di Mario Lombardo

La sfilata di leader asiatici in Cina sta proseguendo questa settimana con la visita del primo ministro della Malaysia, Najib Razak, giunto martedì a Pechino con l’intenzione di rafforzare i legami non solo economici tra i due paesi. Come il leader che l’aveva preceduto, il presidente filippino Rodrigo Duterte, Najib ha avuto parole di condanna nei confronti dell’Occidente e, in particolare anche se in maniera velata, degli Stati Uniti, lasciando intendere come anche il suo paese possa operare nel prossimo futuro un ribaltamento delle proprie priorità strategiche sotto la spinta di molteplici fattori.

I titoli dei giornali e delle agenzie di stampa di tutto il mondo hanno messo in guardia martedì dalla nuova minaccia che potrebbe incombere sulla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in seguito a una dichiarazione di Najib, riportata dalla stampa cinese, nella quale invitava “le ex potenze coloniali a evitare di dare lezioni su come condurre gli affari interni ai paesi che in passato sono stati da loro sfruttati”.

Anche se la Malaysia era una colonia britannica, il riferimento del premier è stato principalmente agli Stati Uniti, peraltro ex potenza coloniale delle vicine Filippine. Najib, inoltre, in un editoriale da lui scritto per il giornale governativo China Daily ha celebrato lo stato e le prospettive delle relazioni con la Cina. L’articolo, ampiamente citato dai media internazionali, parla ad esempio di “una nuova fase” nei rapporti bilaterali, ma anche dei “nuovi livelli raggiunti dalla cooperazione militare”, di “chiare sinergie” e di un “destino comune” tra Pechino e Kuala Lumpur.

L’incontro di Najib nella giornata di martedì con il suo omologo cinese, Li Keqiang, a cui seguirà quello di giovedì col presidente Xi Jinping, ha subito prodotto più di dieci accordi bilaterali nell’ambito economico, della difesa e in altri settori. Una delle ragioni della trasferta cinese di Najib è legata alla necessità di rilanciare l’economia malese, colpita dal crollo delle quotazioni petrolifere e da un debito pubblico in rapida ascesa. I principali accordi già siglati a Pechino riguardano infatti progetti di infrastrutture da costruire in Malaysia, tra cui quello relativo a una linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Singapore alla Cina sud-occidentale.

Gli aspetti strategici dalle implicazioni forse ancora più importanti del viaggio di Najib in Cina hanno però a che fare con la cooperazione militare e la risoluzione delle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale. In merito a entrambe le questioni, gli Stati Uniti esercitano da anni forti pressioni sui paesi del sud-est asiatico con lo scopo di isolare la Cina, soprattutto se questi ultimi sono alleati di Washington.

In ambito militare, Pechino e Kuala Lumpur hanno siglato un “memorandum d’intesa” che, secondo il vice-ministro degli Esteri cinese, Liu Zhenmin, riguarderà in particolare il settore “navale”. In fase di contrattazione vi sono poi contratti d’acquisto di equipaggiamenti militari, tra cui 4 navi da guerra di costruzione cinese.

Come ha spiegato lo stesso Zhenmin, la cooperazione in ambito navale si ricollega alla questione del Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi si impegnano appunto a “garantire pace e stabilità” e a “rafforzare la fiducia reciproca”.

Come altri paesi in Asia sud-orientale, a cominciare da Filippine e Vietnam, la Malaysia è al centro di dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, anche se i toni di Kuala Lumpur nei confronti di Pechino sono stati finora molto più contenuti rispetto ai vicini. In Cina, ad ogni modo, Najib sembra avere sposato interamente la proposta cinese per la risoluzione delle contese, ovvero il dialogo su base “bilaterale”.

Quest’ultima è esattamente la formula che gli Stati Uniti intendono boicottare, mentre da tempo cercano di favorire l’allargamento della discussione sul Mar Cinese all’ambito regionale, introducendo, senza troppo successo, la questione nell’agenda di organi come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). In questo modo, gli USA puntano a impedire alla Cina di negoziare da una posizione di forza, come nel caso di colloqui bilaterali con paesi più piccoli, e a creare l’impressione che vi sia una certa unità di intenti a livello regionale nel condannare le presunte prevaricazioni di Pechino nelle acque contese.

Se i contenuti della visita di Najib Razak in Cina non sono apparsi finora preoccupanti come quelli che avevano caratterizzato la trasferta a Pechino del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, l’atteggiamento del leader malese viene osservato con uguale ansia a Washington proprio perché si tratta del secondo episodio in due settimane dalle implicazioni potenzialmente disastrose per la strategia asiatica americana.

Anzi, proprio l’annuncio di Duterte della “separazione” dagli USA da parte delle Filippine, vale a dire uno degli alleati più solidi di Washington nella regione, può avere contribuito al cambio di prospettiva di Najib. Molti commentatori avevano d’altra parte considerato la rottura di Manila, sia pure non ancora consumata a livello pratico, come l’inizio della fine dei sogni egemonici in funzione anti-cinese degli Stati Uniti in Estremo Oriente.

La progressiva deriva cinese, anche se in molti casi parziale o soltanto in fase poco più che embrionale, che si sta registrando in molti paesi asiatici con rapporti storicamente solidi con gli Stati Uniti è dovuta in primo luogo proprio al declino della prima potenza economica del pianeta e, di riflesso, all’ascesa della Cina e alle opportunità che essa offre ai potenziali partner.

In molti casi, va detto, questo processo non comporta un distacco completo da Washington né, tantomeno, un abbraccio totale e incondizionato con Pechino. Paesi come le Filippine o la Thailandia, ma anche la stessa Malaysia, intendono piuttosto mantenere un rapporto di equilibrio con entrambe le potenze, nel tentativo di sfruttare i benefici che possono derivare da relazioni cordiali con queste ultime.

Questa strategia si sta però trasformando sempre più in una scommessa, dal momento che la crescente rivalità in ambito strategico, commerciale e militare tra Cina e Stati Uniti rende complicate le politiche improntate all’equidistanza. Washington, in particolare, chiede di fatto un allineamento totale, o quasi, ai propri interessi in Asia, lasciando ai propri interlocutori la difficile scelta di rinunciare ai benefici offerti da Pechino in cambio del mantenimento di un’alleanza strategica con gli USA con sempre meno vantaggi dal punto di vista pratico.

Per quanto riguarda il primo ministro della Malaysia, le sue aperture alla Cina sono anche la conseguenza delle difficoltà che sta incontrando sul fronte interno e dei guai legali in alcuni paesi, tra cui proprio gli Stati Uniti, derivanti dallo scandalo del colosso pubblico 1MDB. Da questa compagnia, impegnata in progetti per lo “sviluppo strategico” della Malaysia, sarebbero transitati e spariti fondi per centinaia di milioni di dollari, poi riciclati all’estero, di cui pare abbiano beneficato lo stesso Najib e i suoi famigliari.

I giornali occidentali, tra cui in particolare il Wall Street Journal, hanno condotto indagini approfondite sulla vicenda, fino a che, lo scorso mese di luglio, il dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’indagine ufficiale e sequestrato beni per un valore di circa un miliardo di dollari acquistati da uomini vicini a Najib con fondi sottratti all’1MDB.

Questa iniziativa, dalle ovvie implicazioni politiche e strategiche, ha inasprito i rapporti tra gli USA e il governo malese di Najib, il quale sul fronte interno deve inoltre fronteggiare l’accesa opposizione di una parte del suo partito (Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti, UMNO). L’indagine americana si innesta tuttavia su una situazione già segnata dal progressivo intensificarsi dei rapporti tra Pechino e Kuala Lumpur, confermato ad esempio dal fatto che il principale partner commerciale della Cina tra i paesi ASEAN è proprio la Malaysia.

Complessivamente, gli scambi tra i due paesi hanno raggiunto i 106 miliardi di dollari nel 2013, inferiori in Asia solo a quelli tra Cina e Giappone e tra Cina e Corea del Sud. Anche in ambito militare, l’intesa sottoscritta questa settimana a Pechino non è una novità assoluta, come dimostrano le prime esercitazioni congiunte tenute tra i militari dei due paesi nel 2015.

Ciononostante, almeno finora l’alleanza tra USA e il governo malese non aveva mostrato segni particolari di deterioramento. Il presidente americano Obama era stato ad esempio protagonista di una visita dai toni amichevoli in Malysia nel novembre dello scorso anno, mentre lo stesso inquilino della Casa Bianca aveva di fatto appoggiato Najib dopo le elezioni del 2013, caratterizzate dalle accuse di brogli da parte dell’opposizione. Il premier malese, da parte sua, aveva tra l’altro appoggiato il trattato di libero scambio trans-pacifico (TTP) promosso dagli Stati Uniti, di cui il suo paese fa parte.

Come dimostra la già ricordata causa legale avviata negli USA, è possibile che Washington consideri Najib Razak un leader non più affidabile, a causa sia del suo corteggiamento di Pechino sia del discredito causato dallo scandalo dei fondi dell’1MDB. Oltre a ciò, va ricordato come negli ambienti finanziari occidentali ci sia sempre maggiore frustrazione per l’incapacità del governo di Najib di adottare provvedimenti che limitino la corruzione e il clientelismo, su cui si basa il potere dell’UMNO, e che aprano ulteriormente il paese del sud-est asiatico agli interessi del capitale internazionale.

di Mario Lombardo

Dopo ben due anni e mezzo di vuoto al vertice dello stato, il parlamento del Libano è riuscito finalmente a eleggere un nuovo presidente, mettendo fine a uno stallo politico che aveva aggiunto ulteriori incertezze a una situazione già estremamente delicata a causa del conflitto nella vicina Siria. Il nuovo capo dello stato è l’81enne ex generale ed ex primo ministro, Michel Aoun, cristiano maronita del Movimento Patriottico Libero e alleato di Hezbollah.

Nonostante la vicinanza del neo-presidente al partito-movimento sciita, la sua elezione era stata promossa in maniera decisiva dal leader del principale partito libanese sunnita (Movimento il Futuro), Saad Hariri, figlio dell’assassinato ex primo ministro, Rafik Hariri. Il recente appoggio di Hariri ad Aoun aveva permesso di sbloccare la situazione dopo quasi quaranta convocazioni del parlamento andate a vuoto a partire dalla fine del mandato di Michel Suleiman nel maggio del 2014.

Alla prima votazione in aula, Aoun ha mancato i due terzi dei consensi dei deputati, necessari per essere eletto presidente, ma al secondo tentativo, quando è sufficiente la maggioranza semplice, dopo alcuni problemi procedurali ha ottenuto 83 voti a favore, cioè 18 in più della soglia minima prevista.

La paralisi politica in Libano era dovuta principalmente all’impossibilità delle varie fazioni politiche, schierate lungo linee settarie, di trovare un’intesa sul nome del nuovo presidente, il quale secondo gli accordi presi al termine della guerra civile deve essere di fede cristiana. Sulla crisi politica libanese aveva influito il fatto che i diversi partiti si erano schierati su posizioni opposte in relazione alla guerra in Siria, acuendo ulteriormente le divisioni nel paese.

Già sul finire dello scorso anno, Hariri aveva tentato di rompere l’impasse appoggiando pubblicamente un altro alleato di Hezbollah, il leader del piccolo partito cristiano Movimento Marada, Suleiman Franjieh, ritenuto molto vicino al presidente siriano, Bashar al-Assad.

Quell’esperimento, già visto da molti come un clamoroso voltafaccia di Hariri nei confronti della comunità sunnita e del regime con la maggiore influenza su quest’ultima, l’Arabia Saudita, era però fallito dopo che Hezbollah aveva insistito sulla candidatura a presidente di Michel Aoun.

Aoun incontrava da parte sua l’opposizione anche di leader della stessa coalizione di cui fa parte, l’Alleanza 8 Marzo, come il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, del Movimento Amal. Contro Aoun erano schierate inoltre anche alcune fazioni cristiane affiliate all’altra principale coalizione libanese, l’Alleanza 14 Marzo guidata da Hariri, a cominciare dai Falangisti del Partito Kataeb di Samy Gemayel. A complicare ulteriormente il quadro, già alcuni mesi fa Aoun aveva invece trovato l’appoggio del rivale Samir Geagea, leader delle Forze Libanesi cristiane, anch’esse parte dell’Alleanza 14 Marzo.

L’accordo che ha garantito a Michel Aoun l’ascesa alla presidenza prevede che la carica di primo ministro, riservata a un sunnita, sia assegnata a Saad Hariri. Quest’ultimo era già stato a capo del governo tra il 2009 e il 2011 ma era stato costretto alle dimissioni in seguito al ritiro della fiducia di Hezbollah a causa delle tensioni politiche provocate dalle indagini del tribunale internazionale sulla morte di Rafik Hariri e il coinvolgimento in esse di esponenti del “Partito di Dio”.

Aoun rimane in ogni caso una figura controversa in Libano. Da combattente contro l’invasione siriana, che gli sarebbe costata un esilio durato 15 anni, Aoun si è trasformato in alleato di Hezbollah e delle forze più vicine a Damasco nel suo paese. Proprio nella capitale della Siria, Aoun si recò in una storica visita nel 2009 e cinque anni più tardi da un presidente Assad già da tempo invischiato in un sanguinoso conflitto sul fronte interno ottenne l’appoggio per la corsa alla presidenza del Libano.

L’interesse dei media libanesi e non solo si sta concentrando però sulla decisione di Hariri di appoggiare quello che veniva considerato un suo nemico, tanto più alleato di Hezbollah. La prima e più probabile ipotesi ha a che fare con i timori, non solo del leader sunnita, per lo sprofondare del Libano in una crisi politica che potrebbe avere conseguenze esplosive alla luce della già precaria situazione prodotta dal conflitto siriano e dall’escalation di violenze settarie in Medio Oriente.

In molti spiegano invece le mosse dell’ex e futuro premier libanese almeno parzialmente con i guai del suo impero economico nel campo delle costruzioni in Arabia Saudita, dove ha vissuto gran parte degli ultimi anni. Il crollo delle quotazioni del petrolio ha costretto il regime di Riyadh a ridurre le spese in molti ambiti, tra cui quello edilizio, e ciò ha colpito pesantemente gli interessi di Hariri, poiché la sua compagnia aveva ingenti contratti d’appalto pubblici in Arabia Saudita.

Al possibile deteriorarsi dei rapporti tra Hariri e la monarchia saudita va aggiunta di riflesso la calante popolarità dell’ex premier in Libano, il quale sembrava addirittura sul punto di essere rimosso dalla leadership del suo partito e della coalizione di cui fa parte. La decisione di appoggiare Michel Aoun sarebbe stata perciò il tentativo di riconquistare il centro della scena politica libanese.

L’elezione di un nuovo presidente pienamente appoggiato da Hezbollah é una sconfitta per l’Arabia Saudita e una vittoria per l’Iran. I regnanti di Riyadh si trovano d’altra parte impegnati su più fronti in Medio Oriente, dalla Siria allo Yemen all’Iran, e hanno mostrato nell’ultimo periodo un interesse relativamente minore per il Libano. Clamorosa in questo senso fu ad esempio la cancellazione nel mese di febbraio di aiuti per 4 miliardi di dollari destinati alle forze armate e ai servizi di sicurezza libanesi.

