di Michele Paris

Dopo il ritiro dei rivali dalla corsa alla nomination per il Partito Repubblicano ai primi di maggio, Donald Trump ha visto la sua campagna elettorale per la Casa Bianca sprofondare in un grave stato di crisi. Oggi, l’imprenditore miliardario si trova nettamente indietro rispetto a Hillary Clinton, sia nei sondaggi su scala nazionale sia in quelli condotti negli stati decisivi per il successo di novembre, mentre la macchina della raccolta fondi arranca pericolosamente ed è tornata all’ordine del giorno anche l’ipotesi clamorosa di dirottare il sostegno del partito verso un altro candidato nel corso della convention di luglio.

Sugli affanni di Trump in questa fase della sfida per la presidenza degli Stati Uniti pesa indubbiamente la sua inesperienza politica e il confronto con una vera e propria corazzata organizzativa come quella della ex first lady, in grado di contare su agganci formidabili con ampie sezioni della classe dirigente americana e sull’appoggio compatto dell’establishment Democratico.

Tenendo in considerazione però che Hillary Clinton è la seconda personalità politica di primo piano più disprezzata dagli elettori negli USA, dopo Donald Trump, gli stenti di quest’ultimo sono tutto fuorché il risultato dell’aumento della popolarità della sua rivale.

Le ultime settimane hanno visto piuttosto una serie di episodi nei quali Trump è riuscito ancora una volta a tirarsi addosso una valanga di critiche da parte della stampa e di buona parte dei suoi stessi compagni di partito. Particolarmente deleteria sembra essere stata la sua accusa a un giudice americano di origine latino-americana di non poter essere imparziale nel giudicarlo nell’ambito di un procedimento legale che lo vede indagato per avere truffato alcuni ex studenti della defunta Trump University.

Le critiche del candidato alla Casa Bianca facevano riferimento a possibili pregiudizi del giudice viste le numerose uscite razziste e xenofobe di Trump nei confronti degli immigrati ispanici. Dello stesso tono è stato poi anche il commento seguito alla strage di Orlando dello scorso 13 giugno, in seguito alla quale Trump aveva rilanciato la proposta di impedire l’ingresso negli USA a tutti i musulmani.

I sentimenti e le opinioni che circolano all’interno del Partito Repubblicano non sono in realtà molto più progressisti di quelli espressi da Trump. La censura nei suoi confronti ha a che fare più che altro con i timori che i Repubblicani possano perdere ulteriori consensi tra gli appartenenti a minoranze etniche, già poco orientati a sostenere il loro partito.

Le polemiche attorno alla candidatura di Trump riflettono ad ogni modo le dinamiche che hanno caratterizzato la sua ascesa e gli aspetti di una campagna decisamente diversa da quella di un qualsiasi tipico candidato Repubblicano alla nomination per la Casa Bianca.

Trump ha potuto cioè sbaragliare i suoi rivali più graditi ai vertici del partito e conquistare il numero record di 14 milioni di voti nel corso delle primarie in larga misura proprio grazie a una campagna tutt’altro che convenzionale, costruita al preciso scopo di creare un’immagine da “outsider”.

Allo stesso tempo, però, gli aspiranti alla presidenza per i due principali partiti americani devono in qualche modo adeguarsi o trovare un compromesso con le esigenze dell’establishment, sia in termini formali che di sostanza, soprattutto nel passaggio dalle primarie alla campagna per la presidenza vera e propria.

Questo conflitto si è consumato in qualche modo all’interno dello stesso team di Donald Trump e si è forse risolto nei giorni scorsi con il licenziamento del responsabile delle operazioni, Corey Lewandowski, vero e proprio punto di riferimento per gli elementi fascistoidi emersi fin qui nella campagna elettorale dell’uomo d’affari di New York.

Con l’uscita di scena forzata di Lewandowski, il comando delle operazioni in casa Trump è passato al suo rivale interno già assunto qualche mese fa, Paul Manafort, ex lobbysta con una lunga esperienza nelle campagne elettorali Repubblicane e quindi molto più ben visto dai leader del partito.

Questi ultimi rimangono comunque in ansia per la gestione delle operazioni dell’organizzazione di Trump. Il candidato Repubblicano alla presidenza, secondo i dati più recenti, dispone di appena 1,3 milioni di dollari contro i 42 di Hillary, mentre da quasi due mesi non ha commissionato un solo spot elettorale negli stati che si prevede saranno maggiormente in bilico a novembre.

