di Fabrizio Casari

MANAGUA. Nove anni e mezzo di carcere e interdizione per 18 dai pubblici uffici. Questa la sentenza pronunciata dal giudice Sergio Mora nei confronti di Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, fondatore del Partito dei Lavoratori ed ex Presidente della Repubblica per due mandati consecutivi. Le accuse? Sarebbe stato il destinatario di una tangente consistente in un appartamento. Accuse provate? No, si basano su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’è nemmeno un’accusa provata.

A sostegno della Procura c’è solo un contratto di acquisto o cessione di un appartamento che si dice sia della società OAS, ma è un contratto senza intestazione di nessuna società e senza nessuna firma, meno che mai quella di Lula o di suoi familiari. E allora?

E allora Lula è stato giudicato colpevole di corruzione e riciclaggio di denaro sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. La famosa “Lava Jato”, la Tangentopoli in formato carioca, concepita con un obiettivo chiaro e nemmeno troppo nascosto: sovvertire il quadro politico progressista scelto dagli elettori e sostituirlo con uno gradito a Washington e ai poteri forti locali. Per questo si doveva procedere su tre fronti contemporaneamente: abbattere il governo di Dijlma Roussef, colpire a fondo il PT e, in particolare, mettere Lula in condizioni di non nuocere per un bel pezzo.

Perché Lula? Perché oltre ad essere il leader naturale del suo partito (il primo partito del paese) e il politico di maggior rilievo della scena brasiliana, Lula è, a distanza di anni dalla sua uscita dal Planalto, l’uomo verso il quale la stragrande maggioranza dei brasiliani ripone la maggior fiducia. Proprio la dichiarata intenzione di Lula di ricandidarsi alla guida del Brasile ha fatto scattare l’allarme per chi ha intenzione di ricondurre il gigante carioca alle dipendenze di Washington e nuovo terreno di conquista di mano d’opera a basso costo e risorse naturali in regalo.

Si obietterà che un giudice si limita solo a prendere atto di prove inoppugnabili e che non ha interessi politici diretti. Ma è proprio così? In generale non è detto e nel caso specifico, secondo quanto rivelato da Wikileaks, i dubbi aumentano.

Il giudice Mora, infatti, fa parte di un gruppo di procuratori e giudici formati dagli Stati Uniti allo scopo di combattere la corruzione in America Latina. Frequentano corsi denominati “I ponti” impartiti direttamente dal Dipartimento di Stato USA, ed è con il sostegno statunitense che vengono poi insediati nelle diverse sedi operative dei rispettivi paesi del subcontinente.

Certo, è a suo modo una innovazione: fino a pochi anni orsono i corsi statunitensi erano destinati ai militari latinoamericani, cui veniva insegnata l’arte dell’obbedienza a Washigton, le procedure per i colpi di stato e le tecniche di tortura e scomparsa dei prigionieri (vedi Scuola delle Americhe a Panama o Fort Branning in Carolina del Nord), ora, che i mezzi d’ingerenza esterna si sono fatti più sofisticati, s’insegna a sovvertire e destabilizzare al riparo di ruoli civili. Ma questa inchiesta somiglia straordinariamente ad una riedizione del Plan Condor di triste memoria.

L’inchiesta “Lava Jato”, che per comodità potremmo definire la Tangentopoli brasiliana, poggia su un livello impressionante di incriminazioni, avvenute solo a seguito di dichiarazioni “spontanee” delle aziende corruttrici, che ad oggi coinvolgono 409 dirigenti del PT, 287 del Partito Democrático del Centro Brasiliano e altri 152 del Partito della Social Democrazia che sono stati condannati per episodi di corruzione. Beneficiari di questa sarebbero state diverse società, tra le quali la Odebrecht S.S., la OAS, la Embraer, la Petrobras, e la JBS.

Sembrerebbe, apparentemente, una buona notizia quella che vede la disarticolazione di un sistema di relazioni perniciose ed illegali che alterano il mercato interno brasiliano, ma se gli elementi probatori nel caso di Lula latitano, le conseguenze di questa operazione presentano invece un quadro certo: il ritorno d’interessi straordinari per i soliti noti.

Il sostanziale blocco operativo della Petrobras, ad esempio, permette ora alla Chevron di rientrare in gioco nel mercato brasiliano della estrazione e distribuzione del greggio (uno dei maggiori al mondo). Il blocco ventennale della spesa pubblica permette alla JP Morgan di rimettere le unghie nella privatizzazione delle pensioni voluta dal Presidente Temer. Temer infatti (tra i personaggi più corrotti del paese) ex alleato di governo di Dijlma Roussef, organizzò il golpe parlamentare che la depose e che ha dato il via - in alcuni casi senza nemmeno la legittimità parlamentare -  ad alcune “riforme” ispirate dalle multinazionali statunitensi.

