di Michele Paris

L’invasione della Siria, iniziata ormai più di una settimana fa, da parte dell’esercito turco ha ulteriormente complicato una situazione già abbastanza complessa nel paese mediorientale in guerra dal 2011. L’azione militare decisa dal presidente Erdogan era programmata da tempo, ma la sua attuazione è alla fine avvenuta forse nel momento più delicato attraversato da entrambi i paesi in questi ultimi anni.

Nel cercare di interpretare il primo deliberato ingresso di truppe regolari straniere in territorio siriano dall’inizio del conflitto senza il consenso del governo di Damasco, è necessario separare gli obiettivi di Ankara dalle aspettative delle altre forze coinvolte nel teatro di guerra.

Come hanno spiegato i media di tutto il mondo, il governo di Erdogan è passato all’azione dopo che le forze curde siriane avevano strappato al controllo dello Stato Islamico (ISIS/Daesh) alcune città a ovest dell’Eufrate, come Jarablus e Manbij. L’avanzata delle Unità di Protezione Popolare curde (YPG) è percepita come una grave minaccia dal governo turco, il quale intende a tutti i costi impedire la formazione di un’entità curda di fatto autonoma nel nord della Siria per evitare spinte indipendentiste promosse dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) entro i propri confini.

L’obiettivo primario della Turchia in Siria è dunque quello di annullare parte delle conquiste curde, mentre la guerra all’ISIS/Daesh, le cui operazioni Ankara ha a lungo favorito, appare più che altro come una copertura per incassare il consenso all’invasione da parte americana. Gli uomini dello pseudo-califfato non hanno d’altra parte opposto praticamente resistenza all’avanzata turca nei giorni scorsi, mentre intensi sono stati gli scontri con le forze curde, prima del ritiro di queste ultime anche dietro indicazione degli Stati Uniti.

L’invasione turca della Siria, a tutti gli effetti in violazione del diritto internazionale, ha messo a nudo le contraddizioni di una condotta americana ormai quasi allo sbando. L’amministrazione Obama ha subito dato il proprio sostegno all’iniziativa militare di Erdogan, con ogni probabilità intravedendo in essa un modo per accelerare il rovesciamento del regime di Assad, tuttora il proprio principale obiettivo nella guerra siriana.

Allo stesso tempo, l’alleato turco si è scontrato con le milizie curde che, nell’ambito delle cosiddette Forze Democratiche della Siria (SDF), sono sostenute dal Pentagono e hanno rappresentato finora la forza più efficace nella lotta all’ISIS/Daesh promossa da Washington. Gli scenari appaiono però ancora più complicati, visto che gli uomini di Ankara stanno avanzando oltreconfine assieme a gruppi armati sunniti che fanno parte del redivivo Libero Esercito della Siria (FSA), a sua volta appoggiato dalla CIA.

Il pericolo del protrarsi di uno scontro fratricida su più livelli ha spinto perciò Washington a invitare la Turchia a cessare gli attacchi contro i curdi. Martedì, gli Stati Uniti avevano annunciato il raggiungimento di un cessate il fuoco nel nord della Siria, ma il governo di Ankara il giorno dopo ha smentito qualsiasi accordo con i curdi, ribadendo anzi la volontà di continuare a combattere fino a quando questi ultimi “non rappresenteranno più una minaccia per la popolazione turca” o, quanto meno, fino a che non si saranno ritirati a est dell’Eufrate.

Le scintille tra USA e Turchia sembrano dunque smentire la tesi di quanti ritengono che l’invasione in atto della Siria sia una manovra contro la Russia concordata in pieno dai due alleati NATO, i cui rapporti rimarrebbero perciò ottimi nonostante lo scontro seguito al fallito colpo di stato contro Erdogan del luglio scorso.

Ciò sarebbe teoricamente possibile, anche perché la Turchia continua a ritenere che Assad non possa far parte del futuro della Siria, nonostante un qualche attenuamento dei toni nei confronti del regime di Damasco negli ultimi mesi. Tuttavia, lo scontro tra Ankara e Washington sembra essere reale e i passi fatti da Erdogan per ristabilire relazioni cordiali con la Russia difficilmente possono essere considerati una semplice cortina di fumo.