La questione del finanziamento della campagna elettorale e della raccolta fondi è determinante nel sistema americano, dove la selezione del potere è sostanzialmente affidata al denaro e a chi ne detiene in misura tale da potere influenzare la politica. I grandi finanziatori Repubblicani sono attualmente alla finestra, sia per la precarietà della posizione di Trump sia perché qualsiasi donazione andrebbe in buona parte nelle sue casse private e in quelle della sua famiglia.

Trump ha infatti usato finora svariati milioni di dollari per pagare servizi forniti alla sua campagna elettorale da aziende di sua proprietà o di qualche famigliare. Allo stesso modo, i quasi 50 milioni di dollari del suo patrimonio usati per finanziare le operazioni delle primarie sono in realtà un prestito - di fatto a se stesso - che dovrà essere ripagato con le donazioni dei sostenitori Repubblicani.

L’ostilità dei finanziatori Repubblicani nei confronti di Trump è dunque accentuata da queste circostanze e potrebbe risultare decisiva nel prosieguo della sfida con Hillary Clinton. Il commentatore conservatore George Will, ostile a Trump, ha scritto ad esempio recentemente sul Washington Post che i ricchi donatori “possono salvare il loro partito negando il loro aiuto al suo candidato”.

Le speranze dell’ampio fronte Repubblicano anti-Trump sono legate anche ai tentativi di alcuni delegati che saranno presenti alla convention di Cleveland per modificare in parte le regole di voto stabilite dal partito. Anche se il processo appare complicato, teoricamente esiste un modo per svincolare dai risultati delle primarie i delegati chiamati a scegliere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca già alla prima votazione. In questo modo, a Trump sarebbe negata la maggioranza dei consensi dei delegati, così che in una seconda votazione la nomination potrebbe essere assegnata a un candidato diverso.

La testata on-line Politico ha spiegato questa settimana come ci siano già alcune decine di delegati intenzionati a percorrere questa strada e altri ancora potrebbero essere convinti nelle prossime settimane a liquidare Trump. Nomi importanti dell’orbita Repubblicana hanno d’altra parte evitato di sostenere formalmente Trump o si sono addirittura espressi contro di lui, come il candidato alla Casa Bianca del 2012, Mitt Romney, o più recentemente il governatore del Wisconsin, Scott Walker, per un breve periodo tra i contendenti alla nomination in questa tornata elettorale.

L’impressione prevalente è comunque che un simile colpo di mano per estromettere Trump dalle presidenziali non sarà alla fine attuato. Questo piano rischierebbe di spaccare il Partito Repubblicano e di consegnare non solo la Casa Bianca ma forse anche il Congresso ai Democratici. La sola esistenza di disegni di questo genere, presi in considerazione seriamente da una parte del partito, è però indicativa della situazione di crisi esistente tra i Repubblicani.

Le elezioni di novembre sono in ogni caso ancora lontane e gli equilibri della corsa alla Casa Bianca potrebbero facilmente cambiare in maniera anche rapida. Gli scenari politici e il clima sociale negli USA risultano estremamente instabili, mentre l’avversione per tutto ciò che viene identificato con il sistema di Washington è in continua crescita.

Non solo, la stessa Hillary Clinton, oltre a essere vista correttamente come un mero strumento delle élite economico-finanziarie, dei militari e dell’intelligence, continua a essere minacciata dalla questione dell’uso illegale di un server di posta elettronica privato quando era al Dipartimento di Stato.

A giudicare dall’atteggiamento della stampa ufficiale e dei poteri forti in queste prime battute delle presidenziali, tuttavia, appare evidente la loro netta preferenza per la candidata Democratica, identificata come quella maggiormente affidabile per la difesa e la promozione degli interessi delle forze che rappresentano il tradizionale apparato di potere degli Stati Uniti.

di Michele Paris

I 28 paesi membri dell’Unione Europea hanno offerto martedì a Bruxelles un’apparente dimostrazione di unità sulla questione del prolungamento delle sanzioni economiche in vigore dal 2014 contro la Russia per le presunte responsabilità di Mosca nella crisi in Ucraina. Dietro le apparenze, continuano tuttavia a persistere profonde divisioni e crescenti perplessità nei confronti di una linea dura essenzialmente dettata da Washington, tanto che proprio esponenti del paese europeo più influente - la Germania - hanno preso posizioni molto nette contro la condotta dell’UE, invocando al più presto un processo di distensione con la Russia.

