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di Michele Paris
Se c’è una buona notizia nella quasi incredibile vittoria di Donald Trump è che all’America e al mondo sarà risparmiata una nuova presidenza di un membro della famiglia Clinton. Detto questo, l’ingresso di Trump alla Casa Bianca aprirà nelle prossime settimane una serie di scenari e porrà interrogativi a dir poco inquietanti. Le responsabilità per il successo del candidato Repubblicano sono in ogni caso da attribuire per intero al Partito Democratico, alla sua deriva destrorsa, alle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione Obama e all’incapacità di offrire una prospettiva progressista a ciò che resta del proprio elettorato di riferimento, presentando invece una candidata tra le più screditate e reazionarie della storia degli Stati Uniti.
Le reali speranze di successo di Hillary Clinton erano svanite in fretta nelle prime ore della notte italiana, quando il leggero vantaggio registrato in stati considerati decisivi come Florida, North Carolina e Ohio ha ben presto lasciato spazio alla rimonta di Trump. La Florida, in particolare, sembrava poter essere ancora una volta in bilico fino alla fine del conteggio, ma i suoi 29 “voti elettorali” sono stati assegnati alla fine senza incertezze a Trump, in grado di raccogliere circa 130 mila voti in più della rivale.
Uno ad uno, sotto gli occhi increduli degli “anchormen” della CNN e di altri network filo-Democratici, quasi tutti gli “swing states” che Trump era in effetti obbligato a conquistare, e nei quali l’ex segretario di Stato era data in vantaggio, sono finiti nella colonna Repubblicana. Probabilmente, oltre che in Florida, fondamentale è stata la superiorità di Trump in North Carolina e in Ohio, stato quest’ultimo vinto da Obama sia nel 2008 che nel 2012.
Con ancora un percorso aperto verso la Casa Bianca, Hillary ha visto poi svanire di fatto le proprie speranze in seguito all’arrivo dei dati di altri stati della cosiddetta “Rust Belt”, generalmente orientati a votare Democratico. Scioccanti sono apparsi i risultati di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, diventati nel corso della nottata vere e proprie roccaforti a cui Hillary doveva aggrapparsi.
Nella mattinata di mercoledì, questi tre stati, assieme a Minnesota, Arizona, Maine e New Hampshire, erano ancora ufficialmente in bilico ma in quelli che mettevano in palio il maggior numero di “voti elettorali” il miliardario di New York sembrava avere un margine tale da rendere praticamente impossibile un recupero di Hillary. All’alba, la Associated Press aveva comunque già assegnato la Pennsylvania a Trump e poco più tardi sono arrivati i rimanenti stati necessari a chiudere i conti, spingendo quest’ultimo oltre la soglia decisiva dei 270 “voti elettorali”.
Il livello di shock che ha attraversato lo schieramento Democratico e lo staff della Clinton è apparso chiaro dalle reazioni, o dalla mancanza di esse, sui social media, mentre nella notte americana la ex first lady ha addirittura rinunciato a parlare alle migliaia di sostenitori raccolti nel suo quartier generale di New York.
Ad apparire è stato il capo della sua campagna elettorale, John Podesta, ovvero il bersaglio dell’hackeraggio che aveva portato alla rivelazione delle email compromettenti pubblicate da WikiLeaks nelle scorse settimane. L’ex capo di gabinetto del presidente Bill Clinton ha solo invitato ad attendere il conteggio finale, ma poco più tardi la stampa USA ha fatto sapere che Hillary aveva finito per chiamare Trump riconoscendo la sconfitta.Significativamente, dopo una campagna elettorale dai toni violenti, Trump ha aperto invece il suo discorso riconoscendo il “servizio” prestato da Hillary al paese, prefigurando l’impegno che i media americani considerano inevitabile da parte di un presidente-eletto per “unire” un paese spaccato. Altrettanto rilevante è stato il riferimento alla necessità di stabilire rapporti cordiali con tutti i paesi del pianeta, a conferma di quello che può forse essere considerato uno dei pochi aspetti relativamente positivi dell’elezione di Trump.
In definitiva, se l’affermazione di Trump non è stata evidentemente a valanga, Hillary ha fallito clamorosamente su tutti i fronti. Solo poche settimane fa, la stampa USA parlava di una possibile cancellazione del Partito Repubblicano dalla mappa elettorale americana, così come di una probabile riconquista Democratica del Senato e, nella migliore delle ipotesi, della Camera dei Rappresentanti.
Non solo Hillary non è riuscita in sostanza a strappare nessuno stato tradizionalmente Repubblicano, ma, tra quelli in equilibrio, ha portato a casa solo Virginia, Colorado e Nevada. Il voto di queste presidenziali americane è stato perciò una clamorosa bocciatura dell’establishment, rappresentato principalmente da tutto ciò che incarna Hillary Clinton e dai suoi legami con i grandi interessi economico-finanziari e con l’apparato militare e dell’intelligence. A uscire con le ossa rotte dal voto è stato però anche un sistema mediatico che aveva cercato in tutti i modi di spingerla verso la Casa Bianca, non da ultimo producendo una raffica di sondaggi favorevoli alla candidata Democratica.