Anche dopo il passo avanti fatto lunedì nella risoluzione della crisi politica, la sorte del Libano dipenderà come sempre anche dalle vicende mediorientali del prossimo futuro e, allo stesso tempo, ciò che accade nel “paese dei cedri” avrà riflessi oltre i suoi confini, vista l’influenza che su di esso hanno le varie potenze regionali.

Aoun e il premier in pectore Hariri, da parte loro, avranno di fronte un percorso molto stretto e, oltre a mediare i vari interessi che confluiscono sul Libano, saranno chiamati ad affrontare questioni delicate e di difficilissima soluzione su un fronte domestico segnato dalle divisioni settarie: dalla riforma elettorale a quella dell’intero quadro legislativo, dal rilancio di un’economia cronicamente stagnante all’adozione di una posizione quanto più possibile unitaria e coerente sulla guerra in Siria.

di Michele Paris

Con una mossa probabilmente senza precedenti, a poco più di una settimana dalle elezioni presidenziali americane l’FBI ha comunicato al Congresso di Washington la riapertura delle indagini sulla candidata Democratica, Hillary Clinton, relativamente al caso dell’utilizzo di un server di posta elettronica privato quando ricopriva la carica di segretario di Stato nell’amministrazione Obama.

La decisione, salutata con soddisfazione da Donald Trump, arriva alcuni mesi dopo che il direttore della polizia federale USA, James Comey, aveva dichiarato che il caso era stato chiuso senza incriminazioni, in quanto la condotta di Hillary era stata sì imprudente ma non costituiva nessun reato.

Come aveva rivelato per la prima volta il New York Times nella primavera del 2015, Hillary aveva scambiato la propria corrispondenza al dipartimento di Stato senza utilizzare l’account governativo assegnatole, come previsto dalla legge, potenzialmente esponendo materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.

Comey ha indirizzato venerdì una lettera a otto commissioni del Congresso, informandole di come l’FBI sia venuto a conoscenza di migliaia di nuove e-mail riconducibili forse alla Clinton nel corso delle indagini su un altro caso, relativo al presunto invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, ex marito dell’assistente di Hillary, Huma Abedin. Quest’ultima è una fedelissima dell’ex segretario di Stato ed è da tempo indicata da molti come il possibile prossimo capo di Gabinetto alla Casa Bianca.

Oltre che per il tempismo, l’iniziativa del capo dell’FBI è estremamente dubbia perché è stata presa ancora prima che le nuove e-mail fossero esaminate e fornissero prove a carico della Clinton. Comey ha scritto infatti al Congresso che “gli investigatori [dell’FBI] dovranno verificare se queste e-mail contengono informazioni classificate”, mentre al momento non è possibile stabilire “se questo materiale è significativo”.

Per la stampa USA, è inoltre piuttosto insolito anche il fatto che l’FBI dia notizia in anticipo al Congresso della possibile riapertura di un’indagine, ma Comey si è giustificato sostenendo che la mossa è stata fatta perché allo stesso organo legislativo aveva comunicato nel mese di luglio l’archiviazione del caso sulle e-mail di Hillary Clinton.

Per innumerevoli ragioni, la decisione del numero uno del “Bureau” non può che avere implicazioni politiche, la cui gravità è evidente malgrado sia difficile stabilirne con certezza le motivazioni. Comprensibilmente, lo staff di Hillary e la stessa candidata hanno reagito in maniera dura all’annuncio dell’FBI, chiedendo in primo luogo al direttore Comey di chiarire al più presto la natura del materiale in esame e se vi siano documenti legati al caso già archiviato.

La decisione dell’FBI dimostra comunque come all’interno della classe dirigente degli Stati Uniti continuino a esserci profonde divisioni e pressioni contrapposte in reazione alle scosse prodotte dalla crisi politica in cui è precipitato il paese dopo la conquista della nomination per la Casa Bianca di due candidati ampiamente screditati e visti con ostilità dalla grande maggioranza della popolazione.

Le diverse posizioni che animano ad esempio l’agenzia federale di polizia e di intelligence diretta da James Comey sono emerse dai racconti dei giornali americani in questi giorni. Il Dipartimento di Giustizia, da cui dipende l’FBI, avrebbe avvertito il direttore della pericolosità dell’annuncio, dal momento che esso viola la tradizionale politica di evitare iniziative che possano influenzare elezioni imminenti. Comey avrebbe deciso invece di agire ugualmente proprio per evitare di subire critiche se la notizia fosse uscita dopo il voto.

Altre fonti giornalistiche hanno parlato al contrario di pressioni su Comey dopo la chiusura senza incriminazioni dell’indagine sulle e-mail di Hillary la scorsa estate. Ciò dimostrerebbe forse che vi è almeno una fazione all’interno dell’FBI che intende far naufragare la sua candidatura. Un’eventualità, quest’ultima, che risulta apparentemente difficile da credere, poiché la ex first lady sembra essere la candidata alla presidenza di gran lunga preferita dall’apparato militare e della sicurezza nazionale.

La situazione dietro le quinte potrebbe essere dunque più complicata di quanto appare. Se un’eventuale vittoria di Donald Trump viene vista come un serio pericolo per la stabilità degli Stati Uniti e per la prosecuzione delle aggressive politiche nei confronti di paesi come Russia e Cina, è altrettanto vero che le svariate polemiche, i danni di immagine e le grane legali subite da Hillary Clinton rischiano di riflettersi sulla nuova amministrazione Democratica fin dal primo giorno.

Gli scandali che hanno coinvolto Hillary in questi mesi, così come le indagini e una possibile incriminazione, graveranno sulla sua eventuale presidenza, distogliendola dall’implementazione di quelle politiche relativamente alle quali, sia sul fronte interno sia su quello internazionale, i poteri che la sostengono, o l’hanno sostenuta finora, intendono vedere risultati concreti in tempi brevi.

Se anche lo scenario avesse questi contorni, resta difficile comprendere quali siano gli obiettivi esatti delle forze che sono dietro alla decisione dell’FBI di penalizzare Hillary Clinton. Nella più grave delle ipotesi, la riapertura delle indagini sulla candidata Democratica potrebbe essere volta a farle perdere le elezioni dell’8 novembre.

Oppure, visti i timori suscitati da una presidenza Trump, a colpire fin da subito un’eventuale amministrazione Clinton, così da logorarla con le controversie legali in corso e, una volta spazzata via la minaccia Trump, costringere magari Hillary a farsi da parte ben prima della fine del suo mandato.

Nonostante le incognite, quel che è certo è che l’annuncio del direttore dell’FBI non ha nulla a che vedere con la giustizia o il dovere di fare luce su una candidata che, pure, presenta fin troppi lati oscuri. L’intervento della polizia federale nelle elezioni per la Casa Bianca rappresenta piuttosto la più recente ingerenza della classe dirigente degli Stati Uniti, o di una parte di essa, in un processo apparentemente democratico per manipolarlo, secondo i propri interessi, dietro le spalle dei cittadini americani.

di Michele Paris

Il clamoroso stallo attorno alla firma del trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada - Accordo Economico e Commerciale Globale o CETA - è stato superato nella giornata di giovedì dopo che le trattative, condotte da Bruxelles e dal governo federale belga, sembrano avere convinto le autorità della regione autonoma della Vallonia ad abbandonare la propria opposizione ad alcune condizioni previste dal trattato stesso.

Se l’intesa dovrebbe ora consentire una più o meno rapida ratifica del CETA da parte dei singoli parlamenti nazionali, la disputa consumatasi nei giorni scorsi ha mostrato ancora una volta la situazione di grave crisi che sta attraversando l’UE, travagliata da crescenti divisioni e dal progressivo divergere degli interessi dei paesi che ne fanno parte.

Quando la firma sul trattato euro-canadese sembrava ormai cosa fatta, il governo autonomo vallone, la cui approvazione era necessaria per il via libera al CETA del Belgio dopo l’OK di tutti gli altri paesi UE, aveva bloccato l’intero processo a causa di forti perplessità su almeno un paio di punti dell’accordo. Il parlamento vallone aveva espresso riserve circa gli effetti sul proprio settore agricolo dell’abbattimento dei dazi doganali applicati ai prodotti canadesi e sulla clausola che affida a un arbitrato sovranazionale eventuali cause intentate dalle grandi aziende contro i governi che “minacciano” i loro investimenti.

Lo scorso fine settimana erano scattate frenetiche trattative con le autorità della Vallonia per sbloccare il trattato, ma lunedì il primo ministro conservatore belga, Charles Michel, era stato costretto ad annunciare che il suo paese non era nella posizione di poter sottoscrivere il CETA. Prevedibilmente sono poi seguite ulteriori pressioni sul governo della regione francofona, con membri del governo canadese che avevano espresso più volte pubblicamente il loro disappunto.

Il ministro per il Commercio, Chrystia Freeland, aveva accusato l’UE di non essere in grado di assicurare l’approvazione del CETA da parte dei suoi membri per poi abbassare relativamente i toni e dichiarare che il Canada aveva fatto tutto il possibile per mandare in porto il trattato, così che ora sarebbe toccato a Bruxelles fare la prossima mossa per sbloccare la situazione.

Visto il protrarsi delle trattative con il governo regionale vallone, la delegazione canadese, che avrebbe dovuto includere lo stesso primo ministro, Justin Trudeau, ha cancellato il viaggio in Europa per la firma del trattato, prevista per giovedì.

Già mercoledì, però, Trudeau aveva assicurato nel corso di un intervento alla Camera del parlamento di Ottawa che un esito positivo della vicenda relativa al CETA era ormai imminente. Nella tarda mattinata di giovedì, è stato alla fine il premier belga a dare per primo la notizia su Twitter dell’accordo con la Vallonia, spiegando poi che il governo centrale e le autorità regionali hanno raggiunto l’intesa su un “testo modificato”, senza fornire ulteriori spiegazioni.

Michel ha sostenuto che ora i parlamenti dei vari paesi UE avranno la possibilità di ratificare il trattato con il Canada già a partire dai prossimi giorni, ma eventuali modifiche al testo potrebbero rimettere in moto tutto il processo di approvazione, sempre che Ottawa accetti i cambiamenti. Il capo del governo regionale fiammingo in Belgio, Geert Bourgeois, ha comunque garantito che il testo dell’accordo non è stato alterato.

Secondo i media, al trattato sono state aggiunte quattro pagine nelle quali si è cercato di far fronte alle apprensioni del governo vallone. Nella prima fase dell’implementazione del CETA non verrà ad esempio introdotto il sistema dell’arbitrato, sul quale si esprimerà inoltre la Corte Europea di Giustizia,  mentre i dazi sui prodotti agricoli potrebbero essere riapplicati in caso di “squilibri di mercato”.

Il CETA dovrebbe cancellare i dazi imposti sul 98% dei prodotti che vengono scambiati tra il Canada e i paesi UE, facilitando l’ingresso sui rispettivi mercati dei prodotti realizzati su entrambe le sponde dell’Atlantico. In un frangente storico caratterizzato dall’adozione di nuovi dazi e tariffe doganali da parte di molti paesi in risposta alla crisi economica, l’implementazione di un accordo come il CETA contribuisce dunque a incrementare sensibilmente i profitti delle grandi aziende esportatrici.

Come l’altro accordo in fase di negoziazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea (TTIP, Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti), anche il CETA è stato oggetto di ripetute proteste per via delle clausole che favoriscono in maniera spropositata le multinazionali ed erodono i diritti sociali e del lavoro, nonché le protezioni ambientali e la sicurezza alimentare.

La supremazia del capitale anche sulla sovranità dei singoli paesi, sostanzialmente sanzionata da questi trattati, è spesso al centro dell’attenzione di coloro che si oppongo a questi ultimi, come appunto il governo regionale della Vallonia.

Bruxelles e Ottawa avevano precisato che, per alleviare le preoccupazioni in questo ambito, le norme sull’arbitrato internazionale per la “protezione degli investimenti [dalle leggi nazionali]” erano già state allentate. Ad esempio, un’azienda privata che ha investito in uno dei paesi coperti dal trattato non potrà fare causa contro un governo nel caso di provvedimenti che hanno “un impatto sui profitti”, ma solo se dovesse esserci “discriminazione” nei suoi confronti.

Inoltre, i membri del tribunale sovranazionale che presiederà a queste cause non saranno nominati dagli “investitori”, bensì dall’Unione Europea e dal Canada, cioè, in definitiva, da quelle entità che hanno negoziato un trattato che beneficia in larghissima misura gli stessi “investitori”. Il tribunale, infine, non può decidere l’abrogazione di un provvedimento preso da un determinato governo, ma solo “un risarcimento” e “solo al livello necessario per compensare le perdite effettivamente subite” dalla compagnia che ha intentato la causa.

Nonostante qualche modifica, il contenuto del CETA assegna quindi ampi diritti al capitale rispetto a quelli di governi e parlamenti democraticamente eletti. I cambiamenti operati dalle due parti in questo senso sono poi probabilmente stati concordati per ottenere l’approvazione di un trattato che, per quanto importante, viene considerato da molti come un antipasto del vero piatto forte, ovvero il ben più ingente TTIP.

Il naufragio del CETA avrebbe infatti messo in ulteriore dubbio il trattato con gli Stati Uniti, peraltro già appeso a un filo dopo la presa di distanza di Hillary Clinton e soprattutto Donald Trump, ma anche alla luce delle dichiarazioni fortemente critiche dei mesi scorsi di numerosi leader europei, come il presidente francese, François Hollande, e il ministro dell’Economia e vice-cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel.

Gli sforzi di Bruxelles per giungere all’approvazione di questi trattati, assieme alla segretezza che avvolge spesso i negoziati e alla retorica fuorviante con cui vengono celebrati inesistenti benefici per la popolazione dell’Europa, indicano comunque che essi sono considerati cruciali sia per la sopravvivenza dell’Unione sia per il perseguimento in maniera indipendente dei propri interessi economici e strategici in una fase di aggravamento delle tensioni internazionali.

Questa impressione è stata rafforzata anche dalle dichiarazioni di molti leader europei e canadesi, i quali nei giorni scorsi hanno più volte avvertito che un eventuale fallimento del CETA avrebbe avuto serie conseguenze per l’immagine e la posizione dell’UE nel mondo.

Anche per il Canada, peraltro, la ratifica del CETA costituisce un elemento strategico centrale, tanto più in un clima politico, a sud dei propri confini, che prefigura la possibile messa in discussione del Trattato Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA) dopo le elezioni presidenziali di novembre.

Il CETA era stato lanciato dal governo ultra-conservatore di Stephen Harper ed è stato in seguito appoggiato da quello Liberale di Trudeau. Anzi, l’approvazione del trattato è diventata ancora più urgente per la classe dirigente e il business canadesi, viste le tensioni tra l’Europa e la Russia, potenziale concorrente di Ottawa nelle forniture di petrolio all’UE, e l’uscita dall’Unione della Gran Bretagna, tradizionale porta d’accesso al mercato europeo per i paesi nordamericani.

Quale che sia la sorte del CETA, o del TTIP, questi e altri trattati continueranno a incontrare l’opposizione degli attivisti e, quando informati, dei cittadini comuni, che vedono correttamente in essi un formidabile e anti-democratico strumento per l’ulteriore rafforzamento del capitale transnazionale e per lo smantellamento di quel che resta dei loro diritti in ambito economico e sociale.

di Michele Paris

Una delle facce assunte da Hillary Clinton in questa campagna per le presidenziali è quella del difensore della classe media e dei lavoratori americani contro l’enorme influenza che i ricchi e le grandi banche di Wall Street esercitano sul sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti. Anche un irriducibile sostenitore dell’ex segretario di Stato di Obama, se in buona fede, non può però che considerare solo apparente questa sua attitudine, viste le ben documentate affinità con i grandi interessi economico-finanziari della candidata Democratica alla Casa Bianca.

Quegli stessi miliardari americani che hanno consentito ai coniugi Clinton di mettere assieme un’autentica fortuna personale sono infatti gli stessi che hanno donato centinaia di milioni di dollari alla campagna di Hillary, grazie ai quali quest’ultima ha potuto imporre una strategia elettorale volta sostanzialmente a contrastare la percezione negativa che ha di lei la maggioranza dei potenziali elettori.

Alcune delle manovre messe in atto per assicurarsi l’appoggio dei ricchi donatori nella primavera del 2015, cioè poche settimane prima dell’annuncio ufficiale della sua partecipazione alle primarie Democratiche per le presidenziali, sono state documentate dalla recente pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail private del direttore della campagna di Hillary, l’ex lobbista ed ex capo di gabinetto di Bill Clinton, John Podesta.

In particolare, i documenti mettono in luce come Hillary abbia anche formalmente rotto con la sorta di codice “etico” volontariamente applicato da Obama alla sua campagna nel 2012, con il quale intendeva rifiutare il sostegno delle cosiddette “Super PAC”. Queste organizzazioni raccolgono denaro e fanno campagna elettorale per un determinato candidato a patto che le proprie azioni non vengano coordinate direttamente con lo staff di quest’ultimo.

Le “Super PAC” sono proliferate negli ultimi anni grazie a una sentenza del 2010 della Corte Suprema degli Stati Uniti - “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” - che ha spazzato via qualsiasi tetto alle donazioni che esse possono ricevere. Come conferma lo stesso comportamento di Hillary e del suo entourage, i rapporti tra il team dei candidati e le “Super PAC” sono piuttosto stretti e, vista l’indulgenza delle autorità federali, la separazione delle due entità si limita quasi sempre all’adozione di accorgimenti del tutto inefficaci.

Ad ogni modo, i fedelissimi di Hillary non ebbero molti dubbi nel marzo del 2015 circa la necessità di abbandonare qualsiasi scrupolo morale per convincere i tradizionali donatori Democratici a staccare assegni a cinque o a sei zeri a favore delle “Super PAC” affiliate alla candidata alla Casa Bianca.

Fino al settembre di quest’anno, lo sforzo del team Clinton ha permesso di incassare un totale di 1,14 miliardi di dollari in contributi elettorali, inclusi quelli andati nelle casse del Partito Democratico. Donald Trump, da parte sua, ha raccolto invece 712 milioni, di cui 56 provenienti dal proprio patrimonio personale.

Sulle e-mail rese pubbliche da WikiLeaks ha condotto una ricerca il Washington Post, secondo il quale almeno un quinto del denaro incassato finora da Hillary Clinton e dalle “Super PAC” che la sostengono è arrivato “da appena un centinaio di ricchi donatori e da organizzazioni sindacali”. Molti dei primi, aggiunge il quotidiano della capitale americana, sono stati “coltivati metodicamente negli ultimi 40 anni” da Bill e Hillary.

Il primo donatore della ex first lady è il manager di “hedge funds”, Donald Sussman (20,6 milioni di dollari), seguito dal “venture capitalist” di Chicago, J.B. Pritzker (16,7 milioni), dal proprietario della rete televisiva in lingua spagnola Univision, Haim Saban (11,9 milioni), dal noto finanziere George Soros (9,9 milioni) e dal 92enne fondatore della linea dietetica SlimFast, Daniel Abraham (9,7 milioni).

L’analisi del Washington Post chiarisce come, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sono state attuate nuove regole sui finanziamenti alla politica in seguito allo scandalo Watergate, “nessun presidente [degli Stati Uniti] è stato eletto con contributi così ingenti di ricchi finanziatori”.

Singolarmente, non solo Hillary Clinton continua a criticare pubblicamente la sentenza della Corte Suprema che ha spalancato le porte alle donazioni illimitate alla politica americana, ma i suoi stessi ricchi finanziatori sostengono che i milioni di dollari erogati in questi mesi servono precisamente a favorire l’elezione di un presidente che ristabilisca limiti severi alle donazioni elettorali.

In altre parole, individui come Soros o Sussman verserebbero cifre da capogiro a Hillary Clinton non perché il futuro presidente rappresenti i propri interessi, bensì per sostenere un’azione legislativa che impedisca a multi-miliardari come loro di influire sulla politica americana.

Anche una pubblicazione apertamente favorevole alla candidatura di Hillary, come il Post, è costretta ad ammettere che l’ex segretario di Stato entrerebbe alla Casa Bianca con un “grosso debito nei confronti di un gruppo di donatori che hanno sostenuto lei e il marito per decenni”. La somma totale stimata del denaro veicolato verso le campagne elettorali dei coniugi e le loro iniziative “filantropiche”, attraverso la Clinton Foundation, si aggira attorno ai 4 miliardi di dollari.

In maniera poco sorprendente, le e-mail provenienti dall’account di John Podesta descrivono discussioni all’interno del team Clinton sui problemi di immagine di una candidata legata a doppio filo con Wall Street e le accuse di “ipocrisia” nei suoi confronti. Le difficoltà a spacciare Hillary come una candidata realmente interessata alle condizioni delle classi più disagiate era tale che, ad esempio, un membro del suo staff nel maggio del 2015 affermava come la sola presentazione di proposte di legge, volte a limitare l’influenza sulla politica dei poteri forti, poteva non essere sufficiente, ma anzi rischiava di essere controproducente vista la palese “dissonanza” tra parole e fatti.

Ciò non ha impedito comunque la formulazione di una strategia di raccolta fondi definita frenetica dagli stessi uomini dello staff di Hillary Clinton. Per la direttrice della comunicazione della campagna elettorale, Jennifer Palmieri, l’importante era “prendere il denaro”, mentre il capo dell’intera organizzazione, Robby Mook, si diceva disposto a fare i conti con qualsiasi attacco politico pur di assicurarsi contributi milionari.

Già nell’aprile del 2015 erano poi allo studio modalità di interazione con le “Super PAC” pro-Hillary, a cominciare da Priorities USA, per eludere le regolamentazioni di legge che vietano il coordinamento con la campagna elettorale dei candidati. Gli stratagemmi escogitati a questo scopo sono spesso ridicoli e la dicono lunga sull’attitudine a vigilare sul rispetto delle norme relative ai finanziamenti elettorali da parte delle autorità federali.

Ad esempio, dal momento che i membri dello staff di Hillary non potevano indicare ai colleghi di Priorities USA quali cifre erano disposti a sborsare determinati donatori, si comunicava che un noto finanziatore Democratico, “impiegato nell’industria finanziaria”, era probabilmente disponibile a “contribuire con [una somma a] sei cifre” a favore della “Super PAC”.

Il Washington Post indica anche come un’altra “Super PAC”, battezzata Correct the Record e dedicata appunto a “corregge gli attacchi ingiustificati” contro la candidata alla Casa Bianca dei suoi rivali, coordinava invece le proprie iniziative direttamente con lo staff di Hillary perché sfruttava un’esenzione di legge prevista per i blog.

Ai donatori, però, i vari gruppi che fanno campagna per Hillary venivano spesso presentati come “pezzi di un unico progetto”. I responsabili di Priorities USA sollecitavano così donazioni presentandosi come rappresentanti di un’organizzazione direttamente affiliata alla campagna di Hillary. John Podesta, da parte sua, durante gli incontri con i ricchi finanziatori del Partito Democratico non mancava di chiedere contributi sia per la campagna di Hillary sia per le “Super PAC”.

Oltre a quella del Washington Post, altre indagini di giornali americani nei giorni scorsi hanno evidenziato il sostegno ricevuto da Hillary Clinton all’interno della classe dei super-ricchi d’America. Al contrario di quanto era avvenuto nel 2012, quando Wall Street aveva mostrato di preferire Mitt Romney a Obama, in questa occasione la candidata Democratica sembra avere maggiori credenziali in questo senso rispetto a Donald Trump.

Il Wall Street Journal ha scritto che finora la Clinton ha ricevuto direttamente per la sua campagna elettorale 70 milioni di dollari da 19 miliardari, contro 18 milioni da 5 miliardari finiti nelle casse del rivale Repubblicano.

A conferma degli orientamenti dell’élite finanziaria americana, qualche giorno fa l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha di fatto appoggiato pubblicamente la candidatura di Hillary Clinton. Questo colosso di Wall Street è storicamente molto legato alla famiglia Clinton e nel 2013 pagò a Hillary ben 675 mila dollari per tre discorsi tenuti di fronte ai propri impiegati.

Oltre a quello dell’industria finanziaria, la ex first lady ha ottenuto il sostegno infine di centinaia di membri ed ex membri dell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti, molti dei quali noti “falchi” e sostenitori delle avventure belliche americane degli ultimi quindici anni.

In un’elezione tra due delle personalità pubbliche più odiate, dunque, Hillary Clinton è senza alcun dubbio la candidata di gran lunga preferita dall’establishment politico, economico e militare. Trump, al contrario, continua a suscitare gravi preoccupazioni a causa della sua imprevedibilità, dell’attitudine troppo conciliante mostrata nei confronti della Russia e delle tensioni sociali che potrebbero esplodere in seguito all’ingresso alla Casa Bianca di un presidente dai tratti apertamente fascisti.


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