di Mario Lombardo

L’elezione a 12esimo presidente della Germania dell’ex ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, ha ratificato nel fine settimana non solo il previsto passaggio di consegne ai vertici dello stato tedesco, ma anche una serie di avvicendamenti a cariche di rilievo tra i leader del Partito Social Democratico (SPD), da collegare ai cambiamenti strategici internazionali preannunciati negli ultimi mesi e alla necessità sempre più evidente di perseguire una politica da grande potenza da parte di Berlino.

Lo scambio di ruoli tra i politici Socialdemocratici più influenti era iniziato a fine gennaio con l’annuncio a sorpresa da parte del numero uno del partito, nonché ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, della sua rinuncia a candidarsi a cancelliere nelle elezioni generali previste per il prossimo mese di settembre.

Gabriel aveva proposto per la successione ad Angela Merkel l’ex presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, mentre in precedenza si era già assicurato un accordo con la maggioranza Cristiano-Democratica per l’elezione a presidente federale di Steinmeier.

Quest’ultimo è stato votato domenica a larga maggioranza dall’assemblea federale tedesca e succederà il 18 marzo prossimo a Joachim Gauck, non interessato, all’età di 77 anni, a ricoprire un secondo mandato quinquennale alla presidenza della prima potenza economica europea.

L’accoglienza di Steinmeier da parte della stampa anglo-sassone e, soprattutto, americana è stata significativa, dal momento che il leader della SPD è stato dipinto quasi universalmente come un fermo oppositore di Donald Trump. Steinmeier aveva infatti rilasciato svariati commenti pungenti nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca a partire dalla sua elezione nel mese di novembre.

Anche se nascoste dietro a una retorica che lasciava intendere vi fossero preoccupazioni per le tendenze anti-democratiche di Trump, le prese di posizione di Steinmeier hanno in realtà sempre avuto a che fare principalmente con questioni di diversa natura. Dopo il voto di domenica, in un’intervista alla ZDF il neo-presidente tedesco ha infatti parlato di un “completo riassestamento delle relazioni internazionali”, in atto dopo il successo di Trump.

Ancora, Steinmeier non ha negato che la classe dirigente tedesca dovrà fronteggiare uno scenario fatto, “nella migliore delle ipotesi”, di “incertezze e difficoltà nei rapporti transatlantici”. Il fatto che un capo di stato appena eletto a un incarico principalmente di rappresentanza abbia rilasciato dichiarazioni così allarmate nei confronti di un alleato la dice lunga sul potenziale conflitto tra Washington e Berlino che si profila nel prossimo futuro.

L’altro aspetto chiave della presidenza Steinmeier e, più in generale, dell’orientamento che la classe dirigente tedesca, o quanto meno una parte di essa, intende dare al paese tramite la leadership Socialdemocratica è emerso da un passaggio del discorso dell’ex ministro degli Esteri dopo il voto dell’assemblea federale. Steinmeier ha in sostanza invocato un ruolo di guida in Europa per la Germania, la quale dovrebbe costituire “un’ancora di speranza” nei tempi tumultuosi che stanno presumibilmente per arrivare.

In altre parole, dietro alle manovre dei leader politici tedeschi e, in particolare, di quelli della SPD vi è la sensazione, per non dire la certezza, che l’avvento di Trump alla Casa Bianca e l’impronta ultra-nazionalista della sua agenda comportino un inevitabile scontro tra gli interessi del capitalismo USA e di quello indigeno, come hanno già lasciato intendere le accuse lanciate alla Germania dal presidente americano.

A questo atteggiamento di sfida proveniente da Washington, Berlino intende rispondere con un irrigidimento delle proprie posizioni, ovvero gettando le basi per il perseguimento degli interessi del business tedesco in maniera indipendente, da un lato accelerando le spese militari per facilitare la conquista e il presidio di nuovi mercati e, dall’altro, rafforzando la leadership della Germania nell’Unione Europea.

Questi obiettivi sono tutt’altro che nuovi, anche se l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, l’evolversi degli scenari internazionali e l’avvicinarsi delle elezioni federali hanno introdotto più di una nota di urgenza, di cui si sono osservati appunto i segnali nelle recenti manovre dei vertici della Socialdemocrazia tedesca.

A partire almeno dal 2014, lo stesso Steinmeier, assieme a vari leader della CDU di Angela Merkel e al presidente uscente Gauck, aveva in varie occasioni auspicato un nuovo “ruolo globale” per una Germania che, alla luce del proprio peso economico e delle proprie ambizioni, non poteva più sottrarsi alle responsabilità internazionali.

Sulla stessa linea si è espresso più volte anche Sigmar Gabriel, non a caso subentrato nel mese di gennaio a Steinmeier nel ruolo di ministro degli Esteri del governo di Berlino. Gabriel ha anch’egli invocato una strategia sul piano economico e della sicurezza non necessariamente legata agli Stati Uniti. Anzi, un’eventuale guerra commerciale inaugurata dall’amministrazione Trump potrebbe aprire “opportunità” per la Germania e l’Europa, soprattutto in relazione agli scambi con la Cina.

In questo quadro, anche la candidatura di Schulz a cancelliere trova la principale spiegazione non solo nella difficoltà della SPD a far breccia tra gli elettori con un leader di basso profilo come Gabriel, ma anche e soprattutto nel moltiplicarsi delle richieste per dare una nuova rotta alla politica estera della Germania.

Anche l’ex presidente del parlamento europeo ha non a caso più volte attaccato Trump, ritornando sulla contrapposizione tra Berlino e Washington anche in una recente intervista rilasciata a Der Spiegel, nella quale ha ad esempio definito il neo-presidente USA un “pericolo per la democrazia”.