Grande risonanza e reazioni stizzite ha suscitato in particolare l’intervista del ministro degli Esteri del governo di “grande coalizione”, Frank-Walter Steinmeier, pubblicata lo scorso fine settimana dalla testata tedesca Bild am Sonntag. Le parole del capo della diplomazia di Berlino, appartenente al Partito Social Democratico (SPD), sono apparse a molti come una vera e propria rottura pubblica del fronte anti-russo, tanto da risultare indistinguibili da quelle che governi e media occidentali potrebbero attribuire a organi di propaganda del Cremlino.

Oltre alle aperte “minacce di guerra” indirizzate alla Russia dai leader dei governi e dai vertici militari occidentali, Steinmeier ha criticato duramente la militarizzazione in atto dei confini orientali dell’Europa attraverso un processo di mobilitazione condotto dalla NATO che rischia di “infiammare la situazione”. Il ministro degli Esteri della Cancelliera Merkel ha poi avvertito che “chiunque pensi di rendere più sicura [l’Europa] attraverso sfilate simboliche di carri armati lungo i confini orientali dell’Alleanza sta ingannando se stesso”. Consigliando di evitare di offrire “pretesti per un nuovo confronto”, Steinmeier ha infine invitato a percorrere la strada “del dialogo e della cooperazione” con Mosca.

Se l’esistenza di posizioni quanto meno sfumate sui rapporti con la Russia all’interno della classe dirigente tedesca è ben nota, le esternazioni pubbliche di Steinmeier sono per certi versi clamorose. Non solo esse sono state pubblicate nell’immediata vigilia del summit dei 28 ambasciatori UE, che intendeva dare il via libera preliminare alla conferma delle sanzioni contro Mosca, ma anche a pochi giorni dalla conclusione della massiccia esercitazione militare “Anaconda” in Polonia, considerata una chiara provocazione rivolta alla Russia e a cui ha partecipato anche un contingente tedesco.

Inoltre, la NATO terrà un vertice cruciale a Varsavia tra due settimane, nel quale dovrebbe essere deciso lo stanziamento di migliaia di nuovi soldati in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico. Nel frattempo, il Patto Atlantico ha poi annunciato l’applicazione del famigerato Articolo V, che obbliga i paesi membri a intervenire militarmente in difesa di uno qualsiasi di loro nel caso venisse aggredito, anche nell’eventualità di un “cyber-attacco” da parte di paesi come Russia o Cina.

Su queste e altre decisioni o iniziative anti-russe, il governo di cui Steinmeier fa parte ha sempre dato il proprio assenso. Inevitabilmente, così, le sue dichiarazioni hanno spaccato il panorama politico tedesco. A livello generale, esponenti dell’Unione Cristiano Democratica (CDU) della Merkel, la stampa allineata a questo partito, ma anche una parte dei parlamentari della SPD hanno censurato il ministro degli Esteri.

Questa settimana è giunta inoltre la condanna da parte della NATO e dei vertici militari degli Stati Uniti. In quella che è sembrata essere una risposta coordinata, alti ufficiali militari americani e il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, hanno assurdamente negato la natura minacciosa delle esercitazioni militari in Europa orientale. Ugualmente, queste ultime e la moltiplicazione delle truppe ai confini con la Russia sono state di nuovo giustificate come misure difensive per far fronte all’aggressività di Mosca.

In molti nella SPD e negli ambienti vicini al partito hanno al contrario applaudito alle affermazioni di Steinmeier, invitando talvolta il governo Merkel a fare proprie le posizioni concilianti nei confronti della Russia. L’ex cancelliere Social Democratico, Gerhard Schröder, è stato prevedibilmente tra i più accesi difensori dell’ex collaboratore, auspicando la cancellazione delle sanzioni significativamente nel corso di un intervento dedicato al 75esimo anniversario dell’inizio dell’invasione Nazista dell’Unione Sovietica.

Com’è facile intuire, Steinmeier o Schröder non sono mossi da sentimenti pacifisti disinteressati, ma parlano in sostanza per quegli interessi economici che si vedono penalizzati dal deterioramento delle relazioni con la Russia. Ciò conduce quindi alla questione centrale sollevata dalla presa di posizione di Steinmeier sulle pagine della Bild, vale a dire la crescente divergenza di interessi tra la Germania e le altre potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti.