Ben lontani dall’assumersi la responsabilità di avere consegnato gli Stati Uniti a un presidente dalle evidenti tendenze fasciste, i politici Democratici e ancor più commentatori e analisti “liberal” hanno continuato e continueranno verosimilmente a collegare il successo di Trump a fattori che, se pure hanno influito, non sono stati determinanti.
Tra questi, in primo luogo, la mai provata interferenza del governo russo nel processo elettorale americano attraverso la penetrazione dei server di posta elettronica del partito e dello staff di Hillary Clinton. Ancor più, la galassia pseudo-progressista e i professionisti delle politiche identitarie e di genere sostengono che il fenomeno Trump sia una pura espressione di un’America retrograda, razzista e misogina che resiste il cambiamento che avrebbe determinato la sola elezione della prima donna alla Casa Bianca.
Se questa fetta di America, il cui peso è peraltro discutibile, ha indubbiamente appoggiato con entusiasmo la candidatura di Donald Trump, la sua affermazione è stata determinata in realtà dalla capacità di proporsi, sia pure soltanto in maniera apparente, come l’unico aspirante alla presidenza in grado di stravolgere l’establishment, dando voce soprattutto a una classe media e a una “working-class” che non hanno sentito se non, tutt’al più, in minima parte la “ripresa” dell’economia. Tutto ciò è stato canalizzato in una direzione reazionaria ed è stato possibile solo grazie al vuoto della sinistra americana e alla crisi irreversibile del Partito Democratico.
La ripresa dell’economia, piuttosto, sotto la gestione Obama ha beneficiato una ristretta élite, di cui fanno invariabilmente parte quegli esponenti della stampa “mainstream” che non si capacitano di come decine di milioni di elettori abbiano mancato di vedere i presunti progressi economici del paese e le rosee prospettive di un’eventuale presidenza Clinton.La metabolizzazione della vittoria di Trump richiederà comunque tempo e le difficoltà che si prospettano sono state anticipate già mercoledì dal crollo delle borse in tutto il mondo. La storia della campagna elettorale appena terminata, così come i reali orientamenti dei poteri che controllano la politica americana, nasconde ancora molti lati oscuri, ma l’eventuale conciliazione del 45esimo presidente degli Stati Uniti con un sistema che l’ha in larga misura contrastato negli ultimi diciotto mesi non potrà avvenire senza scosse.
Allo stesso modo, la sola discussione delle varie proposte ultra-reazionarie di Trump, alcune delle quali con possibilità concrete di essere implementate vista la maggioranza Repubblicana confermata al Congresso, provocheranno gravi tensioni nel paese, a cominciare da quelle relative all’immigrazione, dalla possibile abolizione della “riforma” sanitaria di Obama e dalla nomina di giudici reazionari alla Corte Suprema.
Per il momento, alla luce del degrado che ha caratterizzato questa stagione elettorale americana e la quasi certezza che nessuno dei veri problemi sociali che affliggono gli Stati Uniti sarà risolto dopo questa elezione, è legittimo per lo meno consolarsi con la consegna probabilmente definitiva alla storia della dinastia politica clintoniana.
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di Fabrizio Casari
Con oltre il 72,5% dei voti, il Comandante Sandinista Daniel Ortega Saavedra, presentatosi in tandem con Rosario Murillo alla guida della coalizione Nicaragua Triunfa, è stato rieletto per la terza volta consecutiva Presidente della Repubblica del Nicaragua. Schiacciante il predominio del Frente Sandinista nelle urne, l’insieme delle opposizioni si avvicina solo al 30% dei consensi e, sebbene disporrà di una discreta forza parlamentare, la maggioranza assoluta del FSLN nell’Assemblea Nazionale consentirà a Daniel Ortega e Rosario Murillo di proseguire nell’opera di ricostruzione socioeconomica e di modernizzazione del Paese iniziata dieci anni orsono.
Precisamente dal Gennaio del 2007, da quando cioè Daniel Ortega riprese in mano il destino del paese centroamericano. Raccolse una nazione in macerie che, dopo 16 anni di governi liberali, aveva superato Haiti nella classifica dei paesi più poveri dell’emisfero centroamericano. In dieci anni il governo Ortega ha rivoltato il paese come un guanto, posizionato il Nicaragua al secondo posto - dopo Panama - per la crescita economica costante nella regione .
Proprio i risultati ottenuti al governo negli ultimi dieci anni trovano oggi risposta in un consenso così ampio, che ha quasi doppiato lo zoccolo duro dell’elettorato sandinista, da sempre intorno al 35-38%. Sono effetto di una crescita basatasi sui principi fondanti di una economia sociale di mercato di ispirazione socialista, concentrata sulle politiche orientate alla riduzione della povertà e alla generazione di lavoro. Politiche concertate anche con l’impresa privata, che nella rinascita del paese ha trovato ruolo sociale e margini di profitto altrimenti irraggiungibili.
La rinascita del Nicaragua è stata sostenuta da investimenti pubblici in strade, case, sanità, trasporti, istruzione, assistenza, oltre che facilitazione al credito cooperativo e individuale, sostegno alla piccola e media impresa rurale, elettrificazione (erogata per una quota del 55% con energie rinnovabili), ampliamento della rete Internet in quasi tutto il paese. In conseguenza di queste politiche di coagulo sociale si è raggiunto anche un livello di sicurezza che vede il Nicaragua al primo posto nell’area centroamericana. Non a caso la stessa agenzia di rating Ficht, che ha assegnato al Nicaragua la B+ con prospettiva stabile, in un comunicato dove si complimenta con Ortega afferma che i governi da lui guidati "hanno migliorato la dinamica del debito pubblico, ridotto gli squilibri ed hanno visto una crescita crescente e una inflazione decrescente".
Ma il voto storico di domenica scorsa è anche il risultato di una comunicazione costante e dettagliata tra popolo e governo (della quale va dato merito soprattutto alla ora Vicepresidente Rosario Murillo) che ha rivoluzionato la tradizione della relazione tra rappresentanti e rappresentati costituendo una autentica novità nel panorama politico internazionale.
Difficile dunque, a fronte di simili risultati, svolgere una opposizione che valichi i confini puramente ideologici, ma il voto riflette anche la crisi dell’area liberale e conservatore, sebbene essa ha comunque ottenuto un mandato a rappresentare quella porzione di paese che non si riconosce nel FSLN.
La grande sconfitta di queste elezioni è invece l’ultradestra camuffata da improbabili rinnovatori, che a seguito dei sondaggi che l’accreditavano allo 0,2%, ha preferito non partecipare e lanciare una campagna sguaiata sui media internazionali di delegittimazione del voto. I loro sforzi hanno prodotto una discreta dose di disinformazione mediatica e un imbarazzante abbraccio con i settori più reazionari del partito Repubblicano statunitense, ma è proprio in Nicaragua che non hanno ottenuto seguito.Gli ex-sandinisti del MRS e gli ex-liberali che hanno puntato sull’astensione hanno cercato con una mossa furba di sovrapporla con il loro proclama politico, ma non ha funzionato. L’assenza dal voto è stata infatti intorno al 35%, in perfetta media storica e comunque inferiore agli altri paesi del continente. Dunque risulta impossibile per loro auto assegnarsi il dato quantitativo dell'astensione e meno che mai raffigurarlo come dato politico. La loro unica vittoria è stata non presentarsi per evitare l’umiliazione della conta.
Ciononostante, fallita la strategia dell’astensione, prosegue senza sosta quella della disinformazione, dove si sentono appoggiati dai media internazionali. In spregio alla decenza hanno diffuso dichiarazioni che invertono completamente la realtà, indicando la quota di astensione al 65 per cento e quella dei votanti al 35!!
Ma nemmeno i loro amici stavolta li seguono. Un portavoce aggiunto del Dipartimento di Stato USA hacriticato l'assenza di osservatori internazionali (ovvero i loro) e ricordato come l'impegno della Casa Bianca è quello di insistere per il rispetto della democrazia e dei diritti umani, ma ruolo di chi ha effettuato le dichiarazioni e contenuto delle stesse appaiono decisamente inferiori alle attese dei loro amici nicaraguensi.
D’altra parte l’esito del voto nei suoi diversi aspetti era stato previsto dai sondaggi di opinione precedenti al voto, che indicavano il consenso al FSLN e all’opposizione, così come i numeri dell’astensione, i dati effettivamente riscontratisi ai seggi, il che rende ulteriormente prive di credibilità le dichiarazioni dell’ultradestra.
L’ampiezza dell’affermazione del Frente Sandinista evidenzia invece il sostegno popolare di cui gode il governo di Daniel Ortega e rende le denunce degli ex di tutto, persino della loro dignità personale, un esercizio di disperazione di chi è completamente privo di prestigio ed è ormai confinato ai margini della storia politica del paese.
A conferma invece di un voto tranquillo, regolare ed ordinato, rispettoso delle procedure e dei suoi esiti, vanno registrate le dichiarazioni del Gruppo di Esperti Elettorali, composto da ex Presidenti, ministri e deputati dei paesi latinoamericani. A nome di tutti l’ex Viceministro degli Esteri dell’Argentina, Raúl Alconada, si è complimentato con il Nicaragua, sottolineando che “mantenere il livello di partecipazione elettorale superiore alla media dei paesi latinoamericani, oltre a costituire una buona notizia, deve essere assunto come una sfida di prim’ordine per tutti i paesi”.
Anche la delegazione del COPPAL (la Conferenza dei partiti politici latinoamericani) in un report dettagliato sulle operazioni di voto monitorate, si è complimentata con tutti i partiti e “con il popolo nicaraguense per la dimostrazione di educazione civica esibita durante il processo elettorale, così come con il Consiglio Supremo Elettorale per la trasparenza e il livello di organizzazione dimostrato..che ha messo in evidenza la maturità del popolo e i progressi in materia elettorale raggiunti in Nicaragua”.Auguri e complimenti a Ortega e Murillo sono arrivati dal presidente cubano Raul Castro, da quello venezuelano Maduro, dal boliviano Evo Morales e dal governo del Messico, del Guatemala e di El Salvador, ai quali si sono aggiunti quelli di Diego Armando Maradona, che sulla sua pagina Facebook invia i suoi complimenti a Daniel Ortega “da parte di un sandinista in più”.
Il Nicaragua continua quindi il suo cammino verso il futuro sotto lo sguardo vigile di Sandino che, dalla Loma di Tiscapa, si è trasferito in ogni luogo e in ogni urna della sua Nicaragua.
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di Michele Paris
A poche ore dalla conclusione del lunghissimo processo elettorale che porterà all’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, il quadro politico americano si ritrova invischiato in una situazione di crisi come forse mai è accaduto nella storia di questo paese. La (relativamente) normale evoluzione delle campagne elettorali per la Casa Bianca è stata infatti stravolta quest’anno da due candidati profondamente screditati agli occhi dei potenziali elettori, mentre la loro stessa presenza sulle schede ha prodotto e, allo stesso tempo, è apparsa il risultato delle gravissime tensioni che attraversano la classe dirigente di un “impero” entrato con ogni probabilità in una fase di declino irreversibile.
La vigilia del voto ha così rispecchiato il travaglio della classe politica americana e le contraddizioni scaturite dai timori di non essere più in grado di mantenere in piedi la facciata di legittimità democratica di un sistema che non ha praticamente più nessun contatto con la realtà in cui vivono decine o centinaia di milioni di persone.
L’ultima scossa è giunta nel fine settimana, ancora una volta da un organo ufficialmente a-politico. Il direttore dell’FBI, James Comey, nemmeno dieci giorni dopo essere intervenuto nel dibattito delle presidenziali, annunciando la riapertura del procedimento d’indagine ai danni di Hillary Clinton per le note e-mail del Dipartimento di Stato, domenica ha operato una nuova marcia indietro.
Comey ha ancora una volta indirizzato una lettera alle principali commissioni del Congresso per dichiarare questa volta che nulla, nel nuovo materiale relativo all’indagine, può far pensare a elementi che giustifichino un’ipotetica incriminazione della candidata Democratica alla Casa Bianca. Il passo indietro del numero uno della polizia federale americana è l’ennesima farsa di questa campagna elettorale e, almeno in teoria, riporta le lancette dell’orologio della vicenda legale che ha coinvolto l’ex segretario di Stato allo scorso mese di luglio, quando lo stesso Comey aveva escluso la presenza di materiale incriminante.
Com’è noto, il caso ruota attorno all’utilizzo, da parte di Hillary, di un server di posta elettronica privato al posto di quello governativo per la propria corrispondenza durante la permanenza al dipartimento di Stato. Con questo account e in violazione della legge, l’ex segretario aveva scambiato mail personali e, soprattutto, ufficiali, esponendo potenzialmente materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.
Ancora peggio, come ha rivelato recentemente WikiLeaks, Hillary e il suo team avevano eliminato migliaia di messaggi, a loro dire per errore e comunque in gran parte di natura personale. Secondo molti, queste mail contenevano invece materiale esplosivo, tra cui le prove della concessione di favori a grandi interessi economici e a governi stranieri, i quali a loro volta avevano donato somme ingenti alla famiglia Clinton, principalmente attraverso l’ente “filantropico” Clinton Foundation.
Dopo l’archiviazione annunciata la scorsa estate, tra mille polemiche l’FBI aveva riaperto il caso a meno di due settimane dalle elezioni presidenziali in seguito al reperimento di migliaia di nuove e-mail riconducibili alla Clinton nel corso di indagini apparentemente non collegate, relative cioè all’invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, già consorte dell’assistente di Hillary, Huma Abedin.Sui giornali americani e sui social media è subito scattata una discussione sulle motivazioni del comportamento del direttore dell’FBI. Al di là della reale possibilità di analizzare il contenuto di qualcosa come 650 mila mail in una settimana, la più recente decisione di Comey sembra riflettere ancora una volta le divisioni e le tensioni che caratterizzano la sua agenzia, così come l’intera classe dirigente USA, di fronte all’imminente elezione alla presidenza di uno tra Hillary Clinton e Donald Trump.
Se il discredito e i guai legali della candidata Democratica, che rischiano di compromettere da subito il suo mandato e di indebolire ancor più la posizione internazionale degli Stati Uniti, rendono credibile il fatto che una parte degli ambienti di potere americani abbia cercato di riportare in corsa Trump, Hillary rimane di gran lunga il cavallo preferito dall’establishment.
In questa prospettiva, l’uscita di dieci giorni fa di Comey poteva essere un modo per placare le voci, ben documentate dai media, che all’interno dell’FBI chiedevano un’azione più incisiva contro la ex first lady. Che poi tutto si sia risolto, almeno per il momento, in un nulla di fatto può dipendere dall’autorità che esercita sull’FBI il dipartimento di Giustizia, ovvero un organo politico controllato da un’amministrazione Democratica.
Gli ultimi sviluppi della vicenda Clinton potrebbero comunque avere un’influenza tutt’al più marginale sulle intenzioni di voto di elettori in buona parte scoraggiati nei confronti di tutto ciò che emana da Washington e ormai assuefatti a una campagna elettorale fatta di scandali e insulti.
Piuttosto, l’ennesimo colpo di scena – vero o finto che sia – sembra avere accentuato la percezione di politici e commentatori del danno che le candidature di Hillary e Trump, così come i loro guai, stanno provocando all’immagine e alla credibilità internazionale degli Stati Uniti.
Vari editoriali apparsi sulle principali testate americane nei giorni scorsi hanno evidenziato queste ansie e, in particolare, la presa d’atto che, a questo punto, chiunque conquisti la presidenza gli Stati Uniti sono destinati ad andare incontro a un periodo di grave instabilità. Ciò, a sua volta, rischia di indebolire la spinta propulsiva nelle aree cruciali del pianeta che viene considerata fondamentale per rimediare alla costante perdita di influenza di Washington di fronte all’avanzata di paesi come Russia, Iran e, soprattutto, Cina.
Sia pure in apprensione per queste ragioni, lo schieramento politico e mediatico “liberal” ha dato l’impressione nell’immediata vigilia del voto di avere tratto un respiro di sollievo, credendo infatti di avere scongiurato il pericolo di una vittoria di Donald Trump. Se i sondaggi commissionati dalle testate “mainstream” americane vanno presi con le dovute precauzioni, le indagini degli ultimi giorni e ancor prima della più recente decisione favorevole alla Clinton del direttore dell’FBI indicano una tenuta della candidata Democratica.Per quanto riguarda il dato nazionale, quest’ultima continua ad avere un margine di vantaggio, anche se ristretto. La competizione si deciderà tuttavia in una manciata di stati in bilico, nella maggior parte dei quali, allo stesso modo, Hillary risulta in vantaggio nonostante il recupero di Trump.
Le ultimissime apparizioni dei due candidati hanno così rispecchiato le loro priorità. Lunedì, Trump è stato impegnato addirittura in cinque stati (Florida, North Carolina, Pennsylvania, New Hampshire e Michigan), mentre la favorita per la Casa Bianca si è limitata a tre stati tra quelli decisivi: North Carolina, Pennsylvania e Michigan.
Hillary, infine, ha cercato di conservare il vantaggio attribuitole dai sondaggi reclutando varie celebrità per convincere gli elettori ancora indecisi a votare per lei e a impedire una vittoria di Trump. Un eventuale ingresso alla Casa Bianca del miliardario di New York, che segnerebbe in effetti un drastico spostamento a destra del baricentro politico americano, viene dipinto dai sostenitori di Hillary come un evento catastrofico, ma questa strategia serve più che altro a nascondere la realtà di una presidenza Clinton che lascia intravedere conseguenze ugualmente disastrose, se non addirittura più gravi, soprattutto in merito a una più che probabile accelerazione dell’intervento degli USA nei principali scenari di crisi internazionali.
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di Michele Paris
Il governo Conservatore britannico del primo ministro, Theresa May, ha dovuto incassare un colpo pesante nella giornata di giovedì dopo che l’Alta Corte di Londra ha attribuito al Parlamento il potere di far scattare la cosiddetta “Brexit”. Downing Street aveva infatti annunciato che sarebbe stato invece il governo a invocare entro la fine di marzo l’articolo 50 del trattato dell’Unione Europea, avviando in autonomia le procedure di sganciamento da Bruxelles.
Come minimo, la decisione letta dal “Lord Chief Justice”, Lord Thomas, rallenterà l’uscita della Gran Bretagna dall’UE e mette in serio imbarazzo il gabinetto May, dal momento che la premier aveva cercato di evitare il coinvolgimento di un Parlamento a maggioranza contrario alla “Brexit”.
Theresa May e i consulenti legali del governo ritenevano ci fossero le condizioni per esercitare la decisione esclusiva sull’avvio della “Brexit” da parte dell’Esecutivo visto che la questione era passata attraverso un voto popolare. L’Alta Corte, al contrario, ha stabilito che “la regola fondamentale della Costituzione [non scritta] del Regno Unito consiste nella sovranità del Parlamento”, il quale dovrà così esprimersi sulla cancellazione della legge del 1972 che ratificò l’ingresso di Londra nell’Unione Europea (“European Communities Act”).
Il governo Conservatore, per bocca del ministro per il Commercio Estero Liam Fox, si è detto deluso dalla sentenza, ma ha confermato la determinazione “nel rispettare il risultato del referendum” e annunciato ricorso alla Corte Suprema. Theresa May non ha invece parlato pubblicamente, ma lunedì prossimo, dal momento che sarà in visita in India, invierà un proprio ministro alla Camera dei Comuni per leggere una dichiarazione ufficiale.
Il ricorso dell’Esecutivo verrà preso in considerazione a partire dal prossimo 7 dicembre, ma se la Corte Suprema dovesse confermare la decisione di giovedì la crisi politica innescata dalla “Brexit” rischia di aggravarsi ulteriormente.
Politici e commentatori britannici assicurano comunque che il Parlamento non potrà che confermare il voto del referendum. Tuttavia, la poca chiarezza sulle procedure che dovrebbero innescare la “Brexit” rende incerti i prossimi sviluppi e il Parlamento potrebbe inoltre imporre delle condizioni per la conduzione delle trattative con Bruxelles, principalmente per ridurne l’impatto negativo, limitando così gli spazi di manovra del governo.
Al momento non è nemmeno chiaro se la Camera dei Comuni e quella dei Lord voteranno con un semplice sì o un no oppure, complicando gli scenari, se sarà necessaria l’approvazione di una legge ad hoc.Nella più clamorosa delle ipotesi, il Parlamento di Londra potrebbe addirittura bloccare la “Brexit”, mentre in molti ritengono possibile che il protrarsi dello scontro politico possa provocare elezioni anticipate nei prossimi mesi. Per il momento, i leader che si erano schierati per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione hanno soltanto evidenziato come il verdetto dell’Alta Corte rappresenti un successo per la democrazia, visto che sanziona l’intervento del Parlamento nella “Brexit”
Il numero uno dei Laburisti, Jeremy Corbyn, e quello dei Liberal Democratici, Tim Farron, hanno poi invitato il governo a presentare al più presto al Parlamento i termini con cui intende negoziare con Bruxelles l’uscita dall’UE.
Una delle principali forze dietro alla “Brexit”, Nigel Farage, del partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di estrema destra, ha invece prospettato un possibile “tradimento” del voto popolare attraverso un rinvio o una marcia indietro sull’invocazione dell’articolo 50. Farage, in maniera inquietante, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze molto gravi se ciò dovesse accadere, mettendo in guardia dal “livello di rabbia popolare” che verrebbe provocata.
La dichiarazione della premier May sulla decisione del governo di far scattare le condizioni previste dall’articolo 50, oltre ad avere toccato un tasto delicato in relazione alle prerogative dell’esecutivo e del Parlamento, aveva suscitato i timori di quella parte della classe dirigente britannica che vede con apprensione l’uscita dall’Unione senza la salvaguardia di alcune condizioni favorevoli a Londra, a cominciare dall’accesso al mercato unico europeo.
Ciò è vero in particolare per l’industria finanziaria, come conferma anche l’identità delle forze dietro alla causa legale che ha portato alla sentenza di giovedì dell’Alta Corte.
Ad esempio, una delle protagoniste della vicenda è la proprietaria di un fondo di investimenti, Gina Miller, la quale, con il marito, ha messo assieme nella “City” una fortuna da svariate decine di milioni di sterline.
Anche alcuni studi legali che si sono occupati del caso operano solitamente nel settore bancario e finanziario. Ciò aiuta a capire come le pretese di volere rendere più democratico il processo di uscita dall’UE con il coinvolgimento del Parlamento di Londra nascondano in realtà interessi di ben altro genere.Il business britannico che ha beneficiato dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, nel caso non riuscisse a bloccare la “Brexit”, intende cioè mantenere condizioni favorevoli anche dopo l’uscita, puntando per questo sull’intervento del Parlamento, i cui membri erano in maggioranza schierati per il “Remain”.
A dare un’idea delle turbolenze provocate dal voto sulla “Brexit” è infine l’andamento della sterlina. La moneta britannica aveva perso circa il 20% sul dollaro e il 15% sull’euro a partire dal referendum, con punte negative toccate dopo l’annuncio di Theresa May che a far scattare l’articolo 50 sarebbe stato il governo.
Soltanto giovedì, invece, la sterlina ha recuperato quasi l’1.5% sul dollaro e potrebbe proseguire nel trend positivo se la sentenza dell’Alta Corte dovesse essere confermata dalla Corte Suprema di qui a poche settimane.
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di Mario Lombardo
La sfilata di leader asiatici in Cina sta proseguendo questa settimana con la visita del primo ministro della Malaysia, Najib Razak, giunto martedì a Pechino con l’intenzione di rafforzare i legami non solo economici tra i due paesi. Come il leader che l’aveva preceduto, il presidente filippino Rodrigo Duterte, Najib ha avuto parole di condanna nei confronti dell’Occidente e, in particolare anche se in maniera velata, degli Stati Uniti, lasciando intendere come anche il suo paese possa operare nel prossimo futuro un ribaltamento delle proprie priorità strategiche sotto la spinta di molteplici fattori.
I titoli dei giornali e delle agenzie di stampa di tutto il mondo hanno messo in guardia martedì dalla nuova minaccia che potrebbe incombere sulla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in seguito a una dichiarazione di Najib, riportata dalla stampa cinese, nella quale invitava “le ex potenze coloniali a evitare di dare lezioni su come condurre gli affari interni ai paesi che in passato sono stati da loro sfruttati”.
Anche se la Malaysia era una colonia britannica, il riferimento del premier è stato principalmente agli Stati Uniti, peraltro ex potenza coloniale delle vicine Filippine. Najib, inoltre, in un editoriale da lui scritto per il giornale governativo China Daily ha celebrato lo stato e le prospettive delle relazioni con la Cina. L’articolo, ampiamente citato dai media internazionali, parla ad esempio di “una nuova fase” nei rapporti bilaterali, ma anche dei “nuovi livelli raggiunti dalla cooperazione militare”, di “chiare sinergie” e di un “destino comune” tra Pechino e Kuala Lumpur.
L’incontro di Najib nella giornata di martedì con il suo omologo cinese, Li Keqiang, a cui seguirà quello di giovedì col presidente Xi Jinping, ha subito prodotto più di dieci accordi bilaterali nell’ambito economico, della difesa e in altri settori. Una delle ragioni della trasferta cinese di Najib è legata alla necessità di rilanciare l’economia malese, colpita dal crollo delle quotazioni petrolifere e da un debito pubblico in rapida ascesa. I principali accordi già siglati a Pechino riguardano infatti progetti di infrastrutture da costruire in Malaysia, tra cui quello relativo a una linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Singapore alla Cina sud-occidentale.
Gli aspetti strategici dalle implicazioni forse ancora più importanti del viaggio di Najib in Cina hanno però a che fare con la cooperazione militare e la risoluzione delle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale. In merito a entrambe le questioni, gli Stati Uniti esercitano da anni forti pressioni sui paesi del sud-est asiatico con lo scopo di isolare la Cina, soprattutto se questi ultimi sono alleati di Washington.
In ambito militare, Pechino e Kuala Lumpur hanno siglato un “memorandum d’intesa” che, secondo il vice-ministro degli Esteri cinese, Liu Zhenmin, riguarderà in particolare il settore “navale”. In fase di contrattazione vi sono poi contratti d’acquisto di equipaggiamenti militari, tra cui 4 navi da guerra di costruzione cinese.
Come ha spiegato lo stesso Zhenmin, la cooperazione in ambito navale si ricollega alla questione del Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi si impegnano appunto a “garantire pace e stabilità” e a “rafforzare la fiducia reciproca”.
Come altri paesi in Asia sud-orientale, a cominciare da Filippine e Vietnam, la Malaysia è al centro di dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, anche se i toni di Kuala Lumpur nei confronti di Pechino sono stati finora molto più contenuti rispetto ai vicini. In Cina, ad ogni modo, Najib sembra avere sposato interamente la proposta cinese per la risoluzione delle contese, ovvero il dialogo su base “bilaterale”.
Quest’ultima è esattamente la formula che gli Stati Uniti intendono boicottare, mentre da tempo cercano di favorire l’allargamento della discussione sul Mar Cinese all’ambito regionale, introducendo, senza troppo successo, la questione nell’agenda di organi come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). In questo modo, gli USA puntano a impedire alla Cina di negoziare da una posizione di forza, come nel caso di colloqui bilaterali con paesi più piccoli, e a creare l’impressione che vi sia una certa unità di intenti a livello regionale nel condannare le presunte prevaricazioni di Pechino nelle acque contese.
Se i contenuti della visita di Najib Razak in Cina non sono apparsi finora preoccupanti come quelli che avevano caratterizzato la trasferta a Pechino del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, l’atteggiamento del leader malese viene osservato con uguale ansia a Washington proprio perché si tratta del secondo episodio in due settimane dalle implicazioni potenzialmente disastrose per la strategia asiatica americana.
Anzi, proprio l’annuncio di Duterte della “separazione” dagli USA da parte delle Filippine, vale a dire uno degli alleati più solidi di Washington nella regione, può avere contribuito al cambio di prospettiva di Najib. Molti commentatori avevano d’altra parte considerato la rottura di Manila, sia pure non ancora consumata a livello pratico, come l’inizio della fine dei sogni egemonici in funzione anti-cinese degli Stati Uniti in Estremo Oriente.
La progressiva deriva cinese, anche se in molti casi parziale o soltanto in fase poco più che embrionale, che si sta registrando in molti paesi asiatici con rapporti storicamente solidi con gli Stati Uniti è dovuta in primo luogo proprio al declino della prima potenza economica del pianeta e, di riflesso, all’ascesa della Cina e alle opportunità che essa offre ai potenziali partner.In molti casi, va detto, questo processo non comporta un distacco completo da Washington né, tantomeno, un abbraccio totale e incondizionato con Pechino. Paesi come le Filippine o la Thailandia, ma anche la stessa Malaysia, intendono piuttosto mantenere un rapporto di equilibrio con entrambe le potenze, nel tentativo di sfruttare i benefici che possono derivare da relazioni cordiali con queste ultime.
Questa strategia si sta però trasformando sempre più in una scommessa, dal momento che la crescente rivalità in ambito strategico, commerciale e militare tra Cina e Stati Uniti rende complicate le politiche improntate all’equidistanza. Washington, in particolare, chiede di fatto un allineamento totale, o quasi, ai propri interessi in Asia, lasciando ai propri interlocutori la difficile scelta di rinunciare ai benefici offerti da Pechino in cambio del mantenimento di un’alleanza strategica con gli USA con sempre meno vantaggi dal punto di vista pratico.
Per quanto riguarda il primo ministro della Malaysia, le sue aperture alla Cina sono anche la conseguenza delle difficoltà che sta incontrando sul fronte interno e dei guai legali in alcuni paesi, tra cui proprio gli Stati Uniti, derivanti dallo scandalo del colosso pubblico 1MDB. Da questa compagnia, impegnata in progetti per lo “sviluppo strategico” della Malaysia, sarebbero transitati e spariti fondi per centinaia di milioni di dollari, poi riciclati all’estero, di cui pare abbiano beneficato lo stesso Najib e i suoi famigliari.
I giornali occidentali, tra cui in particolare il Wall Street Journal, hanno condotto indagini approfondite sulla vicenda, fino a che, lo scorso mese di luglio, il dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’indagine ufficiale e sequestrato beni per un valore di circa un miliardo di dollari acquistati da uomini vicini a Najib con fondi sottratti all’1MDB.
Questa iniziativa, dalle ovvie implicazioni politiche e strategiche, ha inasprito i rapporti tra gli USA e il governo malese di Najib, il quale sul fronte interno deve inoltre fronteggiare l’accesa opposizione di una parte del suo partito (Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti, UMNO). L’indagine americana si innesta tuttavia su una situazione già segnata dal progressivo intensificarsi dei rapporti tra Pechino e Kuala Lumpur, confermato ad esempio dal fatto che il principale partner commerciale della Cina tra i paesi ASEAN è proprio la Malaysia.
Complessivamente, gli scambi tra i due paesi hanno raggiunto i 106 miliardi di dollari nel 2013, inferiori in Asia solo a quelli tra Cina e Giappone e tra Cina e Corea del Sud. Anche in ambito militare, l’intesa sottoscritta questa settimana a Pechino non è una novità assoluta, come dimostrano le prime esercitazioni congiunte tenute tra i militari dei due paesi nel 2015.
Ciononostante, almeno finora l’alleanza tra USA e il governo malese non aveva mostrato segni particolari di deterioramento. Il presidente americano Obama era stato ad esempio protagonista di una visita dai toni amichevoli in Malysia nel novembre dello scorso anno, mentre lo stesso inquilino della Casa Bianca aveva di fatto appoggiato Najib dopo le elezioni del 2013, caratterizzate dalle accuse di brogli da parte dell’opposizione. Il premier malese, da parte sua, aveva tra l’altro appoggiato il trattato di libero scambio trans-pacifico (TTP) promosso dagli Stati Uniti, di cui il suo paese fa parte.Come dimostra la già ricordata causa legale avviata negli USA, è possibile che Washington consideri Najib Razak un leader non più affidabile, a causa sia del suo corteggiamento di Pechino sia del discredito causato dallo scandalo dei fondi dell’1MDB. Oltre a ciò, va ricordato come negli ambienti finanziari occidentali ci sia sempre maggiore frustrazione per l’incapacità del governo di Najib di adottare provvedimenti che limitino la corruzione e il clientelismo, su cui si basa il potere dell’UMNO, e che aprano ulteriormente il paese del sud-est asiatico agli interessi del capitale internazionale.