di Michele Paris

Nella giornata di lunedì è andata in scena negli Stati Uniti una delle ultime procedure di un complicato processo elettorale che culminerà il 20 gennaio prossimo con l’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente. La convocazione del cosiddetto Collegio Elettorale in ognuno dei 50 stati americani ha ratificato il voto popolare dello scorso 8 novembre ma, nonostante anche in questa occasione non si siano verificate sorprese, l’evento ha attirato l’attenzione dei media e degli attivisti del Partito Democratico, dal momento che esso era sembrato essere l’ultima opportunità, sia pure in larga misura teorica, di impedire l’installazione di Donald Trump alla presidenza.

Di per sé, già il fatto che una procedura solitamente ignorata dalla stampa e, ancor più, dagli elettori, sia diventata quest’anno oggetto di discussione, se non di scontro, è il sintomo delle scosse al sistema politico americano provocate da un’aspra campagna elettorale e dalla vittoria inaspettata di Trump su Hillary Clinton.

Come è noto, nelle presidenziali americane gli elettori non scelgono direttamente il candidato alla Casa Bianca, bensì i 538 membri del Collegio Elettorale che, suddivisi proporzionalmente secondo la delegazione al Congresso di Washington di ogni singolo stato, dovranno appunto votare materialmente per il nuovo presidente.

Questi “grandi elettori” non sono teoricamente vincolati al risultato delle elezioni nei loro rispettivi stati, anche se alcuni di questi ultimi hanno attuato leggi che impediscono di fare una scelta diversa da quella degli elettori. I giornali americani in questi giorni hanno spiegato però che queste leggi, le quali prevedono una serie di provvedimenti e sanzioni per coloro che si discostano dal voto del loro stato, potrebbero non sopravvivere a un eventuale ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

In ogni caso, nelle settimane dopo l’election day si sono diffuse ipotesi di un clamoroso voltafaccia dei membri del Collegio Elettorale o, quanto meno, si sono moltiplicate le iniziative per convincerli a privare Trump della maggioranza necessaria per conquistare ufficialmente la presidenza.

Una petizione on-line ha raccolto ad esempio quasi 5 milioni di firme, mentre il regista Michael Moore ha chiesto ai “grandi elettori” Repubblicani di “votare secondo la loro coscienza”, promettendo loro di pagare personalmente le sanzioni che avrebbero potuto essere applicate per la scelta di un candidato diverso da Trump.

Un membro del Collegio Elettorale in Texas ha invece dichiarato pubblicamente che non avrebbe votato per Trump. Un altro ancora si era dimesso per evitare di votare per un candidato che non riteneva legittimo.

Ancora più significativa è stata però la lettera aperta indirizzata al direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, da alcune decine di “grandi elettori” per chiedere di essere informati dettagliatamente sulla presunta intrusione di hacker al servizio del governo russo nel processo elettorale americano.

Questa iniziativa, appoggiata anche dal capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, dimostra come le pressioni sul Collegio Elettorale americano derivano per lo più proprio dalle accuse rivolte a Mosca di avere favorito l’elezione di Trump, nonostante di simili azioni non vi sia prova se non nelle dichiarazioni di esponenti dell’intelligence americana.

Clapper ha comunque bocciato la richiesta, a conferma di come anche nel campo anti-Trump ci siano divisioni e molti auspichino prudenza per non mettere in discussione il sistema elettorale americano. Secondo il sito Politico.com, svariati membri Democratici del Collegio Elettorale in stati vinti da Trump erano pronti a cambiare il proprio voto, ma attendevano un segnale da parte di Hillary Clinton, che invece non è mai arrivato.

Anche considerando legittima la libertà di scelta dei “grandi elettori”, è singolare che la campagna per cercare di privare Trump della presidenza non si sia basata su fattori ben più importanti e reali. In primo luogo sul fatto che Hillary Clinton ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più del suo rivale su scala nazionale.

Poi, sulla costruzione da parte di Trump di un gabinetto ultra-reazionario, composto da figure con inclinazioni chiaramente fasciste e che prefigura la distruzione di ciò che rimane dello stato sociale in America e delle regolamentazioni al business privato.

