di Michele Paris

Nella serata di lunedì in America sono arrivate le dimissioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, generale Michael Flynn, al termine di un’escalation di complotti, pressioni e fughe di notizie che si è risolta con una chiara vittoria per la fazione anti-russa all’interno dell’apparato di potere degli Stati Uniti. Flynn, già direttore dei servizi segreti militari, prima di essere licenziato da Obama nel 2014, era uno dei fedelissimi di Trump e, nelle intenzioni del neo-presidente, avrebbe dovuto modellare gli orientamenti in politica estera della nuova amministrazione Repubblicana.

In quanto legato per molti versi al governo russo, Flynn era stato fin dall’inizio uno dei bersagli preferiti dei leader Democratici e della galassia “neo-con” che vede nel Cremlino il principale avversario strategico dell’imperialismo USA.

Proprio i suoi rapporti con la Russia hanno fornito l’occasione all’apparato dell’intelligence e all’amministrazione Obama uscente di preparare un assalto frontale alle politiche di relativa distensione con Mosca allo studio nella nuova Casa Bianca.

I protagonisti principali dell’imboscata tesa a Flynn e allo stesso Trump sono stati non a caso componenti dell’amministrazione Obama, ovvero l’ex ministro della Giustizia ad interim, Sally Yates, l’ex direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, e l’ex direttore della CIA, John Brennan. La Yates, inoltre, era rimasta a guidare temporaneamente il dipartimento di Giustizia dopo l’insediamento di Trump prima di essere licenziata per essersi rifiutata di prendere le difese del famigerato bando anti-immigrati firmato dal nuovo presidente.

La vicenda che è costata il posto a Michael Flynn è legata a una serie di conversazioni, intrattenute da quest’ultimo prima di assumere ufficialmente il suo nuovo incarico, con l’ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak. Nel corso di esse, Flynn avrebbe discusso di vari argomenti, riconducibili ovviamente ai rapporti tra i due paesi, incluse le sanzioni applicate dall’amministrazione Obama contro Mosca in risposta alla mai provata interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane dello scorso novembre.

I colloqui tra Flynn e l’ambasciatore Kislyak erano stati intercettati dall’intelligence americana, i cui vertici ne hanno riferito il contenuto al dipartimento di Giustizia. La Yates, a questo punto, con ogni probabilità su indicazione degli stessi servizi segreti, ha ritenuto di utilizzare le conversazioni per fini politici, informando l’amministrazione Trump dell’accaduto e mettendo in guardia il presidente sul fatto che Flynn avrebbe potuto essere “vulnerabile ai ricatti russi”.

Il pretesto per sollevare la questione sarebbe stato il fatto che Flynn non aveva comunicato al vice-presidente, Mike Pence, e quindi a Trump, di avere discusso anche delle sanzioni con l’ambasciatore russo. In particolare, il consigliere per la Sicurezza Nazionale designato da Trump si era raccomandato che la Russia non adottasse ritorsioni contro le sanzioni decise da Obama, poiché l’imminente avvicendamento alla Casa Bianca avrebbe con ogni probabilità portato a una distensione tra Mosca e Washington.

Il comportamento di Flynn, secondo il dipartimento di Giustizia, avrebbe potuto violare un’oscura e mai applicata legge del 1799 (“Logan Act” ) che proibisce ai privati cittadini di intrattenere rapporti diplomatici con governi stranieri in merito a dispute o controversie che questi ultimi possano avere con gli Stati Uniti.

Una ricostruzione degli eventi, accaduti tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, aiuta a comprendere come gli ambienti di potere ostili a un riavvicinamento alla Russia abbiano cercato in tutti i modi di giungere alla rimozione di Flynn con il pretesto della discussione sulle sanzioni e del fatto che di ciò non ne era stata fatta parola con il vice-presidente Pence.

Secondo il Washington Post, la Yates avrebbe iniziato a preoccuparsi seriamente per il contenuto delle conversazioni tra Flynn e l’ambasciatore Kislyak nei giorni successivi al 29 dicembre, data in cui Obama aveva emesso nuove sanzioni contro il governo di Putin sempre a causa delle presunte violazioni dei sistemi informatici del Partito Democratico al fine di favorire Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Infatti, il Cremlino aveva evitato di adottare provvedimenti in risposta alla mossa di Obama. Un atteggiamento prudente, quello del presidente russo, che l’intelligence USA avrebbe spiegato con le promesse fatte da Flynn a Kislyak. L’FBI, allora, decise di redigere un rapporto sul comportamento del consigliere per la Sicurezza Nazionale incaricato.

Ricapitolando, le sanzioni firmate da Obama a fine 2016 non avevano provocato la risposta russa che la Casa Bianca auspicava per inasprire ulteriormente i rapporti con Mosca e rendere complicato il disgelo promesso da Trump. Con questa arma spuntata, viste anche le possibili promesse di Flynn al rappresentante del governo russo a Washington, l’intelligence USA ha deciso allora di utilizzare le registrazioni delle conversazioni tra i due per mettere alle strette Trump e ottenere lo stesso risultato.

Il neo-presidente e i suoi più stretti collaboratori, però, vista la delicatezza della questione erano quasi certamente a conoscenza dell’iniziativa di Flynn, al di là delle smentite ufficiali, e di conseguenza non hanno preso alcuna posizione pubblica sulla vicenda. Inoltre, sempre per il Washington Post, la stessa Sally Yates si era resa conto da subito dell’estrema improbabilità di poter aprire un’indagine nei confronti di Flynn in base al “Logan Act”.

A questo punto, vista l’inefficacia degli sforzi e l’intenzione di Trump di difendere Flynn, i vertici dell’intelligence devono avere deciso di passare la notizia alla stampa nel tentativo di sollevare un polverone mediatico, sempre con l’obiettivo di silurare il consigliere per la Sicurezza Nazionale e ostacolare la distensione con Mosca.

Puntualmente, il 12 gennaio il Washington Post ha così pubblicato un articolo sulle conversazioni di Flynn e le sanzioni contro la Russia, firmato da David Ignatius, opinionista universalmente noto per i suoi legami con l’intelligence USA.

Da allora, la valanga che ha finito per travolgere Flynn non ha fatto che aumentare. Come spesso accade in questi casi, Trump e il suo staff hanno fatto inizialmente muro per cercare di difendere Flynn, ma le divisioni anche all’interno della nuova amministrazione sono rapidamente emerse.

Il presidente aveva mantenuto il silenzio sulla vicenda negli ultimi giorni. Lunedì, invece, la consigliera di quest’ultimo, Kellyanne Conway, aveva affermato che Trump riponeva “totale fiducia” in Flynn, ma pochi minuti più tardi il capo ufficio stampa della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva avvertito che il presidente stava “valutando la situazione”, lasciando intendere che il consigliere aveva le ore contate. In definitiva, di fronte alla stampa la posizione di Flynn era diventata insostenibile.

La Casa Bianca aveva probabilmente concordato con il neo-consigliere la posizione ufficiale da tenere in merito al tema delle sanzioni discusso con l’ambasciatore russo, tanto che tutti i membri dell’amministrazione Trump intervenuti sul caso avevano sempre negato che i due avessero parlato di questo. Non potendo tuttavia ammettere che lo stesso presidente o uomini a lui molto vicini avessero avallato l’iniziativa di Flynn, è stato inevitabile far passare quest’ultimo per bugiardo e sacrificarlo forzandone le dimissioni.

La responsabilità dell’accaduto, così come delle conseguenze strategiche che potrebbero seguire l’addio di Flynn al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, sono da attribuire ad ogni modo a Trump. I giornali americani hanno descritto in maniera dettagliata le resistenze all’interno della nuova amministrazione alle posizioni di Flynn, non tanto per i suoi metodi non esattamente diplomatici o per la sua ossessione nei confronti della minaccia del fondamentalismo islamico, quanto proprio per l’attitudine troppo conciliante nei confronti del Cremlino.

I nemici di Flynn, ovvero la nutrita fazione anti-russa della classe dirigente americana, non sono quindi solo al di fuori del governo Trump ma, appunto al suo interno, e le loro pressioni sembrano avere convinto il presidente a cedere su una questione che in molti ritengono cruciale per gli orientamenti strategici degli Stati Uniti nel prossimo futuro.

Le intenzioni di Michael Flynn, così come quelle di Trump, erano tutt’altro che pacifiche, come aveva confermato una sua recente dichiarazione minacciosa verso l’Iran, messo ufficialmente “sull’avviso”, dopo un test missilistico. Tuttavia, le sue dimissioni potrebbero determinare quanto meno un certo attenuamento della volontà distensiva della nuova amministrazione Repubblicana nei confronti della Russia. Tanto più che svariati membri del Congresso, soprattutto Democratici, già chiedono che la vicenda Flynn faccia da base di partenza per un’indagine a tutto campo sui legami tra Mosca e l’amministrazione Trump.

Senza dubbio è troppo presto per prevedere un allineamento di Trump all’isteria anti-russa che aveva caratterizzato l’amministrazione Obama, ma il nuovo presidente potrebbe avere recepito il messaggio lanciato dall’apparato militare e dell’intelligence. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno investito parecchio in questi anni nello sforzo di dipingere la Russia come una minaccia agli interessi americani e l’impegno di Trump per ricostruire un rapporto disteso con Mosca, sia pure per concentrarsi sulla rivalità con la Cina, non può essere lasciato a dispiegarsi in maniera indisturbata.

Qualche indicazione in più sullo stato del conflitto interno al governo americano e sulle intenzioni di Trump si avrà forse con la nomina del successore di Flynn alla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Per ora è stato scelto provvisoriamente il generale in pensione Keith Kellogg, già segretario dello stesso Consiglio, ma Trump starebbe valutando i candidati per una nomina definitiva.

Secondo i media americani in vantaggio ci sarebbero il vice-ammiraglio Robert Harward, già numero due del Comando Centrale, responsabile per le forze armate USA nel Vicino Oriente, e l’ex comandante delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ed ex direttore della CIA, David Petraeus.

Un’eventuale scelta in questo senso profilerebbe un cambio di rotta rispetto a Flynn sulla Russia. Harward viene infatti considerato molto vicino al segretario alla Difesa, generale James Mattis, cioè una delle voci critiche della Russia nell’amministrazione Trump, mentre la sua candidatura è già stata sostenuta con entusiasmo dall’ex portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Obama, Tommy Vietor.

Petraeus, a sua volta, si è spesso distinto per le posizioni ferocemente anti-russe, fino a dichiarare, in una recente audizione alla Camera dei Rappresentanti di Washington, che il governo di Putin è impegnato in uno sforzo “per delegittimare l’intero nostro sistema di vita democratico”.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy