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di Mario Lombardo
Tre settimane dopo le dimissioni forzate del leader del Partito Socialista Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez, il “comitato federale” della principale forza di opposizione del paese iberico ha prevedibilmente deciso di assumersi la responsabilità di far nascere a Madrid un nuovo governo di minoranza guidato dal Partito Popolare (PP) di centro-destra dell’attuale primo ministro, Mariano Rajoy.
La presa di posizione dovrebbe mettere fine, almeno per il prossimo futuro, allo stallo politico che dura dalle elezioni del dicembre dello scorso anno, segnate dal tracollo del sistema bipartitico che ha caratterizzato la Spagna post-franchista. In quell’occasione, il PP aveva ottenuto il maggior numero di seggi alla Camera Bassa (Congresso dei Deputati), ma non a sufficienza per continuare a governare da solo.
L’impossibilità di mettere assieme una coalizione di governo aveva portato a un altro voto nel mese di giugno, ma i risultati erano stati sostanzialmente identici, nonostante un qualche incremento dei consensi per il PP e un ulteriore calo del PSOE. Da allora, quest’ultimo partito, reduce dalle due peggiori performance elettorali della propria storia, è stato attraversato da profonde divisioni interne circa l’atteggiamento da tenere nei confronti di un possibile nuovo governo Rajoy.
L’ormai ex segretario Sánchez aveva resistito alle pressioni della fazione che spingeva per consentire la formazione di un gabinetto di minoranza attraverso l’astensione di almeno una parte della delegazione parlamentare Socialista. Anzi, Sánchez aveva accarezzato l’idea di formare un proprio esecutivo assieme al partito anti-establishment Podemos (Possiamo), sia pure con il necessario sostegno di altre forze politiche minori.
Le resistenze nel PSOE e l’oggettivo indebolimento di entrambi i partiti dopo il secondo voto a giugno avevano tuttavia allontanato questa ipotesi, aprendo la strada a un colpo di mano tra i vertici Socialisti, puntualmente accaduto a inizio ottobre. Con la regia dell’ex primo ministro Felipe González, la destra del PSOE, vale a dire la maggioranza negli organi dirigenziali, tramite una serie di dimissioni studiate a tavolino, aveva sfruttato le norme interne per forzare le dimissioni di Sánchez e impedirgli di sondare iscritti e sostenitori del partito sull’opportunità di far astenere i propri deputati in un voto di fiducia al governo Rajoy.
Il PSOE è stato così affidato a una leadership provvisoria, guidata dal numero uno dei Socialisti nelle Asturie, Javier Fernández, che ha convocato una riunione del comitato federale per domenica scorsa, risoltasi appunto con un voto a favore dell’astensione per consentire la nascita del nuovo esecutivo Rajoy. Il leader dei Popolari dovrebbe iniziare il suo nuovo mandato da capo del governo già nel fine settimana, appena prima cioè della data del 31 ottobre, oltre la quale sarebbe scattato un nuovo scioglimento del Parlamento.
Nel primo voto in aula, che richiede la maggioranza assoluta dei deputati, il premier non sarà in grado di ottenere la fiducia, ma al secondo tentativo sarà sufficiente la maggioranza dei votanti e l’astensione dei Socialisti dovrebbe chiudere formalmente la crisi spagnola.
La crisi del PSOE non si risolverà invece con la decisione dei propri vertici. Sondaggi e manifestazioni di protesta hanno chiarito in questi mesi come la maggioranza degli elettori di questo partito si opponga a qualsiasi collaborazione con il PP, inclusa l’astensione in un voto di fiducia.
Se è probabilmente vero che una terza elezione nell’arco di dodici mesi avrebbe punito ulteriormente i Socialisti, è altrettanto inevitabile che la decisione di domenica costerà cara a un partito che continua a perdere voti a causa del costante spostamento a destra delle proprie posizioni politiche. Proprio questa involuzione è da ricercare tra le ragioni della crisi del PSOE e della situazione inestricabile in cui si è venuto a trovare dopo le due elezioni inconcludenti degli ultimi dieci mesi.
Numerosi dirigenti locali del partito hanno messo in guardia dalla scelta di facilitare la nascita del governo Rajoy. Il leader Socialista catalano, Miquel Iceta, ha fatto riferimento agli episodi di corruzione che hanno coinvolto negli ultimi anni il PP, avvertendo che la “posizione [del PSOE] sarà seriamente danneggiata dall’astensione, soprattutto in assenza di un serio sforzo per formare un governo alternativo”.
Idoia Mendia, segretaria del Partito Socialista nei Paesi Baschi, ha invece fatto notare come il PSOE non abbia nemmeno ottenuto concessioni dal PP in cambio della propria disponibilità a consentire la formazione di un governo di minoranza.
Visti i numeri in parlamento del PP, il quale potrà contare sul sostegno del partito di centro-destra Ciudadanos (Cittadini), sarà sufficiente l’astensione di 11 deputati Socialisti, ma i vertici del PSOE intendono far astenere tutta la propria delegazione. Ciò potrebbe creare seri problemi a molti parlamentari del partito, come quelli che rappresentano la Catalogna, tra i quali pare sia addirittura possibile una scissione o il passaggio nelle fila di Podemos.
Proprio quest’ultima formazione intende capitalizzare al massimo la decisione del PSOE, così da ridurre l’impatto dei problemi interni che essa stessa sta attraversando dopo il risultato relativamente deludente fatto segnare nelle elezioni di giugno.
Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, e altri esponenti del partito hanno infatti già denunciato la nascita di una “grande coalizione” tra il PP e il PSOE, nella speranza di intercettare il maggior numero di elettori Socialisti in vista di un voto che potrebbe non essere comunque troppo lontano, vista l’inevitabile precarietà del gabinetto che sta per insediarsi.
L’astensione nel voto di fiducia in parlamento implica in ogni caso che il PSOE è pronto anche a sostenere alcune iniziative di legge del governo di centro-destra, malgrado il leader ad interim, Javier Fernández, abbia chiarito che non esiste alcuna alleanza con il PP. In un’intervista rilasciata un paio di settimane fa al quotidiano El País, Fernández aveva però spiegato come “opposizione non significhi sempre e necessariamente antagonismo”, bensì fare “ciò che è utile alla popolazione”.
Dove per “popolazione”, il leader Socialista intendeva i poteri forti dentro e fuori i confini spagnoli, vale a dire il vero motore della decisione del suo partito, impegnati da mesi a fare pressioni per favorire la nascita a Madrid di un governo di continuità in grado di proseguire e intensificare le politiche di austerity e di “riforma” del mercato del lavoro già implementate in questi anni da Rajoy e dal Partito Popolare.
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di Michele Paris
Uno dei rarissimi momenti significativi del terzo e ultimo faccia a faccia tra Hillary Clinton e Donald Trump, andato in scena nella notte di mercoledì a Las Vegas, è stato probabilmente il ripetuto riferimento della candidata Democratica alla Casa Bianca agli ex presidenti Repubblicani, Ronald Reagan e George W. Bush, con l’intento di sottolineare le differenze tra questi ultimi e il suo rivale. In questo modo, la ex first lady ha cercato ancora una volta di convincere gli elettori e gli ambienti di potere Repubblicani delle sue credenziali conservatrici, se non reazionarie, che, infatti, hanno convinto da tempo numerosi esponenti della galassia “neo-con” e dell’establishment militare ad appoggiare pubblicamente la sua candidatura.
In effetti, durante praticamente tutto il dibattito all’università del Nevada, Hillary ha navigato gli attacchi di Trump e le domande di Chris Wallace di FoxNews, moderatamente più incisive rispetto ai primi due “duelli”, nel tentativo di conciliare le sue posizioni elitarie e guerrafondaie, a malapena celate, con proclami vagamente progressisti e, soprattutto, con appelli alle politiche identitarie.
Forse ancor più rilevante, anche se tutt’altro che sorprendente, è stata poi la quasi totale assenza di riferimenti al contenuto delle e-mail del capo della campagna elettorale della candidata Democratica, John Podesta, pubblicate in questi giorni da WikiLeaks. Le rivelazioni sono state a tratti devastanti nel ritrarre una candidata al servizio di Wall Street nonostante un’immagine pubblica costruita attorno alla difesa della classe media americana.
In una sola occasione Chris Wallace ha posto una domanda a Hillary sulle e-mail segrete, in relazione cioè all’auspicio da lei espresso, in un discorso privato a una banca brasiliana e pagato ben 225 mila dollari, di vedere “un mercato comune nell’emisfero occidentale” senza confini e senza dazi.
In linea con l’atteggiamento tenuto finora da tutto l’ambiente Democratico, Hillary ha subito dirottato la discussione sulla responsabilità del governo russo nell’avere violato account privati di posta elettronica negli Stati Uniti, puntando il dito direttamente contro il presidente Putin per essersi intromesso nelle elezioni americane a favore di Trump.
Proprio sulla politica estera, l’ex segretario di Stato ha manifestato apertamente le sue credenziali da “falco”. Riconoscendo che anche l’amministrazione Obama, di cui ha fatto parte, è contraria alla creazione di una no-fly zone sui cieli della Siria, Hillary ha confermato la sua decisione a istituirne una dopo il suo ingresso alla Casa Bianca.
Quando Wallace le ha fatto notare che, secondo lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, implementare una no-fly zone in Siria comporterebbe probabilmente entrare in guerra con la Russia, la Clinton ha attenuato di poco i toni, affermando in maniera confusa che questa iniziativa dovrebbe essere il frutto di trattative con gli stessi governi di Mosca e Damasco per proteggere la popolazione civile.
Sulle operazioni americane in Medio Oriente, Trump ha invece da parte sua attaccato Hillary e Obama, ricordando più volte le responsabilità di entrambi nel favorire il dilagare del fondamentalismo islamista in Iraq e in Siria. Nel rispondere poi alle accuse della rivale circa la sua attitudine troppo tenera nei confronti del Cremlino e i giudizi negativi espressi sulla NATO, Trump non ha nascosto la disponibilità a ristabilire rapporti sereni con Mosca e l’intenzione di sollevare gli Stati Uniti dai compiti di difesa degli alleati.
Sugli altri argomenti toccati dal dibattito, Hillary Clinton ha ostentato una retorica “liberal” per differenziare le proprie posizioni da quelle al limite del fascismo di Trump: dalla questione degli immigrati all’intervento dello stato nell’economia, dal diritto all’aborto alla salvaguardia dei rimanenti programmi pubblici di assistenza sociale. Ciononostante, Hillary non ha contestato l’impostazione della discussione data dal moderatore della serata su questi ultimi, accettando la premessa della necessità di contenerne i costi per evitare l’esplosione del debito pubblico.
Né Wallace né Trump, se non in maniera marginale, hanno fatto notare come le promesse di stampo progressista di Hillary contrastino clamorosamente con quanto da lei sostenuto nei discorsi alle grandi banche rivelati da WikiLeaks. In essi, la candidata Democratica ha sostanzialmente espresso la necessità di distribuire un elenco di menzogne al pubblico per contenere il malcontento e le tensioni sociali, mentre in realtà l’azione politica deve essere rivolta ai grandi interessi economico-finanziari.
Verso la fine del dibattito, dopo una tirata di Hillary sulla sua “missione” da presidente a favore degli americani comuni e contro “gli interessi dei potenti”, Trump ha fatto notare come la sua rivale stia “raccogliendo denaro [per la campagna elettorale] da quelle stesse persone che dice di voler tenere sotto controllo”.
I resoconti del dibattito apparsi giovedì sui media americani hanno comunque insistito su una dichiarazione di Trump, con la quale quest’ultimo si sarebbe rifiutato di riconoscere la legittimità democratica delle elezioni presidenziali. Il momento più citato dai giornali è avvenuto quando la discussione è stata portata sulle parole pronunciare da Trump nei giorni scorsi su un voto che potrebbe essere manipolato a favore di Hillary.
Quando il giornalista di FoxNews ha chiesto se è pronto ad accettare senza riserve il risultato delle elezioni, Trump ha risposto che tutto dipenderà da come si svolgeranno e che, per il momento, intende lasciare la “suspence” in merito alla sua decisione sull’esito del voto. Trump ha poi elencato le presunte manovre in atto per distorcere i risultati a favore della sua avversaria, alla quale, a suo dire, dovrebbe essere impedito di correre per la Casa Bianca, visti i crimini di cui si è macchiata.
Queste parole di Trump vanno intese come un serio avvertimento circa la sua intenzione di creare un movimento pseudo-fascista contro il sistema politico di Washington partendo dal rifiuto di accettare elezioni in qualche modo truccate. In questo scenario, la denuncia dell’irregolarità delle elezioni è perfettamente coerente con la strategia di Trump di presentarsi agli americani più penalizzati dalla crisi economica e dai processi di globalizzazione come fattore destabilizzante di un sistema manipolato a esclusivo favore dei poteri forti.
I suoi appelli alla “working-class” emarginata hanno però un certo successo solo grazie al vuoto della sinistra americana. Inevitabilmente, peraltro, le ricette economiche di Trump combinano una sorta di nazionalismo economico, alimentato dall’opposizione ai trattati di libero scambio che hanno favorito il trasferimento dei posti di lavoro in altri paesi, a logori cavalli di battaglia neo-liberisti, come il taglio delle tasse per le grandi aziende e altri favori a queste ultime per innescare magicamente una sostenuta crescita del PIL americano.
Alla fine della serie dei dibattiti previsti tra i due principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti e a meno di tre settimane dal voto, la stampa americana sostiene che una vittoria di Trump risulta poco meno che impossibile, visti gli scenari delineati da quasi tutti i sondaggi pubblicati nelle ultime settimane.
Se l’immagine di Trump è già screditata dalla sua appartenenza al sottobosco semi-criminale del business americano, gli attacchi della stampa ufficiale, schierata pressoché interamente con Hillary Clinton, hanno contribuito ad arrestare una rimonta che sembrava possibile durante l’estate. La strategia utilizzata contro Trump è stata in larga misura già utilizzata infinite volte per regolare i conti nella classe dirigente americana, quella cioè di sollevare accuse di molestie sessuali.
Il repentino e massiccio cambiamento di opinione dei potenziali elettori, almeno come viene caratterizzato dai media “mainstream”, appare però sospetto a molti, tanto più che è legato a questioni di importanza secondaria rispetto a quelle cruciali in ballo con il voto, legate all’economia, al welfare e, soprattutto, alla guerra.
Rilevazioni di opinione di vari istituti indicano comunque, se non un sostanziale equilibrio, almeno un vantaggio per la Clinton non troppo superiore al margine di errore. Gli stenti della ex first lady sono chiaramente dovuti sia alla persistente e più che giustificata ostilità degli americani per una candidata che è l’incarnazione stessa dei grandi interessi che dominano la politica americana, sia all’ondata di risentimento nei confronti del sistema che ha l’unica valvola di sfogo in un “non politico” populista di estrema destra.
Se il risultato del voto dell’8 novembre prossimo sembra già segnato, la peculiarità della campagna per le presidenziali forse più degradante della storia americana e la ribellione latente contro l’establishment suggeriscono tuttavia di non escludere del tutto, a urne chiuse, qualche possibile clamorosa sorpresa.
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di Michele Paris
L’interruzione del collegamento a Internet del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, da parte del governo dell’Ecuador, che da oltre quattro anni lo ospita nella sua ambasciata di Londra, è stato il segnale del livello di disperazione raggiunto dal governo americano nel tentativo di mettere fine alla diffusione dei documenti segreti relativi alla campagna elettorale di Hillary Clinton e ai suoi legami con i grandi interessi finanziari degli Stati Uniti.
Il paese sudamericano ha negato di essere stato sottoposto alle pressioni di Washington, ma nel comunicato ufficiale di martedì, nel quale ha ammesso di avere escluso “temporaneamente” dalla rete Assange, ha fatto riferimento alla presunta interferenza di WikiLeaks nelle vicende elettorali degli Stati Uniti.
Assange aveva denunciato in precedenza lo stop al collegamento a Internet e la sua organizzazione ha fatto sapere di avere ricevuto informazioni da varie fonti circa l’intervento diretto del segretario di Stato USA, John Kerry, sulle autorità ecuadoriane nel corso dei recenti negoziati sul processo di pace tra il governo colombiano e i guerriglieri delle FARC. Kerry avrebbe chiesto un intervento per fermare Assange e la pubblicazione di ulteriori documenti dalla portata devastante per la candidata favorita dall’establishment a stelle e strisce.
I documenti parzialmente pubblicati finora da WikiLeaks provengono dall’account di posta elettronica del numero uno della campagna elettorale di Hillary, l’ex consigliere di Obama ed ex capo di Gabinetto di Bill Clinton, John Podesta. Oltre a quelle già pubblicate, resterebbero più di diecimila e-mail da diffondere, forse con rivelazioni ancora più scottanti sull’ex segretario di Stato.
Il tentativo di zittire WikiLeaks e di isolare ulteriormente dal mondo esterno Assange ha implicazioni inquietanti per la libertà di stampa e il diritto a conoscere fatti fondamentali sul conto dei leader politici. Inoltre, il giornalista/attivista australiano è già stato bersaglio di pesanti minacce nel recente passato e i provvedimenti presi nei suoi confronti ne hanno messo a serio rischio anche l’integrità fisica.
Proprio WikiLeaks aveva rivelato una discussione che coinvolgeva Hillary Clinton, la quale, durante la pubblicazione nel 2010 di centinaia di migliaia di documenti riservati sulle attività del Dipartimento di Stato americano, chiedeva ai suoi collaboratori se non fosse possibile “semplicemente eliminare Assange con un drone”.
Hillary ha sostenuto di non ricordare la frase e, se anche l’avesse pronunciata, sarebbe stato uno scherzo. Al Dipartimento di Stato, tuttavia, l’allora segretario aveva la facoltà di intervenire sul processo decisionale relativo all’elenco degli individui da colpire arbitrariamente con i droni americani e, in ogni caso, minacce alla vita di Assange sono state rivolte pubblicamente in varie occasioni da altri esponenti Democratici e dell’apparato militare e dell’intelligence americano.
Lo stesso esilio forzato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra è il risultato di una campagna giudiziaria organizzata dal governo di Gran Bretagna e Svezia, dove è tuttora in vigore un mandato di arresto nei confronti di Assange, con la regia americana per incastrare quest’ultimo e avviare un processo di estradizione verso gli Stati Uniti. Notizie circolate qualche anno fa avevano rivelato come la giustizia americana abbia già istituito segretamente un “Grand Jury” per raccomandare l’incriminazione di Assange con l’accusa di tradimento e diffusione di documenti governativi riservati.
Mentre la maggior parte dei media ufficiali, soprattutto americani, continua a dipingere Assange come uno stupratore che intende sottrarsi alla giustizia, è necessario ricordare che le autorità svedesi non hanno avviato alcun procedimento di incriminazione nei suoi confronti, bensì intendono soltanto interrogarlo in merito a un caso dai contorni a dir poco sospetti.
La denuncia delle due “vittime” dello stupro, legata in realtà al mancato uso di un profilattico, era stata infatti archiviata in un primo momento dalla giustizia svedese, anche perché almeno una delle donne coinvolte aveva ostentato sui social media il suo rapporto sessuale, evidentemente consensuale, con Assange. Solo in seguito all’intervento di un magistrato legato al Partito Socialdemocratico svedese il caso era stato riaperto e da allora ha avuto inizio la persecuzione giudiziaria contro Assange.
Quest’ultimo aveva poi trovato rifugio presso la rappresentanza diplomatica ecuadoriana in Gran Bretagna una volta esaurite le strade legali per evitare l’estradizione in Svezia e, probabilmente, dal paese scandinavo agli Stati Uniti. Dopo più di quattro anni di vita all’interno dell’ambasciata, con il governo di Londra che aveva anche respinto la concessione di una sorta di salvacondotto per consentire il trasferimento di Assange in ospedale, un rapporto diffuso quest’anno dal Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle Detenzioni Arbitrarie ha condannato duramente la Gran Bretagna e la Svezia, i cui governi hanno però ignorato le conclusioni non vincolanti.
La decisione del governo dell’Ecuador sembra essere comunque poco più che simbolica, malgrado il presidente Correa abbia sostenuto pubblicamente di preferire una vittoria di Hillary Clinton nelle presidenziali di novembre. Il provvedimento di blocco del collegamento a Internet di Assange è appunto di natura temporanea e Quito ha tenuto a precisare che l’offerta di asilo rimane intatta, così come il suo diritto a svolgere l’attività giornalistica.
Allo stesso tempo, è probabile che il governo americano farà altre pressioni su quello ecuadoriano, lasciato peraltro vergognosamente solo dagli altri paesi nel gestire una vicenda dalle implicazioni cruciali per la libertà di stampa e i diritti democratici a livello internazionale.
La vicenda di Assange e le attività di WikiLeaks, di fatto quasi eroiche viste le circostanze, dopo le ultime rivelazioni su Hillary Clinton si intrecciano d’altronde con quella che è una delle principali questioni strategiche di questi anni, vale a dire la rivalità tra Stati Uniti e Russia e il pericolo di un conflitto diretto tra le due potenze nucleari.
Senza una sola prova concreta, il governo e i media negli Stati Uniti insistono nell’attribuire a Mosca la penetrazione nei server del Partito Democratico e dei collaboratori di Hillary Clinton, da cui provengono le e-mail pubblicate da WikiLeaks. L’organizzazione di Julian Assange sarebbe perciò complice di Putin nel tentativo di penalizzare la candidata Democratica alla Casa Bianca e di favorire Donald Trump, attestato su posizioni teoricamente più moderate per quel che riguarda i rapporti con Mosca.
Il contenuto delle e-mail diffuse in questi giorni viene così in sostanza ignorato, mentre si denuncia WikiLeaks e la Russia per il tentativo di interferire in un processo elettorale altrimenti esemplarmente democratico. Questa strategia di Hillary e del suo partito serve in primo luogo a sostenere la propria candidatura alla presidenza ed evitare un ulteriore peggioramento del già misero gradimento tra gli americani.
Parallelamente, però, gli attacchi contro Mosca rientrano nel progetto “neo-con, abbracciato in pieno da Hillary, di contenimento della Russia, contro la quale a Washington si sta preparando un’offensiva che vedrà un’accelerazione dopo il voto di novembre.
Chiunque sostenga tesi diverse o rappresenti un ostacolo a questo progetto - da Donald Trump a Julian Assange e WikiLeaks - è perciò un nemico se non un traditore, intenzionato a favorire quella che viene rappresentata come la principale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti.
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di Mario Lombardo
Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, è sbarcato martedì a Pechino per una visita ufficiale che sarà seguita con particolare apprensione negli Stati Uniti. La prima trasferta all’estero del discusso leader filippino, al di fuori dei paesi dell’area del sud-est asiatico, rappresenta una sorta di suggello alle aperture fatte alla Cina a partire dal suo insediamento a Manila nel giugno scorso e, allo stesso tempo, manda un segnale inequivocabile a Washington della svolta strategica in atto in quello che sembrava fino a pochi mesi fa uno degli alleati più affidabili in Estremo Oriente.
L’arrivo di Duterte in Cina è stato preceduto da una serie di commenti sulla stampa del regime per celebrare l’occasione di ristabilire relazioni amichevoli tra i due paesi vicini. Un articolo dell’agenzia di stampa Xinhua ha ad esempio elogiato il presidente filippino per avere messo da parte l’atteggiamento ostile del suo predecessore, il fedelissimo di Washington Benigno Aquino, e non avere assecondato le provocazioni di paesi, come gli Stati Uniti, che intendono intromettersi nelle contese territoriali del Mar Cinese Meridionale.
Il commento definisce significativamente la visita di Duterte come una “prova del nove” per dimostrare la “sincerità” e il “buon senso politico” della nuova amministrazione filippina. Soprattutto, Manila dovrà evitare qualsiasi pressione sulla Cina in conseguenza della recente sentenza dell’Arbitrato Permanente de L’Aia sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale, scaturita da un’istanza filippina – dietro “consiglio” americano – e fortemente critica delle posizioni di Pechino.
Questo punto di vista riflette senza dubbio quello del governo cinese, il quale prospetta importanti “ricompense” al vicino nel caso il processo di distensione dovesse andare a buon fine. Manila potrebbe cioè raccogliere frutti non solo in ambito politico e diplomatico, ma anche e soprattutto in quello economico, dove evidentemente gli Stati Uniti faticano a competere.
Altrettanto rivelatore è anche l’insistito appoggio manifestato da Pechino alla vera e propria guerra dichiarata da Duterte alla criminalità e, in particolare, al narcotraffico. Questa battaglia si sta risolvendo in realtà in una strage sommaria di presunti criminali per mano delle forze di polizia e di squadre della morte al servizio delle autorità.
Il governo americano aveva inizialmente appoggiato l’iniziativa di Duterte ma ha in seguito espresso perplessità, non tanto per scrupoli legati ai diritti umani dei giustiziati, quanto per utilizzare le esecuzioni come arma di pressione su un presidente sempre più critico del potente alleato.
La Cina, insomma, prospetta alle Filippine di Duterte promesse di ingenti investimenti in un’economia sì in crescita ma segnata anche da grave arretratezza, nonché da colossali disuguaglianze e ampie sacche di povertà. Il tutto senza muovere critiche ai metodi apertamente fascisti del presidente-sceriffo.
Non a caso, Duterte è arrivato in Cina con al seguito centinaia di uomini d’affari filippini, nella speranza di siglare accordi che la stampa internazionale stima in svariati miliardi di dollari. Le principali motivazioni dietro alle aperture alla Cina del presidente del paese-arcipelago sono state spiegate da lui stesso in un’intervista concessa sempre all’agenzia di stampa Xinhua prima della partenza per Pechino.
Duterte si è rammaricato del fatto che l’economia filippina sia stata superata nell’ultimo decennio da quelle di molti paesi vicini, mentre gli ambiziosi progetti per la costruzione di infrastrutture cruciali restano irrealizzabili per “mancanza di capitali”. Se, dunque, la Cina dovesse offrire a Manila “l’assistenza che ha già dato ad altri paesi”, le Filippine “sarebbero liete di far parte dei piani grandiosi [di Pechino] per l’intera Asia”.
Quest’ultima affermazione delinea una precisa scelta strategica da parte di Duterte, quella cioè di portare le Filippine all’interno del progetto cinese di integrazione economica del continente asiatico. E ciò è precisamente quanto Washington intende contrastare, tanto più se i paesi intercettati dall’orbita di Pechino sono alleati storici degli Stati Uniti.
L’altro schiaffo di Duterte agli americani consiste nel rifiuto a utilizzare la sentenza sul Mar Cinese Meridionale citata in precedenza per esercitare pressioni su Pechino. L’amministrazione Obama si aspettava senza dubbio un’azione incisiva da parte del governo filippino su questo fronte, ma il voltafaccia di Duterte ha lasciato per ora nelle mani di Washington un’arma spuntata.
Con un chiaro riferimento al verdetto dell’Arbitrato de L’Aia, nell’intervista a Xinhua, il presidente filippino ha affermato che “non c’è ragione nel combattere per uno specchio d’acqua”, mentre ciò che il suo governo persegue nei rapporti con la Cina è “cooperazione”, “amicizia” e, “soprattutto, business”. Oltretutto, nell’auspicare un’accelerazione del dialogo con Pechino, le Filippine non intendono ricorrere alla mediazione di paesi ostili alla Cina.
La predisposizione così mostrata da Duterte non esclude in ogni caso motivi di frizione con la Cina. Per cominciare, anche per ragioni di politica interna, il presidente dovrà risolvere la disputa con Pechino sul divieto imposto ai pescatori filippini di operare nelle acque del conteso atollo di Scarborough, nel Mar Cinese Meridionale, controllato dalla Cina.
Secondo la Associated Press, le due parti stanno negoziando sulla questione e al momento non è ancora chiaro se il comunicato che seguirà il faccia a faccia di giovedì tra Duterte e il presidente cinese, Xi Jinping, conterrà un qualche riferimento ad essa.
Un editoriale della testata cinese in lingua inglese Global Times, la quale riflette le posizioni del regime sulle questioni di politica estera, ha riconosciuto la necessità per Duterte di ottenere qualche risultato sulla questione della pesca. Pur affermando la non negoziabilità della sovranità cinese, Pechino potrebbe comunque “adottare una politica flessibile sui diritti ittici delle Filippine”, anche come ricompensa per la “ferma posizione [di Duterte] nel non assecondare la strategia anti-cinese degli Stati Uniti”.
Anche sul fronte militare, Duterte ha minacciato nuovamente di stravolgere i rapporti con gli Stati Uniti. Facendo seguito a quanto già preannunciato nei mesi scorsi, il presidente filippino ha confermato a una rete televisiva di Hong Kong qualche giorno fa che in futuro non si terrà più nessuna esercitazione militare tra le forze armate del suo paese e quelle americane. Duterte si è detto poi disponibile a valutare la possibilità di organizzare esercitazioni con Russia e Cina, lasciando intendere che questi paesi potrebbero diventare fornitori di armi delle Filippine, nonostante gli approvvigionamenti in questo ambito siano quasi monopolizzati dalle aziende statunitensi.
USA e Filippine, inoltre, sono legate da un trattato di “mutua difesa” fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso e, nel 2014, l’amministrazione Aquino ha sottoscritto un’intesa sulla cooperazione in ambito militare che consente alle forze armate americane di utilizzare le basi in territorio filippino, sia pure in maniera “non permanente”.
Se le uscite anti-americane di Duterte continuano ad alternarsi a dichiarazioni relativamente rassicuranti sul mantenimento dell’alleanza con Washington, è inevitabile che gli Stati Uniti seguano con estrema preoccupazione la possibile trasformazione degli orientamenti strategici delle Filippine. Se gli sviluppi osservati in questi mesi dovessero persistere, non è da escludere che gli USA possano mettere in atto una qualche manovra diretta a screditare, se non addirittura a rimuovere, il presidente filippino.
Tra la classe dirigente del paese del sud-est asiatico, d’altra parte, vi sono forti resistenze al ribaltamento degli orizzonti strategici prefigurati da Duterte. A esprimersi apertamente contro il presidente negli ultimi giorni è stato, tra gli altri, uno dei suoi predecessori, l’88enne Fidel Ramos, che la settimana scorsa aveva definito “deludente” il bilancio iniziale del nuovo governo di Manila, mentre, poco prima della visita in Cina, ha affermato che Duterte “non può risolvere da solo tutti i problemi del paese”.
A spiegare lucidamente la posta in gioco nel triangolo USA-Cina-Filippine è stata infine sempre la testata on-line Global Times, la quale ha scritto martedì che Manila “svolge un ruolo speciale negli scenari legati al Mar Cinese Meridionale”. Le Filippine sono “la pedina ideale di USA e Giappone per intervenire nelle questioni del Mar Cinese Meridionale” e, infatti, durante la presidenza Aquino, Manila ha messo in atto gravi provocazioni nei confronti di Pechino proprio perché aveva l’appoggio di Washington e Tokyo.
Se, però, l’equazione Cina-Filippine dovesse cambiare e i due paesi tornassero a intrattenere relazioni cordiali, non solo le manovre nel Mar Cinese ma addirittura l’intero progetto di riallineamento strategico in Asia degli Stati Uniti, com’è ovvio in funzione anti-cinese, potrebbe essere messo seriamente in discussione.
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di Michele Paris
Con un annuncio ufficiale in diretta televisiva del primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, è iniziata l’attesa offensiva militare per la riconquista di Mosul, città da due milioni di abitanti e roccaforte dello Stato Islamico (ISIS/DAESH) in Iraq. A partecipare all’operazione, oltre all’esercito di Baghdad, sono le forze della regione autonoma del Kurdistan iracheno, milizie sciite fedeli al governo centrale e contingenti di varia entità e con ruoli diversi di alcuni paesi occidentali, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti.
A Washington, il governo e la stampa ufficiale hanno salutato con entusiasmo la campagna per “liberare” la città irachena dai terroristi islamici, lasciando chiaramente intendere che nell’assedio imminente varrà la pena sacrificare migliaia o decine di migliaia di vittime civili. L’attacco è certamente necessario per infliggere un colpo decisivo all’ISIS/DAESH e giunge semmai con ritardo rispetto alle necessità, ma c’è da sottolineare come l’elemento relativo ai “danni collaterali” venga, nell’occasione, taciuto.
Al contrario, le operazioni condotte ad Aleppo in Siria dall’esercito di Damasco, dall’aviazione russa e dalle forze speciali iraniane e di Hezbollah, a tutti gli effetti rivolte ugualmente per la definitiva liberazione della città dagli elementi fondamentalisti che minacciano l’integrità di uno stato sovrano, continuano a essere condannate come crimini di guerra dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
L’offensiva per liberare Mosul, presentata brevemente nelle primissime ore di lunedì dal premier iracheno in abiti militari e affiancato da alti ufficiali dell’esercito, vedrà impegnati complessivamente circa 30 mila uomini, supportati dalle forze aeree americane. Nelle fasi iniziali, un ruolo importante è stato assegnato a 4 mila “peshmerga” curdi, incaricati della riconquista di una decina di villaggi che circondano Mosul.
Nei dintorni della città, da settimane sono state già ammassate truppe in vista dell’assalto e per impedire la fuga degli uomini dell’ISIS/DAESH verso la Siria. Come ha spiegato lunedì il New York Times, in un secondo momento saranno le forze dell’anti-terrorismo, già protagoniste della “liberazione” di Ramadi e Falluja nel dicembre del 2015 e nel giugno di quest’anno, a guidare l’attacco nel cuore della città, in appoggio alle forze regolari irachene.
Proprio la distruzione e la crisi umanitaria seguite alla cacciata dell’ISIS/DAESH da queste due città irachene fa prevedere una nuova catastrofe a Mosul. Le Nazioni Unite hanno avvertito che 200 mila residenti potrebbero essere costretti a lasciare le loro abitazioni solo nei primi giorni dell’attacco, generando una situazione drammatica, viste anche le inadeguate misure adottate dal governo di Baghdad per accoglierli.
Per la coordinatrice ONU degli aiuti umanitari in Iraq, Lise Grande, la crisi che rischia di scaturire da Mosul potrebbe essere la più complessa affrontata quest’anno dalla comunità internazionale, essendo previsti fino a un milione di civili in fuga dai combattimenti.
Solo giovedì scorso, la diplomatica americana stimava in un miliardo di dollari il costo per lo sforzo umanitario diretto ad assistere un milione di persone. Fino ad ora, però, la sua agenzia ha ricevuto fondi pari ad appena 230 milioni, mentre i campi di accoglienza già allestiti in Iraq sono in grado di ospitare non più di 50 mila persone. In previsione dello scenario che potrebbe presentarsi, per cercare di evitare l’esodo il governo iracheno ha lanciato migliaia di volantini su Mosul, invitando in maniera crudele i civili a restare nelle proprie case durante i combattimenti.
Sempre gli esempi di operazioni anti-ISIS/DAESH, come quella condotta a Falluja, lasciano comunque pochi dubbi sull’esito dell’offensiva, sia in termini di vittime civili sia per la distruzione di abitazioni e infrastrutture. D’altra parte, media e governi coinvolti nelle manovre militari insistono da tempo sull’efferatezza degli uomini del “califfato”, per annientare i quali sarà perciò giustificata qualsiasi strage.
Mosul è la seconda città irachena per numero di abitanti e la sua popolazione è a maggioranza sunnita, anche se qui erano presenti consistenti minoranze sciite e cristiane. La sua caduta nelle mani di guerriglieri jihadisti provenienti dalla vicina Siria nel giugno del 2014 sconvolse il governo di Baghdad, il cui esercito, costruito e addestrato con l’appoggio americano, abbandonò le proprie postazioni praticamente senza opporre resistenza.
L’avanzata dell’ISIS/DAESH fu possibile anche grazie al favore iniziale di una parte dei residenti sunniti della città, ostili al governo centrale sciita. Proprio le persistenti divisioni settarie, che caratterizzano l’Iraq del dopo invasione USA, rischiano di aggiungere un altro motivo di preoccupazione per i civili di Mosul.
Le potenti milizie sciite che dovrebbero partecipare all’offensiva anti-ISIS/DAESH sono state infatti accusate di vari crimini nel corso delle precedenti operazioni in località a maggioranza sunnita. Torture, esecuzioni sommarie e rapimenti sono stati documentati in vari casi nelle città liberate dagli uomini del “califfato”, come ad esempio a Falluja.
Per cercare di evitare il ripetersi di questi episodi, il governo di Baghdad avrebbe deciso di tenere il più lontano possibile da Mosul le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, di cui fanno parte decine di milizie armate in gran parte sciite.
Nella nuova battaglia contro il terrorismo islamico appena iniziata a Mosul c’è dunque da attendersi resoconti giornalistici e dichiarazioni ufficiali di governi occidentali e mediorientali complessivamente favorevoli all’operazione di riconquista della città. Come ricordato in precedenza, questa retorica contrasta con quella che sta accompagnando il tentativo di liberazione di Aleppo dalle forze di opposizione anti-Assad dominate dalla filiale siriana di al-Qaeda.
La differenza tra le due operazioni, caratterizzate entrambe dall’estrema sofferenza dei civili, è che ad Aleppo i fondamentalisti che resistono nei quartieri orientali della città sono di fatto sostenuti dagli USA e dai loro alleati in un conflitto orchestrato per rovesciare un regime ostile e alleato di Russia e Iran.
A Mosul, invece, le forze estremiste che controllano la città sotto insegne diverse rappresentano una minaccia per la stabilità di un governo, come quello iracheno, che, nonostante l’avvicinamento in questi anni a Teheran, continua a essere una pedina fondamentale della strategia americana in Medio Oriente.
Così stando le cose, per quante atrocità saranno commesse dalle forze di “liberazione” nella città irachena nelle prossime settimane e, molto probabilmente, nei prossimi mesi, esse saranno puntualmente giustificate dalla propaganda ufficiale come necessari e inevitabili “danni collaterali”.