Per Schulz, Trump intende dividere l’UE e “distruggere il mercato europeo”. Simili minacce, ha aggiunto il candidato cancelliere della SPD, si possono combattere solo con “un vero rafforzamento dell’Unione”, ovviamente sotto la guida della Germania.

Con il ritorno di Martin Schulz sulla scena politica tedesca, il suo partito ha improvvisamente fatto segnare una certa avanzata nei sondaggi. Schulz, poi, sembra essere addirittura più gradito come cancelliere dagli elettori rispetto alla Merkel.

Al di là delle rilevazioni statistiche, sembrano esserci in realtà fortissimi interessi che spingono per un cambio ai vertici del governo di Berlino e la SPD appare come il partito preferito e meglio posizionato per operare un riassetto strategico che potrebbe implicare un conflitto con Washington.

Oltre al fatto che la SPD già in passato si era assunta responsabilità di governo in frangenti delicati per il capitalismo tedesco, basti pensare alla Ostpolitik di Willy Brandt o, più recentemente, alla “ristrutturazione” del welfare di Gerhard Schröder, vi sono dubbi sempre più forti che un nuovo gabinetto di centro-destra sia in grado di operare i cambiamenti di rotta necessari a contrastare l’eventuale ostilità di Washington e a promuovere gli interessi delle grandi aziende domestiche in un frangente storico caratterizzato da una competizione internazionale crescente.

A conferma di ciò, la stampa tedesca nei giorni scorsi ha evidenziato come la Merkel abbia salutato in maniera fin troppo cordiale l’elezione di Trump, pur ribadendo la presunta diversità dei valori sostenuti dalla Germania rispetto a quelli del neo-presidente USA. L’atteggiamento della cancelliera sarebbe non solo in contrasto con quello, molto più duro, di Schulz, ma, sul fronte opposto, appare in conflitto anche con l’entusiasmo mostrato dai vertici del principale alleato della CDU, la CSU bavarese, all’indomani del successo di Trump.

Le divisioni tra le due principali formazioni conservatrici tedesche sembrano in definitiva allargarsi e la volontà di emulare il populismo di Trump da parte della CSU minaccia l’implementazione dei nuovi obiettivi strategici, potenzialmente divergenti da quelli americani, che potrebbe essere chiamato a perseguire fin da subito il prossimo governo di Berlino.

di Michele Paris

Le conseguenze della disastrosa incursione condotta in Yemen il 29 gennaio scorso dalle forze speciali americane continuano a farsi sentire dopo che il governo del paese mediorientale in guerra ha fatto sapere di avere preso provvedimenti per limitare quanto meno i danni di immagine derivanti dalle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti.

Martedì, i giornali americani avevano riportato la notizia del ritiro da parte del governo yemenita del permesso, concesso agli USA, di condurre operazioni militari di terra sul proprio territorio per dare la caccia a presunti terroristi. Qualche ora più tardi, però, è arrivata la smentita parziale da parte delle stesse autorità dello Yemen.

Come ha scritto la Reuters dopo avere raccolto dichiarazioni da fonti locali, il governo riconosciuto internazionalmente avrebbe soltanto espresso a Washington le proprie “riserve” in merito al più recente blitz e chiesto “maggiore coordinazione con le autorità yemenite” nel rispetto della sovranità del paese. L’autorizzazione per le future operazioni non sarebbe stata dunque revocata.

La presa di posizione del governo dello Yemen, anche se dettata da ragioni di opportunità, è estremamente significativa. Se in apparenza la risposta al raid di dieci giorni fa potrebbe sembrare fin troppo cauta, essa va collegata alla natura di un esecutivo che conserva la propria legittimità internazionale proprio grazie al sostegno di Stati Uniti e Arabia Saudita, impegnati in un conflitto sanguinoso contro i “ribelli” sciiti Houthi che avevano di fatto preso il potere nella primavera del 2015.

Anche nel quadro del totale servilismo dovuto a Washington dal governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, gli esponenti di quest’ultimo si sono sentiti costretti a rilasciare una qualche dichiarazione critica nei confronti degli USA, vista la precaria situazione interna. Infatti, operazioni come quella del 29 gennaio non fanno che aggravare l’avversione della popolazione yemenita nei confronti degli Stati Uniti, rendendo ancora più complicata la posizione di un governo che controlla oltretutto solo una parte del paese nella penisola arabica.

L’incursione, in preparazione da almeno due mesi, è stata la prima autorizzata dalla nuova amministrazione Trump. Il neo-presidente aveva dato il via libera senza indugi all’operazione, verosimilmente dopo avere ricevuto le necessarie rassicurazioni da parte del Pentagono, ma l’esito è stato catastrofico su tutti i fronti. Se anche Trump avesse nutrito qualche dubbio, ciò che ha prevalso è stata comunque la necessità di mandare un messaggio di fiducia ai vertici militari a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca.

A nulla, se non ad aumentare l’imbarazzo, sono servite le dichiarazioni al limite del ridicolo dello stesso Trump e del suo portavoce, Sean Spicer, sul “completo successo” dell’operazione. La Casa Bianca, dopo il fiasco, ha provato a far credere che l’incursione aveva come obiettivo la semplice “raccolta di informazioni” sull’organizzazione terroristica al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Le sole modalità del blitz e le massicce forze impiegate smentiscono però clamorosamente questa versione. A partecipare alle operazioni vi erano decine di uomini agli ordini del Comando Centrale, responsabile delle forze armate USA in Medio Oriente, e di quello delle Forze Speciali, ma anche agenti della CIA e delle forze speciali degli Emirati Arabi Uniti. A sostegno di essi, si contavano inoltre elicotteri, aerei, droni e una nave da guerra al largo della costa yemenita.