L’ossessione per il ruolo attribuito alla Russia nel decidere le elezioni americane ha trasformato perciò anche la formalità del voto del Collegio Elettorale per il nuovo presidente in un terreno di scontro sulle scelte strategiche di Washington.

Gli attacchi portati contro Trump da parte dei leader del Partito Democratico vengono cioè in sostanza da destra, visto che non hanno nulla a che vedere con il profilo ultra-reazionario della nascente amministrazione, ma intendono alimentare un clima di scontro con una potenza nucleare per promuovere gli interessi planetari di quelle sezioni dell’establishment USA a cui fanno riferimento.

Se, pure, il tentativo di far cambiare idea ai “grandi elettori” era fin dall’inizio destinato a fallire, come peraltro ben sapevano i vertici Democratici, il vero obiettivo di questa iniziativa, così come più in generale della caccia alle streghe in atto, non era e non è quello di impedire a Trump di insediarsi alla Casa Bianca, quanto piuttosto di rendere complicata se non impossibile una possibile svolta strategica che si risolva in una qualche riconciliazione con Mosca.

L’intenzione del Partito Democratico e degli ambienti di potere che a esso fanno capo non è insomma quella di combattere la presidenza Trump sulla base di un’agenda progressista, bensì tramite la promozione del militarismo e del confronto con quello che viene considerato come il principale rivale strategico degli Stati Uniti.

A livello popolare, al contrario, continua a essere presente una forte opposizione a Trump e al suo progetto politico reazionario. Lunedì si sono tenute infatti manifestazioni di protesta di fronte alle sedi dei parlamenti locali in svariati stati, dove erano riuniti i “grandi elettori”, tutte o quasi all’insegna dell’ostilità per le politiche di estrema destra che il presidente eletto sta mettendo in cantiere.

Durante la giornata sono così giunti a poco a poco a Washington i risultati del voto tenuto nei vari stati che hanno confermato l’elezione di Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti. Mentre polemiche e accuse proseguiranno, il prossimo appuntamento sarà il 6 gennaio, quando i membri di Camera e Senato si riuniranno per il conteggio dei voti espressi dal Collegio Elettorale. A presiedere la seduta sarà il vice-presidente uscente e presidente del Senato, Joe Biden, il quale, in assenza di obiezioni, proclamerà ufficialmente l’inizio dell’era Trump negli Stati Uniti.

di Michele Paris

Le tensioni tra Cina e Stati Uniti, che stanno caratterizzando le settimane precedenti l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono intensificate nuovamente nei giorni scorsi dopo la vicenda del drone sottomarino americano requisito dalle forze navali di Pechino. Il nuovo incidente è sembrato avviarsi verso una risoluzione pacifica nel fine settimana, ma ha mostrato il chiaro deterioramento delle relazioni già problematiche tra le due potenze, entrambe impegnate a sfruttare l’episodio per rafforzare le rispettive posizioni.

La marina cinese aveva intercettato il mezzo sottomarino americano venerdì scorso durante un’operazione che gli USA hanno definito di natura scientifica nel Mar Cinese Meridionale. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che il drone è stato sequestrato per evitare pericoli alla navigazione, per poi invitare gli Stati Uniti a mettere fine alle loro “attività di sorveglianza” in queste acque.

Il drone finito nelle mani cinesi, assieme a un secondo recuperato dagli americani, era operato dalla USNS Bowditch in acque internazionali a circa 50 miglia nautiche a nord-ovest della base filippina di Subic Bay, dove gli USA hanno mantenuto a lungo una propria installazione militare.

Il governo americano ha presentato una protesta formale a quello cinese, sostenendo che quest’ultimo ha agito “illegalmente” nel requisire il drone della propria marina militare. Pechino e Washington hanno però fatto sapere sabato di avere raggiunto un accordo per la restituzione, in maniera “appropriata”, del mezzo sottomarino.

Il governo cinese ha tenuto comunque a denunciare il tentativo degli USA di “amplificare” l’incidente. Da parte americana, è stato il presidente eletto Trump a rilasciare dichiarazioni provocatorie, come al solito attraverso Twitter, invitando ad esempio Pechino a “tenersi” il drone “rubato”.

Le rassicurazioni americane sugli scopi dell’operazione condotta con i due droni non lontano dalle acque rivendicate dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale sono da prendere quanto meno con le molle. Come hanno ricordato anche i media occidentali, per cominciare, l’impiego principale di questi mezzi è infatti quello di sorveglianza.

Questa è d’altra parte l’interpretazione data dal governo cinese alla vicenda, mentre vari analisti hanno rilevato come la mossa decisa da Pechino di impossessarsi del drone americano sia un chiaro messaggio, diretto soprattutto all’amministrazione Repubblicana entrante a Washington, dopo le frizioni seguite alle presidenziali dell’8 novembre scorso.

Bonnie Glaser, del Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington, ha spiegato che Pechino intende far capire a Trump che “gli USA non possono mettere in discussione gli interessi cruciali cinese senza conseguenze”. Inoltre, l’iniziativa di venerdì non può essere stata presa individualmente da un comandante della marina militare cinese, ma deve avere avuto l’input dai massimi livelli dello stato, visto anche il controllo sempre più stretto sulle forze armate esercitato dal presidente, Xi Jinping.

Ad ogni modo, l’incidente sembra essere il primo di questo genere tra USA e Cina e, come già ricordato, si inserisce in un’escalation di provocazioni seguite all’elezione di Trump alla presidenza. In particolare, quest’ultimo aveva accettato una telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, Tsai-Ing-wen, facendo registrare il primo contatto diretto ad altissimo livello tra i due paesi a partire dal 1979, quando Washington riconobbe ufficialmente quello di Pechino come l’unico solo governo legittimo della Cina.

Trump era poi giunto a mettere in discussione la politica di “una sola Cina”, sposata per quattro decenni da tutte le amministrazioni americane, suscitando la durissima reazione di Pechino. Questa svolta strategica, secondo il neo-presidente, potrebbe essere clamorosamente implementata se non ci saranno concessioni da parte di Pechino su vari fronti, tra cui quello commerciale, della svalutazione della valuta cinese o della “militarizzazione” del Mar Cinese.

Il governo del Partito Comunista ha immediatamente ricordato come Taiwan e la sovranità cinese siano questioni di importanza assoluta per il regime e la loro messa in discussione minacci la stabilità dei rapporti con gli USA, ma anche della stessa regione asiatica e del Pacifico, se non dell’intero pianeta.

Gli scambi di accuse e le provocazioni americane sembrano essere anche tentativi di assestare le rispettive posizioni in vista della transizione alla Casa Bianca, con un’amministrazione che prospetta l’implementazione di misure ancora più rigide nei confronti di Pechino rispetto all’amministrazione Obama.

A Pechino, il messaggio è stato indubbiamente recepito e sugli organi di stampa ufficiali non sono mancati ad esempio gli appelli a un’accelerazione delle capacità militari della Cina, così da rispondere adeguatamente alle provocazioni o a eventuali attacchi da parte americana.

Proprio qualche giorno fa era apparsa sulla stampa occidentale una rivelazione sull’installazione da parte cinese di nuovi impianti militari anti-aerei sulle isole Spratly, situate nel Mar Cinese Meridionale e controllate da Pechino ma rivendicate anche da Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei.

Il governo cinese non ha smentito la notizia e ha anzi definito “legittime” le azioni intraprese in un territorio su cui proclama la propria sovranità in maniera incontestabile. Soprattutto, il rafforzamento delle strutture militari è stata definita necessaria dal ministero della Difesa cinese, alla luce della “arroganza” degli Stati Uniti, protagonisti negli ultimi quattordici mesi di almeno tre operazioni di pattugliamento nelle acque rivendicate dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale.

Che la rivalità tra USA e Cina possa scivolare ben oltre i livelli di guardia già nei prossimi mesi, a causa di fattori oggettivi legati al declino economico statunitense e all’agenda nazionalista dell’amministrazione Trump, è apparso chiaro infine anche dalle parole del presidente uscente Obama in una recente conferenza stampa incentrata sulla presunta interferenza russa nel processo elettorale americano.

Malgrado la prudenza che aveva sempre caratterizzato a livello formale l’amministrazione Democratica sulle questioni riguardanti gli interessi cruciali cinesi, Obama ha lasciato intendere che le posizioni di Trump sulla politica di “una sola Cina” non vanno respinte del tutto, poiché in questo frangente è necessario una sorta di ripensamento della politica estera USA.

Allo stesso tempo, Obama ha avvertito però che qualsiasi mossa provocatoria in questo senso dovrà essere valutata con estrema attenzione, visto che implicherebbe la messa in discussione dell’identità e dei cardini della sicurezza cinese, provocando inevitabilmente, da parte di Pechino, reazioni “molto significative”.

di Michele Paris

Con la ormai quasi definitiva riconquista della città di Aleppo da parte delle forze armate governative siriane, appoggiate da Russia, Iran e Hezbollah, il conflitto nel paese mediorientale potrebbe far segnare una svolta significativa, anche se la fine delle ostilità non sembra ancora essere all’orizzonte. A decretare la fine delle operazioni belliche in quella che era la capitale commerciale della Siria potrebbe essere un accordo ancora in bilico, negoziato dai governi di Russia e Turchia, per favorire l’evacuazione dei “ribelli” sotto assedio rimasti nella parte orientale della città e di un certo numero di civili.

Il piano di evacuazione avrebbe dovuto scattare nella prima mattinata di mercoledì, ma nelle stesse ore sono ricominciati i bombardamenti sulla città. Prevedibilmente, le due parti coinvolte nel conflitto hanno dato resoconti differenti della situazione. La Turchia, uno dei principali sponsor di alcune fazioni armate anti-Assad, ha accusato il governo di avere rotto la tregua, mentre la televisione di stato siriana ha parlato di bombardamenti da parte dei “ribelli” che avrebbero fatto svariate vittime.

Fonti dell’opposizione hanno affermato che il cessate fuoco è saltato dopo che l’Iran ha avanzato nuove condizioni, come la restituzione dei resti dei soldati della Repubblica Islamica caduti ad Aleppo e la liberazione degli ostaggi iraniani nelle mani dei ribelli a Idlib.

Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la resistenza delle residue forze di opposizione ad Aleppo non dovrebbe comunque durare più di “due o tre giorni”, dal momento che esse controllano ormai una piccola enclave di non più di 2,5 chilometri quadrati. La Reuters ha inoltre citato una rete televisiva vicina all’opposizione, la quale ha sostenuto che l’evacuazione potrebbe iniziare già nella giornata di giovedì.

Il ritorno di Aleppo nelle mani del regime di Assad dopo quasi sei anni di guerra rappresenta una gravissima sconfitta non solo per i “ribelli” che ne avevano il controllo, ma anche per gli Stati Uniti, l’Europa, la stessa Turchia e le monarchie assolute sunnite del Golfo Persico. Tutti questi governi hanno investito miliardi di dollari e fornito ingenti quantità di armi per sostenere forze in larga misura fondamentaliste ed estranee alla Siria per rovesciare un regime alleato con Teheran e Mosca.

Proprio gli effetti dell’evolversi della situazione ad Aleppo, nonché i possibili riflessi sull’intero conflitto siriano, si sono fatti sentire nei giorni scorsi, ad esempio sulla transizione politica in atto negli USA. Il timore di perdere definitivamente le forze anti-Assad ha contribuito a spingere una parte dell’apparato politico, mediatico e dell’intelligence ad accusare la Russia di avere interferito nel processo elettorale americano a favore di Donald Trump.

L’ingresso di quest’ultimo alla Casa Bianca prospetta infatti un riallineamento strategico di Washington in Medio Oriente, viste le promesse del presidente eletto di lavorare con il Cremlino per sconfiggere il terrorismo, a cominciare dalla Siria.

Frustrazioni e recriminazioni per una guerra che minaccia il disastro per l’opposizione anti-Assad e i loro sponsor si sono manifestate anche nel corso di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Qui, vari governi occidentali hanno denunciato per l’ennesima volta i crimini di Mosca e Damasco, trascurando ovviamente il fatto che proprio su di loro e i loro alleati mediorientali ricade la piena responsabilità della devastazione della Siria.

L’ambasciatrice americana all’ONU, Samantha Power, professionista delle “guerre umanitarie”, ha avuto parole particolarmente dure per il governo russo, collegando quanto sta accadendo ad Aleppo con alcuni dei massacri più cruenti degli ultimi decenni, da Srebrenica al Ruanda.

Nessuna parola è stata spesa invece per le atrocità commesse dagli stessi “ribelli” siriani quando conquistarono Aleppo est nel 2012, né tantomeno per gli episodi e le guerre rovinose che hanno visti protagonisti gli USA, dall’Iraq alla Libia.

Significativamente, gli Stati Uniti sembrano non avere avuto nessun ruolo nel raggiungimento dell’accordo sull’evacuazione di Aleppo. Washington aveva d’altra parte fatto saltare le precedenti tregue negoziate con la Russia, tra cui quella del mese di settembre dopo il bombardamento probabilmente deliberato contro una base militare siriana nella località di Deir ez-Zor.

La fine dei massacri in Siria è comunque ancora lontana, nonostante le sofferenze degli abitanti di Aleppo saranno alleviate con l’uscita di scena dei “ribelli”. Uno dei principali finanziatori di questi ultimi, il regime del Qatar, tramite il ministro degli Esteri, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha avvisato che la riconquista di Aleppo da parte del governo siriano non significa in nessun modo la fine della guerra.

L’intenzione delle monarchie del Golfo, così come degli Stati Uniti, per lo meno nelle settimane che restano a Obama, è perciò quella di intensificare i loro sforzi per sostenere l’opposizione armata in Siria, nonostante le aree che i vari gruppi che la compongono continuino a restringersi.

L’amministrazione Obama, impegnata disperatamente a salvare ciò che resta dei gruppi “ribelli” sotto la protezione americana prima dell’insediamento di Trump, ha da poco autorizzato l’invio di altri 200 uomini delle forze speciali in Siria, che andranno ad aggiungersi ai 300 ufficialmente già presenti.

Lo stesso presidente uscente settimana scorsa aveva inoltre dato il via libera alla fornitura di armi a gruppi non meglio identificati in Siria. A questa iniziativa ha fatto riferimento il presidente siriano Assad in una recente intervista al network russo RT, collegandola al nuovo ingresso nella città patrimonio dell’umanità di Palmira dello Stato Islamico (ISIS/Daesh).

La riconquista di Aleppo consentirebbe ad ogni modo al regime di Damasco di tornare a controllare tutti i principali centri urbani del paese. Oltre a questa città, le forze governative hanno in mano la capitale, Homs, Hama, la gran parte della zona di confine col Libano e l’area costiera affacciata sul Mediterraneo.

Da questa posizione di forza, secondo molti Assad potrebbe diventare addirittura un interlocutore dell’amministrazione Trump nella lotta al terrorismo in Siria, malgrado le fortissime resistenze all’interno della classe dirigente americana.

Quest’ultima ipotesi ha preso ancora più consistenza questa settimana in seguito alla nomina a segretario di Stato dell’amministratore delegato di ExxonMobil, Rex Tillerson, considerato molto vicino al presidente russo Putin.

di Michele Paris

Da alcuni giorni a questa parte, la scena politica americana sembra essere nuovamente dominata dalle accuse rivolte alla Russia per avere interferito nelle elezioni presidenziali, con il preciso scopo di favorire l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca e assestare la politica estera USA su posizioni più concilianti nei confronti di Mosca rispetto agli ultimi anni dell’amministrazione Obama.

A rilanciare accuse di fatto con pochissimo o nessun fondamento sono stati soprattutto i due giornali considerati baluardi dell’informazione “liberal”: il New York Times e il Washington Post. Entrambi lo scorso fine settimana hanno pubblicato articoli basati su indagini della CIA che dimostrerebbero l’esistenza di prove sufficienti a ritenere le azioni dell’intelligence russe decisive nel decidere le sorti delle presidenziali americane dell’8 novembre.

Le rivelazioni dovrebbero risultare esplosive, ma entrambi i giornali non forniscono in realtà alcuna prova concreta delle presunte responsabilità russe, se non, come scrive ad esempio il Times, le parole di agenti dell’intelligence e della polizia federale (FBI), i quali assicurano che esista “una montagna di prove circostanziali” dell’attività di hackeraggio degli uomini al servizio del Cremlino per manipolare il voto.

Questa campagna anti-russa si ricollega alla polemica già scoppiata alla vigilia della convention Democratica nel mese di luglio, quando venne rivelato che il governo russo era dietro alla violazione dei server del Partito Democratico e, perciò, responsabile della pubblicazione da parte di WikiLeaks di decine di migliaia di e-mail private dei suoi leader. In esse erano emersi in particolare gli sforzi dei vertici Democratici per penalizzare il rivale di Hillary Clinton nelle primarie, Bernie Sanders.

Un’altra prova delle intenzioni russe sarebbe, sempre secondo i media che stanno propagandando la versione dell’interferenza di Mosca nel processo democratico americano, l’attitudine decisamente pro-Trump delle testate in lingua inglese finanziate dal governo di Putin, come la nota RT.

Per il New York Times, inoltre, gli hacker russi avrebbero violato anche i sistemi informatici del Comitato Nazionale Repubblicano, senza però rendere pubblico il materiale così ottenuto, visto che il loro obiettivo era appunto di screditare Hillary Clinton e favorire Trump.

Quest’ultima notizia è stata smentita seccamente dal presidente del Comitato Repubblicano, Reince Priebus, nominato capo di Gabinetto della Casa Bianca da Trump dopo il successo del mese scorso. Lo stesso presidente eletto è apparso domenica su FoxNews per respingere le accuse verso Mosca e descrivere l’isteria dei Democratici e dei giornali che stanno alimentando la propaganda anti-russa come il tentativo di trovare giustificazioni alla sconfitta patita alle urne.

Trump ha anche attaccato la CIA, sostenendo come i responsabili della valutazione sulla presunta interferenza russa siano “gli stessi che avevano assicurato che Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa” in Iraq.

La violenza con cui è riesplosa la polemica sulla Russia e i toni dei giornali e dei politici che la stanno promuovendo dimostrano come all’interno della classe dirigente americana sia in atto un durissimo scontro attorno agli orientamenti strategici che dovranno tenere gli Stati Uniti dopo questa fase di transizione.

In sostanza, Trump e i suoi fedelissimi fanno riferimento a quelle sezioni delle élite americane che auspicano una relativa distensione nei confronti di Mosca e, quindi, un deciso passo indietro rispetto all’atteggiamento tenuto dal presidente uscente Obama. Il terreno su cui testare questa svolta dovrebbe essere con ogni probabilità la Siria, dove i “ribelli” anti-Assad potrebbero trovarsi privati del sostegno di Washington a partire dal prossimo gennaio.

Al contrario, buona parte del Partito Democratico e giornali come New York Times e Washington Post, verosimilmente con una parte dell’apparato militare e dell’intelligence, vedono con timore il possibile allentamento delle pressioni sulla Russia, sia dal punto di vista diplomatico che economico e militare. Questa fazione considera infatti la Russia come il principale ostacolo all’espansione dell’influenza americana in Medio Oriente e nella regione euro-asiatica.

In quest’ottica, il ritorno al centro del dibattito politico delle azioni di Mosca è dovuto probabilmente anche alle reazioni provocate da alcune nomine di Trump, come quelle del prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, l’ex generale Michael Flynn, e del probabile segretario di Stato, l’amministratore delegato di ExxonMobil, Rex Tillerson, considerati entrambi filo-russi.

Anzi, come ha scritto il Washington Post, su Tillerson ci sarebbero perplessità anche tra i Repubblicani al Congresso per via dei suoi legami con Putin, a conferma che il sentimento anti-russo in America è trasversale agli schieramenti politici. Se Tillerson dovesse essere scelto da Trump per il dipartimento di Stato, è probabile che il processo di conferma al Senato diventerà un altro terreno di scontro sull’approccio da tenere nei confronti della Russia.

Lunedì, intanto, proprio la leadership Repubblicana al Senato ha annunciato il lancio di un’indagine sulle interferenze russe, mentre lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, ha anch’egli ipotizzato un’azione simile nell’altro ramo del Congresso. Queste prese di posizioni preannunciano dunque anche un possibile scontro tra la Casa Bianca e il presidente eletto ancora prima dell’insediamento di quest’ultimo.

L’obiettivo della propaganda contro Mosca è principalmente quello di creare un clima da caccia alle streghe, bollando chiunque si discosti dalla campagna in atto come una sorta di traditore degli interessi e della “democrazia” americana. Un clima simile serve a giustificare un’escalation su più fronti, in modo da contenere le ambizioni da grande potenza della Russia laddove esse si scontrano con gli interessi USA.

Nel caso fosse stata eletta alla Casa Bianca, Hillary Clinton avrebbe perseguito precisamente questa strategia, con l’appoggio mediatico di quei giornali che oggi agitano lo spettro dei brogli elettorali per mano del Cremlino, così da provare a impedire la svolta strategica che sembra preparare la nuova amministrazione Trump.

Significativo è inoltre il fatto che questi ultimi attacchino Trump per i presunti legami con Mosca, mentre considerano tutto sommato normale il carattere ultra-reazionario del governo che sta prendendo forma. Le nomine e i proclami delle settimane seguite al voto lasciano infatti intravedere un attacco frontale a ciò che resta negli Stati Uniti della sanità e dell’educazione pubblica, delle regolamentazioni all’industria e al sistema bancario e finanziario.

Per quanto riguarda le posizioni relative alla Russia di Trump e dei poteri a cui fa riferimento, esse non sono dettate da pacifismo o da una qualche predisposizione a limitare il potenziale distruttivo dell’imperialismo americano.

Ciò è apparso evidente dall’anticipazione avuta proprio nei giorni scorsi del probabile aggravamento delle tensioni tra USA e Cina che avverrà dopo l’insediamento di Trump. Il neo-presidente aveva rotto decenni di consuetudini diplomatiche accettando una telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, mandando su tutte le furie Pechino.

Sempre a FoxNews domenica, poi, Trump si è spinto fino a mettere in discussione la politica di “una sola Cina”, fatta propria da tutte le amministrazioni americane a partire dalla distensione con Pechino promossa da Nixon in funzione anti-sovietica.

Il carattere ultra-nazionalista dell’agenda di Trump, assieme alla nomina di “falchi” ed ex generali a incarichi di rilievo nel suo governo, non lascerà quindi spazio a un allentamento delle tensioni sul fronte internazionale. L’avvicendamento alla Casa Bianca, tutt’al più, potrebbe invertire l’ordine delle priorità della classe dirigente americana, allontanando forse la minaccia di una guerra con Mosca ma accelerando il precipitare dello scontro con Pechino.

di Liliana Adamo

Forse non entrerà nel western d’autore, ma la eco della ribellione l’ha resa celebre quanto quella conclusasi nel Little Big Horne. L’ultima battaglia dei Sioux si svolge lungo una grande autostrada che taglia monti, vallate e boschi, l’Highway 20. La Riserva Indiana si estende per oltre novemila chilometri, in un territorio stretto fra due confini, nord e sud Dakota, abbraccia territori che vanno da Hunkpapa Lakota a Dakota Yanktonai, incluse le contee di Sioux, Corson, Dewey, Zieback.

Questo é il teatro dell’ultima, pacifica, estenuante lotta dei Sioux contro le multinazionali estrattive e il governo centrale degli Stati Uniti, a oggi fin dall’aprile scorso. Si battono per una terra legittimata dai loro antenati che lì sono sepolti, nei cimiteri sacri dello Standing Rock Sioux Tribe, per scongiurare dall’inquinamento le falde acquifere e il letto del Missouri.

Sì, perché la questione che sembrerebbe ormai conclusa e a fin di bene, in realtà pare soltanto prorogata, in attesa del verdetto finale che spetterebbe al nuovo presidente eletto, Donald Trump. Il quale fa sapere che sulla realizzazione della pipeline Dakota Access e sull’investimento pari a 3,3 miliardi di euro (promotrice la società texana EnergyTransfer Partners), ci sarà una risoluzione almeno, “proporzionata ed equa”, rigettando, di fatto, la scelta dell'amministrazione Obama a negare il via libera al progetto.

I Sioux rivendicano il diritto di prelazione sulle terre e sulle risorse naturali difese. Non c’è pace quindi, per Wakpala, Little Eagle, Bullhead, Istrice, Kenel, McIntosh, Morristown, Selfridge, Solen, le comunità indiane di Fort Yates, Cannon Ball e McLaughlin, sono mobilitati insieme con altre più piccole che vivono all’interno della Riserva lungo il confine fra i due stati. A sostenerli, ci sono ambientalisti e personaggi dello show business: l’immancabile Di Caprio, Susan Sarandon, l’attrice Shailene Woodley, che ha subito un arresto in diretta televisiva, il cantautore canadese, Neil Young, perfino i veterani del Vietnam, schierati nelle loro vecchie divise.

Assiepati nei loro campi intorno alle Rocce Sacre, sbarrano la strada alle ruspe, e lo fanno in sella ai cavalli o a piedi. Sono donne, uomini e bambini, giorno e notte sottoposti a rigide temperature di un inverno che incalza e a un’arbitraria, dura repressione che non guarda in faccia nessuno. Ma non mollano e hanno intensificato le loro azioni anche dopo l’applicazione della legge sull’ordine pubblico che aveva l’obiettivo a disperderli in un’area poco lontana dalla Riserva, di proprietà della società finanziatrice.

In quel frangente sono state arrestate 142 persone, a monte delle oltre 400 fermate finora. Le polemiche si sono incentrate sulla brutalità della polizia locale; manifestanti inermi respinti con proiettili di plastica, spray al peperoncino, getti d’acqua gelida, inseguimenti con cani. Alle persone arrestate, stipate in celle sovraffollate, marcate con dei numeri, costrette a dormire sul cemento, è stata negata ogni forma d’assistenza medica.

“Un trattamento inumano e degradante”. La voce arriva dalle Nazioni Unite: é quella del relatore speciale Maina Kiai, keniano, avvocato di fama internazionale, impegnato nella difesa dei diritti umani. Ha protestato contro l'uso della forza oltre il limite consentito contro i Nativi americani che protestano pacificamente contro un piano invasivo che potrebbe contaminare le acque del fiume Missouri e del lago Oahe, fonti di sostenibilità e sopravvivenza per l’intera popolazione Sioux.

“Non siamo contrari all’indipendenza energetica e allo sviluppo economico di tutto il Paese, ma dovete considerare queste decisioni anche in base alle esigenze e ai valori dei popoli indigeni”. Dave Archambault, è il portavoce dei protester e Presidente delle tribù; il suo appello è stato accolto dalle Nazioni Unite che premono presso le autorità politiche per “fare ciò che è giusto”: 1885 chilometri della pipeline condurrebbero mezzo milione di barili dai depositi bituminosi dal North Dakota a un’infrastruttura in Illinois, poi, fino al Golfo del Messico.

Il progetto Dakota Access stravolgerebbe quindi, l’assetto delle terre care ai Sioux, con forti ricadute sull’impatto ambientale. L’Energy Tranfer Partners continua a sostenere che, oltre al petrolio, l’oleodotto pomperà milioni di dollari nell’economia locale creando nuovi posti di lavoro. Così, agenzie statali e federali si trovano d’accordo sulla realizzazione, come gli agricoltori e allevatori della zona, lautamente prezzolati per lasciare campo libero. Tranne una minoranza nello Iowa, uno dei quattro stati interessati, che si è appellata ai tribunali accusando la società e dichiarandosi contraria alla concessione dei territori, all’esproprio a suon di dollari.

Gli Indiani Sioux contestano fortemente il Dakota Access perché questo rappresenta la più grave minaccia per ciò che rimane della loro cultura. L’oleodotto attraverserà le terre ancestrali, anche quelle che non appartengono per diritto alla Riserva, dove i loro avi vivevano in armonia con la Grande Natura dell’America del Nord, dove cacciavano, pescavano e dove sono stati sepolti.

E’ un nuovo affronto a una storia già segnata da negazione e annientamento. Nelle parole di Maina Kiai la chiave d’interpretazione dei sentimenti Sioux: “Cercano soltanto di proteggere una terra considerata sacra…”.

Lo stop al progetto sarebbe avvenuto alcuni giorni fa con la bocciatura dell’Us Army Corps of Engineers, che invitava, appunto, la società appaltatrice a trovare un percorso alternativo, ma mentre si tira un respiro di sollievo, ecco che l’amministrazione Trump rimette tutto in discussione con un laconico: “Deciderà il presidente”.




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