Almeno una parte del business tedesco ritiene cioè che i propri interessi possano essere meglio promossi attraverso il perseguimento di una politica estera più indipendente e che, nel caso specifico, consenta di guardare a oriente, ovvero alla Russia ma anche alla Cina, con un’attitudine diversa, ad esempio, da quella di Washington.

In questo quadro, è evidente che le parole del fine settimana scorso del numero uno della diplomazia di Berlino non sono tanto quella boccata di aria fresca nello scontro con Mosca che molti commentatori non allineati alla propaganda occidentale hanno accolto con favore. Le pesanti critiche di Steinmeier alla NATO, pur descrivendo in modo corretto la situazione attuale, indicano piuttosto un acuirsi della conflittualità che attraversa pericolosamente il capitalismo occidentale e che, come hanno insegnato gli eventi della prima metà del secolo scorso, non lascia intravedere sviluppi pacifici.

Queste spinte che vengono dall’interno della classe dirigente tedesca non sono ancora visibili, se non in misura minima, nella linea ufficiale del governo Merkel. Tuttavia, quello analizzato sembra essere un processo oggettivo che trapela ormai attraverso le parole di esponenti di primo piano del mondo politico e degli affari e che, ad esempio, potrebbe manifestarsi in maniera più evidente con l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari che la Germania terrà il prossimo anno.

Non a caso, d’altra parte, il vice-Cancelliere Social Democratico, Sigmar Gabriel, qualche giorno fa ha prospettato un probabile rifiuto da parte del suo partito a prendere parte a una nuova “Große Koalition” con la CDU/CSU dopo il voto del 2017. Lo stesso Gabriel, poi, settimana prossima si recherà a Mosca per incontrare Putin, a conferma degli orientamenti divergenti della SPD in materia di politica estera.

In definitiva, l’uscita dalla logica delle sanzioni e dello scontro a cui aspira una parte delle élites tedesche è da collegare alle rinnovate ambizioni da grande potenza di Berlino, evidenti anche dall’impulso alla militarizzazione che sta caratterizzando il governo Merkel e determinate dall’indebolimento sempre più marcato degli Stati Uniti e dello stesso progetto unitario europeo dopo la crisi del 2008.

Per comprendere meglio questo legame è utile ricordare un articolo firmato dallo stesso Frank-Walter Steinmeier e apparso una decina di giorni fa sul prestigioso “magazine” americano Foreign Affairs. Il pezzo era sostanzialmente un’affermazione dell’ambizione della Germania a svolgere un ruolo di primaria importanza sul piano internazionale e, a ben vedere, aveva rappresentato una sorta di premessa all’intervento successivo sulla Bild a proposito della Russia.

Su Foreign Affairs, Steinmeier ha parlato della necessità di “reinterpretare i principi che hanno guidato la politica estera [tedesca] per oltre mezzo secolo”, in conseguenza del venir meno della “illusione di un mondo unipolare”, nel quale avrebbero dovuto essere evidentemente gli Stati Uniti a fungere da faro per il resto del mondo.

Una simile analisi si traduce inevitabilmente in considerazioni sul ruolo di Washington a tratti non meno dure di quelle pronunciate in seguito sulle relazioni con la Russia. Steinmeier ha cioè spiegato come “la nostra esperienza storica abbia distrutto ogni fiducia nell’eccezionalismo di un qualsiasi paese”, mandando così un messaggio di rifiuto inequivocabile alla pretesa americana di affermarsi come unica e sola “super-potenza” globale destinata a guidare il pianeta dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

di Michele Paris

Dopo la strage nella discoteca di Orlando di dieci giorni fa, il dibattito tra i politici e sui media negli Stati Uniti sta ruotando attorno alle circostanze della radicalizzazione del responsabile delle 49 vittime, il cittadino americano di origine afgana, Omar Mateen. Se il killer aveva offerto il suo giuramento di fedeltà all’autoproclamato califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, durante l’attacco del 12 giugno, a contribuire alla sua radicalizzazione in questi anni potrebbero però essere state forze molto lontane dal fondamentalismo sunnita in Medio Oriente.

Tra le varie notizie emerse dopo i fatti di Orlando, la più interessante e potenzialmente ricca di implicazioni è stata riportata in un’intervista pubblicata da un giornale della Florida meridionale. A parlare è stato lo sceriffo della contea di St. Lucie, Ken Mascara, il quale ha rivelato che Mateen era stato da lui segnalato all’FBI nel 2013 per il comportamento inappropriato che era solito tenere quando lavorava come guardia di sicurezza per la compagnia privata G4S in un tribunale della Florida.