L’obiettivo reale dell’operazione è stato con ogni probabilità rivelato qualche giorno fa dalla NBC ed era cioè il numero uno di AQAP, Qassim al-Raymi, considerato dagli Stati Uniti il terzo terrorista più pericoloso del pianeta. Il leader di al-Qaeda non è però finito tra le vittime del raid, essendo forse riuscito a fuggire grazie a una soffiata prima dell’operazione o, semplicemente, le informazioni sulla sua presenza nel villaggio preso di mira erano sbagliate.

Il colossale fallimento dell’operazione è costato un numero imprecisato di vittime civili. Alcune stime parlano di oltre 30 morti in totale, mentre per altri sarebbero state poco meno di 60. Tra di essi ci sono anche donne e almeno sette bambini, inclusa Nawar al-Awlaki, la figlia di otto anni di Anwar al-Awlaki, il predicatore di nazionalità americana ucciso su ordine di Obama sempre in Yemen da un drone nel settembre del 2011.

Un paio di settimane dopo l’assassinio di Awlaki, un'altra incursione con un drone USA aveva ucciso anche il figlio16enne di quest’ultimo. A descrivere l’agonia della figlia di Awlaki è stato il nonno, il quale ha raccontato di come la bambina sia stata colpita al collo da un proiettile e sia morta dissanguata in meno di due ore.

Com’è pratica comune per i vertici militari americani, inizialmente era stata smentita l’esistenza di vittime civili. Solo dopo l’apparizione in rete di immagini raccapriccianti e la diffusione dei resoconti dell’accaduto da parte dei sopravvissuti, il Pentagono ha fatto una parziale rettifica. Almeno un certo numero di donne uccise sono state tuttavia giudicate obiettivi legittimi, in quanto presunte sostenitrici di al-Qaeda. Dei bambini trucidati non è stata data invece nessuna indicazione sul loro possibile ruolo nell’organizzazione fondamentalista.

Secondo alcune ricostruzioni dei fatti accaduti la sera del 29 gennaio nel villaggio di Yakla, nella provincia di Bayda, i membri del commando americano sarebbero stati scoperti subito dopo l’inizio dell’operazione, forse grazie a una soffiata o, addirittura, in seguito all’abbaiare di un cane. Visto il bilancio delle vittime e l’elevato numero di civili tra di esse, è probabile che i militari abbiano a quel punto sparato a tutto ciò che si muoveva.

Nel conflitto a fuoco è rimasto ucciso anche il “SEAL” americano, William Owens, e proprio il suo decesso ha senza dubbio contribuito in maniera decisiva a portare la vicenda all’attenzione della stampa. Non solo, anche un elicottero MV-22 Osprey è stato danneggiato e in seguito distrutto da velivoli militari americani appositamente inviati.

I punti oscuri del raid restano numerosi. Il leader di AQAP, in un messaggio diffuso dopo l’attacco, ha ammesso che tra le vittime c’erano 14 suoi uomini. Secondo la testata on-line Middle East Eye, invece, molte testimonianze raccolte nel villaggio hanno smentito la presenza di guerriglieri di al-Qaeda. Piuttosto, gli appartenenti ai clan locali avrebbero preso le armi, ampiamente diffuse in Yemen, e iniziato a sparare contro il commando americano dopo che i soldati avevano fatto irruzione nelle abitazioni uccidendone gli occupanti, incluse donne e bambini.

Per altri, ancora, il disastro dell’operazione dimostrerebbe la profonda ignoranza americana della realtà dello Yemen o, peggio ancora, la più o meno deliberata intenzione di fomentare odio ed estremismo, forse per alimentare una minaccia terroristica che consente a Washington di perpetuare la propria presenza militare in aree strategicamente rilevanti del pianeta, come la penisola arabica.

A Yakla, infatti, non vi era probabilmente nessuna base qaedista ma, in un intreccio tribale e di interessi locali difficile da sciogliere, forse soltanto famiglie o gruppi di individui che talvolta stabiliscono alleanza temporanee con al-Qaeda o formazioni armate vicine ad essa.

Singolarmente, almeno in apparenza, questi gruppi sono spesso sostenuti finanziariamente e militarmente dall’Arabia Saudita, il cui regime li recluta per combattere i “ribelli” Houthi. A conferma di ciò, sempre l’indagine di Middle East Eye ha citato testimoni che assicurano come nell’operazione americana siano morti almeno tre leader tribali di spicco che facevano parte di un gruppo di combattenti impegnato contro gli Houthi e, quindi, di fatto a fianco dei sauditi.

A complicare il quadro c’è infine anche il fatto che al-Qaeda nella Penisola Arabica, ufficialmente obiettivo numero uno dell’anti-terrorismo USA, ha notevolmente allargato il territorio sotto il proprio controllo in Yemen grazie alla guerra scatenata da Riyadh con l’appoggio americano, dopo che in precedenza svariate analisi avevano giudicato ormai quasi irrilevante l’influenza dell’organizzazione nel paese.

Nonostante tutti i dettagli dell’incursione americana siano ben lontani dall’essere noti, quanto è accaduto in Yemen è un ulteriore esempio della criminalità e del disinteresse per le vite umane e la stabilità di paesi sovrani con cui il governo e i militari degli Stati Uniti conducono i propri affari internazionali.

