di Michele Paris

Mentre la stampa americana e quella internazionale sono impegnate a raccontare la vicenda dei legami con la Russia del consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, questa settimana il Senato di Washington ha ratificato ufficialmente la nomina a segretario al Tesoro dell’ex top manager di Goldman Sachs, Steven Mnuchin.

Mnuchin è l’ennesimo multimilionario a entrare a far parte della nuova amministrazione Repubblicana, nonché uno dei tanti discepoli del colosso bancario americano scelti dal neo-presidente per implementare un’agenda economica apertamente pro-business.

Le credenziali che hanno portato Mnuchin alla guida del Tesoro americano non sono da ricercare nella sua esperienza politica o come capo di un qualche ente governativo di vigilanza dell’industria finanziaria, bensì nell’ambito della pura speculazione bancaria.

Entrato nella prima metà degli anni Novanta in Goldman Sachs, dove lavorava il padre, Mnuchin ne è diventato vice-presidente nel dicembre del 2001, prima di lasciare l’istituto l’anno successivo con un bonus di oltre 50 milioni di dollari. Dopo Wall Street, Mnuchin si è avventurato nel mondo degli “hedge funds”, finanziando tra l’altro alcuni progetti immobiliari di Donald Trump.

L’ultima parte della sua carriera è stata quella maggiormente indagata dai giornali americani e dal Senato di Washington durante le audizioni che hanno preceduto la conferma alla carica di segretario al Tesoro.

Nel 2009, il fondo di Mnuchin acquistò a un prezzo di favore la banca californiana IndyMac, fortemente coinvolta nella crisi dei mutui “subprime”. Il nuovo istituto venne ribattezzato OneWest e avrebbe subito perseguito un’aggressiva politica di pignoramento degli immobili i cui proprietari non erano più in grado di pagare i mutui contratti. Mnuchin e la sua banca realizzarono profitti enormi con questo genere di speculazione, mentre molti proprietari decisero di avviare cause legali, spesso risolte in patteggiamenti milionari.

In un caso riportato qualche settimana fa dalla stampa USA, OneWest aveva pignorato l’abitazione di una donna di 90 anni in seguito a un errore nel pagamento del suo mutuo pari a 27 centesimi di dollaro.

Senza mostrare particolari scrupoli, nel corso delle audizioni al Senato Mnuchin ha mentito deliberatamente in risposta alle domande sulle pratiche della banca OneWest, assicurando che quest’ultima non ha “ricavato benefici dalle sofferenze altrui”. Ciò è bastato perché Mnuchin riuscisse a incassare la conferma del Senato.

Tutti e 52 i senatori Repubblicani hanno infatti votato a favore del nuovo segretario al Tesoro, assieme a un unico Democratico, il “centrista” Joe Manchin della West Virginia, mentre gli altri 47 Democratici hanno espresso parere contrario. In precedenza, la leadership Democratica aveva provato a rallentare la nomina di Mnuchin boicottando le audizioni alla commissione Finanza del Senato, ben sapendo però fin dall’inizio che non ci sarebbero state di fatto possibilità reali di successo.

In un’altra controversia scoppiata attorno alla sua nomina, Mnuchin aveva mancato di notificare al Congresso la proprietà di beni immobiliari per quasi 100 milioni di dollari, più alcune opere d’arte per un altro milione e il suo ruolo di direttore di un fondo di investimenti con sede alle isole Cayman.

Una volta insediato nel suo nuovo incarico, Mnuchin sarà chiamato a prendere decisioni importanti per l’economia americana e non solo. Entro il 15 marzo prossimo, ad esempio, il Congresso dovrà autorizzare l’innalzamento del tetto del debito federale e, se ciò non dovesse avvenire, sarà il segretario al Tesoro a dover decidere come trovare e dove indirizzare il denaro pubblico per il pagamento degli obblighi del governo di Washington, così da evitare il default.

Un'altra questione cruciale sarà la “riforma” del sistema di tassazione per le aziende private. Mnuchin ha affermato di fronte al Senato di essere contrario a un “taglio incondizionato” del carico fiscale delle corporation americane, ma Trump e la maggioranza Repubblicana al Congresso stanno preparando precisamente un abbassamento sostanziale delle tasse per il business privato e il nuovo numero uno del Tesoro finirà con ogni probabilità per avallare l’impostazione complessiva della proposta finale.

Mnuchin sarà anche coinvolto, assieme al consigliere per l’economia del presidente, Gary Cohn, nella preparazione del piano di smantellamento delle già esili regolamentazioni dell’industria finanziaria americana, come promesso prima e dopo le elezioni da Trump.

Nel mirino c’è in particolare la legge “Dodd-Frank” del 2010, ovvero la riforma seguita alla crisi finanziaria del 2008-2009 che avrebbe dovuto limitare le pratiche criminali delle banche americane.

Su quest’ultimo punto opererà inoltre il probabile nuovo direttore della Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC), l’avvocato di Wall Street Jay Clayton. Il prescelto da Trump per guidare un’agenzia che dovrebbe in teoria tutelare risparmiatori e investitori, la cui consorte lavora per Goldman Sachs, ha dedicato tutta la sua carriera alla difesa delle grandi banche e, secondo la senatrice Democratica Elizabeth Warren la sua nomina è stata “un’ottima notizia per chi dirige una grande banca o un hedge fund”.

Sotto la gestione di Clayton, è più che probabile che le già fragili iniziative della direttrice uscente della SEC, Mary Jo White, per la protezione degli investitori, così come quelle punitive dirette contro le banche che violano le regole, verranno indebolite per favorire il libero svolgimento delle manipolazioni finanziarie.

Il nuovo segretario al Tesoro Mnuchin non è infine l’unico rappresentante di Wall Street e, più precisamente, non è l’unico ad avere lavorato per Goldman Sachs all’interno dell’amministrazione Trump. Il già ricordato Gary Cohn è stato fino a pochi giorni fa il presidente di questa banca, lasciata per entrare alla Casa Bianca con una buonuscita che, secondo la CNN, ammonta a 285 milioni di dollari.

Lo stesso “stratega capo” del presidente, Stephen Bannon, al centro di accese polemiche per le sue inclinazioni neo-fasciste, ha lavorato nella divisione Fusioni e Acquisizioni di Goldman Sachs, diventandone vice-presidente fino al suo addio nel febbraio del 1990. Anche Anthony Scaramucci, infine, ha beneficiato della sua permanenza in Goldman Sachs fino al 1996 per ottenere la direzione di un ufficio alla Casa Bianca dopo l’elezione di Trump.

La presenza di ex manager di Goldman Sachs all’interno dei governi americani, incluse le amministrazioni Democratiche, è tutt’altro che nuova, né può essere una sorpresa nel caso di un presidente miliardario che ha costruito il suo governo scegliendo membri di spicco della ristretta élite economico-finanziaria americana.

Le nomine seguite al successo di Trump nel voto di novembre hanno perciò da subito contraddetto la retorica populista di una campagna elettorale incentrata sull’appello a lavoratori e classe media, messi in crisi anche da un’industria finanziaria onnipotente. Proprio contro Goldman Sachs, poi, Trump si era scagliato in più occasioni, denunciando frequentemente i legami molto stretti tra i vertici della banca di Wall Street e la sua sfidante per la Casa Bianca, Hillary Clinton.

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