Gli Stati Uniti hanno inoltre visto complicarsi i loro progetti di guerra all’ISIS/Daesh dopo un’iniziativa turca che ha costretto il Pentagono di fatto a scaricare le milizie curde. Come hanno fatto notare molti commentatori, le forze dell’YPG avrebbero dovuto guidare l’assalto alla capitale dello pseudo-califfato in Siria - Raqqa - ma il trattamento avuto dagli USA rende improbabile un loro nuovo sacrificio nel prossimo futuro.

L’impressione che si ricava dalle vicende di queste settimane è piuttosto che l’amministrazione Obama, rimasta relativamente spiazzata dalla mossa di Erdogan, non abbia avuto altra scelta che assecondarla, anche per impedire un ulteriore spostamento della Turchia verso l’orbita russa.

Mosca e Damasco, da parte loro, malgrado l’inevitabile condanna a livello ufficiale, hanno accettato, probabilmente a denti stretti, l’invasione turca come una sorta di ricompensa per l’inversione di rotta strategica di Erdogan, in modo anche da consentire a quest’ultimo di non ritrovarsi a mani vuote in un eventuale processo di pace, a cui invece avrebbero potuto prendere parte i curdi forti dei recenti successi militari.

Un’analisi pubblicata nei giorni scorsi dalla testata kuwaitiana AlRai ha inoltre ipotizzato che “la Russia ha accettato l’incursione turca in territorio siriano a causa della dichiarata ostilità dei curdi nei confronti del governo di Damasco”. L’YPG aveva infatti attaccato l’esercito di Assad nella città di al-Hasakah, espellendolo dai suoi sobborghi con l’appoggio americano.

Per l’autore del pezzo, questi scontri tra i curdi e l’esercito regolare, dopo un lungo periodo di tacita collaborazione, sarebbero il segnale delle intenzioni striscianti di giungere a una suddivisione della Siria su base settaria. Un obiettivo, quest’ultimo, che incontra i favori, oltre che della minoranza curda, degli Stati Uniti, ma non della Russia né, ovviamente, del regime di Assad.

Un altro giornale mediorientale - il libanese As Safir - ha addirittura azzardato l’esistenza di un accordo militare tra Ankara e Damasco che potrebbe anticiparne un altro ancora più clamoroso di natura politica. In sostanza, secondo questa tesi, i turchi dovrebbero allentare la pressione su Aleppo, chiudendo le vie di rifornimento ad alcuni gruppi armati “ribelli” che si battono contro il regime, in cambio del via libera nel nord della Siria per “distruggere il progetto [indipendentista] curdo”.

Uno scenario simile comporta la fissazione di limiti ben precisi all’azione turca, secondo alcuni dettati a Erdogan da Putin. La natura imprevedibile e impulsiva del presidente turco, a differenza di quello russo, comporta però un margine più o meno ampio di dubbio sull’evoluzione delle vicende siriane. Anche perché la Russia, così come l’Iran, pur avendo a disposizione varie opzioni per colpire una Turchia che dovesse trasgredire alla presunta intesa raggiunta sulla Siria, non appare pronta a mobilitarsi a tal punto da aprire un fronte di guerra contro un paese NATO per salvare l’alleato Assad.

Per sciogliere i nodi del quadro siriano dopo i fatti più recenti, così come per comprendere in pieno le intenzioni di Erdogan, sarà dunque necessario attendere ancora. Finché gli equilibri sul campo non si saranno assestati è improbabile attendersi progressi nei colloqui di pace o iniziative di ampio respiro, in particolare da parte del paese teoricamente con la maggiore influenza sulle vicende del conflitto, cioè gli Stati Uniti.

La strategia siriana dell’amministrazione Obama appare d’altronde nel caos più completo e le decisioni su un conflitto che ha letteralmente devastato uno dei paesi più avanzati del Medio Oriente potrebbero essere ormai lasciate al prossimo presidente che di qui a pochi mesi si installerà alla Casa Bianca.

di Fabrizio Casari

Con una votazione pilotata, che non lasciava margini a nessuna sorpresa, la legittima Presidente del Brasile, Dilma Roussef, è stata deposta dalle sue funzioni presidenziali. Il suo vice, Temer, tra i personaggi più corrotti della politica brasiliana e autore della manovra golpista, s’insedierà ora alla presidenza pur senza essere mai stato eletto. Degli 81 senatori che hanno votato, 40 di essi sono sotto processo o sotto inchiesta per corruzione. In Parlamento la percentuale di parlamentari sotto accusa è del 60% del totale.

Il paradosso di vedere un corrotto che accusa di corruzione ad una innocente fa parte di quel samba dell’iperbole che vive perennemente nella politica brasiliana. Le accuse rivolte a Dilma, eletta da 54 milioni di brasiliani, sono ridicole e riguardano la firma di tre decreti che, a detta degli accusatori, sono serviti ad ottenere prestiti esteri non concordati con il Parlamento.

Dilma ha smentito categoricamente le accuse e va detto che, comunque, gli eventuali errori amministrativi o di procedura commessi non possono in nessun caso comportare l’inibizione e la destituzione del Presidente, riservata a reati di natura e volume decisamente più gravi. Cos'è successo allora? Semplicemente, la compravendita di deputati e senatori (tra i quali 5 ex ministri) ha costruito una maggioranza parlamentare per ribaltare il voto delle urne.

Quello che è andato in onda a Brasilia è quindi un vero e proprio colpo di Stato condotto in spregio alla Costituzione e con l’abuso delle prerogative parlamentari nei confronti della Presidente. Ed è stato possibile proprio grazie alla compravendita di parlamentari da parte dei poteri forti brasiliani che, sotto pressante richiesta di Washington, hanno deciso di rimuovere la presidente legittimamente eletta.

I cambi di casacca e i tradimenti sono pane quotidiano per i politici brasiliani, essendo il trasformismo politico una delle caratteristiche di un sistema che, fino all’avvento di Lula, risultava il più nitido ed efficace esempio della polarizzazione sociale. Quello che si annuncia, anzi che è già in marcia, è un ritorno a politiche neoliberiste che riporteranno nella miseria quei 40 milioni di brasiliani che nei 13 anni di governo Lula e Dilma avevano conosciuto diritti e cibo come mai nella storia del gigante economico carioca.

Le diseguaglianze croniche, l’assenza di politiche sociali e la repressione erano state infatti la cifra della politica brasiliana. Ma la vittoria del PT e gli anni di governo di Lula prima e di Dilma poi avevano visto inorridire i poteri forti di fronte a governi che, per la prima volta, decidevano di indirizzare una quota importante della ricchezza nazionale verso le politiche di perequazione sociale. Lo stesso protagonismo internazionale del Planalto e gli accordi commerciali con Russia, Iran ed Unione Europea, avevano ridotto molto i margini di controllo degli Usa sul Brasile, gigante economico e riferimento politico-diplomatico per i governi progressisti dell'America Latina.

C’è Washington dietro il colpo si Stato. E sono proprio i suoi  interessi, minacciati dall’indipendenza e dall’integrazione economica e politica latinoamericana, ad essere tornati in campo con forza. Ciò anche a seguito del progressivo allontanarsi dal Golfo Persico di una parte importante degli interessi strategici degli Stati Uniti e dalla sempre maggiore attenzione all’area del Pacifico, base fondamentale del confronto strategico con la Cina. In questo nuovo contesto le strategie dell’impero riportano per converso l’attenzione sull’America Latina.

La presidenza Obama si è infatti caratterizzata per un nuovo attivismo golpista nel continente. L’intento della sua Amministrazione è quello di piegare con la forza i paesi che hanno dato vita negli ultimi anni alla rinascita democratica dell’America Latina, diventata una spina nel fianco delle multinazionali statunitensi e della stessa Casa Bianca che da queste dipende.

La rinnovata ostilità della Casa Bianca nei confronti del subcontinente si era già delineata con la riattivazione della IV Flotta nel Mar dei Caraibi pochi mesi dopo il primo insediamento di Obama ed è proseguito senza sosta in quello che potrebbe essere definito il processo di ri-colonizzazione. L’azione golpista si è svolta con modalità diverse rispetto al passato: sia perché in presenza di un sostegno popolare alto nei rispettivi paesi, sia perché in assenza di uno scontro bipolare dichiarato tra due sistemi alternativi tra loro, non è stato possibile ricorrere a putch militari (ad eccezione dell’Honduras).

La strategia è stata quella d’individuare, paese per paese, i punti di criticità per procedere progressivamente al ribaltamento del quadro generale. Si è quindi scelta una strada con due possibili sensi di marcia: quelle dei colpi di stato militari (riuscito in Honduras ma falliti in Bolivia ed Ecuador) e nella loro variante parlamentare - riusciti prima in Paraguay e ora in Brasile - e quello dell’ingerenza finanziaria nelle campagne elettorali, che ha funzionato in Argentina ed è ancora in corso in Venezuela.

La coda del mandato di Obama non prevede soluzioni di continuità, anzi sembra voler accelerare i processi di restaurazione golpista. Rappresentano, questi, il cuore della strategia di Washington e della destra latinoamericana che, indifferente alla storia, riproduce integralmente l’insieme del suo sistema valoriale fatto di affari e repressione.

E’ di questi giorni il tentativo in corso contro il Governo di Evo Morales in Bolivia, dove l’uccisione del Viceministro Rodolfo Illanes ha rappresentato la prova generale per un nuovo colpo di Stato; a questo si aggiunge l’annunciata ondata di disordini da parte della destra fascista in Venezuela destinata a costruire un clima di guerra civile, utile alla richiesta di un intervento esterno. In questo senso per gli USA risulta particolarmente conveniente la fine dei governi progressisti in Brasile ed Argentina, che rappresentavano un sostegno forte al Venezuela chavista ed un muro in difesa della democrazia nel Cono Sud.

Il prossimo obiettivo sarà quello di spodestare i governi progressisti in Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Ma, soprattutto nel paese di Sandino, dove il prossimo 6 Novembre si vota per le presidenziali e legislative, l’obbiettivo appare quanto mai difficile da raggiungere.

I sandinisti prendono molto sul serio la loro sovranità e il Presidente Daniel Ortega ha già chiarito che non verrà permessa alcuna ingerenza nella campagna elettorale, sia che essa  si dia attraverso l'attività di Ong e organizzazioni di ogni tipo che operano per destabilizzare i paesi ostili alla Casa Bianca (e che sono tutte riconducibili all'impero e ai suoi organismi d’intelligence), sia attraverso provocazioni di tipo politico-elettorali dell’opposizione interna manovrata dagli Stati Uniti.

Ma la restaurazione del neoliberismo in America latina ieri ha segnato un punto. Con l’uscita di Dilma il Brasile conosce una delle pagine più vergognose della sua storia e ripropone, a distanza di quasi venti anni, il ritorno alla politica del dominio statunitense sull’intero continente. Non c’è bisogno di Trump per ricordare all’America Latina quanto sia effimero il valore della democrazia per chi pensa d’imporre la sua al resto del mondo.

di Michele Paris

Il governo degli Stati Uniti e quello indiano hanno siglato questa settimana uno storico accordo logistico-militare che prospetta una svolta epocale degli orientamenti strategici di Nuova Delhi. A dare l’annuncio della sottoscrizione del “Logistics Exchange Memorandum of Agreement” (LEMOA) sono stati lunedì a Washington i ministri della Difesa dei due paesi, Ashton Carter e Manohar Parrikar. L’intesa, in fase di negoziazione da anni e portata a termine dal governo del premier Narendra Modi, segna un decisivo passo avanti verso l’integrazione dell’India nei piani strategici tutt’altro che pacifici di Washington nel continente asiatico.

I termini dell’accordo bilaterale prevedono per le forze armate di ognuno dei due paesi la possibilità di accedere alle basi militari dell’altro per una serie di attività, legate principalmente a esercitazioni, addestramento, assistenza umanitaria e in caso di disastri naturali. Altri eventuali usi delle rispettive strutture militari potranno essere autorizzati solo in seguito a discussioni preventive tra i vertici militari americani e indiani.

Entrambe le parti, ma soprattutto il governo di Delhi, hanno tenuto a sottolineare che il “memorandum d’intesa” non significa che gli Stati Uniti stazioneranno in maniera più o meno permanente nelle basi militari indiane. Queste rassicurazioni, espresse con insistenza anche dalla stampa indiana, rivelano le forti perplessità di molti nella classe dirigente del colosso asiatico sulla nuova impronta diplomatico-strategica impressa dal governo guidato dal partito nazionalista indù BJP.

La firma del LEMOA è infatti il suggello iniziale di un processo di riassetto strategico da parte di un paese che ha tradizionalmente perseguito una politica estera caratterizzata dal “non allineamento”, tradottosi in realtà in un rapporto piuttosto stretto con l’Unione Sovietica e, successivamente, con la Russia. L’India, inoltre, pur nel complicato rapporto che la lega alla Cina, ha finora evitato iniziative diplomatiche o strategiche clamorose per non irritare Pechino.

A partire dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno corteggiato l’India per convincere i governi di Delhi a liquidare le consuete politiche neutrali e allineare il paese agli interessi globali americani. Se la cooperazione militare e strategica tra USA e India ha fatto progressi notevoli nell’ultimo decennio, il precedente governo del Partito del Congresso non si era sentito di sottoscrivere un accordo come il LEMOA, nel timore di mettere a repentaglio la tradizionale autonomia della politica estera del paese e l’equilibrio dei rapporti con tutte le principali potenze del pianeta.

Il cambio di rotta strategico, sia pure con più di un’esitazione, è arrivato alla fine sotto un governo ultra-nazionalista che fin dal suo insediamento non ha fatto eccessivi sforzi per contenere le tensioni con paesi rivali come Pakistan e Cina. Il primo ministro Modi e le élites indiane che al suo governo fanno riferimento hanno così stabilito, probabilmente in maniera illusoria, che le ambizioni da grande potenza del loro paese possono essere più agevolmente perseguite saltando sul carro degli Stati Uniti.

Il dato più importante in relazione al LEMOA è che questa intesa va considerata come il primo passo di un percorso che dovrebbe portare a un’alleanza a tutti gli effetti tra Stati Uniti e India. Al di là delle implicazioni concrete del “memorandum” o dei vantaggi che ne deriveranno per i due paesi, il LEMOA serve a spianare la strada a un’integrazione che, nei prossimi anni, passerà anche attraverso un altro paio di accordi già allo studio.

Gli scambi di tecnologia e informazioni, così come i sistemi di comunicazione tra le rispettive forze armate, saranno cioè intensificati e rafforzati tramite i cosiddetti CISMOA (“Communications and Information Security Memorandum of Agreement”) e BECA (“Basic Exchange and Cooperation Agreement for Geospatial Intelligence”).

Un’evoluzione nei rapporti bilaterali, quella in atto, che ha evidentemente molto a che fare anche con il mercato degli armamenti. L’India è in questi anni tra i paesi maggiormente disposti a spendere in equipaggiamenti militari moderni e le compagnie statunitensi sono pronte a rimpiazzare le forniture russe su un mercato da centinaia di miliardi di dollari.

Sempre dal punto di vista americano, l’alleanza con l’India risulta di fondamentale importanza nel quadro delle politiche di contenimento della Cina. Per cominciare, anche soltanto le dimensioni e la posizione di questo paese costituiscono una piattaforma privilegiata da cui condurre operazioni militari, al fine di esercitare pressioni su Pechino e ancor più in caso di una vera e propria guerra.

Delhi ha d’altra parte già preso parte a svariate iniziative promosse dagli Stati Uniti in Asia sud-orientale, partecipando ad esempio a esercitazioni militari con i principali alleati di Washington nella regione – Giappone e Australia – e adeguandosi sostanzialmente alle posizioni americane nell’ambito dello scontro con la Cina attorno alle contese marittime e territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

La firma del LEMOA si inserisce inoltre in un frangente segnato da intense discussioni tra i due paesi. Il segretario di Stato USA, John Kerry, e quello del Commercio, Penny Pritzker, erano questa settimana a Delhi dove, assieme alle loro controparti, hanno partecipano al secondo “dialogo strategico e commerciale” indo-americano.

Proprio Kerry e il ministro degli Esteri indiano, Sushma Swaraj, martedì hanno raggiunto un altro accordo, in questo caso per intensificare la cooperazione in materia di anti-terrorismo e gli scambi di informazioni su possibili minacce. Il vertice è stato contrassegnato da critiche e attacchi diretti al Pakistan, accusato di eccessiva tolleranza nei confronti dei gruppi estremisti che operano all’interno dei suoi confini e di non fare a sufficienza per individuare e incriminare i responsabili di attentati commessi sul suolo indiano, come quello di Mumbai che nel 2008 fece 172 vittime.

La decisione di aggravare lo scontro con Islamabad sembra essere deliberata e contribuisce a ricordare come l’accordo logistico-militare appena siglato tra USA e India abbia implicazioni potenzialmente esplosive per il continente asiatico. Il LEMOA non può infatti che essere percepito come una minaccia da Pakistan e Cina, i quali in seguito al deterioramento dei rapporti con India e Stati Uniti sono nel pieno di un rafforzamento dei legami bilaterali già storicamente solidi.

Il Pakistan lancia messaggi allarmati da tempo agli Stati Uniti a causa delle politiche ritenute troppo accomodanti nei confronti dell’arcirivale indiano e che rischiano di alterare gli equilibri strategici della regione. Washington, d’altronde, ritiene fondamentale la partnership con Delhi, a cui ha in questi anni garantito, tra l’altro, un ruolo crescente in Afghanistan e un insolito accordo di cooperazione nell’ambito del nucleare civile.

Il LEMOA e il processo che esso sembra avere innescato potrebbero determinare infine un’inversione di rotta da parte indiana, quanto meno in prospettiva futura, anche sul fronte delle relazioni, fino ad ora decisamente cordiali, con paesi come Russia e Iran.

Le conseguenze della scelta strategica del governo di Delhi saranno comunque tutte da verificare ma, già da ora, è facile prevedere che l’allineamento dell’India alla prima declinante superpotenza del pianeta rischia seriamente di infiammare ancor più le tensioni in un continente asiatico già scosso dalla crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti.

di Michele Paris

Una serie di dichiarazioni e prese di posizione da parte di importanti esponenti di alcuni governi europei sembrano avere assestato in questi ultimi giorni un colpo forse mortale alle residue speranze di vedere sottoscritto a breve il famigerato trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, noto con il nome di Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).

A far tornare i riflettori sui negoziati tra Bruxelles e Washington, da tempo in fase di stallo, era stato nel fine settimana il ministro dell’Economia tedesco, nonché vice-cancelliere, Sigmar Gabriel. Il leader Social Democratico aveva preso atto nel corso di un’intervista alla TV pubblica ZDF del fallimento delle trattative, dovuto all’impossibilità da parte europea di “accettare le richieste americane”.

Gabriel aveva fatto riferimento ai 14 round di negoziati tenuti a partire dal giugno del 2013, durante i quali le due parti non sono state in grado di raggiungere un accordo su nessuna delle 27 sezioni che compongono il trattato transatlantico.

La posizione espressa dal vice-cancelliere tedesco è condivisa da molti all’interno della classe dirigente europea. Il governo Socialista francese è ad esempio tra i più critici del TTIP. Già nel mese di maggio, il presidente Hollande aveva di fatto bocciato il trattato, sull’onda anche di svariate manifestazioni di protesta seguite alla pubblicazione di documenti segreti relativi ai contenuti dei negoziati.

Sempre questa settimana, poi, il ministro per il Commercio Estero di Parigi, Matthias Fekl, ha scritto in un tweet che il suo governo intende chiedere la fine delle trattative sul TTIP. Lo stesso ministro francese qualche mese fa aveva previsto il tracollo dei negoziati, assegnandone la responsabilità alle posizioni troppo rigide degli Stati Uniti.

Il trattato in fase di discussione punta non solo all’eliminazione delle barriere doganali da entrambe le sponde dell’Atlantico, ma anche e soprattutto allo smantellamento delle regolamentazioni previste in vari ambiti e che limitano l’attività e i profitti delle grandi aziende.

I timori maggiori riguardano possibili nuovi attacchi all’assistenza sanitaria pubblica, al welfare in generale, ai livelli delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e alla sicurezza ambientale e alimentare.

Particolare allarme suscita inoltre una clausola consueta per i trattati di libero scambio e che è inclusa anche nel TTIP, quella cioè che consente alle corporation di fare causa ai paesi in cui operano se questi ultimi mettono in atto leggi o adottano provvedimenti che minacciano i loro livelli di profitto.

Le dichiarazioni di Gabriel sono state in ogni caso criticate da altri esponenti della politica tedesca e a livello europeo. La cancelliera Merkel solo qualche settimana fa aveva definito il TTIP “assolutamente nell’interesse dell’Europa”.

Il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert, ha risposto infatti questa settimana alle parole del ministro dell’Economia sostenendo che le trattative devono continuare, mentre in precedenza, dopo la diffusione di un recente rapporto dello stesso dicastero che prevedeva scarse possibilità di intesa sul TTIP, aveva ribadito che l’intero gabinetto appoggiava gli sforzi per la firma dell’accordo in tempi brevi.

Pubblicamente, i vertici europei appaiono anch’essi convinti della possibilità di mandare in porto il TTIP. Il capo dei negoziatori UE, lo spagnolo Ignacio Garcia Becerra ha escluso lunedì che il trattato sia da considerarsi morto. Il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, ha addirittura assicurato che quest’ultima è tuttora “pronta a finalizzare l’accordo entro il 31 dicembre 2016”.

L’ex politico greco ha tuttavia ammesso indirettamente che le possibilità di un simile esito sono quasi inesistenti, poiché Bruxelles non è disposta a sacrificare “la sicurezza, la salute, le protezioni sociali e dei dati personali o la diversità culturale” dell’Europa per raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. Le voci contrarie tra i governi del continente emerse negli ultimi mesi minacciano comunque il naufragio dell’accordo, visto che, anche in caso di successo dei negoziati, esso dovrebbe essere ratificato da ognuno dei 27 paesi dell’Unione.

Da Washington, infine, il rappresentate del governo americano per il commercio estero, Michael Froman, si è comprensibilmente mostrato ottimista sui negoziati, i quali a suo dire avrebbero anzi fatto alcuni progressi.

A influire in parte sul clima di sfiducia che avvolge il TTIP è però anche lo scenario politico americano, segnato in questa fase pre-elettorale dallo scetticismo di entrambi i candidati alla presidenza. Hillary Clinton, in particolare, da qualche tempo ha fatto marcia indietro sul trattato transatlantico, dicendosi ufficialmente contraria, vista la predisposizione degli elettori Democratici nei confronti di accordi di libero scambio che, in passato, hanno contribuito all’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero americano.

Se le rivelazioni sui contenuti del TTIP, assieme alla segretezza con cui vengono condotti i negoziati, hanno prodotto una vasta quanto legittima opposizione popolare al trattato in Europa, le prese di posizione di politici come il ministro tedesco Sigmar Gabriel hanno poco a che fare con scrupoli per la democrazia o per le residue protezioni sociali garantite dai paesi europei.

Lo stesso Gabriel ha d’altra parte manifestato il suo sostegno per il trattato di libero scambio tra UE e Canada che contiene alcune clausole simili a quelle previste dal TTIP. I negoziati sul cosiddetto CETA (Accordo Economico e Commerciale Globale) si erano conclusi nell’agosto del 2014 e il trattato euro-canadese è ora in attesa di essere approvato dai 27 paesi UE e dal parlamento europeo.

Le sezioni del governo tedesco, così come di quello francese o di altri paesi, che si oppongono al TTIP non sono cioè contrarie al libero scambio di merci e servizi, né al prevalere degli interessi delle grandi corporation su quelli di lavoratori e cittadini comuni. La loro opposizione all’accordo con il governo di Washington, alla luce dell’insistenza di quest’ultimo per l’inclusione di condizioni in larga misura vantaggiose per il capitalismo USA, è dovuta piuttosto all’impossibilità di garantire posizioni favorevoli alle proprie aziende nei confronti delle concorrenti americane.

Una parte del business tedesco, rappresentato soprattutto dal partito della cancelliera Merkel, spinge dunque per l’approvazione del TTIP, in modo da massimizzare i profitti derivanti dai rapporti commerciali già molto solidi del loro paese con gli Stati Uniti. Altri, al contrario, auspicano un riorientamento del business tedesco verso il continente asiatico, se non la stessa Russia, dove promette di concretizzarsi buona parte della crescita economica futura.

Questi ultimi vedono di conseguenza il consolidamento della partnership economica con gli Stati Uniti come un ostacolo e le loro istanze si intrecciano inevitabilmente con delicate questioni di natura strategica che, in un clima internazionale caratterizzato da crescenti rivalità, hanno già prodotto pericolose frizioni tra Berlino e Washington su questioni legate, ad esempio, ai rapporti da tenere con paesi come Russia e Cina.

di Carlo Musilli

Il primo ministro britannico Theresa May vuole iniziare le procedure per la Brexit senza passare per il voto del Parlamento. Lo scrive il quotidiano The Telegraph, citando fonti anonime. Secondo il giornale conservatore, da sempre schierato in favore dell’addio a Bruxelles, l’obiettivo di May è evitare che i suoi avversari possano fermare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Del resto, subito dopo l’insediamento al posto di David Cameron, il nuovo Premier aveva ricordato a tutti con cipiglio lapalissiano che “Brexit significa Brexit”.

Ma i politici europeisti fanno notare che il referendum dello scorso 23 giugno era soltanto consultivo e che perciò, in teoria, il Parlamento non è tenuto a ratificarne l’esito favorevole alla Brexit. Negli ultimi mesi l'ex premier Tony Blair e il candidato alla leadership laburista Owen Smith hanno parlato dell’eventualità che il fronte pro-Ue possa bloccare la Brexit proprio nella Camera dei Comuni. Forse avrebbero anche i numeri per farlo, visto che nei mesi scorsi la maggioranza dei deputati ha partecipato alla campagna per il Remain.

Eppure, a questo punto, fare la conta dei voti sembra davvero inutile. Al di là dell’orientamento personale, è ovvio che i parlamentari britannici non potranno sconfessare in modo così clamoroso il proprio elettorato. Sarebbe un suicidio politico. Piuttosto, Blair e compagnia sembrano voler lucrare qualche concessione dal nuovo leader conservatore, avanzando il più possibile la trincea laburista. Insomma, un bluff. Non una minaccia credibile.

Ma ci sono comunque degli equilibri politici da preservare. Pur non temendo per l’avvio della Brexit, ormai inevitabile, May non accetta d’iniziare la sua permanenza a Downing Street combattendo contro i ricatti. Per questo vuole scaricare la pistola in mano ai suoi oppositori, aggirando quel voto parlamentare che rischierebbe di rallentare enormemente le operazioni e comporterebbe in ogni caso trattative e imbarazzi.

Perché il suo progetto si realizzi, la numero uno dell’Esecutivo ha bisogno di un piccolo aiuto da parte del potere giudiziario. Il prossimo mese di ottobre, infatti, l'Alta corte di Giustizia di Londra deciderà se il Premier potrà attivare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona per uscire dall'Unione senza chiedere il voto del Parlamento. Ma i consulenti legali del governo sono già sicuri: notificare la richiesta a Bruxelles rientra nei poteri di primo ministro. May potrà avviare la pratica in autonomia.

Una volta aperte le danze, però, le servirà tutto l’aiuto possibile. Dal punto di vista di Bruxelles, l’obiettivo numero uno è evitare che il risultato della trattativa induca altri Paesi comunitari a seguire le orme del Regno Unito. L’Ue non può permettere che Brexit si riveli un affare per Londra: al contrario, deve dimostrare ai i suoi membri quanto sia sbagliato e controproducente abbandonare la famiglia europea. Non si tratta di vendetta, ma di puro spirito di conservazione.

Le minacce più chiare in questo senso arrivano tutte dalla Germania. Nei giorni scorsi il vice ministro degli Esteri tedesco, Michael Roth, ha avvertito Londra che i negoziati per lasciare l’Ue “saranno molto difficili”, sottolineando che ai britannici non sarà concesso un approccio “cherry picking” (letteralmente, “raccolta di ciliegie”): non potranno cioè cancellare gli svantaggi e conservare solo il meglio che l’Europa può offrire.

Insomma, lo scenario non è dei più rassicuranti. May dovrà valutare se, prima di sedersi a un tavolo del genere, le convenga davvero dare uno strappo netto ai rapporti con il Parlamento.







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