Secondo Mascara, Mateen aveva minacciato di far uccidere un suo vice da al-Qaeda e inveiva spesso contro donne ed ebrei. Mateen era stato allora messo sotto indagine da parte dell’FBI e, soprattutto, il “Bureau” aveva piazzato un proprio informatore al tribunale dove prestava servizio per cercare di coinvolgerlo in una qualche operazione sotto copertura, che però non ebbe successo.

Quest’ultima dichiarazione dello sceriffo della contea di St. Lucie, anche se virtualmente ignorata dai media ufficiali, è di particolare importanza perché si collega a una pratica consueta dell’FBI nel post-11 settembre. In altre parole, Omar Mateen, viste le sue origini, le presunte simpatie per il fondamentalismo islamico e la probabile instabilità mentale, era stato scelto dalla polizia federale americana per essere incastrato in un qualche caso di terrorismo costruito in larga misura a tavolino dallo stesso FBI.

Secondo la versione ufficiale, l’indagine su Mateen sarebbe stata chiusa dopo alcuni mesi e il piano di trascinarlo in una finta trama terroristica lasciato cadere. Tuttavia, i particolari che si conoscono sulle modalità con cui l’FBI costruisce casi di terrorismo sul suolo americano sollevano più di un dubbio circa la possibilità che i propri informatori o agenti sotto copertura abbiano potuto contribuire alla radicalizzazione di Mateen.

Gli individui che finiscono in questo modo nella rete dell’FBI sono regolarmente incoraggiati a manifestare le proprie simpatie per gruppi estremisti come al-Qaeda o l’ISIS, mentre gli uomini dell’FBI in incognito offrono loro il proprio aiuto nel reperire armi ed esplosivi, ma anche nell’individuare bersagli da colpire. Solitamente, i potenziali terroristi vengono arrestati prima di commettere azioni violente, organizzate però proprio dall’FBI e che per loro iniziativa non verrebbero mai portate a termine.

Nel caso di individui che manifestano un disagio psichico o sociale, come appunto Omar Mateen, non è da escludere che queste operazioni clandestine dell’FBI abbiano potuto agire da stimolo e concretizzarsi drammaticamente con le modalità registrate nel gay club Pulse di Orlando. In questo e in altri casi di terrorismo, ciò aiuterebbe anche a spiegare il fatto che gli attentatori sono puntualmente già noti da tempo alle autorità.

Un’altra circostanza quasi del tutto trascurata dalla stampa “mainstream” negli USA sembra alimentare ulteriormente questi dubbi. Mateen era ciò in qualche modo in contatto con Marcus Robertson, ex Marine diventato fuorilegge e poi informatore del governo americano. Robertson aveva lavorato per la CIA raccogliendo informazioni in vari paesi sugli estremisti islamici, prima di essere ufficialmente estromesso dal programma nel 2007.

Tra il 2004 e il 2007 aveva operato sotto copertura anche per l’FBI all’interno degli Stati Uniti, verosimilmente nel quadro delle operazioni “anti-terrorismo” sotto copertura descritte in precedenza. Robertson è oggi a capo di un progetto fondamentalista chiamato “Timbuktu Seminary” che, secondo alcuni, non potrebbe esistere se non fosse una trappola del governo per attirare simpatizzanti jihadisti.

Queste perplessità sono alimentate dal fatto che, per stessa ammissione dell’FBI, non è stato possibile riscontrare legami o contatti diretti tra Omar Mateen e l’ISIS. Il presunto processo di radicalizzazione attraversato da quest’ultimo, indubbiamente sovrappostosi alla situazione di disagio nella quale viveva da tempo, avrebbe dunque potuto avvenire proprio grazie alla consolidata rete di informatori operata dall’apparato della sicurezza nazionale americana, volta sostanzialmente a fabbricare minacce terroristiche per tenere alto il livello di guardia nel paese.

L’attenzione dei media d’oltreoceano in questi giorni non si sta in ogni caso concentrando su questi interrogativi, bensì sulla decisione dell’FBI di omettere inizialmente il riferimento di Mateen all’ISIS quando è stato reso noto il contenuto delle sue telefonate al numero di emergenza 911 e con i negoziatori del governo durante l’attacco alla discoteca di Orlando.

Sull’FBI sono piovute le critiche soprattutto dei leader Repubblicani, i quali hanno denunciato un possibile tentativo di occultare le motivazioni di Mateen. In realtà, proprio l’FBI ha cercato di promuovere la versione dell’attentato terroristico di matrice islamista, per mezzo di almeno un’iniziativa che risulta coerente con gli sforzi del “Bureau” di alimentare la minaccia jihadista negli Stati Uniti.

Il fidanzato della ex moglie di Mateen ha cioè affermato in una recente intervista a una televisione brasiliana che l’FBI aveva chiesto alla coppia di non rivelare alla stampa le probabili tendenze omosessuali dell’attentatore, nel tentativo appunto di orientare l’opinione pubblica sulla versione del terrorismo islamista.

Se i contorni della vicenda appaiono a tratti ancora oscuri, quel che è certo è che il lavoro dell’FBI e degli organi del governo USA ha permesso di sfruttare il massacro di Orlando per promuovere una nuova escalation militare all’estero – ufficialmente contro l’ISIS – e nuove iniziative anti-democratiche sul fronte domestico.

Infatti, il presidente Obama, dopo la strage, aveva subito annunciato un’intensificazione della guerra contro il “califfato” in Medio Oriente, mentre i due candidati alla sua successione - Hillary Clinton e Donald Trump - si erano affrettati a promettere rispettivamente un aumento dei poteri di sorveglianza dell’intelligence e una schedatura di massa di tutti i musulmani presenti sul territorio degli Stati Uniti.

di Mario Lombardo

L’ostilità degli abitanti di Okinawa nei confronti delle decine di migliaia di soldati americani presenti sull’isola giapponese è tornata a riesplodere in questi giorni dopo l’ultimo della lunga serie di crimini commessi da membri del contingente militare USA. Nella capitale della prefettura più meridionale del Giappone, nel fine settimana è andata in scena quella che gli organizzatori hanno definito come la più massiccia manifestazione anti-americana degli ultimi vent’anni.

I 65 mila partecipanti hanno protestato contro lo stupro e l’assassinio della 20enne Rina Shimabukuro, sparita lo scorso 28 aprile e ritrovata senza vita il 19 maggio. Il responsabile sarebbe l’ex marine Kenneth Franklin Gadson, oggi “contractor” delle forze armate statunitensi presso la base aerea Kadena. Quest’ultimo è stato arrestato e avrebbe ammesso di avere violentato, accoltellato e strangolato la giovane, prima di occultarne il cadavere in una zona boscosa.

Le proteste dei residenti dell’isola scaturite da questo episodio si sono subito saldate al sentimento di avversione generalizzato verso le basi militari americane ospitate a Okinawa. In particolare, da anni la maggioranza della popolazione si batte contro l’accordo tra Washington e il governo di Tokyo per trasferire la base Futenma dei Marines USA dal centro urbano di Ginowan alla località di Henoko, lungo la costa settentrionale.

Se la presenza della base Futenma ha causato e continua a essere causa di crimini, ma anche di forte rumore e inquinamento, per ragioni ambientali coloro che vivono a Okinawa si oppongono al suo spostamento verso un’area attualmente incontaminata. Allo stesso tempo, la resistenza ai piani di trasloco si è trasformata ormai per molti nella richiesta di evacuazione totale dei militari americani dall’isola.

Okinawa sopporta d’altra parte in maniera sproporzionata il peso della presenza militare USA in Giappone. Per la sua posizione strategica, sull’isola, controllata direttamente dagli americani fino al 1972 e teatro di sanguinosi scontri durante la Seconda Guerra Mondiale, si trovano circa 30 mila soldati USA sui 47 mila totali ospitati dal Giappone.

Gli abitanti di Okinawa sono costretti così a subire i crimini commessi dai militari USA, spesso protetti dalle conseguenze legali delle loro azioni grazie agli accordi tra i due governi. Particolare repulsione e manifestazioni di massa aveva suscitato lo stupro di una 12enne giapponese nel 1995 da parte di tre marines americani. Proprio questa vicenda aveva spinto Washington e Tokyo a concordare il trasferimento della base Futenma in un’altra località dell’isola.

Altri casi si sono verificati anche negli ultimi mesi, oltre all’assassinio di Rina Shimabukuro. A marzo, un militare americano aveva violentato una turista giapponese in vacanza a Okinawa, mentre a maggio un ufficiale era stato arrestato per molestie e percosse ai danni di una studentessa giapponese di 19 anni. Ai primi di giugno, infine, una donna soldato americana ubriaca alla guida di un’auto aveva causato un incidente stradale nel quale erano rimaste ferite due persone.

I manifestanti scesi nelle piazze della principale città di Okinawa nel fine settimana hanno firmato una petizione per chiedere il ritiro dei Marines americani dall’isola, rilevando come questi ultimi si siano resi responsabili di quasi seimila crimini a partire dal 1972, di cui poco meno di 600 classificabili come “gravi”.

L’insofferenza diffusa tra la popolazione di Okinawa per la presenza militare americana si riflette anche sulle vicende legali connesse al trasferimento della base Futenma. Il governatore dell’isola, Takeshi Onaga, lo scorso autunno aveva revocato i permessi per la costruzione delle nuove strutture destinate a ospitare i Marines, ma il governo di Tokyo, guidato dal premier ultra-conservatore Shinzo Abe, aveva imposto il congelamento di questa direttiva.

Il caso è finito poi all’attenzione di un consiglio competente sulle dispute tra le autorità locali e centrali in Giappone, il quale ha però evitato di emettere un verdetto definitivo, invitando invece le parti a negoziare una soluzione di compromesso, al momento difficilmente raggiungibile.

Le forze politiche locali che negli ultimi tempi hanno cavalcato le proteste popolari contro i militari USA non sono in ogni caso contrari in linea di principio all’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti, da cui dipende appunto la situazione venutasi a creare a Okinawa, ma cercano per lo più di sfruttare il malcontento nell’isola per i propri calcoli politici.

Anche per questa ragione, l’insofferenza della maggior parte della popolazione di Okinawa verso i militari americani minaccia di aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. Tanto più che né Washington né Tokyo intendono fare concessioni sostanziali su questo fronte, visto il rilievo strategico dell’isola.

Okinawa, situata a poche centinaia di chilometri dalle coste della Cina, ha un ruolo decisivo nei piani di militarizzazione del paese del governo Abe, già concretizzati nella “reinterpretazione” della Costituzione pacifista del paese per assegnare maggiori funzioni alle forze armate.

Il Giappone è inoltre integrato nella strategia di accerchiamento della Cina promossa dagli Stati Uniti, i quali considerano a loro volta la presenza di un contingente militare sull’isola una componente cruciale dei propri piani di guerra contro Pechino.

In questo quadro è facile comprendere il motivo per cui il governo americano continui a mostrarsi irremovibile sia sulla questione della presenza dei propri militari a Okinawa sia sul rispetto dell’accordo con Tokyo circa il trasferimento della principale base dell’isola, nonostante la crescente e più che comprensibile ostilità della popolazione locale.

di Carlo Musilli

“Una scelta esistenziale senza possibilità di ritorno”. Così, dalle colonne del Times, il premier britannico David Cameron ha definito il referendum sulla Brexit che si terrà mercoledì 23 giugno. “Rischiamo di commettere un grave errore - ha aggiunto il numero uno di Dowing Street - che porterebbe il Paese in una debilitante incertezza per almeno un decennio”. Cameron ha poi chiarito che, anche in caso di vittoria del “Leave”, non intende abbandonare la guida del Governo, perché si considera l’uomo più adatto a trattare con Bruxelles.

Intanto, però, i sondaggi confermano che sui risultati del referendum peserà molto l’onda emotiva scatenata dalla morte di Jo Cox, la parlamentare laburista uccisa la settimana scorsa da un fanatico per il suo attivismo contro la Brexit. La prima rilevazione dopo l’omicidio vede il “Remain” di nuovo in vantaggio sul “Leave”, anche se di poco (45 contro 42%). A fare la differenza, stando a questi numeri, saranno ancora una volta gli indecisi.

La situazione appare tuttavia molto meno incerta se guardata con gli occhi dei bookmaker, cui gli operatori finanziari danno spesso più credito che ai sondaggisti. Secondo le rilevazioni di Ladbrokes, una delle più grandi case di scommesse anglosassoni, la probabilità che il Regno Unito rimanga in Europa è del 73 percento. Un margine davvero ampio, forse troppo, ma che si è allargato di ben 10 punti percentuali all’indomani dell’omicidio Cox. Ladbrokers, in sostanza, conferma che questo referendum ha davvero poco di razionale: comunque andrà a finire, sembra proprio che la maggior parte degli elettori britannici voglia prendere questa decisione usando molto lo stomaco e poco i neuroni.

