di Michele Paris

Con l’avvicinarsi del traguardo dei primi 100 giorni alla Casa Bianca e viste le crescenti inquietudini di Wall Street per un’amministrazione fin qui inconcludente sul fronte economico, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha presentato questa settimana una proposta molto approssimativa di riforma fiscale destinata ad abbassare drasticamente il livello di tassazione degli americani più ricchi, a cominciare da egli stesso e dalla sua famiglia.

Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il direttore del Consiglio Nazionale per l’Economia, Gary Cohn, sono stati protagonisti di una conferenza stampa alla Casa Bianca nel pomeriggio di mercoledì per spiegare i punti fondamentali della proposta di Trump in ambito fiscale.

Con particolare entusiasmo, i due membri multimilionari ed ex Goldman Sachs del gabinetto Trump hanno elencato i principali cambiamenti proposti alle regole del fisco americano che, se implementati, allargheranno in maniera smisurata il deficit federale e il debito pubblico degli Stati Uniti per consentire ai redditi più elevati e alle grandi imprese di accumulare ulteriori ricchezze.

La misura più consistente e significativa avanzata dal presidente USA è la riduzione della tassa nominale sulle imprese dall’attuale 35% al 15%. Molte grandi corporation americane non pagano nemmeno lontanamente la quota attuale, grazie a espedienti più o meno legali, sottraendo già ingenti risorse pubbliche spesso “parcheggiate” in paradisi fiscali o in paesi che offrono regimi fiscali più vantaggiosi.

Secondo alcuni studi citati dai media americani, l’implementazione di questo taglio alle tasse delle aziende private determinerebbe mancati introiti per le casse federali per almeno duemila miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

La Casa Bianca e i sostenitori dell’abbassamento del carico fiscale sulle imprese continuano a proporre la favola della necessità di liberare risorse a favore di queste ultime per creare posti di lavoro, in modo che la crescita economica così stimolata possa compensare il diminuito gettito fiscale.

Come ha già dimostrato la storia di questi ultimi anni, in gran parte i profitti extra delle corporation non vengono in realtà destinati agli investimenti ma sono piuttosto distribuiti agli azionisti o impiegati nel riacquisto delle proprie azioni.

Comunque, anche ammettendo per vera questa fantasia neoliberista, gli stessi economisti conservatori avvertono in molti casi dell’impossibilità di far fronte interamente al buco di bilancio provocato dai tagli alle tasse per i più ricchi attraverso il margine di crescita economica che simili iniziative dovrebbero generare, tanto più in scenari precari come quelli attuali.

Ad esempio, la presidente del “Committee for a Responsible Federal Budget”, che si batte per il rigore delle finanze pubbliche negli USA, in un’intervista al New York Times ha calcolato che l’intera riforma fiscale di Trump ridurrebbe le entrate federali per una cifra compresa tra i tremila e i settemila miliardi di dollari in dieci anni, così da richiedere, per compensazione, un tasso di crescita economica annua del 4,5%, vale a dire più del doppio di quello previsto.

Il costo enorme della riforma fiscale proposta da Trump è determinato anche dall’abolizione della tassa di successione, oggi applicata solo alle fortune superiori ai 5 milioni di dollari, e alla cosiddetta “Alternative Minimum Tax” (AMT), ovvero una sorta di tassa supplementare sul reddito che va a compensare esenzioni e riduzioni dell’aliquota di quella tradizionale di cui beneficiano spesso e per vari motivi i contribuenti più benestanti.

Queste due misure finirebbero per favorire in modo sensibile proprio il presidente Trump e la sua famiglia, nonché molti membri facoltosi del suo gabinetto. Per quanto riguarda la prima, gli effetti sono di per sé evidenti, mentre per la seconda ciò si evince dalla recente pubblicazione da parte del presidente della sua dichiarazione dei redditi per l’anno 2005. In essa era emerso come Trump avesse pagato 38 milioni di dollari di tasse invece di 5 proprio in base alla AMT.

Inoltre, dietro alla pretesa di razionalizzare il complesso sistema di tassazione americano, la Casa Bianca ha inserito un ulteriore regalo ai più ricchi. Le aliquote riservate ai contribuenti individuali passeranno da sette a tre, ma quella più alta scenderà dal 39,6% al 35%. La sovrattassa sui “capital gains” del 3,8%, introdotta da Obama per finanziare la legge sul sistema sanitario del 2010, dovrebbe essere infine eliminata.

Nella proposta di riforma ci sono anche alcune iniziative rivolte ai contribuenti delle classi medie. Una di queste è il raddoppio delle deduzioni fiscali consentite a singoli e famiglie, anche se gli effetti benefici potrebbero essere annullati dallo stop ad altre detrazioni solitamente previste negli Stati Uniti, come quelle per le tasse pagate a livello statale e locale o per l’assistenza sanitaria offerta dai datori di lavoro.

Le reazioni del panorama politico di Washington alla bozza di riforma fiscale proposta da Trump sono state particolarmente rivelatrici. I vertici del Partito Democratico hanno denunciato il colossale regalo ai ricchi americani che essa comporterebbe, ma più che altro hanno espresso critiche nei confronti del presidente a causa dell’esplosione del debito pubblico che questi tagli alle tasse provocherebbero.

Molti giornali hanno poi descritto il presunto travaglio dei conservatori all’interno del Partito Repubblicano, i quali dovranno decidere se appoggiare una riforma che intende realizzare uno dei principi cardine del loro programma politico – un carico fiscale irrisorio per i più ricchi – pur correndo il rischio di allentare la presa sulla riduzione del debito pubblico, considerando anche che il gigantesco bilancio militare USA continua a risultare non solo intoccabile ma in costante crescita.

In effetti, le dichiarazioni di svariati “falchi” del debito federale in questi giorni non hanno mostrato particolari apprensioni o dilemmi e ciò perché il taglio delle tasse per i redditi più alti e per le grandi aziende sarà compensato con un vero e proprio assalto alla spesa sociale, da tempo oggetto di sforzi bipartisan e, soprattutto, del partito che oggi governa a Washington.

Anzi, proprio l’allargamento del buco del bilancio americano e del debito pubblico attraverso la riduzione del carico fiscale per i più ricchi faciliterà il compito di quanti chiedono una riforma complessiva dei cosiddetti “entitlements”, vale a dire i programmi pubblici di assistenza come Medicaid, Medicare e Social Security che assorbono una fetta consistente della spesa federale e svolgono spesso una funzione letteralmente vitale per gli americani più poveri.

Per quanto riguarda il Partito Democratico, nonostante le critiche a Trump di questi giorni è probabile che almeno una parte di esso sarà alla fine disponibile a qualche compromesso. Già l’amministrazione Obama aveva infatti proposto la riduzione delle aliquote riservate a individui e aziende, sia pure non ai livelli prospettati da Trump, mentre anche molti Democratici al Congresso hanno mostrato in più occasioni di condividere con i colleghi Repubblicani la teoria dello stimolo all’economia tramite l’abbattimento del carico fiscale.

La proposta di Trump presentata mercoledì è ad ogni modo solo il primo passo di un processo che prevederà lunghe discussioni e trattative prima del necessario voto del Congresso. Determinante, in questo quadro, sarà capire se la maggioranza Repubblicana intenderà procedere per conto proprio o se si cercherà di coinvolgere almeno una parte dell’opposizione Democratica.

Infatti, per essere introdotti in maniera permanente, i tagli alle tasse dovranno essere approvati da una super-maggioranza al Senato di Washington, cosa che richiede l’appoggio di almeno otto membri Democratici. Questa opzione obbligherà quasi certamente i leader Repubblicani e la Casa Bianca ad attenuare alcune misure più estreme.

Se, invece, questi ultimi dovessero respingere ogni compromesso e procedere secondo la linea tracciata da Trump, una volta superate le resistenze interne potrebbero comunque votare un pacchetto fiscale con una maggioranza semplice. Secondo le regole del Senato, tuttavia, in questo caso i tagli alle tasse durerebbero solo per dieci anni e dovrebbero essere poi eventualmente prolungati da un nuovo voto dell’aula.

di Mario Lombardo

Il governo americano ha intrapreso una nuova serie di iniziative in questi giorni che confermano la ferma intenzione di tenere alta la pressione sulla Corea del Nord e il principale alleato di quest’ultimo paese, ovvero la Cina. Nel pieno dei festeggiamenti in corso a Pyongyang per l’85esimo anno dalla creazione del precursore dell’esercito nordcoreano, mercoledì il comando delle forze armate USA di stanza in Corea del Sud ha deciso di procedere con l’installazione di un sistema di difesa anti-missilistico altamente controverso.

I primi componenti del cosiddetto THAAD (“Difesa d’Area Terminale ad Alta Quota”) sono stati trasportati da alcuni veicoli militari americani nel luogo dove il sistema dovrebbe essere posizionato in territorio sudcoreano in base a quanto stabilito dai governi di Washington e Seoul lo scorso mese di luglio.

Le parti del THAAD posizionate nei pressi della località di Seongju erano arrivate in Corea del Sud a marzo. L’improvvisa accelerazione dei lavori sulle batterie anti-missile è dovuta in primo luogo all’intenzione da parte americana di lanciare un ulteriore segnale minaccioso nei confronti del regime di Kim Jong-un, visto che l’avvio dell’installazione coincide con uno dei momenti più delicati nella storia recente dei rapporti USA-Corea del Nord.

Non solo, l’ordine di procedere con il THAAD è legato alla necessità di mettere il prossimo governo sudcoreano davanti al fatto compiuto, poiché sembra probabile che dalle elezioni presidenziali del 9 maggio prossimo uscirà vincitore il candidato di centro-sinistra, Moon Jae-in, che aveva assunto posizioni relativamente critiche dello stesso sistema anti-missile.

In realtà, con l’approssimarsi del voto il leader del Partito Democratico di Corea ha in parte ammorbidito la sua opposizione al THAAD, giudicandolo accettabile come strumento difensivo se Pyongyang dovesse continuare a minacciare Seoul.

Gli Stati Uniti temono però che un suo successo alle urne possa fare esplodere le proteste contro un piano militare impopolare e di fatto imposto da Washington dietro le spalle dei sudcoreani. Già nella primissima mattinata di mercoledì, i mezzi americani giunti a Seongju con i componenti del THAAD sono stati infatti accolti da migliaia di residenti che hanno cercato di bloccarli, prima dell’intervento della polizia sudcoreana.

La possibilità di installare e rendere operativo il THAAD è stata in ogni caso offerta dalle continue provocazioni della Corea del Nord, anche se questo sistema, al contrario di quanto sostengono i governi di Stati Uniti e Corea del Sud, non è difensivo né è rivolto principalmente a Pyongyang.

L’obiettivo è piuttosto la Cina e, in seconda battuta, la stessa Russia, visto che il THAAD in territorio sudcoreano rischierebbe di neutralizzare il loro deterrente nucleare, soprattutto quello di Pechino, rendendo potenzialmente inefficace una risposta a un eventuale primo attacco americano.

La decisione di questa settimana sul THAAD segue poi l’arrivo nelle acque dell’Asia orientale di varie navi da guerra USA per condurre esercitazioni con le forze non solo della Corea del Sud ma anche del Giappone.

Nella serata di mercoledì è previsto anche il lancio di un missile balistico intercontinentale in grado di portare una testata nucleare, in un test americano che vedrà partire l’ordigno dalla California e atterrare nell’oceano Pacifico. Singolarmente, il test missilistico degli Stati Uniti è della stessa natura di quello che in molti stanno attendendo da Pyongyang e che, se condotto, potrebbe scatenare un attacco militare da parte dell’amministrazione Trump.

Malgrado il livello di tensione alle stelle, in molti ritengono comunque improbabile un attacco militare americano contro la Corea del Nord, così che l’escalation promossa dalla Casa Bianca servirebbe più che altro per esercitare pressioni sia su Pyongyang sia su Pechino, in modo da rimettere in linea il regime di Kim.

A sostegno di questa interpretazione ci sarebbe tra l’altro il rapporto “amichevole” instaurato da Trump con il presidente cinese, Xi Jinping, dopo il recente faccia a faccia nella residenza del presidente americano in Florida. I due hanno discusso telefonicamente della Corea del Nord anche lunedì, nel quadro di una sorta di linea diretta tra le due potenze che per alcuni dovrebbe scongiurare il pericolo di un conflitto nella penisola di Corea.

In realtà, la nuova amministrazione Repubblicana, dietro la spinta dell’apparato militare e della galassia “neo-con”, ha già mostrato di non avere troppi scrupoli nel cercare di imporre i propri interessi strategici, come ha testimoniato il bombardamento dei primi di aprile contro una base aerea delle forze armate siriane.

L’escalation di provocazioni nei confronti della Corea del Nord rischia poi di spingere il livello dello scontro al di là dei limiti entro i quali lo stesso governo cinese può essere in grado di influenzare le decisioni del regime di Pyongyang.

Da Pechino si moltiplicano infatti le dichiarazioni allarmate per la situazione nella penisola di Corea, a conferma che la leva cinese nei confronti di Kim è limitata. I media cinesi ufficiali continuano a pubblicare commenti e editoriali nei quali si mette in guardia dal pericolo di una conflagrazione che potrebbe facilmente sfociare in un conflitto nucleare, come se questo rischio sia da considerare imminente.

Allo stesso tempo, la Cina insiste affinché gli Stati Uniti dimostrino la loro disponibilità a fare qualche concessione alla Corea del Nord in cambio di un segnale da parte di Kim ad astenersi da ulteriori provocazioni e a congelare il proprio programma nucleare e balistico.

Il nodo della crisi coreana resta però difficilmente risolvibile, dal momento che in essa si intrecciano le mire di un governo, come quello americano, spinto da una logica distruttiva che non ammette concessioni o cedimenti agli interessi di altri paesi con il dilemma strategico che caratterizza le azioni della Cina.

Pechino deve cioè muoversi entro margini molto stretti, misurando le pressioni che può esercitare sull’alleato nordcoreano, in modo da non fornire l’occasione per un’aggressione militare americana, con la necessità di preservare il regime di Kim, la cui caduta materializzerebbe l’incubo di vedere le forze armate degli Stati Uniti subito al di là del confine cinese.

Le manovre americane per la penisola di Corea e, di riflesso, per la gestione dei rapporti con la Cina, sembrano comunque dover riservare qualche mossa clamorosa. L’amministrazione Trump continua infatti a mantenere la crisi coreana in cima alla propria agenda, anche attraverso gesti plateali e decisamente insoliti, per non dire senza precedenti, come quello registrato mercoledì.

Il presidente ha convocato tutti e cento i membri del Senato americano alla Casa Bianca, dove sono stati informati della situazione in Corea del Nord, ovvero dei piani di guerra che sembrano essere allo studio. I senatori di entrambi gli schieramenti sono stati ragguagliati dal segretario alla Difesa, generale James Mattis, dal capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, dal direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats, e dal segretario di Stato, Rex Tillerson.

Il briefing ai senatori presso la Casa Bianca testimonia non solo della gravità degli scenari coreani, ma anche il processo avanzato di deterioramento delle procedure democratiche negli Stati Uniti, con il Congresso di fatto privato del potere di autorizzare azioni militari, decise ormai in completa autonomia dall’esecutivo e dai militari.

La campagna in atto contro la Corea del Nord dovrebbe proseguire infine nella giornata di venerdì, quando lo stesso Tillerson presiederà al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una riunione incentrata sul regime di Kim e il suo programma nucleare.

L’evento, è facile prevedere, fornirà un’ulteriore occasione agli USA per dipingere Pyongyang come una minaccia vitale alla propria sicurezza e a quella del pianeta, mentre la quasi certa proposta di adottare nuove sanzioni punitive, che ostacolino i limitatissimi scambi commerciali della Corea del Nord, finirà per restringere ancor più le opzioni a disposizione del governo cinese.

di Michele Paris

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia di domenica ha segnato il clamoroso tracollo del sistema sostanzialmente bipartitico che ha dominato il paese negli ultimi decenni. I candidati del Partito Socialista (PS) al governo e la destra gollista de I Repubblicani (LR) sono stati infatti eliminati a beneficio dell’ex ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, e della leader del Fronte Nazionale (FN) neo-fascista, Marine Le Pen.

Per una volta, i sondaggi di opinione della vigilia sono stati confermati dal voto. Macron e Le Pen si sono in pratica equivalsi, con l’ex Socialista che ha sfiorato il 24% e quest’ultima attestata attorno al 21,5%.

Il candidato gollista, François Fillon, non è riuscito a recuperare terreno a sufficienza dopo lo scandalo relativo a un finto lavoro ricoperto dalla moglie e retribuito con soldi pubblici. L’ex primo ministro si è fermato a poco meno del 20% dei consensi, determinando la prima eliminazione al primo turno delle presidenziali francesi di un candidato gollista da oltre tre decenni a questa parte.

Il collasso del PS francese è apparso chiaro invece dall’umiliante 6,3% raccolto da Benoît Hamon. Il vincitore a sorpresa delle primarie del suo partito era stato di fatto scaricato più o meno formalmente dai vertici Socialisti, schieratisi a favore di Macron, perché ritenuto troppo “progressista”.

A determinare l’affondamento di proporzioni storiche del Partito Socialista è stata però l’eredità del presidente uscente, François Hollande, e dei governi che ha presieduto negli ultimi cinque anni. Austerity, deregolamentazione del mercato del lavoro, guerra, stato di emergenza permanente ed erosione dei diritti democratici hanno caratterizzato l’esperienza di governo Socialista, trasformandosi in una batosta elettorale ancora peggiore di quella del 2002 che vide l’esclusione dal secondo turno dell’allora primo ministro, Lionel Jospin.

In molti hanno fatto notare come il ritiro della candidatura di Hamon a favore di Jean-Luc Mélenchon avrebbe potuto spingere quest’ultimo al ballottaggio. Il leader del Partito di Sinistra (PG) e del movimento “France insoumise” (“Francia ribelle”), creato ad hoc per le presidenziali, ha toccato domenica il 19,6% dopo essere riuscito a capitalizzare almeno in parte il diffuso sentimento anti-bellico e anti-liberista tra la popolazione francese.

Se la matematica del dopo voto indica che la confluenza dei voti di Hamon su Mélenchon avrebbe fatto di quest’ultimo il vincitore del primo turno, è altrettanto probabile che un eventuale accordo con il candidato Socialista, che pure era stato esplorato, gli avrebbe fatto perdere un numero considerevole di consensi, visto il discredito del partito di governo tra gli elettori più orientati a sinistra.

Dopo il primo turno di domenica, in ogni caso, i francesi si ritroveranno ora con la prospettiva di una nuova orgia neo-liberista, in caso di successo di Macron al ballottaggio, o dell’abisso della deriva neo-fascista.

Lo scampato pericolo di una sfida al secondo turno tra Mélenchon e Le Pen, oltre all’entusiasmo dei mercati, ha già scatenato la prevedibile campagna pro-Macron dei media e dell’establishment politico francese. Fillon e Hamon hanno già dato indicazione ai propri elettori di votare per il 39enne ex banchiere Rothschild. Mélenchon, invece, non ha per ora espresso apertamente la sua preferenza, sapendo forse che un “endorsement” a favore di Macron sfocerebbe nuovamente in un vicolo cieco per il potenziale movimento progressista coagulatosi attorno alla sua candidatura in questi mesi.

Emmanuel Macron è dunque il candidato di gran lunga preferito dai poteri forti in Francia e in Europa. La sua candidatura è stata costruita a tavolino dopo l’addio al Partito Socialista e la creazione dal nulla di un movimento (“En Marche !”) con nessun radicamento nel paese. Dietro a Macron c’è in sostanza l’élite finanziaria transalpina ed esponenti del Partito Socialista protagonisti della deriva neoliberista, nonché della virtuale distruzione, di questo partito.

Macron è riuscito a sfruttare il discredito del PS, le cui rovinose politiche economiche di questi anni ha peraltro contribuito a formulare, presentandosi come un candidato giovane, dinamico e svincolato dalle logiche di destra e sinistra. La sua rapida ascesa a favorito per l’Eliseo è stata possibile anche grazie all’implosione della candidatura di Fillon, legata in parte ai suoi orientamenti filo-russi, e alla costante promozione della sua immagine da parte dei media ufficiali.

Su questi aspetti il vincitore del primo turno è tornato nel suo discorso seguito alla chiusura delle urne. La retorica del rinnovamento della Francia, del superamento delle divisioni ideologiche e la lotta al nazionalismo del Fronte Nazionale nascondono tuttavia una realtà ben diversa e che è in definitiva ancora una volta quella del neo-liberismo sfrenato, in perfetta continuità con i mandati di Sarkozy e, ancor più, di Hollande.

Nelle due settimane che separano la Francia dal secondo turno, la candidata del FN cercherà perciò di approfittare della natura stessa del progetto politico di Macron, così da smascherare le forze che lo sostengono e di proporsi essa stessa come l’unica alternativa anti-establishment per gli elettori, soprattutto quelli appartenenti alle classi più disagiate.

La strategia dell’estrema destra francese è infatti sempre la stessa. Denuncia della globalizzazione, del capitalismo senza freni e dello smantellamento del welfare, il tutto indirizzato però verso l’ultranazionalismo, l’anti-socialismo, la xenofobia e il razzismo, in un mix che non può che tradursi in un disastro per lavoratori e classe media.

Praticamente tutti i sondaggi ufficiali danno ora Macron in netto vantaggio sulla Le Pen nel secondo turno. In media, l’ex ministro Socialista sembra dover ottenere più del 60% dei consensi nel voto del 7 maggio.

I veri equilibri elettorali potrebbero però essere almeno in parte diversi da quelli proposti dalla stampa, tanto che qualcuno prospetta una possibile sorpresa da qui a due settimane. A rappresentare un’incognita per le chances di successo di Macron è in primo luogo la sua stessa natura artificiosa e di controfigura dei grandi interessi economico-finanziari francesi.

Se, poi, in Francia e nel resto d’Europa c’è da attendersi una certa mobilitazione per evitare l’ascesa al potere della destra neo-fascista, le credenziali di Marine Le Pen e del Fronte Nazionale sono oggi notevolmente superiori rispetto ad esempio al 2002, quando Jean-Marie Le Pen accedette al ballottaggio dove venne schiacciato da Jacques Chirac.

Con il persistere della crisi del capitalismo francese e l’emergere di fortissime tensioni sociali, infatti, la classe dirigente transalpina ha progressivamente adottato buona parte dell’agenda di estrema destra del FN, finendo in definitiva per legittimarlo come un normale partito del panorama politico ufficiale.

A causa anche di queste dinamiche, di fronte a un favorito che, al di là delle apparenze, risulta legato a doppio filo con l’establishment respinto domenica dagli elettori francesi, nel vuoto della sinistra francese potrebbe infilarsi così con successo l’estrema destra e consegnare un risultato che, a tutt’oggi, i sondaggi sembrano escludere categoricamente.

di Mario Lombardo

La scadenza del primo obbligo di notifica al Congresso americano da parte dell’amministrazione Trump circa lo stato dell’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 (JCPOA) ha fornito in questi giorni al nuovo governo USA l’occasione di rilanciare la campagna di pressioni e minacce nei confronti della Repubblica Islamica, con il rischio di aprire un nuovo pericolosissimo fronte di crisi in Medio Oriente.

La Casa Bianca e il dipartimento di Stato hanno mostrato una logica del tutto particolare nel presentare le proprie posizioni sull’Iran. Da un lato, non è stato possibile fare altrimenti che ratificare il pieno rispetto di Teheran dei termini del JCPOA, poiché finora non vi è ombra di una qualche violazione, a conferma che l’intesa siglata a Vienna quasi due anni fa sta fugando ogni dubbio sul programma nucleare iraniano.

Dall’altro, però, l’amministrazione Trump ha attaccato l’accordo stesso, con il segretario di Stato, Rex Tillerson, che lo ha addirittura bollato come un “fallimento”. Il JCPOA è infatti sottoposto a un processo di “revisione” presso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano, le cui conclusioni dovranno stabilire se Washington continuerà a tenere in sospeso le sanzioni economiche e finanziarie applicate all’Iran, come previsto dall’intesa.

Anche per il governo USA, dunque, Teheran sta riducendo le proprie centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e garantendo agli ispettori internazionali l’accesso alle proprie infrastrutture nucleari. Ciononostante, per gli USA, il JCPOA avrebbe i giorni contati, visto che esso può soltanto “ritardare” il momento in cui l’Iran diventerà uno stato dotato di armi nucleari.

Questa posizione conferma in definitiva come l’obiettivo dell’amministrazione Trump non sia di fermare pacificamente e con l’accordo della comunità internazionale un programma nucleare dalle possibili implicazioni militari, peraltro mai dimostrate se non da dubbi “rapporti” delle agenzie di intelligence occidentali e israeliane, ma di continuare a prendere di mira l’Iran per ragioni esclusivamente strategiche.

Essendo questa la motivazione del governo USA, è anche evidente come vi sia poco o nulla che l’Iran può fare, a parte allinearsi interamente agli interessi americani in Medio Oriente, per evitare l’ostilità di Washington.

L’altro aspetto assurdo della presa di posizione americana di questi giorni è poi l’accusa, rivolta alla Repubblica Islamica dallo stesso Tillerson, di continuare a essere “il principale sponsor del terrorismo” e il primo fattore di destabilizzazione degli equilibri del Medio Oriente e non solo. Proprio per questo presunto ruolo di Teheran, gli Stati Uniti potrebbero finire col ritirarsi dall’accordo sul nucleare e ripristinare le sanzioni punitive che avevano messo in ginocchio l’economia iraniana.

L’accusa americana all’Iran di appoggiare il terrorismo e seminare il caos nella regione è difficilmente misurabile in termini di ipocrisia. Le parole del segretario di Stato USA, infatti, sono giunte proprio quando il rischio di una conflagrazione nucleare non è mai stato così alto da almeno un quarto di secolo a questa parte e precisamente a causa del comportamento dell’amministrazione Trump.

A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca, il nuovo presidente è intervenuto drammaticamente negli scenari di crisi ereditati dal suo predecessore, facendo aumentare sensibilmente le probabilità di una o più guerre su vasta scala dopo il bombardamento di una base militare siriana e l’escalation di minacce contro la Corea del Nord.

Per quanto riguarda la destabilizzazione del Medio Oriente, gli Stati Uniti continuano anche a garantire il loro totale appoggio all’aggressione saudita dello Yemen. Proprio mentre Tillerson attaccava verbalmente l’Iran, il numero uno del Pentagono, generale James Mattis, stava incontrando a Riyadh il sovrano saudita e i suoi due eredi al trono per rassicurarli dell’assistenza americana nel far fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Repubblica Islamica, accusata di interferire nelle vicende yemenite.

In modo da piegare la resistenza dei ribelli sciiti Houthi in Yemen, Mattis ha di fatto avallato i piani dell’Arabia Saudita per la città portuale di Al Hudaydah. Un’operazione militare in questa località aggraverebbe notevolmente la catastrofe umanitaria nel paese arabo, visto che proprio qui giunge la gran parte delle forniture di cibo destinate a una popolazione ormai allo stremo.

In Arabia, il segretario alla Difesa americano ha ribadito che l’appoggio dell’Iran agli Houthi è la causa della destabilizzazione dello Yemen, anche se la guerra sanguinosa condotta da Riyadh e dagli alleati del Golfo Persico con l’assistenza USA ha causato finora più di diecimila morti e almeno tre milioni di profughi.

In ogni caso, l’eventuale passo indietro del governo americano sull’accordo per il nucleare di Vienna, oltre a riaccendere a tutti gli effetti la crisi iraniana, assesterebbe anche un nuovo grave colpo allo stato già precario delle relazioni internazionali, incluse quelle tra gli alleati dell’emisfero occidentale.

Il JCPOA è tuttora sostenuto più o meno fermamente dai governi europei, a cominciare da quelli dei paesi che fanno parte del gruppo dei P5+1 (Francia, Regno Unito, Germania) protagonista delle trattative a Vienna, in primo luogo perché le promesse di nuove opportunità di business in Iran si sono già in parte concretizzate, così come hanno mosso i primi passi i progetti di collaborazione in ambito energetico.

Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, in una conferenza stampa nella giornata di mercoledì ha riconosciuto i rischi di un’azione unilaterale americana per far naufragare l’intesa. Allo stesso tempo, pur senza anticipare possibili mosse, ha però confermato l’intenzione di Washington di rivedere le proprie posizioni sull’Iran.

Gli sviluppi di questi giorni non sono d’altra parte imprevisti. Già in campagna elettorale Trump si era scagliato contro Teheran e il JCPOA. A febbraio, poi, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, generale Michael Flynn, in un discorso pubblico aveva minacciosamente messo l’Iran “sull’avviso” in seguito a un test missilistico condotto poco prima in maniera legittima.

Da allora, le minacce si sono moltiplicate, assieme alle iniziative del Congresso di Washington per adottare nuove sanzioni. Alla luce comunque della compattezza della posizione degli alleati degli USA che hanno sottoscritto l’accordo di Vienna e di quelli che ne stanno traendo beneficio, in molti ritengono che Trump finirà per rispettare, almeno per ora, il JCPOA.

Una prova delle intenzioni della Casa Bianca si avrà già nel mese di maggio, praticamente in concomitanza con le elezioni presidenziali in Iran, e poi ancora a giugno, quando dovrà essere deciso il prolungamento della sospensione di alcune sanzioni che gravavano sulla Repubblica Islamica.

Se, come prevede la maggior parte degli osservatori, Trump dovesse mantenere il suo governo nel quadro del JCPOA, il pressing su Teheran potrebbe proseguire al di fuori di esso. Gli USA, cioè, intenderebbero rispettare formalmente i termini dell’accordo sul nucleare ma potrebbero tenere alta la pressione sull’Iran continuando a sollevare le consuete finte questioni che servono a promuovere gli interessi americani all’estero, come il mancato rispetto dei diritti umani o l’appoggio al terrorismo.

Evidentemente, questa tattica rischia di innescare uno scontro che, di riflesso, finirebbe comunque per mettere a rischio il JCPOA. Anzi, a ben vedere ciò è quanto il governo americano sembra voler provocare, spingendo l’Iran a defilarsi dall’accordo di Vienna in risposta alle pressioni USA su questioni che esulano apparentemente da quella del programma nucleare.

Un’evoluzione di questo genere riporterebbe la crisi iraniana indietro di un paio d’anni, fornendo agli Stati Uniti la giustificazione per colpire anche militarmente la Repubblica Islamica, le cui vere colpe, agli occhi di Washington, hanno poco a che vedere col nucleare o col terrorismo, quanto piuttosto con l’appoggio al regime di Assad in Siria e, più in generale, con l’appartenenza a un asse di “resistenza” che ostacola il dispiegarsi degli interessi strategici americani in Medio Oriente e in Asia centrale.

di Michele Paris

Le autorità dello stato americano dell’Arkansas sono impegnate da qualche settimana in una serie di dispute legali nel tentativo disperato di portare a termine una raffica di esecuzioni capitali nell’arco di appena una decina di giorni, in un programma di morte che non ha precedenti nella storia moderna degli Stati Uniti.

Il piano delle condanne a morte che avrebbe dovuto iniziare all’inizio di questa settimana era stato stilato a febbraio dal governatore Repubblicano, Asa Hutchinson, e prevedeva appunto otto esecuzioni entro la fine di aprile. L’estrema urgenza era dettata dall’imminente data di scadenza delle scorte del sedativo “midazolam” a disposizione dello stato.

Il “midazolam” è il primo dei tre farmaci somministrati ai condannati a morte secondo la procedura adottata dall’Arkansas. Esso è seguito da una seconda sostanza che paralizza il detenuto, fermandone la respirazione, e da una terza che induce l’arresto cardiaco e il decesso.

Come molti altri stati americani, anche l’Arkansas sta faticando a reperire i medicinali che servono per mettere a morte i detenuti, poiché le aziende farmaceutiche e i governi europei hanno da tempo bloccato la vendita di questi prodotti se destinati a essere usati nelle esecuzioni capitali.

Questa carenza ha spinto alcuni stati sia ad approvare metodi alternativi cruenti, come la fucilazione o la camera a gas, sia ad autorizzare rifornimenti da aziende non certificate o a ricorrere a sostanze di dubbia efficacia che possono provocare atroci sofferenze ai condannati, in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione Americana.

Proprio il “midazolam” è una delle sostanze incriminate, responsabile di almeno quattro esecuzioni finite male dall’ottobre del 2013, data in cui è stato usato per la prima volta nelle condanne a morte in America. Questo medicinale, se non somministrato in maniera corretta, può non sedare del tutto il condannato, lasciandolo cosciente o semi-cosciente fino al sopraggiungere della morte.

L’uso del “midazolam” aveva suscitato una contesa legale finita alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale nel 2015 aveva stabilito che questo sedativo può essere comunque incluso nei protocolli degli stati che prevedono la pena capitale. Malgrado la sentenza, l’inaffidabilità del “midazolam” ha spinto gli stati di Arizona, Florida e Kentucky a escluderlo dai rispettivi cocktail letali.

Per quanto riguarda l’Arkansas, le vicende legali degli ultimi giorni si sono per ora risolte nel rinvio definitivo di tre condanne a morte delle otto fissate per il mese di aprile dal governatore Hutchinson. Tre condannati nel braccio della morte per omicidio – Don Davis, Bruce Ward e Jason McGehee – hanno visto accolti i ricorsi dei rispettivi avvocati e per loro l’appuntamento con il boia è per lo meno rinviato, secondo alcuni anche di anni.

Davis era ad appena 15 minuti dalla sua esecuzione nella serata di lunedì, quando, dopo che gli era stato servito l’ultimo pasto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la sospensione della condanna precedentemente disposta dalla Corte Suprema statale dell’Arkansas.

A fare ricorso al tribunale costituzionale di Washington era stata la procuratrice generale dello stato, Leslie Rutledge, la quale contestava la tesi degli avvocati di Davis che sostengono come, durante il processo per omicidio, a quest’ultimo fosse stato negato l’accesso a una consulenza legale indipendente per presentare le prove del suo grave ritardo cognitivo.

La Corte Suprema dell’Arkansas aveva fermato in precedenza anche l’esecuzione di Bruce Ward, prima di annullare il proprio ordine ed emetterne un secondo nella giornata di lunedì. Anche la contesa legale sul caso Ward riguarda le facoltà mentali del condannato, a cui è stata tra l’altro diagnosticata una forma di schizofrenia.

Per le autorità giudiziarie dell’Arkansas non è possibile eseguire le condanne di Davis e Ward prima che la Corte Suprema degli Stati Uniti si esprima su un caso che riguarda proprio l’accesso degli imputati per omicidio a consulenze legali indipendenti che certifichino eventuali ritardi mentali. Le audizioni sul caso dovrebbero iniziare nei prossimi giorni a Washington e una decisione del supremo tribunale è attesa per il mese di giugno.

Con una sentenza del 2002 e un’altra del 2014, la Corte Suprema USA ha stabilito che la condanna a morte di individui a cui venga riconosciuto un ritardo mentale viola la Costituzione americana. In questi pareri non era però specificato quali debbano essere i criteri esatti per valutare i disturbi mentali dei detenuti che determinino l’esonero dalla pena capitale. Ai singoli stati viene lasciata perciò una certa discrezione, così che anche dopo la sentenza del 2014 sono state registrate, ad esempio in Texas e in Georgia, esecuzioni di condannati con Q.I. nettamente al di sotto della media.

Se le prime tre esecuzioni previste per il mese di aprile in Arkansas sono state dunque fermate e anche le autorità dello stato hanno ammesso che non potranno essere rimesse in calendario a breve, quelle degli altri cinque detenuti dovrebbero essere invece confermate.

I giornali americani hanno raccontato di una corsa contro il tempo degli avvocati dei condannati per fermare la vera e propria catena di montaggio della morte decisa dal governatore Hutchinson. Doppie esecuzioni sono previste sia per giovedì 20 che per lunedì 24, mentre l’ultima è in programma tre giorni più tardi.

Nonostante i molti esempi della natura brutale e vendicativa del sistema giudiziario americano, i casi in cui la camera della morte negli USA è stata così affollata sono molto rari. Una doppia esecuzione nello stesso giorno era stata programmata per l’ultima volta nel 2014 dallo stato dell’Oklahoma.

In quel caso, però, finì in tragedia, con il primo dei due condannati che aveva patito un’agonia di quasi tre quarti d’ora a causa delle difficoltà del personale carcerario nell’individuare una vena per la somministrazione dei farmaci letali. Il condannato era alla fine deceduto per un arresto cardiaco e la seconda esecuzione era stata cancellata.

L’ultima doppia esecuzione portata a termine “con successo” risale invece al 2000 in Texas, ma sempre in Arkansas due detenuti erano stati giustiziati nello stesso giorno circa un anno prima. Dopo il già ricordato caso del 2014 in Oklahoma, un’agenzia di questo stato aveva raccomandato uno spazio di almeno sette giorni tra un’esecuzione e l’altra, anche per evitare problemi legati agli altissimi livelli di stress accumulati dal personale addetto alle condanne a morte.

A questo proposito, qualche settimana fa una ventina di agenti delle carceri dell’Arkansas aveva inviato una lettera al governatore Hutchinson per criticare le esecuzioni multiple in programma, a causa proprio dello stress mentale ed emotivo che comportano le procedure di condanna a morte.

Secondo i dati riportati dai media americani, in Arkansas circa i due terzi della popolazione sarebbe tuttora favorevole alla pena capitale. Le condanne a morte continuano d’altra parte a essere promosse dalla classe politica USA, soprattutto negli stati più conservatori del sud, come strumento di controllo sociale nel quadro di un sistema giudiziario spietato e che colpisce in larga misura gli appartenenti alle classi più oppresse e disagiate.

In generale, però, la sensibilità degli americani è relativamente cambiata negli ultimi anni e la pena di morte sembra essere sempre meno “popolare”, in seguito anche a svariati casi di detenuti nel braccio della morte che hanno visto annullare le loro condanne a causa di errori o abusi giudiziari.

Le decisioni prese dai tribunali nei giorni scorsi per fermare o rallentare la macchina della morte in Arkansas possono essere perciò in parte anche il riflesso di questa evoluzione, nel timore che l’orrore di condanne a morte in serie provochi ancora maggiore opposizione alla pena capitale negli Stati Uniti.

I leader politici favorevoli alla pena di morte, come il governatore Hutchinson, continuano comunque a invocare l’accelerazione delle esecuzioni, come se ciò fosse un modo per rendere giustizia ai famigliari delle vittime e non, piuttosto, di incoraggiare tendenze reazionarie tra la popolazione e di generare assuefazione a un sistema giudiziario fondamentalmente violento e oppressivo.


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