Inoltre, con l’autorizzazione al massacro del 29 gennaio, il neo-presidente Trump ha confermato la sua intenzione di raccogliere la sanguinosa eredità di Obama in questo paese, già teatro di precedenti incursioni di terra finite in tragedia, di un’incessante campagna condotta con i droni che continua a mietere vittime civili e di una guerra cruenta per ristabilire l’autorità di un governo-fantoccio che salvaguardi gli interessi nella regione degli Stati Uniti e del regime saudita.

di Mario Lombardo

Con il lancio delle campagne elettorali di tre probabili protagonisti delle elezioni presidenziali francesi, in programma tra i mesi di aprile e maggio prossimi, la corsa alla successione a François Hollande all’Eliseo è di fatto partita ufficialmente lo scorso fine settimana. L’estrema impopolarità del presidente uscente, i riflessi dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il discredito dei tradizionali partiti borghesi e la quasi totale assenza di un candidato in grado di rappresentare lavoratori e classe media rendono l’atmosfera esplosiva, con la concreta possibilità che a beneficiarne sia uno degli “outsider”, a cominciare dalla numero uno del Fronte Nazionale (FN), Marine Le Pen.

La candidata di estrema destra ha chiuso domenica una due giorni del suo partito a Lione, durante la quale aveva denunciato le “tirannie” della globalizzazione, dell’Unione Europea e del fondamentalismo islamico. Ricorrendo alla consueta strategia populista della destra estrema e sfruttando il vuoto quasi totale a sinistra, la Le Pen è stata in grado di proporsi come l’unico candidato “del popolo”.

Nel suo discorso ha poi evitato accuratamente qualsiasi analisi di classe della realtà economica e sociale odierna in Francia, per presentare un quadro profondamente fuorviante caratterizzato, a suo dire, da una “divisione non più tra destra e sinistra”, cioè tra diversi interessi di classe, bensì “tra patriottismo e globalizzazione”.

Le difficoltà dei francesi comuni, per la Le Pen, sarebbero perciò dovute al fatto che essi “sono stati privati del loro patriottismo” e soffrono dunque “in silenzio perché non è permesso loro di amare il proprio paese”. I toni apocalittici di una Francia che ha perso la propria libertà e identità di fronte all’offensiva dell’Islam e del capitalismo internazionale, ma non di quello indigeno, serve in sostanza a dirottare in senso ultra-nazionalista e xenofobo le frustrazioni più che legittime di decine di milioni di francesi abbandonati dalla sinistra.

In uno scenario dominato da austerity, precarietà e disoccupazione, nonché da un Partito Socialista che ha fatto registrare un’ulteriore drammatica deriva neo-liberista durante il mandato di Hollande, la piattaforma del “Front National”, che include misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento della spesa per il welfare o l’accesso gratuito all’educazione per i francesi non può che incontrare un certo consenso. Lo stesso vale anche per l’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, in cima al programma politico della Le Pen.

I sondaggi di opinione più recenti in Francia danno Marine Le Pen come probabile vincitrice del primo turno delle presidenziali, davanti all’ex banchiere ed ex ministro Socialista ora “indipendente”, Emmanuel Macron, largamente in vantaggio invece in un ipotetico ballottaggio. Anche Macron ha inaugurato ufficialmente la sua campagna a Lione nel corso del fine settimana.

Dopo avere abbandonato il Partito Socialista (PS) la scorsa estate, il 39enne Macron aveva lanciato la propria candidatura all’Eliseo sfruttando la sua immagine di giovane vincente, modernizzatore e progressista sulle questioni sociali, in modo da mascherare un impopolare progetto ultra-liberista in ambito economico.

I suoi riferimenti sono l’alta borghesia francese che vede con orrore l’approdo di Trump alla Casa Bianca e che, per salvaguardare i propri interessi, auspica il mantenimento del ruolo strategico della NATO, la sopravvivenza dell’UE e il rilancio della partnership con Washington e Berlino. A favore della sua candidatura si sono inoltre già espressi in molti in un PS a rischio spaccatura, soprattutto tra coloro che, nella destra di questo partito, ritengono di dover reagire alla crisi che sta attraversando liberandosi anche formalmente della retorica e dell’immagine esteriore progressista per abbracciare senza riserve i “valori” del mercato.

Comprensibilmente, sul fronte economico Macron ha finora evitato di entrare nei particolari del suo programma, mentre in politica estera ha ricalcato le posizioni della destra Socialista, basate sul militarismo e la demonizzazione di paesi come Russia o Iran.

I progressi di Macron evidenziati nelle ultime settimane dai sondaggi sono dovuti in primo luogo al tracollo del candidato della destra gollista del partito “Les Républicaines” (“I Repubblicani”), François Fillon. Dopo le primarie, l’ex primo ministro sembrava dover essere il favorito assoluto per l’Eliseo, ma un recente scandalo sembra essere sul punto di affondarne la candidatura.

Un giornale satirico francese aveva rivelato come la moglie di nazionalità britannica era stata pagata complessivamente circa un milione di euro per impieghi di assistente parlamentare che non avrebbe invece mai svolto. Negli ultimi giorni, il caso si è addirittura aggravato e i primi interrogatori dei coniugi hanno inoltre evidenziato varie contraddizioni.

Le voci all’interno de "I Repubblicani" che chiedono un passo indietro di Fillon iniziano ormai a farsi sentire, anche se quest’ultimo ha per ora escluso l’abbandono della corsa e ha anzi annunciato l’intenzione di rilanciare la sua campagna.

Se la vicenda in cui è invischiato Fillon è effettivamente grave, non si può evitare di far notare come essa sia emersa subito dopo una sua visita in Germania, durante la quale aveva rilasciato interviste ampiamente riportate in tutta Europa proponendo, tra l’altro, una sorta di asse tra Parigi, Berlino e Mosca in risposta alle tendenze ultra-nazionalistiche del neo presidente americano Trump.

Per quanto riguarda i candidati di “sinistra” all’Eliseo, quello del Partito Socialista, Benoît Hamon, sembra avere già perso anche la minuscola spinta del successo inaspettato nelle primarie sull’ex primo ministro, Manuel Valls. Hamon, appartenente alla “fronda” anti-Hollande del suo partito, dovrebbe contendere a Jean-Luc Mélenchon del Partito di Sinistra (PG) il quarto posto nel primo turno delle presidenziali.

Anche Mélenchon ha lanciato la sua campagna domenica scorsa apparendo in collegamento da Parigi a un evento organizzato a Lione. Pur attaccando le iniziative anti-sociali dei governi nominati dal presidente uscente, Mélenchon ha lasciato intendere di essere disponibile a un accordo elettorale con Hamon nel tentativo disperato di portare un candidato della “sinistra” francese al secondo turno.

La situazione a poche settimane dal voto resta dunque estremamente fluida, così da alimentare i timori di quanti temono un risultato che potrebbe avere conseguenze rovinose sulle già precarie istituzioni europee che hanno garantito la stabilità del capitalismo occidentale a partire dal secondo dopoguerra.

Scorrendo i giornali francesi e non solo, si ricava l’impressione che il fronte anti-Le Pen, che fino al recente passato aveva tenuto lontano dagli incarichi di potere che contano l’estrema destra neo-fascista, potrebbe non essere sufficiente in questa occasione. I sondaggi che indicano una comoda vittoria di Macron o Fillon su Marine Le Pen sembrano essere infatti poco confortanti, alla luce sia degli abbagli presi da simili rilevazioni in molte competizioni elettorali nei mesi scorsi sia della difficoltà nel prevedere la direzione che prenderà il massiccio voto di protesta.

Macron, Fillon o lo stesso Hamon, nel caso uno dei tre dovesse confrontarsi al secondo turno con la leader dell’FN, avrebbero tutti dei fortissimi handicap che potrebbero far pendere l’ago della bilancia a favore della candidata di estrema destra. Il primo, malgrado i favori della stampa e di buona parte della classe dirigente d’oltralpe, presenta grossi limiti di popolarità dovuti in primo luogo al suo passato di banchiere d’investimenti e a un’agenda economica di stampo liberista.

Fillon, da parte sua, è su posizioni simili se non ancora più estreme in ambito economico, mentre la vicenda dei compensi alla moglie continuerà a perseguitarlo, se pure dovesse riuscire a salvare la propria campagna elettorale.

Hamon, infine, anche nel caso si qualificasse miracolosamente per il secondo turno, sarà associato al super-impopolare Hollande e, ad ogni modo, molto difficilmente riuscirà a dirottare su di sé il voto degli elettori di destra e centro-destra che vedono oggi il Fronte Nazionale in una luce molto meno minacciosa rispetto a qualche anno fa.

di Michele Paris

Le proteste più massicce dalla fine del regime stalinista di Ceausescu, che animano da giorni le principali città della Romania, potrebbero proseguire anche nel prossimo futuro nonostante la decisione presa domenica dal governo Social Democratico di ritirare un decreto di emergenza che prospettava una sorta di amnistia per i politici corrotti del paese balcanico. Il provvedimento, assieme al discredito della classe politica romena, ha spinto oltre mezzo milione di persone nelle strade a partire da mercoledì scorso per manifestare contro un gabinetto formato poche settimane fa in seguito a quella che era apparsa a tutti gli effetti come una netta vittoria nelle elezioni parlamentari di dicembre del Partito Social Democratico (PSD).

Il rapido mutare delle fortune dei governi romeni non è d’altra parte cosa nuova. Sempre i Social Democratici erano stati bersaglio di proteste popolari già nel corso del 2015, quando, nel mese di novembre, l’allora primo ministro Victor Ponta era stato costretto alle dimissioni. In quel caso, le accuse di corruzione si erano saldate alla rabbia dovuta a un incendio scoppiato in una discoteca di Bucarest, nel quale erano morte 64 persone.

Se le proteste rappresentavano e rappresentano in buona parte uno sfogo genuino contro il degrado della politica in Romania e le condizioni di vita della maggior parte della popolazione, sia quelle del 2015 sia quelle attualmente in atto sono state sfruttate dall’Occidente e da determinare fazioni della classe dirigente indigena per regolare i propri conti.

In seguito alle dimissioni di Ponta, il presidente romeno filo-tedesco Klaus Iohannis, membro del Partito Nazionale Liberale (PNL) di centro-destra prima di diventare “indipendente”, aveva nominato a capo di un governo tecnico l’ex commissario europeo Dacian Ciolos. Dopo appena un anno, le dure politiche di austerity implementate da quest’ultimo avevano però riconsegnato la maggioranza al PSD.

Il nuovo esecutivo è guidato ora dal primo ministro Sorin Grindeanu, dal momento che il leader del partito, Liviu Dragnea, risulta ineleggibile a causa di una condanna per frode elettorale, mentre deve far fronte anche a ulteriori accuse per abuso di potere. Dragnea sarebbe stato perciò uno dei principali beneficiari del provvedimento presentato martedì scorso dal governo. Tra le misure da esso previste vi erano l’amnistia per sentenze inferiori ai cinque anni, anche se solo per certi crimini, e la depenalizzazione di alcune forme di corruzione nel caso le somme passate di mano fossero state inferiori a circa 44 mila euro.

I leader delle proteste hanno comunque promesso di continuare la mobilitazione. I timori riguardano la possibilità che alcune delle misure previste dal decreto, ritirato dal governo nella serata di domenica, possano rientrare in un disegno di legge da presentare al parlamento, dove la coalizione tra il PSD e l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici (ALDE) di centro-destra detiene la maggioranza. Secondo alcuni, l’obiettivo dei manifestanti potrebbe anche essere la caduta del governo Social Democratico di Grindeanu.

Il primo ministro, per cercare di limitare i danni ha chiesto un rapporto al ministro della Giustizia, Florin Iordache, sulla gestione della vicenda relativa al decreto sull’amnistia, in previsione di un possibile allontanamento di quest’ultimo dal governo.

I casi di corruzione che coinvolgono personalità politiche, anche di spicco, sono numerosissimi in Romania e riguardano praticamente tutti i principali partiti. Fin dal 2002 è stata creata una speciale Direzione Nazionale Anti-Corruzione (DNA) che negli ultimi anni ha incrementato notevolmente la propria attività, tanto che oggi si contano procedimenti aperti a carico di oltre duemila politici.

In uno scenario simile, era inevitabile e legittimo che una legge come quella avanzata dal governo settimana scorsa venisse accolta con rabbia dalla gran parte della popolazione romena. Dietro alle proteste e allo scontro politico sul decreto in questione vi è però anche un’aspra lotta di potere, all’interno della quale la crociata anti-corruzione è stata frequentemente usata come arma politica.

Se il leader del PSD Dragnea ha prevedibilmente accusato i manifestanti di essere manipolati e “organizzati in maniera professionale” per colpire il governo guidato dal suo partito, in un’intervista alla televisione romena, riportata dall’agenzia di stampa locale Agerpres, ha anche collegato gli eventi degli ultimi giorni nel paese all’evolversi del quadro internazionale.

Dragnea ha fatto una serie di riferimenti obliqui, citando “la situazione complicata in Moldavia”, ma anche “il contesto europeo e internazionale” dopo “l’elezione del nuovo presidente americano”. In effetti, il calcolo politico immediato dell’opposizione di centro-destra ha indubbiamente influito sulle proteste, come conferma ad esempio la partecipazione del presidente Iohannis a una delle prime manifestazioni anti-governative lo scorso mese di gennaio.

In gioco ci sono però anche gli equilibri strategici in Europa orientale nella competizione tra Stati Uniti, Unione Europea – in prima linea nel condannare l’iniziativa del governo di Bucarest – e Russia in una fase di transizione tra un’amministrazione Obama ferocemente anti-russa e il nuovo governo di Donald Trump che sembra intenzionato a ristabilire rapporti più distesi con Mosca a discapito di quelli con Bruxelles.

Una parte della classe dirigente americana e di quella europea teme inoltre che anche in Romania si possa insediare un governo meglio disposto verso la Russia, come già accaduto, sia pure con gradazioni diverse da caso a caso, in Ungheria, Slovacchia o Repubblica Ceca.

I Social Democratici romeni sono stati in realtà fedeli esecutori delle direttive europee e americane dopo la caduta del regime stalinista, nonché sostenitori della NATO. Ciononostante, i partiti “post-comunisti” in Europa orientale continuano a essere visti con un qualche sospetto nelle cancellerie occidentali, perché esposti presumibilmente all’influenza di Mosca e, quindi, potenzialmente pronti a farsi carico di un’eventuale svolta strategica se le circostanze internazionali lo richiedessero.

Ciò è precisamente quanto sta accadendo nella vicina Bulgaria, dove lo scorso mese di novembre un candidato “indipendente” sostenuto dal Partito Socialista ha vinto le elezioni presidenziali promettendo un riavvicinamento alla Russia. A marzo, inoltre, si voterà anticipatamente per il rinnovo del parlamento di Sofia con i Socialisti favoriti per riconquistare la maggioranza.

L’elezione di Trump ha poi complicato il quadro, con le prime avvisaglie di un conflitto tra USA e Germania già più che evidenti. I leader del PSD romeno, da parte loro, fin dall’approdo di Trump alla Casa Bianca hanno cercato di entrare nelle grazie del nuovo presidente americano, provocando i malumori del presidente Iohannis e degli ambienti di potere legati a Berlino e a Bruxelles.

Per quanto riguarda infine la lotta alla corruzione in Romania, condotta dall’apposita Direzione Nazionale e minacciata dal decreto del governo Grindeanu, l’operato di questa agenzia è messo in discussione da molti e non solo tra i membri del partito – il PSD, appunto – che conta finora il maggior numero di indagati e condannati.

La DNA opera infatti a stretto contatto con i servizi segreti romeni (SRI), suscitando i sospetti di quanti attribuiscono a questi ultimi la manipolazione delle accuse di corruzione a fini politici. Questi timori erano stati sollevati ad esempio in un approfondimento pubblicato dalla testata online Politico.eu già nell’aprile del 2016.

L’articolo, pur elogiando gli sforzi per combattere la corruzione fatti dalla Romania, ammetteva come in molti nel paese balcanico percepivano l’esistenza di uno “stato parallelo legato alla struttura della Securitate” che muove tuttora i fili della politica dietro le quinte. Ciò appariva tanto più preoccupante alla luce dell’importanza “cruciale” dell’intelligence per il successo della DNA.

Viste le implicazioni della vicenda che sta interessando la Romania, dunque, è facile prevedere che la crisi politica non si chiuderà tanto facilmente, anche nel caso il governo Social Democratico dovesse riuscire a contenere le proteste e a evitare clamorose dimissioni ad appena un mese dal proprio insediamento.

di Fabrizio Casari

Freedom House, assai nota ma poco conosciuta organizzazione statunitense, ha diramato nei giorni scorsi un rapporto sul Nicaragua che lascia esterrefatti. Disegnato sulla base di uno schema politico precostituito, aggressivo ed antigovernativo, il rapporto si limita a copiare quanto l’ultra destra nicaraguense afferma da tempo: ovvero che in Nicaragua la democrazia starebbe indietreggiando e che il recente risultato elettorale sarebbe stato falsato dal Frente Sandinista.

Il fatto che gli organismi internazionali indipendenti di controllo e valutazione del voto abbiano certificato il regolare svolgimento delle operazioni di voto, che l’astensione certificata sia stata del 37 per cento e che lo spoglio abbia indicato la vittoria sandinista con il 72,5 per cento dei voti, risulta indifferente per Freedom House. Lo stesso riconoscimento di legittimità fornito dall’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), della quale gli stessi USA sono parte, non sembra inculcare il seme del dubbio nell’organizzazione diretta dalla destra statunitense che ama travestirsi da ONG.

Destra che, del resto, si guarda bene anche dal riconoscere quello che è palese a tutti gli osservatori nicaraguensi e internazionali: la mancata presentazione della lista del MRS non è una protesta contro il sandinismo, si spiega con le proiezioni che gli istituti demoscopici gli assegnavano, ovvero una poco gloriosa percentuale tra il 2 e il 3 per cento dei voti.

Che Freedom House corra in aiuto al MRS non deve stupire: con le vergognose processioni a Washington e Miami per ottenere il voto sul Nica Act, provvedimento di natura tardo-coloniale con il quale si vorrebbe imporre al Nicaragua l’obbedienza alla destra statunitense, l’MRS si è guadagnato sul campo l’iscrizione al club di William Walker. Contano ora sul nuovo staff del Dipartimento di Stato che si occuperà di America Latina; i nomi indicano un combinato disposto di ex terroristi (come Otto Reich) ed agenti CIA direttamente impegnati nelle strategie golpiste statunitensi nel continente.

La speranza della destra nicaraguense è che un simile staff possa spingere Trump ad una posizione bellicista contro Managua e a questo fine è destinata la strategia politica e mediatica contro il governo Ortega, della quale Feedom House è parte diligente.

Freedom House, che si spaccia come ONG a difesa della democrazia, è in realtà una branca del sistema propagandistico degli Stati Uniti. L’idea dalla quale nacque Freedom House venne a F.D. Roosevelt, nel 1941, quando vennero create diverse associazioni negli Stati Uniti il cui scopo era quello di preparare ideologicamente il Paese alla guerra. Si riunificarono poco prima dell’attacco a Pearl Harbor e trovarono una casa comune a New York: la Casa della Libertà, Freedom House, per l’appunto. Ma la casa vera era, ed è tuttora, la Casa Bianca.

Furono numerosissime le associazioni ed i premi che, grazie a Freedom House, videro la luce, ma le campagne più significative furono a sostegno del Piano Marshall, della Nato e della guerra in Viet-nam. Lo slogan preferito? “Stati Uniti, paese della libertà”.

Nel 1982, quando Reagan decise di aprire la Fondazione Nazionale per la Democrazia (FED), con lo scopo di rendere presentabili le covert action della CIA, Freedom House smise di brillare di luce propria per divenire un settore del ben più ampio dispositivo di propaganda della Casa Bianca. Da quel momento la NED (National Endowment for Democracy) assorbì e sovvenzionò Freedom House, che a sua volta cofinanziò e realizzò alcuni progetti della NED, ampliando così la sfera dell’intervento politico-mediatico a sostegno delle amministrazioni USA.

Oltre 70 anni di attività lo dimostrano: Freedom House sta alla CIA come la pelle alle ossa. Per averne conferma basta leggere i nomi di alcuni che sono stati tra i suoi esponenti più importanti, vero e proprio mix di intelligence e diplomazia, spesso parallela, statunitense.

Alcuni esempi? Presidente di Freedom House è stato per lungo tempo James Woolsey, ex capo della CIA. Il suo Consiglio d’amministrazione, nel corso della sua storia, vide tra gli altri la presenza di uomini di punta dell’intelligence a stelle e strisce: tra questi l’ex ambasciatore Thomas Foley, (che fu presidente della Commissione Trilateral ed ex presidente del Consiglio d’intelligence); Malcom Forbes (Forbes magazine); Samuel Huntington (teorico dello scontro di civiltà); Jeane Kilkpatrick (ex ambasciatrice di Reagan all’Onu) e, ciliegina sulla torta, Diana Villiers (moglie di John Negroponte, ex coordinatore di tutta l’intelligence USA).

Già solo la presenza di queste ed altre figure nel board dell’organizzazione può indicare il ruolo di Freedom House. Lungi dall’essere una ONG, è una organizzazione politica incaricata di redigere analisi e rapporti importanti per gli orientamenti di politica estera dell’amministrazione statunitense.

Fu il Presidente George W. Bush a incaricare Freedom House di presentare un rapporto annuale sulle libertà pubbliche ed i diritti politici nel mondo. A seguito di questo, gli Stati Uniti decidono se dare o negare aiuti allo sviluppo nel quadro della Millenium Challenge Corporation. Freedom House prepara insomma il terreno; è il retroterra, l’essenza di quella “ingerenza democratica” che precede le guerre preventive.