Eppure, basterebbe riflettere davvero poco per rendersi conto che per Londra uscire dall’Unione europea sarebbe una follia da qualsiasi punto di vista. Innanzitutto per le conseguenze economiche immediate: secondo l’Ocse, con la Brexit il Pil del Paese calerebbe di almeno il 3% entro il 2020, mentre le Confindustria britannica stima che i posti di lavoro a rischio sarebbero addirittura un milione. La sterlina cadrebbe a picco (-15/20% per Goldman Sachs) e il cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha detto che i prezzi degli immobili potrebbero registrare un calo compreso fra il 10 e il 18% nel giro di due anni. Non solo: le più importanti banche internazionali fuggirebbero dalla City di Londra (per trasferirsi probabilmente a Dublino), il sistema sanitario entrerebbe in crisi e lo Stato non avrebbe più abbastanza soldi per pagare tutte le pensioni. Intanto, sui mercati si scatenerebbe il panico.

L’economia e la finanza, però, non sono tutto. La Brexit aprirebbe anche una serie di problemi dal punto di vista politico e diplomatico, incertezze molto gravi cui il fronte del “Leave” non ha mai dato alcuna risposta. In primo luogo, al di là del generico effetto contagio in tutta Europa (è facile prevedere che un po’ ovunque prenderebbero piede i movimenti per uscire dall’Ue), Londra rischia di non poter più evitare la spaccatura con Edimburgo.

Se in Scozia vincerà il no alla Brexit, mentre il resto del Regno Unito voterà per staccarsi da Bruxelles, gli scozzesi chiederanno di organizzare un secondo referendum per decidere se seguire l’UK o abbandonarlo per rimanere in Europa. A quel punto, il governo centrale non avrà più armi per evitare la secessione, perché molti degli argomenti pretestuosi impiegati dalla propaganda pro-Brexit potrebbero essere usati anche dai nazionalisti scozzesi per sostenere la causa dell’indipendenza da Londra.

C’è poi la questione irlandese. Gli antieuropeisti vogliono mettere sotto controllo il numero di immigrati comunitari che ogni entrano nel Regno Unito e questo significa che bisognerebbe chiudere il confine fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. In caso contrario, infatti, qualsiasi europeo potrebbe prendere un aereo per Dublino e di lì un treno per Belfast, ritrovandosi senza alcun controllo sul suolo di Sua Maestà. D’altra parte, la chiusura della frontiera danneggerebbe non poco l’economia nordirlandese e rischierebbe di mettere a rischio la pace nell’Ulster.

Infine, il problema del commercio. I fautori della Brexit hanno chiarito che intendono abbandonare il mercato unico europeo e porre fine alla libera circolazione. Da questo si deduce che non punteranno a accordi sulla falsariga di quelli siglati con l’Ue da Norvegia e Svizzera, che godono di un ampio accesso al mercato europeo. Qualcuno ha parlato di prendere a modello il sistema adottato dal Canada per le relazioni con l’Unione, altri hanno tirato in mezzo l’Albania. L’unica certezza è che il Regno Unito non avrebbe mai più pieno accesso al mercato europeo, da cui dipende circa la metà dei suoi scambi commerciali.

Quanto all’altro 50%, il fronte del “Leave” non ha mai spiegato in che modo pensa di sostituire gli oltre 50 accordi di libero scambio in vigore fra l’Ue e altri Paesi del mondo. Intanto, Usa e Cina hanno già fatto sapere che non negozieranno accordi commerciali separati di maggior favore per Londra, dal momento che né Washington né Pechino hanno alcun interesse a incentivare la disgregazione dell’Ue.

Insomma, dati alla mano, i britannici avrebbero una valanga di buone ragioni per mettere la croce su “Remain”. Le indagini sulle intenzioni di voto dicono che molti di loro si affideranno alla casualità delle emozioni per decidere, piuttosto che usare la logica e arrivare così all’unica conclusione sensata. Ma se sceglieranno di rimanere in Europa per la compassione ispirata dall’omicidio Cox, andrà bene lo stesso. Vorrà dire che, in futuro, a scrivere i programmi elettorali saranno direttamente gli allibratori.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy