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di Mario Lombardo
Le dimissioni nel fine settimana del segretario del Partito Socialista Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez, sono state il risultato di manovre messe in atto da una fazione interna alla principale forza di opposizione allo scopo di consentire la nascita di un governo di minoranza di centro-destra alla guida del paese iberico dopo due elezioni inconcludenti.
Con l’avvicinarsi della scadenza per la formazione di un nuovo gabinetto ed evitare una terza consultazione popolare, i “ribelli” Socialisti si sono mobilitati settimana scorsa in seguito alle dichiarazioni dell’ex primo ministro, Felipe González, nel corso di una visita in Cile. Il 74enne ex leader del PSOE aveva denunciato Sánchez per essersi presumibilmente rimangiato la promessa di fare astenere i parlamentari del partito nel recente voto di fiducia perso dal premier incaricato, Mariano Rajoy, del Partito Popolare (PP) di centro-destra.
A pesare sulla sorte di Sánchez era stata anche l’ennesima batosta patita alle urne nelle elezioni regionali di settimana scorsa. In Galizia e nei paesi Baschi, il PSOE era giunto rispettivamente terzo e quarto, superato in entrambi i casi dal neo-nato partito di protesta Podemos (Possiamo).
A livello nazionale, il PP aveva ottenuto il maggior numero di consensi dopo le elezioni del dicembre 2015 e del giugno di quest’anno, ma in entrambi i casi senza assicurarsi la maggioranza assoluta per governare in autonomia. Il primo ministro in carica aveva siglato un accordo con un’altra formazione di centro-destra, il partito dei Cittadini (Ciudadanos), ma per riuscire a conquistare la fiducia in parlamento serviva un altro partner o, al secondo voto in aula, un numero di astensioni tale da raggiungere almeno la maggioranza relativa dei seggi.
Quest’ultima soluzione era ed è tuttora possibile solo con l’astensione di almeno 85 parlamentari Socialisti. Tuttavia, nonostante le pressioni di molti all’interno del suo partito, Sánchez era riuscito finora a mantenere compatta la delegazione del PSOE, frustrando i tentativi di Rajoy di restare alla guida del governo spagnolo.
Poco dopo le già citate dichiarazioni di Felipe González, 17 su 35 membri del comitato esecutivo del partito si sono però dimessi dal loro incarico e, aggiungendosi a tre posti già vacanti, hanno fatto scattare una norma dello statuto del PSOE che, in caso di assenza della metà più uno dei componenti il direttivo nazionale, prevede la convocazione di un congresso straordinario e il trasferimento degli incarichi del segretario a una leadership provvisoria.
Sánchez ha dovuto così indire l’assemblea e nella giornata di sabato ha finito per dimettersi dopo la bocciatura per 132 a 107 di una sua risoluzione che chiedeva un voto per eleggere un nuovo segretario il 23 ottobre prossimo. In un appuntamento cruciale per la nascita di un possibile governo di minoranza a Madrid, un altro comitato del PSOE dovrà ora esprimersi sull’eventuale astensione del partito nel prossimo voto di fiducia che affronterà in parlamento il primo ministro Rajoy.Le vicende interne al Partito Socialista Spagnolo sono la conseguenza del terremoto elettorale degli ultimi nove mesi che ha fatto crollare l’architettura sostanzialmente bipartitica su cui si basava il panorama politico post-franchista. Il PSOE, in particolare, ha raccolto i peggiori risultati della propria storia, sprofondando in una gravissima crisi, acuita dalle divisioni tra coloro che intendevano favorire la nascita di un nuovo governo guidato dal PP - tramite l’astensione o la partecipazione diretta all’Esecutivo - e quanti spingevano per una qualche alleanza con Podemos.
L’apparente successo dei primi nella lotta per la leadership del partito contraddice con ogni probabilità il volere della maggioranza degli elettori del PSOE. Durante il congresso del partito a Madrid nel fine settimana numerosi manifestanti hanno espresso il loro appoggio a Pedro Sánchez e denunciato come “golpisti” e “traditori” i membri della fazione contraria a quella del segretario, guidata dalla numero uno dei Socialisti in Andalusia, Susana Díaz. Un recentissimo sondaggio ha inoltre mostrato come circa il 60% dei sostenitori del PSOE fosse favorevole alla linea di Sánchez.
La scelta che opereranno i leader Socialisti nel prossimo futuro porterà in ogni caso conseguenze negative per il partito. Il dilemma del PSOE indica uno stato di crisi difficilmente reversibile e nei giorni scorsi è stato riassunto ad esempio dal Wall Street Journal, per il quale l’astensione dei suoi parlamentari e il via libera a un governo di minoranza del PP provocherebbe una rivolta da parte dei suoi elettori più orientati a sinistra, ovvero la maggioranza.
Allo stesso tempo, la continua opposizione a Rajoy e il conseguente prolungamento dello stallo politico a Madrid farebbero aumentare le pressioni sul partito da parte di quegli ambienti - della politica, della stampa e degli affari - che vedono come unica soluzione per la stabilizzazione del sistema la rapida formazione di un governo e l’allontanamento dello spettro di un terzo voto in dodici mesi.
L’accelerazione impressa alle manovre all’interno del PSOE per mettere da parte Pedro Sánchez e facilitare la creazione di un esecutivo a guida Popolare corrisponde al crescere delle preoccupazioni nella classe dirigente spagnola ed europea per la mancanza a Madrid di un esecutivo pienamente legittimato a proseguire con le politiche di rigore che hanno caratterizzato l’azione degli ultimi governi di entrambi i partiti.
Se alla fine dell’anno l’economia spagnola potrebbe fare segnare un tasso di crescita pari addirittura al 3%, gli allarmi per gli effetti dell’impasse politica si fanno sentire da tempo. Ai primi di settembre, l’agenzia di rating Moody’s aveva avvertito ad esempio che l’assenza di un governo avrà effetti negativi sull’economia del paese. Nello specifico, il persistere di questa situazione metterebbe in dubbio “le capacità della Spagna di rispettare i propri obiettivi fiscali” e l’impegno nell’affrontare “la debolezza strutturale dei conti pubblici”.
L’eventuale nascita di un governo di minoranza guidato da Rajoy grazie all’astensione di almeno una parte dei parlamentari Socialisti consentirebbe in definitiva di proseguire con le politiche di riduzione della spesa pubblica e con la ristrutturazione dei rapporti di lavoro a favore di una sempre maggiore flessibilità.
Che questo processo sia favorito dal PSOE non è d’altra parte sorprendente, visto che era stato inaugurato dopo la crisi globale del 2008 proprio dal governo Socialista dell’allora premier, José Luis Zapatero. Anzi, questa stessa eredità rappresenta il fardello più pesante che grava sui Socialisti, il cui scontro interno testimonia del disfacimento in atto nel più vecchio partito spagnolo, in costante spostamento verso destra a fronte della radicalizzazione del proprio elettorato di riferimento.La stessa strategia politica di Sánchez, d’altronde, non rappresentava un’alternativa progressista all’uscita dalla crisi politica spagnola. Il leader dimissionario del PSOE aveva prospettato qualche apertura nei confronti di Podemos soltanto per evitare il tracollo del suo partito in caso di complicità nella formazione di un governo di centro-destra.
Infatti, dopo le elezioni dello scorso dicembre, Sánchez aveva sottoscritto un accordo con il partito di centro-destra Ciudadanos, nella speranza, poi frustrata, di ottenere il sostegno di Podemos per un progetto di governo solo apparentemente alternativo a quello promosso dal Partito Popolare.
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di Fabrizio Casari
Come nel peggiore dei remake, l’ultradestra statunitense torna a minacciare il Nicaragua. Alcuni congressisti, guidati da Ileana Ross-Lehtinen (soprannominata “la loba feroz - la lupa feroce” e amica intima del terrorista cubano americano Luis Posada Carriles ndr) hanno fatto passare alla Camera dei Rappresentanti USA il Nica Act, una misura destinata a far ripiombare la storia delle relazioni tra Nicaragua e Stati Uniti nello scontro degli anni ’80.
Il provvedimento prevede sanzioni nei confronti del Nicaragua. La più importante è il divieto di accesso per il paese centroamericano ai prestiti internazionali emessi da FMI, Banca Mondiale e Banco Interamericano di Sviluppo (BID).
Più che una legge il Nica Act é una indecente ingerenza, il cui obiettivo politico è alterare l’esito del processo elettorale in Nicaragua, scatenando apprensione nella popolazione e negli investitori stranieri nella speranza di condizionare il voto del prossimo 6 novembre. Nel provvedimento si sostiene che il governo sandinista limita i diritti dell’opposizione, viziando il processo elettorale in corso. Il che non è affatto vero.
I sandinisti non hanno nessun bisogno di ridurre lo spazio democratico per vincere. Il consenso conquistato dal governo guidato dal Comandante Daniel Ortega, grazie a 10 anni di sicurezza e di forte recupero dell’economia del paese, si riverbera sui sondaggi, che indicano una distanza incolmabile tra il Frente Sandinista e i partiti che lo accompagnano e la coalizione oppositrice, seppur ampia.
Si deve ricordare che il FSLN è, dal 1984, il primo partito del paese, con uno zoccolo duro intorno al 37% dei voti. L’opposizione, composta da Liberali, Conservatori ed altre formazioni, compresi gli ex.contras, è accreditata nei sondaggi tra il 12 e il 14% dei voti.
Solo due sono le componenti che gridano alla mancanza di condizioni per un regolare svolgimento della campagna elettorali: gli ex liberali legati a Montealegre e il MRS degli ex-sandinisti. Entrambi in cerca di vendette, compongono l’osceno quadretto dei personaggi recatisi a Miami e a Washington a chiedere aiuto all’ultra destra statunitense affinché colpisca il Nicaragua che loro non riescono a conquistare.
Non ci riescono perché godono di un consenso risibile: secondo i sondaggi della CID-Gallup, della M&R Consultores e della Borge&Asociados, se si presentassero alle urne, i liberali vicini a Montealegre arriverebbero a sfiorare il 3% dei voti, mentre il MRS sarebbe allo 0,2%. Proprio per questo non si presentano. Non è la presunta mancanza di equità nelle condizioni di accesso al voto, ma la totale assenza di credibilità di queste due sigle presso l’elettorato a determinarne la marginalità assoluta nel panorama politico nicaraguense. In particolare, i liberali vicini a Montealegre, sono in deficit di credibilità nella loro proposta politica, a causa del loro malgoverno di sedici anni (1990-2006) ed alle liti interne.
Ma accantonando per un momento la miseria umana e politica degli ex-sandinisti del MRS, senza voti né prestigio alcuno, da anni alleati con la destra ed oggi addirittura nelle vesti di chi è invoca l’intervento straniero contro il suo stesso paese, la vicenda dell’opposizione liberale merita di essere raccontata.Da tempo nel PLI si sono scontrati senza esclusione di colpi due blocchi alternativi tra loro: uno guidato da Edoardo Montealegre - banchiere ed ex ministro nei governi liberali - e l’altro da Pedro Reyes, giurista, che a Montealegre si è opposto per linea politica e gestione del partito. Si sono scontrati nelle sedi di partito, sui media e infine nei tribunali, rivendicando ognuno la titolarità giuridica e il simbolo del partito.
Lo scontro tra le fazioni liberali è proseguito fino al giugno di quest’anno, quando la Corte è stata costretta a sentenziare, dal momento che stava per aprirsi la campagna elettorale e ritardare la sentenza avrebbe complicato non poco la presentazione del simbolo, dei candidati e delle liste elettorali. La sentenza ha accolto il ricorso di Reyes, sostenuto dalla maggioranza del gruppo dirigente.
Gli sconfitti imputano alle pressioni del governo la decisione della Corte Suprema di Giustizia di assegnare a Reyes l’autorizzazione alla gestione del partito. Ma è un’affermazione ridicola e senza fondamento. La Corte ha sentenziato non per volontà del governo ma a conclusione di una vera e propria battaglia legale interna al Partito Liberale. Né il FSLN, né il governo guidato dal Presidente Daniel Ortega, hanno niente a che fare con essa.
Dopo aver vinto, Pedro Reyes è passato alla resa dei conti interna. Ha chiesto agli eletti del PLI in Parlamento di prendere atto del cambio di leadership e sottomettersi alla nuova direzione politica. Sedici di questi, eletti nel 2011 con Montealegre, hanno rifiutato però di schierarsi con Reyes. Costui si è così rivolto al Parlamento per chiedere l’esecuzione della norma del regolamento parlamentare introdotta con voto unanime nel 2014, che proibisce il “cambio di casacca” e prevede la decadenza del mandato per chi abbandona il partito con il quale è stato eletto.
Il Parlamento ha votato la mozione proposta dai liberali di Reyes. Per questo, e non per volontà del governo, lo scorso 29 luglio un gruppo di deputati liberali, Montealegre compreso, sono decaduti. Al loro posto, in alcuni casi sono subentrati i deputati supplenti, ovvero i primi non eletti della lista che si riconoscevano nelle posizioni di Reyes e del gruppo dirigente del PLI.
Detto dei liberali, c’è poi il capitolo squallido del MRS. Fondamentalmente affermano che non vi sono le condizioni per votare solo perché dal voto uscirebbero distrutti. E' per evitare la resa dei conti con l‘elettorato che gli ex-sandinisti hanno chiesto aiuto all’ultra destra statunitense. Il che desta indignazione ma non sorprende. Non solo per la caratura di alcuni personaggi ma anche perché la sentenza della Corte ha guastato i loro piani. Vediamo quali erano.Va detto in premessa che benché depositario di un consenso con numeri da prefisso telefonico, il MRS, in una opposizione guidata da Montealegre, avrebbe avuto un ruolo primario. Il che non avverrà con il PLI in mano a Reyes, che del MRS e altri, al fine di un rilancio dell’iniziativa della coalizione, ha deciso di fare a meno nell’alleanza elettorale con gli altri partiti d'opposizione. Dunque, salvo ripensamenti dell’ultima ora, il MRS è fuori dalla coalizione oppositrice, così come i seguaci di Montealegre.
Se la coalizione fosse stata in mano a Montealegre, invece, la strategia sarebbe stata un’altra ed era stato proprio il MRS a suggerirla. Non potendo pensare nemmeno da lontano ad una vittoria, il progetto era ritirare simbolo e candidati a 20-30 giorni dal voto, sostenendo non vi fossero le condizioni per un normale svolgimento della campagna elettorale; che la colpa era del governo Ortega e che quindi le elezioni andavano annullate chiedendo al riguardo l’intervento di USA e UE (che li sostengono da sempre).
In subordine, il piano B prevedeva di votare per poi, da sconfitti, gridare ai brogli elettorali ed assegnare agli osservatori statunitensi ed europei il compito di sostenere le accuse per chiedere l’annullamento del voto. Ma le ridicole percentuali previste dai sondaggi hanno fatto abbandonare quest’ultimo progetto, dato che i numeri sarebbero stati i principali nemici della credibilità delle accuse e dello stesso MRS.
Il progetto, a ben vedere, non era niente di straordinariamente originale, solo la versione tropicale dell’operazione messa in atto, per esempio, in Ucraina. Proprio dal reiterato utilizzo politico degli osservatori deriva il già annunciato rifiuto del governo di Managua ad accettare osservatori di organismi legati ai governi USA o UE che altro non fanno se non quello di dichiarare regolari o irregolari le elezioni a seconda di chi vince.
Non è tema che riguardi solo il Nicaragua, ovvio. Utilizzare presunte ONG e Fondazioni finanziate dalla politica statunitense e dalla UE é ormai da anni il nuovo modo d’intervenire nei processi politici ed elettorali interni ai paesi non obbedienti agli Stati Uniti. Serve fondamentalmente a consentire alla destra di divenire governo a prescindere dal risultato. In Paraguay e Brasile è andata in scena la versione post-elettorale e parlamentare del piano, mentre in Nicaragua si è probabilmente tentato di applicare la variante che ne prevede la realizzazione prima del voto.
Ma queste operazioni, che per passare hanno sempre bisogno di una sponda interna di dimensioni rilevanti, non sono state facilitate dal PLI guidato da Pedro Reyes e dalle altre formazioni oppositrici, che accettano la competizione battendosi per raggiungere il risultato migliore. Dunque, senza il maggior partito della coalizione oppositrice a sostenere l’illegittimità delle elezioni, il piano del MRS non poteva andare in porto.
Per questo il MRS, preso dalla disperazione, mentre cerca di esercitare ogni pressione verso Reyes per essere riammesso nella coalizione, si è recato in ginocchio negli Stati Uniti a chiedere misure che, se approvate, produrrebbero danni per 250 milioni di dollari al Nicaragua.
Ove esse venissero approvate ne deriverebbero fastidiose ricadute sulla crescita dell’economia nicaraguense, oggi la seconda dopo Panama per crescita del PIL e la prima dell’area centroamericana. Inciderebbero negativamente nel raggiungimento degli obiettivi di equità sociale e percentuale di riduzione della povertà estrema e della forbice sociale. Sono questi fattori fondamentali anche per la sicurezza interna, che indica il paese di Sandino come il più sicuro del Centroamerica.
Quale sarà il cammino del Nica Act al momento è difficile da prevedere. Intanto é approdato alla Commissione Esteri del Senato. Ma potrebbe finire in una bolla propagandistica, considerando che i rapporti diplomatici e commerciali tra Managua e Washington, così come la cooperazione in diversi ambiti - anche relativi alla sicurezza regionale - non offrono pretesti per un irrigidimento anacronistico delle relazioni tra i due paesi. Non si giustificherebbe un inasprimento unilaterale delle stesse con un atto ingerente ed aggressivo che si configurerebbe solo come una stupida fuga verso il passato.
Più realisticamente si può immaginare uno sviluppo dell’iter legislativo successivo al voto in Nicaragua. Un voto che confermerà ampiezza e profondità del consenso elettorale dei sandinisti e, per converso, anche la credibilità di una opposizione che dispone di una parte maggioritaria dei media e di un più che sufficiente bacino elettorale. Infatti Liberali e Conservatori, insieme alle altre formazioni che si oppongono al governo, sono accreditati di percentuali di tutto rispetto, pur se di gran lunga inferiori a quelle che vengono accreditate al FSLN.Ma questa distanza è il risultato di due progetti alternativi tra loro che hanno avuto modo di dispiegarsi lungamente nel Paese. Sedici anni di governo liberale hanno stremato il Paese, portandolo al triste record di paese più povero dell’emisfero, mentre i successivi dieci anni di governo sandinista lo hanno resuscitato, portandolo al primo posto per crescita sostenibile.
Il Nicaragua scommette sul consolidamento del suo progetto politico riformatore, sul suo cammino di ammodernamento, pacificazione e progresso socioeconomico, così come sulla spinta ad una maggiore unità e stabilità regionale.
Toccherà al Senato USA e alla Casa Bianca dimostrare che tutto è possibile nelle relazioni con Managua ma non una riedizione dell’ingerenza indebita nei suoi affari interni. Una nuova politica aggressiva statunitense verso il Nicaragua non sarebbe semplice da spiegare, né agli investitori statunitensi né in sede internazionale.
L'auspicio è che il Nica Act resti solo un incidente di percorso promosso dall'ultra destra. Un remake degli anni ‘80 risulterebbe ridicolo prima ancora che ingiusto. Una minaccia alla stabilità economica del Nicaragua risulterebbe miope per gli stessi interessi di Washington.
Il Nicaragua sandinista è l’unico autentico muro a difesa della penetrazione del narcotraffico e delle maras tra Centro e Nord America, entrambi flagelli per gli USA. Limitare le risorse di Managua risulterebbe quindi inopportuno per la stessa sicurezza statunitense. Questo si rivelerebbe il Nica Act: un boomerang che partirebbe come un errore per poi tornare indietro come controproducente.
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di Tania Careddu
Dai duecento ai quattrocento miliardi di dollari. A tanto (e per difetto, se si considera che le stime sui proventi vengono calcolate sulla base dei soli sequestri effettuati) ammonta il business globale del narcotraffico. Il Calcolo è dell’ONU ed é basato solo sui dati provenienti dalla informazioni prodotte dalle autorità di polizia, che somma la quantità di droga in circolazione al prezzo degli stupefacenti nei vari Paesi.
Sulla scena ci sono tutti i protagonisti: produttori e intermediari, con i gruppi criminali che gestiscono le transazioni; quindi i consumatori, il cosiddetto "bacino d'utenza". Il narcotraffico, come altri business, segue l'onda delle trasformazione dei rapporti di forza e dei procesi economici che li generano. Il più significativo riguarda il messico, passato nell'ultimo decennio da paese distributore a paese produttore e distributore.
In Messico i Narcos producono e distribuiscono la maggior parte della droga circolante che invade il mercato degli Stati Uniti, primo paese al mondo per domanda. Poi c’é l’Afghanistan, centro fondamentale per la coltivazione e la produzione dei derivati degli oppiacei, tipo l’eroina, dove l’occupazione militare statunitense non pare limitare la produzione, che negli ultimi anni si è raddoppiata. Poi c’é l’Africa bianca ai primi posti per l’hashish e quindi l’Europa centro-settentrionale per le droghe sintetiche mentre Bolivia, Perù e Colombia sono tra i più importanti produttori di cocaina.
Alcuni corridoi nello schema del narcotraffico sono noti: l’Africa occidentale, dove i carichi di cocaina arrivano dal Sud America e vengono smistati verso l’Europa e in cui la principale porta d’ingresso è la Spagna. Poi ci sono gruppi specifici che gestiscono determinati prodotti: la mafia israeliana domina l’industria olandese dell’ecstasy e il suo mercato negli Stati Uniti; quella nigeriana si occupa del trasporto di cocaina dall’Africa all’Europa; i cartelli messicani dirigono la produzione e il trasporto negli Stati Uniti, il maggior consumatore mondiale di droga. Ci sono poi gruppi terroristici e paramilitari che garantiscono la protezione dei campi di produzione o dei trasporti, vedi il gruppo jihadista Boko Haram in Africa occidentale.
Ramificato, capillare, il narcotraffico è estremamente integrato nel sistema economico e sociale mondiale, tanto da essere finanziariamente rilevante per tanti Paesi: in Messico rappresenta un PIL occulto pari a quello ufficiale, al punto che la definizione di Narco-Stato risulta appropriata. Ma anche in altri paesi, sebbene a livelli minori, incide seriamente: in Bolivia, per esempio, dagli anni ottanta in poi questo tipo di commercio ha permesso una discreta crescita del PIL annuo; in Perù, il 15 per cento dei contadini dipende dalla coltivazione di coca e in Colombia.
Ma combatterlo con la militarizzazione e il proibizionismo, come hanno tentato di fare alcuni governi negli ultimi decenni, è una strategia fallimentare. Prova ne sia, dal lato dell’offerta di droga, il pugno di ferro in Messico è solo servito a superare gli equilibri precedenti e ha dato luogo alle lotte intestine tra i cartelli oggi alle prese con una maggiore parcellizzazione e con l’aumento esponenziale di terrore. Peraltro l’ampiezza e la profondità del fenomeno porta alla luce ogni giorno di più il ruolo di parti importanti delle forze di sicurezza e dei boss della politica che li dirigono e se ne servono per accumulare potere e ricchezze oltre ogni immaginazione.
I Narcos messicani, dispersi in gruppi ogni volta più feroci e audaci militarmente, hanno ormai surclassato anche i cartelli colombiani nella produzione e distribuzione ed hanno ampliato il loro raggio d’azione verso l’America Centrale e poi arrivando anche nel Cono Sud, ovvero investendo in pieno il Venezuela, l’Argentina e il Brasile.
Secondo uno studio realizzato nel 2011 e riportato nel dossier redatto dalla Caritas Il narcotraffico come una metastasi, le nazioni con il maggior consumo di droghe endovena sono il Brasile con cinquecentoquarantamila persone, il Cile con più di quarantaduemila persone e l’Argentina con quasi sessantaseimila, essendo pure il Paese con il più alto uso di cocaina di tutta l’America Latina. Che resta il continente responsabile di buona parte della quantità mondiale di tale droga, con 21 Paesi coinvolti su 24.
Ma il narcotraffico serve anche a ridisegnare politiche di controllo militare esterne e ad internazionalizzare il ruolo di organismi che operano ufficialemente contro il narcotraffico ma puntano soprattutto a controllare paesi e governi. la DEA ne è un esempio concreto. Difficile arginare un business che, nonostante tutto e solo per pochi, genera ricchezza, riscrive gerarchie e impone il comando dei nuovi poteri contro le vittime di sempre.
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di Michele Paris
L’escalation di minacce e provocazioni tra India e Pakistan attorno alla nuova crisi che sta attraversando il Kashmir è sfociata mercoledì in un attacco “mirato” condotto dalle forze armate di Nuova Delhi nel territorio del vicino-rivale, ufficialmente per colpire sospetti militanti islamisti pronti ad agire nella regione contesa tra le due potenze nucleari.
L’iniziativa è stata annunciata giovedì da un generale indiano nel corso di una conferenza stampa appositamente indetta. L’incursione avrebbe provocato “perdite significative” tra i presunti terroristi e rappresenta la prima risposta concreta alle crescenti minacce rivolte al Pakistan da militari e politici indiani dopo l’attacco del 18 settembre scorso contro una base dell’esercito di Nuova Delhi nella città di Uri, nello stato di Jammu e Kashmir.
Nell’attentato avevano perso la vita 18 soldati indiani e il governo di Delhi ne aveva subito attribuito la responsabilità al gruppo terrorista pakistano Jaish-e-Mohammed (JeM), considerato vicino ai servizi segreti di Islamabad.
Il governo del Pakistan sempre giovedì ha smentito la versione indiana dell’attacco sul proprio territorio, mentre ha confermato che ci sarebbero stati scambi di colpi di armi lungo la cosiddetta Linea di Controllo, cioè il confine che separa i due paesi nella regione del Kashmir. Per Islamabad, l’esercito indiano avrebbe sparato per primo, uccidendo due soldati pakistani e ferendone altri nove.
Allo scontro armato è seguito quello verbale, con il ministro della Difesa pakistano, Khawaja Asif, che ha ad esempio accusato l’India di agire in questo modo solo per dare soddisfazione ai propri media e all’opinione pubblica interna. Se tuttavia dovessero esserci nuove iniziative militari da parte di Delhi, ha avvertito il ministro, il Pakistan risponderà “in maniera ferma”.
La nuova impennata delle tensioni in Kashmir era iniziata nel mese di luglio dopo l’uccisione da parte delle forze di sicurezza indiane del giovane leader separatista Burhan Wani. Le proteste contro Delhi erano state represse duramente e negli scontri sono da allora morte più di novanta persone.
Il già ricordato attacco di Uri ha infine aggravato ulteriormente la crisi in atto, caratterizzata da toni particolarmente aggressivi da entrambe le parti. Solo poche ore prima dell’attentato del 18 settembre, il ministro della Difesa pakistano aveva ad esempio minacciato l’uso di armi nucleari contro l’India se “la difesa e la sopravvivenza” del suo paese fossero state messe in pericolo.
Soprattutto sul fronte indiano si era però registrato un crescendo di minacce nei confronti del Pakistan, debitamente alimentate dal partito di governo suprematista indù BJP (Bharatiya Janata Party) del primo ministro, Narendra Modi. Membri dell’esecutivo e del BJP, assieme a numerosi commentatori sui principali giornali hanno fatto appello al fervore nazionalista della destra indiana, raccomandando una punizione esemplare nei confronti del Pakistan.
La reazione all’attacco in Kashmir ha raggiunto livelli da isteria in India, dove in molti hanno invitato il governo ad abbandonare la tradizionale politica della “moderazione strategica” nell’affrontare minacce alla propria sicurezza.
Prima dell’incursione in territorio pakistano annunciata giovedì, l’India aveva condotto anche un’intensa campagna mediatica nel tentativo di isolare il Pakistan. Nel suo intervento alla recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il ministro per gli Affari Esteri, Sushma Swaraj, aveva denunciato la complicità pakistana negli attacchi in Kashmir. Nell’affermare che lo stato di Jammu e Kashmir è e sarà “per sempre parte integrante dell’India”, la diplomatica aveva sollecitato l’adozione di misure punitive contro il Pakistan.
Questa settimana, poi, il governo di Delhi ha fatto sapere che non parteciperà al summit dell’Associazione dell’Asia del Sud per la Cooperazione Regionale (SAARC), di cui l’India fa parte e che è in programma nel mese di novembre a Islamabad. Al boicottaggio dell’India sono seguiti quelli di Afghanistan, Bangladesh e Bhutan, mentre lo Sri Lanka ha sostenuto che lo stesso appuntamento non potrà avere luogo senza la partecipazione indiana.La crisi dei rapporti tra India e Pakistan rappresenta un motivo di seria preoccupazione per gli Stati Uniti e la Cina, vale a dire le due potenze con i maggiori interessi nella regione. Pechino ha assunto una posizione estremamente cauta sulla vicenda, nonostante le crescenti frizioni con Delhi e i rapporti tradizionalmente solidi con il Pakistan.
Gli Stati Uniti hanno evitato di accusare in maniera esplicita Islamabad per l’attentato di Uri, raccomandando parallelamente ai due governi di risolvere la crisi attraverso il dialogo. Su alcuni media americani sono apparsi tuttavia commenti nei quali si incita l’India a rispondere con fermezza agli attacchi che vengono attribuiti a gruppi terroristi legati al Pakistan.
Ciò riflette con ogni probabilità posizioni contrastanti all’interno del governo e dell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti. A loro volta, le divisioni sono dovute alla fluidità degli scenari strategici nel continente asiatico e alla centralità della partnership con l’India che Washington sta perseguendo da oltre un decennio.
Alle tradizionali ragioni del conflitto nella regione contesa del Kashmir, per la quale India e Pakistan hanno combattuto tre guerre a partire dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947, si incrociano così le manovre americane per fare di Nuova Delhi uno dei cardini della strategia USA di contenimento della Cina.
A partire almeno dall’amministrazione di George W. Bush, gli Stati Uniti si sono adoperati per rafforzare i rapporti bilaterali con l’India e per promuovere le ambizioni da potenza regionale della classe dirigente di quest’ultimo paese. In questo quadro vanno intesi ad esempio l’accordo sulla difesa del 2005, quello sul nucleare civile del 2008 e quello, siglato ufficialmente solo poche settimane fa, sulla “logistica” militare che, sia pure con varie restrizioni, permetterà alle forze armate americane l’accesso temporaneo alle basi militari indiane.
L’avvicinamento tra Washington e Delhi ha evidentemente acuito le tensioni tra l’India e la Cina, nonché tra l’India e il principale alleato di Pechino in Asia meridionale, cioè il Pakistan. Islamabad, a sua volta, ha visto entrare in crisi il rapporto con gli Stati Uniti, sia per la nuova attitudine filo-indiana di questi ultimi sia per l’insistenza americana a fare di più per contrastare i gruppi fondamentalisti che operano in Afghanistan e che mantengono storicamente rapporti molto stretti con l’intelligence pakistana.
Esposto a queste pressioni, il Pakistan ha iniziato un processo di consolidamento dei rapporti con la Cina, la quale vede l’alleato come un elemento cruciale per il proprio ambizioso progetto di integrazione economica del continente euro-asiatico. A questo scopo, Pechino e Islamabad hanno lanciato il cosiddetto Corridoio Economico tra Cina e Pakistan (CPEC), ovvero un piano di infrastrutture che dovrebbe collegare la città portuale di Gwadar, nel sud del Pakistan, alla regione cinese dello Xinjiang.Questo progetto ha implicazioni strategiche importantissime per la Cina, dal momento che permetterebbe ai propri traffici commerciali ed energetici di bypassare le rotte marittime nell’Oceano Indiano e in Asia sud-orientale, esposte a un possibile blocco da parte statunitense in caso di crisi o di guerra.
Il CPEC è visto con apprensione dall’India per varie ragioni. Innanzitutto la Cina avrebbe accesso al porto di Gwadar, dove potrebbe teoricamente posizionare una propria base navale. Inoltre, il progetto darebbe un impulso notevole all’economia cronicamente in affanno del Pakistan e, oltretutto, le rotte stradali e ferroviarie previste dovrebbero attraversare proprio i territori contesi con Islamabad lungo le aree di confine.
Il già complicato conflitto in Kashmir, in definitiva, rischia di avere risvolti ancora più esplosivi a causa del rimescolamento degli equilibri strategici in atto nel continente asiatico, prodotti dall’espansione dell’influenza economica e politica della Cina e, ancor più, dalle manovre americane per ostacolarne in tutti modi l’inevitabile ascesa.
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di Mario Lombardo
Il piano di difesa comune europea, presentato e sostenuto da Bruxelles e da alcuni governi dell’Unione, continua a provocare divisioni tra i paesi membri ed è stato al centro delle discussioni del vertice “informale” tenuto questa settimana a Bratislava. Nella capitale slovacca, il ministro della Difesa britannico, Michael Fallon, ha bocciato categoricamente il progetto di un “esercito europeo”, affermando che secondo Londra, ma anche Washington, è la NATO che deve continuare a essere “il cardine della difesa” del Regno Unito e dell’Europa.
A chiedere una qualche integrazione delle capacità “difensive” dei paesi UE sono soprattutto Francia e Germania, anche se altri governi, come quello italiano, hanno proposto iniziative che vanno sostanzialmente verso la militarizzazione dell’Unione. A livello ufficiale, le ragioni di queste manovre sarebbero legate alla necessità di rilanciare l’unità europea dopo il clamoroso esito del referendum del giugno scorso sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE (“Brexit”).
Allo stesso tempo, come aveva spiegato già nel mese di luglio l’alto rappresentante per la politica estera UE, Federica Mogherini, in ballo vi è l’implementazione di una “strategia globale europea” sulla sicurezza del continente. In altre parole, l’uscita di Londra dall’Unione e l’aggravamento delle rivalità internazionali hanno spinto le classi dirigenti di una parte dei paesi europei a cercare di creare uno strumento militare che rafforzi le capacità di promuovere i loro interessi economici e strategici su scala globale.
L’impatto sulle relazioni tra paesi alleati e membri della NATO di un piano di questo genere è apparso chiaro proprio dalla reazione di Fallon a Bratislava. L’opposizione britannica a quello che, nel lungo periodo, potrebbe diventare un vero esercito europeo rende poco credibili le smentite e le rassicurazioni di coloro che intendono adoperarsi per il progetto.
I ministri della Difesa di Francia e Germania, rispettivamente Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyen, hanno comunque assicurato che nessuno sta pianificando la creazione di un organo alternativo alla NATO. Al contrario, hanno aggiunto i due diplomatici, ciò di cui si parla è uno sforzo complementare e consiste nell’unire le “varie forze” dei paesi europei, in modo che esse siano “pronte ad agire rapidamente assieme”. Quello che “rafforza l’Europa in termini di difesa”, secondo il ministro tedesco, “rafforza anche la NATO”.
Anche per la Mogherini, citata dall’ANSA, il processo in atto “non riguarda in alcun modo la creazione di un esercito europeo ma l'uso degli strumenti che l’UE ha, in piena complementarietà con la NATO, per rafforzare le capacità europee nel campo della difesa”.
Il segretario generale del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg, ha cercato a sua volta di allentare le tensioni, mostrandosi disposto ad accogliere positivamente qualsiasi iniziativa che renda più forte l’Unione Europea. L’ex primo ministro norvegese ha però avvertito che il piano di Bruxelles non dovrà essere la fotocopia della NATO.Nonostante le rassicurazioni, dirette a Londra quanto a Washington, i governi francese e tedesco sono perfettamente consapevoli delle implicazioni del loro progetto di “difesa europea”. Il meccanismo militare che si intende costruire dovrebbe infatti avere compiti di intervento simili a quelli svolti negli ultimi anni dalla NATO, con tutte le relative conseguenze in termini di destabilizzazione dei paesi interessati, e che, sia pure mascherati dalla retorica umanitaria o da ragioni “difensive”, sono serviti a garantire la difesa degli interessi dei paesi che ne fanno parte, a cominciare dagli Stati Uniti.
L’apparizione nel panorama internazionale di un nuovo organo militare europeo, nel quale a dominare siano Parigi e Berlino, sia esso parallelo e alternativo alla NATO, comporta perciò lo scontrarsi degli interessi di paesi ufficialmente alleati.
Che in gioco ci sia un riassetto degli equilibri strategici in Occidente è confermato anche dal contenuto del documento sulla difesa comune presentato recentemente da Francia e Germania. In esso si auspica la creazione di un “quartier generale permanente UE per le missioni e le operazioni militari e civili”, nonché il sostegno allo “sviluppo delle capacità militari e alla cooperazione europea nell’ambito della difesa”, in modo da garantire “l’autonomia strategica” dell’Europa.
Su queste basi è evidente che il progetto discusso martedì a Bratislava non può che finire per accentuare le divisioni tra i paesi europei che lo appoggiano e quelli che, sulla linea americana, lo vedono con sospetto.
Il dibattito in corso sul progetto di difesa europea s’inserisce d’altra parte in un contesto segnato da crescenti tensioni dietro un’apparenza di unità. Mentre sul piano formale l’Europa risulta unita e allineata agli Stati Uniti su questioni come i rapporti con Russia e Cina, la crisi in Ucraina o la politica commerciale ed energetica, in realtà divisioni anche profonde sono emerse da tempo non solo all’interno dell’UE, ma anche tra quest’ultima e la Gran Bretagna, peraltro formalmente ancora nell’Unione, e addirittura tra Londra e Washington.
Basti pensare alle divergenze, spesso esplose pubblicamente, attorno al gasdotto “Nordstream 2”, che dovrebbe raddoppiare il collegamento diretto già esistente tra Russia e Germania, oppure alle sanzioni economiche che gravano su Mosca e alle manovre militari della NATO nei paesi dell’Europa orientale. Ancora, nei mesi scorsi molti paesi europei, inclusa la Gran Bretagna, contro il parere americano, avevano aderito al progetto cinese della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB), potenzialmente alternativa a istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti.
Più recentemente, contrasti tra i più influenti paesi europei e gli USA si sono registrati attorno al trattato di libero scambio TTIP (Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti), contro il quale si sono scagliati pubblicamente esponenti dei governi di Francia e Germania.
La stessa sanzione decisa contro Apple dall’Unione Europea per il regime fiscale agevolato in Irlanda e la multa da 14 miliardi di dollari stabilita dalle autorità americane contro Deutsche Bank rientrano nel quadro dei conflitti che animano le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico.
A influire su queste dinamiche sono il declino degli Stati Uniti e, con il persistere della stagnazione economica, l’emergere di situazioni conflittuali dovute all’acuirsi della competizione per accaparrarsi nuovi mercati e il controllo delle risorse energetiche.
Precisamente per questi scopi, nonché per altri legati al controllo delle tensioni sociali sul fronte domestico, è pensato il possibile futuro esercito europeo, strumento dell’interventismo di paesi come Francia e Germania, intenzionati ad agire ovunque siano in gioco i loro interessi anche senza l’approvazione degli Stati Uniti o addirittura in opposizione a questi ultimi.