Associazioni per la libertà di stampa e per la libertà religiosa, arruolamento di dissidenti dei paesi dell’Est e di intellettuali europei a prezzi di saldo, invio di articoli già confezionati per i principali giornali in lingua inglese, uffici in mezzo mondo; Freedom House partecipò in prima linea alla nuova guerra fredda patrocinata da Reagan e da Bush padre.

In relazione al Nicaragua la storia di Freedom House trova conferma di modalità e finalità del suo agire come copertura d’immagine al lavoro della CIA. Nel 1988, infatti, Freedom House creò un gruppo di lavoro sull’America Centrale il cui obbiettivo principale era quello di diffondere la disinformazione sul governo sandinista. Per l’occasione, vennero coinvolti anche sindacalisti della Afl-Cio.

Nel 1983, di fronte all’esplodere dello scandalo Iran-Contras, Reagan decise di ristrutturare l’apparato di propaganda, definito “diplomazia pubblica”. Walter Raymond, Direttore del Consiglio Nazionale di Sicurezza, organizzò un comitato di supervisione dove inserì, per conto di Freedom House, Leonard R. Sussman e Leo Cherma, quest’ultimo specialista della guerra psicologica. A capo della segreteria delle operazioni arrivò Otto Reich. Il curriculum di quest’ultimo parla chiaro: agente CIA, legatissimo ai cubani di Miami e ispiratore del fallito colpo di stato confindustriale del 2000 in Venezuela, ai vertici del dipartimento per l’America latina dell’amministrazione Bush (ed ora, appunto, ripescato da quella Trump).

Negli anni ’90 l’attività dell’associazione si ampliò all’est europeo e ad alcuni paesi del Maghreb, tra i quali Giordania e Algeria. Nel 1999 creò il Comitato statunitense per la pace in Cecenia, diretto dall’ex Consigliere della Sicurezza Nazionale Brzezinski e da Alexander Haig, il primo segretario di Stato di Reagan. Ottenne l’appoggio dell’influente Istituto democratico per gli Affari Internazionali di Madeleine Albright, vera e propria enclave democratica nella Ned e nella CIA. Sono innumerevoli le organizzazioni e le associazioni statunitensi che Freedom House coinvolse nei suoi progetti.

Lo scopo era quello di contattare ogni possibile organizzazione dalle stesse finalità presenti nel campo socialista e di farlo attraverso sigle che apparentemente non destassero particolari sospetti. Contatti, accordi, nomi e analisi arrivavano sulle scrivanie di Langley e nei rapporti alle varie agenzie dalle quali Freedom House dipendeva e dipende e che, a loro volta, dal lavoro di Freedom House traggono enormi vantaggi per le loro operazioni.

É dagli uffici di Freedom House che nacque l’idea della jihad afghana ed è sempre la stessa associazione che chiese a Osama bin Laden, allora fervente agente CIA e capo dei Talebani, di aiutare l’esercito musulmano in Bosnia.

Nel 2002, Freedom House creò in Ungheria, con l’appoggio della Usaid, un servizio web per le Ong dell’Europa centrale. Nello stesso periodo condusse la campagna di riabilitazione del partito Arena in El Salvador, eredità politica degli squadroni della morte del maggiore Roberto D’Abuisson, assassino tra gli altri di Monsignor Romero. Arena entrò a far parte della Lega Anticomunista Mondiale con uno dei suoi uomini più fidati, Antonio Saca, Presidente di El Salvador dal 2004 al 2009 grazie ai brogli ai danni del Comandante Shafick Handal, candidato del FLMN. Un approccio stravagante alla difesa dei diritti umani.

Pur se negli ultimi anni i suoi sforzi si sono concentrati nell’organizzare proteste in Serbia e Kirzighistan e colpi si stato in Georgia e Ucraina, l’attività di Freedom House in America latina è rimasta intensa. Oltre al Nicaragua, per alcuni periodi Cuba è stata il più importante obbiettivo della sua iniziativa. Il coinvolgimento di Freedom House nel “Programma Cuba”, in ottemperanza alla sezione 109 della legge Helms-Burton del 1996, era nato con l’elargizione di un milione e mezzo di dollari provenienti dai fondi della NED.

Il lavoro di Freedom House aveva nei suoi punti fondamentali localizzare e reclutare giornalisti, esponenti politici e Ong dell’est europeo da inviare a Cuba a sostegno dei cosiddetti dissidenti. Lo riconobbe pubblicamente nel giugno del 2000 la stessa Freedom House, quando ammise di aver organizzato e finanziato il viaggio a Cuba di quattro giornalisti, due economisti e un accademico dell’est Europa con il fine di redigere articoli, relazioni ed analisi destinate a formare opinione internazionale contro l’isola caraìbica.

A capo dell’operazione, tanto per non smentirsi, fu insediato Frank Calzon, terrorista di origine cubana, ufficiale CIA legatissimo alla FNCA di Miami (la Fondazione Nazionale Cubano Americana, epicentro del terrorismo contro l’isola).

Le regole, di Freedom House come della NED, alla fine, sembrano essere due: il primo amore non si scorda mai, i vecchi amici non si dimenticano. E l’inedita sintonia con l’ultradestra degli ex-sandinisti indica che gli antichi nemici, se convertitisi alla religione annessionista, anche solo per frustrazione o per guadagno, possono diventare i nuovi amici. L’odio e i dollari, quando corrono insieme, possono far rileggere il passato e falsare il presente, allo scopo di darsi un futuro.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy