abusi, mentre il padre, attivista afgano impegnato contro il governo-fantoccio di Washington al potere a Kabul, ha escluso la motivazione religiosa, facendo riferimento piuttosto al risentimento del figlio nei confronti degli omosessuali.

Ragioni personali e psicologiche possono essersi perciò fuse ai contraccolpi sociali provocati dall’attività criminale di un governo, come quello americano, in perenne stato di guerra, soprattutto contro paesi musulmani, spingendo Mateen, come già altri individui chiaramente disturbati, ad abbracciare anche solo idealmente il fondamentalismo islamico e a portare a termine un atto di violenza indicibile che è costato finora la vita a 49 persone innocenti.

L’atmosfera tossica venutasi a creare negli Stati Uniti del dopo 11 settembre, fatta di repressione, violenza, promozione di forze ultra-reazionarie, deve svolgere un ruolo nella preparazione di ripetute stragi di massa che, con questa frequenza e gravità, non si registrano in nessun altro paese del mondo.

Questa realtà stride fortemente con la sterile risposta offerta dal presidente Obama alla strage di domenica. L’inquilino uscente della Casa Bianca non ha come al solito speso una sola parola per cercare di spiegare l’accaduto, se non riferendosi a un altro atto di “terrore e odio”, ma si è limitato a invitare gli americani a “stare uniti” e ha promesso di “proteggere… e difendere la nostra nazione”, nonché di “agire contro coloro che ci minacciano”.

Obama, va ricordato, è stato costretto a fronteggiare pubblicamente un’altra strage, l’ennesima che ha caratterizzato la sua amministrazione, solo un paio di giorni dopo la notizia della sua autorizzazione all’escalation della guerra in Afghanistan, rimangiandosi sostanzialmente la promessa di mettere fine a questo interminabile conflitto.

Trump, da parte sua, ha riproposto le proprie teorie razziste per spiegare la violenza terroristica o presunta tale, assieme al rilancio del divieto di ingresso negli Stati Uniti di tutti gli stranieri di fede musulmana. Cosa, quest’ultima, evidentemente inutile per prevenire il massacro del fine settimana, vista la nascita e la cittadinanza americana di Omar Mateen.

La reazione più minacciosa è stata però quella di Hillary Clinton, la quale ha riassunto alla perfezione, e in modo non troppo velato, la volontà della classe dirigente USA di sfruttare simili eventi, ma soprattutto il dolore e il disorientamento che suscitano tra la popolazione, per giustificare ulteriori iniziative improntate al militarismo e alla compressione dei diritti democratici. Il tutto per rendere gli Stati Uniti un posto più sicuro.

Fermo restando dunque il dubbio sulla matrice dell’assalto al night club di Orlando, è inevitabile rilevare come ancora una volta la condotta delle forze di polizia di un paese occidentale – in questo caso l’FBI – sollevi una lunga serie di interrogativi. Soprattutto in considerazione dei poteri di sorveglianza e controllo sulla popolazione senza precedenti garantiti negli Stati Uniti da leggi del Congresso, direttive presidenziali e sentenze di tribunali.

Sono bastate infatti poche ore dopo la sparatoria a rivelare che Mateen era finito non una ma due volte all’attenzione del “Bureau” nel recente passato. Nel 2013, il giovane con origini afgane era stato sentito da agenti federali in seguito alla denuncia di un suo collega di lavoro, secondo il quale Mateen aveva vantato possibili collegamenti con organizzazioni terroriste.

Un anno dopo, l’FBI era di nuovo su Mateen, sospettato di essere entrato in contatto con Moner Mohammad Abusalha, cresciuto in Florida e primo cittadino americano a farsi esplodere in Siria, dove combatteva nelle file del Fronte al-Nusra, filiale di al-Qaeda nel paese mediorientale.

Il fatto che entrambe le indagini fossero state chiuse senza ulteriori provvedimenti da parte dell’FBI non esaurisce la questione. Il livello di paranoia ostentato dall’apparato della sicurezza nazionale americano e l’incriminazione o la condanna di sospettati di terrorismo in casi con fondamenta praticamente inesistenti, non spiegano come Mateen abbia potuto continuare a lavorare indisturbato per una nota società che fornisce servizi di sicurezza e avere accesso ad armi di vario genere, sia attraverso il proprio impiego sia tramite un acquisto fatto la settimana prima della strage.

Il potenziale violento di Mateen era quindi facilmente ipotizzabile da parte dell’FBI, visto il suo possesso di un porto d’armi rilasciato dallo stato della Florida, ma in qualche modo la polizia federale americana non ha ritenuto esserci elementi per sottoporlo a sorveglianza o renderlo inoffensivo.

Questi stessi elementi giudicati inesistenti nel caso dell’attentatore di Orlando sembravano invece essere presenti, a detta dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia di Obama, in altri casi presumibilmente di natura terroristica in cui il “Bureau” è stato impegnato nei mesi scorsi, quando Mateen stava verosimilmente studiando il proprio obiettivo.

Uno di questi casi riguarda ad esempio James Gonzalo Medina, senzatetto di Miami con documentati problemi mentali, finito di recente agli arresti dopo essere stato al centro di una delle tante operazioni sotto copertura dell’FBI che prevedono la fabbricazione di trame terroristiche da parte di agenti in incognito al fine di incastrare un malcapitato potenziale terrorista.

In queste operazioni, l’FBI fornisce direttamente armi – spesso inutilizzabili – ai sospettati oppure, in alcuni casi, consente a questi ultimi di acquistarle direttamente, salvo poi procedere all’arresto prima che essi mettano in pratica i propositi terroristici alimentati a dovere dagli stessi agenti federali.

Se al momento non esistono elementi che facciano pensare per la strage di Orlando a un’operazione sotto copertura dell’FBI finita male, è però altrettanto evidente che, alla luce di quanto già emerso e anche dei dettagli resi noti in seguito ai precedenti attentati negli USA e in Europa, le forze di polizia non possono essere in nessun modo sollevate sommariamente da quelle che appaiono ancora una volta come pesanti, e forse decisive, responsabilità.

di Carlo Musilli

“La Brexit aprirà un buco nero tra i 20 e i 40 miliardi di sterline nelle nostre finanze, i nostri ministri dovranno rivedere la riforma delle pensioni” e si spalancheranno le porte a “una nuova austerity”. È questo l’ultimo appello del premier David Cameron in vista del referendum con cui il 23 giugno gli elettori britannici decideranno se il futuro del Regno Unito sarà dentro o fuori dall’Unione europea.

Per convincere gli incerti a votare contro l’uscita, sulle colonne del Sunday Telegraph il numero uno di Downing Street dipinge scenari foschi: “Se voterete 'Leave' – sostiene Cameron – molti dei nostri progetti salteranno. Dovremo rinegoziare un trattato con la Ue: potrebbero volerci dieci anni e sarebbero dieci anni persi per la Gran Bretagna. Se voterete 'Remain', avrete un Paese stabile. Vi assicuro che se resteremo nell'Ue avremo le risorse finanziarie per mantenere i benefit ai pensionati. E potremo proiettarci verso la creazione di più lavoro, più case e più opportunità per i vostri bambini e i vostri nipoti”.

In realtà, in caso di Brexit le prospettive sarebbero addirittura peggiori di queste: la Sterlina rischia di svalutarsi molto più di quanto non abbia già fatto (c’è chi ipotizza la parità con l’Euro), mentre il PIL britannico, oggi in crescita, entrerebbe in una lunga fase recessiva che lo porterebbe a scendere del 3% entro il 2020 e del 5% entro il 2030 (stime Ocse). La Confindustria inglese, inoltre, ritiene che l’addio a Bruxelles causerebbe la perdita di un milione di posti di lavoro. Di fronte a previsioni di questo tipo, i timori di Cameron appaiono più che fondati. La domanda però è un’altra: per quale ragione la maggioranza degli elettori britannici, stando ai sondaggi, non ha paura? Perché milioni di persone si ostinano a voler uscire dall’Ue?

Innanzitutto, quando si fa riferimento al fronte pro-Brexit non bisogna pensare a Londra. L’odio britannico contro l’Europa non arde nella capitale (che in caso di uscita perderebbe il ruolo di principale centro finanziario continentale), ma in tutto il resto del Regno e soprattutto in provincia, nei centri minori, nelle campagne. È qui che attecchisce più facilmente la falsa storia dell’Ue come zavorra costosa, fonte d’immigrati che rubano il lavoro e mettono in pericolo i diritti sociali degli onesti sudditi di Sua Maestà.

Questa rappresentazione si nutre di bugie inventate ad arte e diffuse al solo scopo di seminare il panico. Il sito infacts.org ha raccolto i cinque miti più fuorvianti usati in mala fede dalla propaganda pro-Brexit: primo, la Turchia sta per entrare nell’Unione europea; secondo, la Gran Bretagna si ritrova spesso in minoranza nelle votazioni europee; terzo, l’Ue ha più bisogno dell’UK di quanto l’UK abbia bisogno dell’Ue; quarto, i contribuenti britannici pagano 350 milioni di sterline a settimana a Bruxelles; quinto, uscire dall’Europa è l’unico modo per salvare il servizio sanitario nazionale britannico, perché ci saranno meno immigrati e più soldi da spendere. Sono tutte affermazioni false e molto facili da smentire - basta documentarsi un minimo - ma potrebbero bastare a convincere la maggioranza degli inglesi.

Poi, certo, esistono le panzane estemporanee, come quella distillata da Nigel Farage, leader del partito euroscettico Ukip, secondo cui restando nell’Ue aumenteranno gli assalti sessuali alle ragazze inglesi. Altre leggende metropolitane parlano di un milione e mezzo di clandestini in Gran Bretagna e di 700 reati commessi ogni settimana da cittadini comunitari.

Quello che nessun sostenitore della Brexit dice mai è che, in caso di uscita dall’Ue, il Regno Unito perderebbe il suo accesso preferenziale al mercato europeo, a cui oggi è legata circa la metà del commercio britannico. Lo shock economico che ne seguirebbe sarebbe gravissimo e il Paese si ritroverebbe di certo con molto meno denaro di oggi.

Un’altra verità su cui milioni di britannici chiudono gli occhi è che gli immigrati comunitari non sono affatto un peso per il sistema sanitario inglese. Al contrario, lo supportano: sia perché pagano più tasse di quanto non sfruttino i servizi (essendo mediamente più giovani della media della popolazione), sia perché, udite udite, in Gran Bretagna un medico su 10 è un immigrato comunitario. Basterebbe solo questo dato per capire quanto il Regno Unito abbia bisogno dell’Europa.

di Michele Paris

Quali potrebbero essere le implicazioni e i riflessi politici e sociali negli Stati Uniti se dovesse emergere che la minaccia di attentati terroristici sul suolo domestico è in gran parte non solo alimentata, ma fabbricata dalle forze di polizia ? La domanda è del tutto legittima, visto il ruolo ricoperto dall’FBI (Federal Bureau of Investigation) nell’ideazione, pianificazione e quasi esecuzione di molte delle trame di matrice presumibilmente terroristica “sventate” in America negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001.

La discussione sulle cosiddette “sting operations”, o operazioni sotto copertura, condotte dall’FBI non è nuova, ma un’analisi approfondita pubblicata questa settimana dal New York Times ha riportato al centro dell’attenzione sia il crescente ricorso a questi metodi nell’ambito della “guerra al terrorismo” sia la strumentalizzazione politica della presunta minaccia incombente sulla sicurezza pubblica.

Per il quotidiano americano, le operazioni sotto copertura erano considerate in passato come uno strumento eccezionale, mentre oggi “vengono impiegate in circa due su tre procedimenti di incriminazione che coinvolgono individui sospettati di avere legami con lo Stato Islamico” (ISIS). Le preoccupazioni sono tanto maggiori quanto le operazioni clandestine non richiedono il mandato di un giudice, ma possono essere autorizzate sommariamente dai “supervisori” dell’FBI e dai procuratori del Dipartimento di Giustizia.

Se a queste operazioni si faceva già ricorso quando la minaccia terroristica principale per gli americani era identificata con al-Qaeda, l’impennata registrata dal Times con l’entrata in scena dell’ISIS appare come la logica conseguenza della caratterizzazione con toni apocalittici dell’ascesa del “califfato”. Parallelamente, l’opposizione sempre più forte della popolazione americana a nuovi interventi militari all’estero e all’adozione di misure lesive delle libertà democratiche ha richiesto l’ingigantimento della minaccia terroristica percepita.

La necessità di alimentare, se non addirittura di promuovere, la minaccia del terrorismo è apparsa tra le righe di una dichiarazione rilasciata sempre al New York Times dal capo della divisione sicurezza nazionale dell’FBI, Michael Steinbach. Rivelando forse più di quanto intendeva sostenere, quest’ultimo ha affermato che la sua agenzia “non può attendere che una persona [sospettata di pianificare attentati terroristici] si muova secondo i propri tempi”, ma va evidentemente incoraggiata in qualche modo.

L’FBI, ha aggiunto Steinbach, “non si può permettere di rimanere immobile e aspettare, sapendo che un tale individuo sta attivamente complottando” un attentato. La realtà dei casi analizzati dal Times indica piuttosto che l’FBI, al fine di favorire un clima di tensione nel paese, decide sempre più spesso di agire per precipitare l’organizzazione di atti violenti che, senza il contributo attivo e determinante di informatori o agenti sotto copertura, non verrebbero mai portati a termine.

Così, in recenti operazioni “dalla Florida alla California, gli agenti [dell’FBI] hanno aiutato individui sospettati di essere estremisti ad acquistare armi, a studiare obiettivi da colpire e a organizzare viaggi in Siria per unirsi allo Stato Islamico”. Per l’ex agente FBI sotto copertura, Michael German, la polizia federale americana sta in sostanza “inventando casi di terrorismo”, poiché le persone coinvolte, di per sé, “sono ben lontane dal rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti”.

Avvocati difensori, organizzazioni a difesa dei diritti civili e membri della comunità islamica continuano a contestare le “sting operations” dell’FBI, definendole come vere e proprie trappole per individui frequentemente emarginati o affetti da un qualche disagio mentale.

Molti dei casi descritti dal New York Times rivelano una trama pressoché identica, nella quale gli agenti dell’FBI individuano sui social media persone che esprimono simpatie o sostegno per organizzazioni fondamentaliste, come l’ISIS, oppure manifestano l’intenzione di commettere atti violenti. Una volta identificato il proprio obiettivo, l’FBI incarica un agente sotto copertura di contattare on-line il potenziale “terrorista”.

Stabilito il primo contatto, segue uno scambio di messaggi, per fare emergere le intenzioni del sospettato, ed eventualmente un incontro di persona. Il compito dell’agente clandestino è quello di istigare l’individuo oggetto dell’operazione, proponendosi come un possibile fornitore di armi ed esplosivi, aiutandolo a individuare obiettivi da colpire oppure promettendo di facilitare un futuro trasferimento in Medio Oriente.

In molti casi, l’FBI decide l’arresto dei sospettati dopo che a questi ultimi sono state fornite armi, rigorosamente inoffensive, o biglietti aerei per il Medio Oriente. Invariabilmente, gli agenti sotto copertura registrano inoltre conversazioni nelle quali chiedono in maniera esplicita ai potenziali terroristi se intendono rinunciare all’attentato in programma o a unirsi all’ISIS. In questo modo, l’FBI si mette presumibilmente al riparo da complicazioni legali e dall’accusa di avere incastrato la persona al centro delle operazioni.

Emblematico è l’esempio del presunto estremista islamico Gonzalo Medina, di Miami. L’FBI aveva dapprima aperto un’indagine su quest’ultimo dopo avere avuto notizia delle sue intenzioni di fare esplodere una sinagoga. Le prove nei suoi confronti erano però scarse, ma il Bureau non si è dato per vinto. Un informatore dei federali lo aveva allora agganciato, ma in una discussione durante un incontro di persona Medina aveva preso le distanze da un amico che a sua volta si era detto disposto a prendere di mira una sinagoga.

Qualche giorno più tardi i due si trovavano in auto in un sobborgo di Miami e l’informatore aveva indicato una sinagoga come possibile obiettivo di un attacco terroristico durante una festività ebraica che avrebbe avuto luogo di lì a due settimane. Medina, verosimilmente per assecondare il suo interlocutore, aveva risposto che quello sarebbe stato “un buon giorno per fare esplodere” l’edificio.

L’informatore aveva così presentato Medina a un esperto di esplosivi, in realtà un agente dell’FBI in incognito. All’incontro, Medina aveva detto di volere commettere un attentato in nome dell’ISIS e l’agente gli aveva posto varie domande per assicurarsi delle sue motivazioni, aggiungendo che “non era obbligato a farlo”.

Infine, lo stesso agente aveva consegnato a Medina una bomba “inerte” ed entrambi si erano diretti in auto verso la sinagoga in questione. Quando il presunto attentatore era sceso dal veicolo con l’ordigno tra le mani, gli uomini dell’FBI hanno proceduto all’arresto.

Altri casi riportati dal Times sollevano le stesse perplessità e confermano come la minaccia teorica rappresentata dagli individui al centro delle operazioni sotto copertura dipende interamente dalle azioni dell’FBI. I sospettati non si sono quasi mai macchiati di alcun crimine in senso stretto, mentre eventuali post o dichiarazioni a favore di organizzazioni fondamentaliste, in assenza di atti concreti, dovrebbero essere garantiti dal principio della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento alla Costituzione americana.

Tra i casi citati che suscitano le maggiori perplessità c’è quello di Emanuel Lutchman di Rochester, nello stato di New York, al quale un informatore della polizia aveva consegnato 40 dollari per l’acquisto di un machete e altri oggetti che avrebbero dovuto servire per l’esecuzione di un improbabile attentato alla vigilia di Natale dello scorso anno. Lutchman era in terapia per una malattia mentale e, secondo i suoi famigliari, qualche mese prima dell’arresto l’FBI gli aveva proposto di diventare egli stesso un informatore.

In molti casi, i sospettati finiti nella rete dell’FBI si dichiarano colpevoli di avere progettato attentati terroristici o di essere stati sul punto di unirsi a un organizzazione fondamentalista. Più che la concretezza delle prove a loro carico, ciò conferma il disorientamento di queste persone.

Nonostante le accuse rivolte al governo di fabbricare a tavolino minacce e complotti di natura terroristica, i casi finiti in tribunale si sono quasi sempre conclusi con verdetti di colpevolezza e lunghe condanne. Anche in questo caso, l’esito dei procedimenti basati sulle operazioni sotto copertura non dipende tanto dalla solidità delle accuse, quanto da leggi sull’anti-terrorismo particolarmente severe e dalla sostanziale accettazione dei principi anti-democratici della “guerra al terrore” da parte del potere giudiziario.

Almeno un giudice americano ha però nel recente passato descritto le “sting operations” dell’FBI per quello che realmente sono. Il giudice Colleen McMahon del tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Manhattan in un caso del 2011 affermò in aula di “credere senza ombra di dubbio che non ci sarebbe stato nessun crimine senza l’istigazione, la pianificazione e la messa in atto da parte del governo”.

Il caso riguardava quattro musulmani di Newburgh, nello stato di New York. L’FBI aveva piazzato un informatore in una moschea di questa città e l’operazione prevedeva addirittura un piano per il lancio di missili terra-aria contro una base aerea e due sinagoghe. Un finto missile era stato realizzato dall’FBI e successivamente consegnato ai quattro “attentatori”. Nonostante l’assurdità della vicenda e le esternazioni del giudice di New York, gli imputati vennero incredibilmente condannati e le accuse sarebbero state poi confermate anche dalla sentenza di Appello.

di Michele Paris

Il sostanziale epilogo delle primarie Democratiche per la presidenza degli Stati Uniti è stato degnamente suggellato questa settimana dallo stesso genere di manovre messe in atto fin dallo scorso anno dai vertici del partito e dalla stampa ufficiale “liberal” per garantire l’assegnazione della nomination alla candidata di gran lunga favorita dall’establishment, Hillary Clinton.

A giudicare dai sondaggi che erano circolati nei giorni precedenti il voto di martedì, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, era dato nettamente in vantaggio in quattro dei sei stati chiamati alle urne, mentre la sfida in California sembrava doversi risolvere in un testa a testa. Alla fine, Sanders ha prevalso solo in Montana e nei “caucuses” del North Dakota, mentre l’ex segretario di Stato ha messo le mani, oltre che sulla California con un margine di ben 13 punti percentuali, su New Mexico, South Dakota e, come previsto, New Jersey.

Il raffreddamento degli entusiasmi dei sostenitori di Sanders appare dunque chiaro ed è stato dovuto in larga misura al clima di inevitabilità creato da media e politici Democratici attorno alla candidatura di Hillary Clinton. Clamorosa è stata soprattutto la decisione presa lunedì dalla Associated Press di annunciare l’ormai certa conquista della nomination da parte di Hillary in seguito a un riconteggio, per mano della stessa agenzia di stampa e dal tempismo infallibile, del numero di delegati raccolti dai due aspiranti alla Casa Bianca.

Hillary aveva vinto nelle primarie di Porto Rico e nei “caucuses” delle Isole Vergini nel fine settimana, ma l’incoronazione dell’autorevole agenzia di stampa americana è stata possibile solo tenendo in considerazione l’orientamento di voto dei “superdelegati” Democratici, quelli cioè non assegnati dal voto popolare nei singoli stati.

I “superdelegati”, ovvero membri del Congresso o esponenti di spicco del partito, hanno diritto di scegliere liberamente il candidato da appoggiare alla convention. Tuttavia, nonostante la maggior parte avesse deciso di schierarsi dalla parte della Clinton, essi hanno facoltà di cambiare idea fino alla votazione ufficiale dell’assemblea dei delegati durante la convention. Per questa ragione, tecnicamente la competizione alla vigilia delle primarie di martedì era ancora aperta e la notizia della vittoria di Hillary circolata con un giorno di anticipo ha molto probabilmente influito sui risultati finali.

L’uscita della Associated Press è stata subito ripresa dalle altre testate negli Stati Uniti. Hillary e il suo team hanno invece invitato ad attendere l’esito del voto, ben sapendo però che la notizia sarebbe stata sufficientemente amplificata dalla stampa americana.

Se e quali macchinazioni recenti e meno recenti a favore della ex first lady siano risultate decisive nel decidere l’assegnazione della nomination per il Partito Democratico è difficile da valutare. Certo è che l’atteggiamento dei leader Democratici e dei media in questa tornata elettorale negli USA ha fornito indicazioni interessanti sullo stato del partito e della sua candidata alla presidenza.

L’ansia di liquidare Sanders e di dichiarare chiuse le primarie a favore di Hillary, ad esempio, non indica affatto la forza di quest’ultima, bensì al contrario l’estrema debolezza della sua candidatura. Il protrarsi della sfida tra i Democratici ha rischiato cioè di esporre sempre più la vera natura di Hillary, vista giustamente con avversione dalla maggior parte degli americani, e di favorire il candidato Repubblicano, Donald Trump.

La fragilità di Hillary e l’insofferenza di decine di milioni di americani nei suoi confronti l’avevano spinta un paio di settimane fa anche a rifiutare la proposta di Sanders di apparire in un ultimo dibattito televisivo prima della fine delle primarie. Hillary aveva valutato che un evento nel quale il suo rivale avrebbe potuto attaccarla per il suo curriculm politico reazionario si sarebbe risolto in un disastro per la sua immagine.

La permanenza di Sanders nella corsa ha anche contribuito al processo di radicalizzazione dell’elettorato Democratico, già galvanizzato dalla campagna di un candidato presentatosi con un programma progressista e addirittura auto-definitosi “democratico-socialista”. Questa tendenza potrebbe minacciare una diserzione di una parte degli elettori del partito a novembre, tutt’altro che disposti a turarsi il naso e a votare una candidata legata a doppio filo con Wall Street e l’apparato militare e della sicurezza nazionale americano.

Per prevenire uno scenario di questo genere, Sanders sarà sollecitato a svolgere fino in fondo il ruolo che la sua candidatura doveva avere fin dall’inizio, ovvero quello di convogliare l’opposizione delle classi più disagiate verso il Partito Democratico, impedendo che essa prenda una qualche forma autonoma e alternativa all’attuale sistema politico di Washington.

Sanders non ha per il momento riconosciuto la sconfitta e ha anzi invitato i suoi sostenitori nella capitale degli Stati Uniti a recarsi alle urne per l’ultima tappa delle primarie 2016 che si terrà martedì prossimo proprio a Washington. Il senatore del Vermont ha però richiesto e ottenuto un faccia a faccia con il presidente Obama giovedì, nel quale verosimilmente i due discuteranno le mosse necessarie a “unificare” il Partito Democratico attorno a Hillary Clinton.

Svanite le chances di nomination, a Sanders non resterà che cercare di trasferire il suo capitale politico dalla sfida con la rivale all’impegno per la definizione della piattaforma programmatica del partito. In realtà, la linea del Partito Democratico rimarrà invariabilmente “pro-business” a prescindere da quanto verrà proposto durante la convention di luglio a Philadelphia. Tuttavia, anche per non apparire troppo remissivo di fronte a Hillary e ai vertici del partito dopo una battaglia durata mesi, Sanders finirà per promuovere l’illusione di un Partito Democratico in grado di guardare ai bisogni di lavoratori e classe media, spingendo per l’adozione di alcune sue proposte di stampo progressista.

In questo modo, Sanders riuscirà a giustificare il suo appoggio alla Clinton, assicurando a quest’ultima il voto a novembre della maggior parte dei suoi sostenitori. Hillary, da parte sua, potrà imprimere l’attesa svolta a destra della sua campagna elettorale, così da provare a intercettare i voti degli elettori Repubblicani non intenzionati ad appoggiare Trump.

L’altro pilastro della strategia di Hillary per le presidenziali vere e proprie sarà l’accento sulla natura “storica” della candidatura della prima donna alla Casa Bianca per uno dei due principali partiti americani. La nomination della ex first lady è già stata festeggiata con toni trionfali, e a tratti disonesti e ripugnanti, da quasi tutti i media ufficiali negli USA e non solo.

Il New York Times, ad esempio, è uscito mercoledì con un apposito editoriale per celebrare l’evento, definito una “pietra miliare” per i diritti delle donne, lasciando intendere che la sola presenza sulle schede elettorali di un candidato di sesso femminile, ancorché guerrafondaio, reazionario e al servizio di ricchi e potenti, costituisca un qualche progresso per la società.

La fissazione “liberal” sulle questioni di genere e di razza era apparsa già evidente nel 2008 dopo la conquista per la prima volta da parte di un politico di colore della nomination Democratica e poi della presidenza. Il totale abbandono delle pretese riformiste di quell’esperienza elettorale si sarebbe tradotto in conflitti sanguinosi, crimini di guerra, smantellamento dei diritti democratici e dei lavoratori, cioè precisamente quanto è di nuovo in serbo per gli americani e il resto del pianeta in caso di vittoria a novembre della candidata Hillary Clinton.


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