Tra queste quella del lavoro, che prevede, tanto per dire, la durata della giornata lavorativa portata da 8 a 12 ore! Allo stesso tempo,  con la scusa della stabilità dei conti, viene stabilito il blocco della spesa pubblica per venti anni su sanità, istruzione, assistenza sociale e piani di sviluppo. Perché queste perle abbiano seguito si deve però spodestare il PT dal governo; impedire che la politica mantenga il controllo sulla gestione del paese è decisivo per il progetto delle multinazionali USA di invadere il Brasile con fondi speculativi multinazionali, destinati a depredare le sue immense risorse naturali e, attraverso la privatizzazione dei servizi, a realizzare quella liquidità di cui le multinazionali statunitensi hanno bisogno in un quadro internazionale recessivo.

Lula, e con lui il PT, rappresentano un ostacolo insormontabile ai progetti di conquista del Brasile ed è per questo che, pur senza prove, si tenta d’inibire il vecchio sindacalista e dirigente politico dalla ricandidatura. In questo senso la scelta di non procedere con l’esecuzione della sentenza, sospesa in attesa del secondo grado, è anche un modo per tenere sotto scacco l’ex presidente, che però gode dell’appoggio del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana.

Proprio ieri, anticipando di fatto la risoluzione del Foro di Sao Paulo (l’organismo che tiene insieme tutta la sinistra latinoamericana si troverà a Managua dal 16 al 19 luglio), il FSLN del Nicaragua, guidato dal Presidente Daniel Ortega, ha dichiarato ogni appoggio al leader del PT. Lula ha deciso di non restare a guardare e, con il sostegno del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana ha assicurato l’intenzione di dare battaglia per rovesciare il tavolo e riproporre la sua candidatura.

La quale, stando ai sondaggi indipendenti, vede il suo governo rimpianto da circa il 73% dell’elettorato brasiliano. Molti di più di quelli che metterebbero le mani sul fuoco sulla correttezza del giudice Moro.


di Michele Paris

Gli attacchi contro l’amministrazione Trump nell’ambito del cosiddetto “Russiagate” sono aumentati sensibilmente negli ultimi giorni con l’evolversi della nuova “rivelazione” del New York Times su un incontro, avvenuto nel giugno del 2016, tra il figlio maggiore del presidente americano – Donald jr. – e un avvocato russo con presunti legami con il governo di Mosca. L’escalation contro la Casa Bianca sarebbe giustificata dalla pubblicazione di alcune e-mail scambiate tra lo stesso Donald Trump jr. e l’intermediario di nazionalità britannica che aveva favorito la riunione avvenuta alla Trump Tower tredici mesi fa.

La ferocia con cui le pressioni sulla Casa Bianca stanno aumentando non sono in nessun modo giustificate dal contenuto delle e-mail, ma si spiegano soltanto con la determinazione della stampa ufficiale e di buona parte della classe politica di Washington di far naufragare sul nascere l’intesa tra Washington e Mosca prospettata dal vertice di settimana scorsa ad Amburgo tra Putin e Trump.

Il passaggio cruciale dello scambio di messaggi tra Trump jr. e l’intermediario, ovvero il promotore musicale Rob Goldstone, consisterebbe in una frase scritta dal figlio del presidente in risposta a una dubbia offerta di materiale “ufficiale” che poteva screditare la candidata democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton, nel quadro “dell’appoggio del governo russo” a Donald Trump.

Trump jr. scriveva cioè che, se effettivamente esistevano documenti di questo genere, sarebbe stato interessato ad averli ed essi sarebbero tornati utili “soprattutto alla fine dell’estate”, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali.

La disponibilità di Trump jr. a valutare l’aiuto della Russia proposto in questi termini sarebbe per la stampa “mainstream” americana la prova dell’intenzione che aveva manifestato lo staff del presidente di collaborare con Mosca per ostacolare la campagna di Hillary Clinton.

La vicenda presenta però svariati aspetti tutt’altro che chiari. Per cominciare, l’avvocato russo che avrebbe poi effettivamente incontrato Trump jr., Natalia Veselnitskaya, non era in possesso di nessuna informazione relativa alla Clinton, tanto che il figlio del futuro presidente degli Stati Uniti l’avrebbe messa alla porta dopo pochi minuti.

Lo stesso Trump jr. ha rilasciato una dichiarazione al New York Times per spiegare la sua versione dei fatti. L’avvocato russo, facendo seguito alle promesse contenute nell’e-mail di Goldstone, aveva effettivamente sostenuto di avere informazioni relative a finanziamenti destinati a Hillary provenienti da cittadini russi, ma le sue affermazioni apparivano “vaghe, ambigue e senza senso”. Natalia Veselnitskaya, secondo Trump jr., sarebbe poi passata in fretta ad altri argomenti che sembravano essere il vero motivo della sua visita.

All’incontro erano presenti anche il genero di Trump e ora consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, e l’allora direttore della campagna elettorale, Paul Manfort, ma entrambi avevano abbandonato quasi subito la riunione, evidentemente non interessati a quanto l’avvocato russo aveva da riferire.

Il governo russo ha negato inoltre di avere legami con Natalia Veselnitskaya, la quale intendeva in realtà sollevare la questione della cosiddetta “legge Magnitsky” del 2012 che, approvata per penalizzare cittadini russi sospettati di avere violato i diritti umani, creava più di un ostacolo al business di alcuni suoi clienti a Mosca.

Non essendoci prove del fatto che l’incontro sia andato diversamente da questa ricostruzione, è innanzitutto impossibile affermare che, al di là delle loro intenzioni, Trump jr. o gli altri partecipanti all’incontro del giugno 2016 abbiano complottato o semplicemente discusso con emissari del Cremlino per gettare fango sulla candidata alla presidenza del Partito Democratico.

Già questo sarebbe sufficiente a liquidare come insignificante la presunta “bomba” pubblicata a inizio settimana dal New York Times. Per quanto riguarda poi la frase di Rob Goldstone citata in precedenza sull’appoggio russo alla campagna di Trump, va ricordato che essa è stata espressa da un cittadino britannico che non rappresentava né pretendeva di rappresentare il governo di Mosca.

Goldstone era in contatto con Trump jr. in qualità di agente della pop star russa Emin Agalarov, il cui padre era in rapporti d’affari con il futuro presidente americano, mentre la sua impresa di costruzioni aveva ottenuto importanti appalti dal governo di Mosca.

In ogni caso, continuano a non esserci prove che la predilezione del Cremlino per il candidato repubblicano alla Casa Bianca si sia concretizzata in qualsiasi modo, se non in commenti e prese di posizione che, comprensibilmente, lasciavano intendere vantaggi politici e strategici per Mosca in caso di successo di Trump.

Nell’analizzare la storia proposta dal New York Times è indispensabile sottolineare anche come non ci sia alcun riferimento al cuore dell’accusa rivolta a Mosca di avere interferito nelle elezioni del novembre scorso, vale a dire la violazione dei sistemi informatici del Comitato Nazionale Democratico e del computer del numero uno della campagna di Hillary, John Podesta.

Se pure la proposta sottoposta da Rob Goldstone a Trump jr. si fosse materializzata nei termini promessi, è bene ricordare che Natalia Veselnitskaya avrebbe messo a disposizione, come spiegava appunto l’agente inglese, documenti “ufficiali” provenienti dal Cremlino che rivelavano azioni illegali della candidata democratica.

Ciò avrebbe reso improbabile eventuali manovre segrete per penalizzare Hillary, visto anche che la pubblicazione dei fantomatici documenti sulla ex first lady ne avrebbe necessariamente mostrata l’origine. Soprattutto, qualunque sia il giudizio sull’entourage di Trump, appare giustificabile che il figlio di quest’ultimo fosse interessato a mettere le mani su del materiale, oltretutto sanzionato ufficialmente da un governo, che poteva mostrare operazioni illegali della rivale per la presidenza.

Nel mese di giugno e ancora fino a ridosso del voto, Trump appariva infatti in grave ritardo nei sondaggi e, visto anche il clima tossico della campagna, non è difficile credere che membri del suo staff vedessero con favore l’ipotesi di reperire, non necessariamente in maniera illegale, informazioni screditanti su Hillary.

L’inconsistenza delle accuse a Trump jr. che, secondo molti negli Stati Uniti, rappresenterebbero una qualche svolta nel “Russiagate”, risulta evidente proprio quando viene fatto notare come il comportamento del primogenito del presidente sia stato di dubbia legalità.

Un’editoriale del New York Times al limite del delirante sostiene ad esempio che Trump jr. potrebbe finire in guai legali poiché, a causa della corrispondenza con Rob Goldstone e forse dell’incontro con Natalia Veselnitskaya, avrebbe violato le leggi elettorali federali che proibiscono a membri delle campagne dei candidati di “sollecitare” qualsiasi “cosa di valore” a cittadini stranieri, incluse informazioni dannose.

Per quanto faziosa – o fantasiosa – possa essere l’interpretazione degli ultimi sviluppi del “Russiagate”, è estremamente difficile leggere nel comportamento di Trump jr. una qualche richiesta di materiale utilizzabile contro Hillary Clinton. Di ciò non vi è certo traccia nelle e-mail scambiate con Rob Goldstone né, quanto meno, esiste finora traccia che questo sia stato l’argomento di discussione durante il breve incontro con l’avvocato russo alla Trump Tower.

La questione da approfondire sarebbe piuttosto relativa alla discrepanza tra le promesse di Goldstone e quanto riferito effettivamente da Natalia Veselnitskaya a New York. La spiegazione più semplice è che il primo fosse stato convinto dalla seconda a ingigantire l’importanza delle informazioni da esporre a Trump jr. nella speranza di ottenere un incontro.

Oppure, come ha ipotizzato qualche commentatore filo-russo, l’intermediario inglese avrebbe potuto essere assoldato da qualcuno interessato a colpire Trump lanciando un’esca al figlio di quest’ultimo per convincerlo a incontrare un avvocato legato al governo di Mosca. A supporto di questa tesi, come a quella persecutoria degli accusatori del presidente, non vi sono tuttavia prove, ma è pur vero che già nel mese di giugno dello scorso anno stavano circolando voci sui presunti contatti tra Trump e la Russia.

Ad ogni modo, in questa come nelle precedenti “rivelazioni” sui rapporti tra Trump o uomini a lui vicini e il governo di Mosca, sempre favorite da fughe di notizie all’interno del governo, il tentativo degli oppositori del presidente è in sostanza quello di criminalizzare in quanto tali incontri con esponenti collegati in qualche modo al Cremlino o semplicemente di nazionalità russa.

Con una tattica riconducibile al maccartismo, ogni contatto o legame dell’amministrazione o della famiglia Trump con la Russia viene dunque amplificato come un atto che deve necessariamente nascondere qualche trama illegale, riconducibile in primo luogo all’interferenza (mai provata) di Mosca nelle elezioni americane del 2016.

Su basi decisamente più solide si fondano invece alcune notizie, poco o per nulla approfondite, emerse nei mesi scorsi sulla collusione proprio di Hillary Clinton o di organizzazioni a lei vicine con enti o individui stranieri per screditare Trump. Già a gennaio, la testata on-line Politico.com aveva rivelato come “esponenti del governo ucraino” avessero cercato di aiutare Hillary e di penalizzare Trump, “mettendo in dubbio pubblicamente la sua idoneità a diventare presidente”.

Inoltre, individui legati al governo golpista di estrema destra di Kiev avevano “divulgato documenti che accusavano di corruzione un consigliere di Trump”, salvo poi fare marcia indietro dopo le elezioni, e altri ancora avevano collaborato con “alleati della Clinton nel reperire informazioni che potevano danneggiare” il candidato repubblicano.

Organizzazioni vicine all’ex segretario di Stato avevano infine ingaggiato un ex agente segreto britannico per produrre un dossier che gettasse fango su Trump, descrivendo particolari morbosi della sua condotta nel corso di trasferte in Russia e i suoi legami compromettenti con gli ambienti del Cremlino.

Il rapporto era stato pubblicato integralmente senza scrupoli dalla stampa americana e, pur essendo giudicato universalmente falso, come gli altri “contributi” esteri alla campagna di Hillary non aveva sollevato alcuna obiezione tra coloro che oggi, per ragioni legate agli orientamenti strategici degli Stati Uniti, conducono la loro campagna contro Donald Trump per le sue presunte collusioni con il governo di Mosca.

di Mario Lombardo

Dopo gli scontri tra polizia e manifestanti nel corso del G20 di settimana scorsa ad Amburgo, la classe politica tedesca ha promesso di intensificare gli sforzi per criminalizzare e mettere a tacere quello che ha definito come “estremismo di sinistra” con la scusa di limitare gli episodi di violenza nel corso degli eventi internazionali.

Il coro di denunce nei confronti di quanti hanno partecipato alle proteste – in larghissima misura pacifiche – ha visto protagonisti i politici di quasi tutti i partiti tedeschi, impegnati in una vera e propria offensiva contro il dissenso, perfettamente in linea con il rilancio del militarismo e delle ambizioni da grande potenza della Germania in atto ormai da alcuni anni a questa parte.

Come accade in pratica in occasione di qualsiasi vertice internazionale di alto livello, anche ad Amburgo la repressione delle forze di sicurezza è arrivata puntuale in seguito, da un lato, alla militarizzazione della città e alla drastica riduzione dei diritti di movimento e di espressione e, dall’altro, a provocazioni attentamente studiate.

Il primo confronto tra polizia e manifestanti si era verificato già giovedì scorso alla vigilia dell’apertura dei lavori, anche se gli stessi giornali ufficiali avevano dovuto riconoscere il clima del tutto pacifico che prevaleva tra i gruppi intenzionati a protestare contro i leader dei venti paesi più industrializzati del pianeta.

La presenza di qualche manifestante mascherato e l’azione di individui isolati, come al solito riconducibili a gruppi anarchici o ai “black blocs”, notoriamente infiltrati in maniera pesante dalla polizia, hanno fornito l’occasione per procedere con l’assalto ai dimostranti, risoltosi nelle consuete scene di guerriglia urbana e in un numero imprecisato di feriti e arrestati.

Singolarmente, i vertici della polizia di Amburgo avevano avvertito prima della marcia di protesta che anche soltanto nascondere il viso sarebbe stato considerato un atto di violenza, così da rendere inapplicabile il diritto di espressione e di “libera assemblea” garantito dalla costituzione tedesca.

Ciò che è seguito ai primi scontri di giovedì è stata un’escalation di violenze e interventi delle forze di sicurezza, la cui responsabilità è stata attribuita a gruppi antagonisti di “estrema sinistra”, bersaglio appunto degli sfoghi dei politici tedeschi.

All’interno del governo di coalizione di Berlino, le voci più dure sono state probabilmente quelle degli esponenti del Partito Socialdemocratico (SPD). Ciò è dovuto in parte anche al tentativo da parte di questo partito di recuperare terreno a destra con proposte politiche reazionarie dopo il crollo nei sondaggi a poco più di due mesi dalle elezioni federali.

Il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha parlato di “danno d’immagine” per la Germania a causa di una vera e propria “orgia di violenza” fine a se stessa, contro la quale “uno stato… deve sapersi difendere”. Il compagno di partito di Gabriel, il ministro della Giustizia Heiko Maas, ha invece chiesto una risposta collettiva europea all’esplosione dell’estremismo di sinistra, cominciando con la creazione di una sorta di lista nera a livello continentale.

Il carattere strumentale delle dichiarazioni dell’esponente del governo Merkel è confermato dal fatto che un archivio di questo genere esiste già a livello europeo ed è servito nei giorni precedenti il G20 di Amburgo a bloccare alle frontiere tedesche centinaia di attivisti di sinistra, oltretutto monitorati negli spostamenti dalle loro città di provenienza.

Sul fronte opposto, ma sempre nel governo Merkel, il ministro dell’Interno della CDU, Thomas de Maizière, ha spiegato che “gli eventi del G20 devono rappresentare un punto di svolta nel nostro modo di considerare la propensione alla violenza dei gruppi di sinistra”.

Il “punto di svolta” auspicato da de Maizière, figlio di un alto ufficiale della “Wehrmacht” nazista, consiste nell’adozione di misure permanenti destinate a combattere “l’estremismo di sinistra”, non essendo più sufficiente la sola repressione violenta nel corso di manifestazioni o proteste occasionali. Lo stesso ministro ha d’altra parte paragonato la presunta minaccia che sarebbe esplosa ad Amburgo a quella “islamista” e “neo-nazista”.

In concreto, come ha spiegato Christian Lindner, leader del Partito Democratico Libero (FDP), al governo fino al 2013 nel secondo gabinetto Merkel, ciò dovrebbe ad esempio consistere nel “monitoraggio più attento” degli estremisti di sinistra da parte dell’intelligence domestica.

Che l’intenzione dell’establishment tedesco sia nulla di meno che il restringimento degli spazi del dissenso, in particolare quello orientato all’anti-capitalismo, è chiaro anche dalle dichiarazioni di svariati politici – dal segretario generale della CDU, Peter Tauber, al deputato della CSU, Stephan Mayer, al capo di gabinetto della cancelleria federale, Peter Altmaier – sulla necessità di chiudere gli spazi urbani “occupati” da gruppi di sinistra.

Nel mirino ci sarebbero in particolare le occupazioni della “Rigaer Strasse” a Berlino o del teatro “Rote Flora” di Amburgo, già oggetto di tentativi violenti di sgombero da parte delle forze di polizia nel recente passato.

L’ossessione sui disordini e le violenze che avrebbero provocato i manifestanti di sinistra ad Amburgo sono in primo luogo il riflesso di una crescente irritazione tra le classi dirigenti di qualsiasi paese nei confronti di movimenti popolari di opposizione alle politiche anti-sociali e anti-democratiche dilagate dopo l’esplosione della crisi del capitalismo internazionale tra il 2008 e il 2009.

Sia il puntuale soffocamento con metodi violenti delle proteste da parte delle forze di polizia sia le iniziative proposte dai politici tedeschi nei giorni scorsi sono perciò il tentativo di soffocare ogni forma di protesta e di resistenza provenienti da sinistra.

Inoltre, la criminalizzazione di quella che viene dipinta come una frangia estremista alimenta l’illusione che esista un ampio consenso popolare sulle attuali forme di governo “democratiche”, mentre è al contrario sempre più forte e diffusa l’opposizione alle politiche ufficiali, caratterizzate ovunque da disuguaglianze sociali esplosive, militarismo e restringimento degli spazi democratici.

di Michele Paris

Il primo faccia a faccia in assoluto tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuto venerdì a margine del G20 di Amburgo, ha rinvigorito negli Stati Uniti la campagna anti-russa condotta dai principali media e da esponenti politici democratici e repubblicani. L’incontro tra i due presidenti è stato infatti seguito da una lunga serie di dichiarazioni tra il preoccupato e il minaccioso, ma tutte riconducibili allo sforzo di una parte significativa della classe dirigente d’oltreoceano per bloccare sul nascere la possibile collaborazione tra Mosca e Washington su alcuni dei più delicati scenari di crisi internazionale.

Con un tempismo attentamente studiato, nel fine settimana il New York Times ha ricordato i guai di Trump sul fronte delle relazioni con la Russia, proponendo una nuova escalation delle pressioni sulla Casa Bianca. Il giornale, in prima linea assieme al Washington Post nella battaglia contro l’amministrazione repubblicana, ha pubblicato una rivelazione che, secondo gli autori, aggiungerebbe elementi concreti all’accusa di collusione tra il clan del presidente e ambienti governativi russi.

In realtà, il contenuto della più recente “esclusiva” del Times non mantiene come al solito nulla di quanto promesso dai titoli sensazionalistici o dalle osservazioni degli autori. La presunta importanza dell’articolo consisterebbe nell’individuazione per la prima volta di una qualche prova della disponibilità che avevano manifestato uomini vicini a Trump di ricevere “aiuto” dalla Russia per influenzare l’esito delle elezioni presidenziali del novembre 2016.

Il figlio dell’attuale presidente, Donald Trump jr., nel giugno dello scorso anno aveva cioè incontrato in un ufficio della Trump Tower a New York l’avvocato russo Natalia Veselnitskaya dopo che quest’ultima aveva fatto intendere di avere informazioni su possibili legami finanziari tra Hillary Clinton e oligarchi russi, utili presumibilmente a danneggiare politicamente la candidata democratica alla Casa Bianca.

All’incontro avevano partecipato anche il cognato e ora consigliere di Trump, Jared Kushner, e l’allora numero uno della sua campagna elettorale, Paul Manafort. Entrambi, però, sembra avessero abbandonato dopo appena dieci minuti la stanza dove era in corso la riunione visto lo scarso interesse delle informazioni riferite dall’avvocato russo.

Tra i clienti di Natalia Veselnitskaya ci sarebbero aziende pubbliche russe e, secondo il New York Times, anche “il figlio di un membro del governo” di Mosca. La sua reale intenzione sarebbe stata quella di presentare alla possibile prossima amministrazione americana il suo disappunto, e quello delle persone da lei rappresentate, per la cosiddetta legge Magnitsky, approvata nel 2012 dopo la morte in carcere dell’avvocato russo con lo stesso nome che aveva accusato di corruzione alcuni politici e uomini d’affari del suo paese.

La legge impone sanzioni su cittadini russi sospettati di avere violato i diritti umani e si era concretizzata in uno stop alle adozioni di bambini russi negli Stati Uniti. Sulla Clinton, in definitiva, non vi era nulla di cui discutere tra Natalia Veselnitskaya e gli uomini dell’entourage di Trump, ma la sola rivelazione dell’incontro di tredici mesi fa è stata sufficiente ad alzare l’ennesimo polverone sui legami tra la Casa Bianca e il Cremlino poche ore dopo il faccia a faccia tra il presidente americano e Vladimir Putin.

La nuova offensiva del New York Times conferma dunque il sospetto che vi sia un piano studiato a tavolino, secondo il quale ogni mossa della Casa Bianca per intraprendere un percorso di distensione con Mosca viene accolta con una “rivelazione” che dimostrerebbe le collusioni tra Trump e il governo russo o l’intervento di quest’ultimo nel processo elettorale americano.

Dietro a queste manovre ci sono sezioni dell’apparato governativo, militare e dell’intelligence, intenzionate in tutti i modi a impedire qualsiasi deviazione strategica dalla linea ferocemente anti-russa tenuta dall’amministrazione Obama. A conferma di ciò vi è il fatto che, come di consueto, la storia pubblicata dal New York Times non è frutto di un’indagine dei suoi reporter, ma scaturisce da un’imbeccata di fonti anonime all’interno del governo e propagandata come verità assoluta.

Nello specifico, la notizia è giunta al giornale newyorchese da non meglio identificati individui che hanno avuto accesso ai documenti messi a disposizione da Jared Kushner nell’ambito della sua nomina a consigliere della Casa Bianca e nei quali elencava appunto i suoi incontri con cittadini stranieri.

Com’è accaduto puntualmente a partire da domenica, la notizia pubblicata dal Times ha fornito l’occasione ai rivali di Trump per andare di nuovo all’attacco sul fronte dei rapporti della nuova amministrazione con Mosca. L’asprezza dei commenti e degli avvertimenti è stata ancora più evidente a causa del clima amichevole che ha caratterizzato il vertice tra Putin e Trump ad Amburgo.

I “tweet” del presidente e i resoconti del faccia a faccia proposti dal segretario di Stato Rex Tillerson, anch’egli presente all’incontro, e di quello del Tesoro Steven Mnuchin, sono stati accolti da molti a Washington con reazioni al limite dell’isteria. Tutto ciò nonostante lo stesso Trump avesse cercato di venire incontro ai suoi critici esprimendosi in toni relativamente anti-russi nel discorso dai toni fascistoidi tenuto il giorno prima a Varsavia e assicurando di avere fatto pressioni su Putin in relazione alle interferenze nelle elezioni dell’anno scorso.

Gli attacchi a Trump hanno preso di mira in particolare l’annuncio del raggiunto accordo con Mosca per un cessate il fuoco in alcune aree della Siria e la proposta, presentata a Putin, di creare un’unità congiunta russo-americana nell’ambito della cybersicurezza. Su quest’ultima ipotesi, lo stesso Trump ha fatto subito marcia indietro, vista la derisione che essa ha suscitato tra molti esponenti democratici e repubblicani che continuano ad accusare Mosca di utilizzare i propri hacker per interferire nelle vicende interne americane.

In generale, ciò che ha ridato impulso alle pulsioni “neo-maccartiste” della classe dirigente USA sono state le conclusioni tratte da Trump dopo il vertice con Putin e, in sostanza, la decisione di mettere da parte gli scontri e i disaccordi del recente passato per provare a instaurare finalmente un rapporto “costruttivo” con Mosca.

Malgrado le aspettative di quanti sperano in un allentamento delle tensioni internazionali, a cominciare da una de-escalation della guerra in Siria, in seguito al clima positivo che ha segnato il primo incontro di persona tra Putin e Trump, tutte le indicazioni emerse solo poche ore più tardi fanno intravedere piuttosto un inasprimento del conflitto interno all’establishment di Washington che non potrà non riflettersi negativamente sui rapporti russo-americani.

Le forze che stanno dietro alla campagna anti-russa, che cerca di far desistere in tutti i modi l’amministrazione Trump dai suoi propositi di distensione con Mosca, non saranno infatti disposte ad accettare passivamente un riallineamento strategico che escluda il confronto con la Russia, considerata l’ostacolo principale al dispiegamento degli interessi USA in alcune aree cruciali del pianeta.

A ricordare il grado di ostilità che continuerà a incontrare l’atteggiamento anche solo moderatamente filo-russo di Trump è stato, tra gli altri, sempre il New York Times. Poco dopo l’apertura di un pezzo dedicato all’incontro con Putin, il principale giornale “liberal” americano ha smontato le speranze del presidente per un possibile allentamento della campagna nei suoi confronti, invitandolo a fare i conti con una realtà nella quale le iniziative come quella di venerdì ad Amburgo finiscono per “sollevare più dubbi di quanti ne possano fugare”.

Ancora più esplicito è stato infine un compagno di partito del presidente, l’influente senatore della South Carolina, Lindsey Graham. In un’intervista alla NBC, quest’ultimo ha definito “disastroso” il faccia a faccia con Putin, per poi attaccare il comportamento di Trump che, a suo dire, “sconfessa la comunità dell’intelligence” e solleva Putin dalle sue responsabilità.

Secondo Graham, se Trump dovesse continuare in questo modo, ci potrebbero essere conseguenze per la sua amministrazione. Se cioè la Casa Bianca non dimostrerà di voler cambiare rotta e riallinearsi alle priorità strategiche anti-russe, la campagna di discredito contro l’attuale presidenza non potrà che intensificarsi nel prossimo futuro.

di Mario Lombardo

Le due tappe della trasferta europea del presidente cinese, Xi Jinping, che hanno preceduto il vertice del G20 ad Amburgo hanno evidenziato ancora una volta il processo di consolidamento di blocchi strategici ed economici a livello globale sempre più svincolati dall’influenza degli Stati Uniti e dagli equilibri che avevano presieduto allo sviluppo del capitalismo internazionale nel secondo dopoguerra.

Il presidente cinese ha dapprima incontrato per l’ennesima volta Vladimir Putin a Mosca, dove i toni di entrambi i leader sono stati molto ben calibrati per dare estremo rilievo alla solidità delle relazioni bilaterali. I due hanno dato particolare enfasi al potenziale in termini di stabilità internazionale della partnership sino-russa, in contrapposizione alla portata destabilizzante della condotta americana, ancora più evidente dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.

Molti osservatori hanno individuato nella dichiarazione congiunta di Xi e Putin sulla crisi nordcoreana un momento importante nella formazione di un’alleanza strategica in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti. Soprattutto, la proposta di Mosca e Pechino intende gettare le basi per un negoziato che porti a una soluzione pacifica dello scontro nella penisola di Corea, mentre la condotta di Washington rischia di spingere sempre più i protagonisti del conflitto verso una rovinosa soluzione militare.

Il costante avvicinamento tra Cina e Russia in questi anni è il risultato proprio dell’evolversi della politica estera statunitense. Le minacce crescenti alla posizione internazionale degli USA hanno portato cioè la prima potenza del pianeta a esercitare pressioni sempre più forti su Mosca e Pechino, cercando di compensare militarmente una declinante influenza economica nel pianeta.

L’allargamento della NATO verso i confini russi, la promozione di un golpe neo-fascista in Ucraina, l’offensiva contro il regime di Assad in Siria tramite l’appoggio a forze fondamentaliste, assieme all’escalation di minacce alla Corea del Nord e alla militarizzazione dell’Asia sud-orientale, sono alcuni degli sviluppi che hanno contribuito in questi anni a favorire la convergenza di interessi tra Cina e Russia.

Se le posizioni tra questi due paesi restano distanti su alcune questioni tutt’altro che trascurabili, come il sovrapporsi dei rispettivi interessi in Asia centrale, i gravi contrasti che avevano segnato il periodo della Guerra Fredda sembrano tuttavia lontani, così come la possibilità per gli Stati Uniti di trarre beneficio dalle divisioni che ne avevano caratterizzato i rapporti.

A rinsaldare la partnership sino-russa vi sono ormai componenti economiche, militari ed energetiche di grandissima importanza e che vanno dagli investimenti miliardari cinesi in Russia alle sempre più frequenti esercitazioni militari congiunte, fino ai contratti colossali già siglati per forniture di gas e di armamenti a Pechino.

Più in generale, e in maniera forse ancora più preoccupante per Washington, il rafforzamento dei legami tra Mosca e Pechino si inserisce in un processo di integrazione euro-asiatica che tende ugualmente a emarginare un’America ripiegata su stessa e impegnata a tenere in vita il miraggio di un “eccezionalismo” sempre più logoro e senza senso.

Su questa dinamica ha fornito materiale di discussione la seconda tappa del viaggio del presidente cinese, ricevuto con tutti gli onori del caso a Berlino alla vigilia del G20. L’arrivo di Xi in Germania è stato preceduto da un suo commento apparso sulla stampa tedesca, nel quale ha invitato i due paesi a svolgere un ruolo costruttivo sulle questioni internazionali, chiedendo nel contempo, con un chiaro anche se indiretto riferimento a Washington, il mantenimento di un commercio e un’economia mondiale aperti come fondamento della crescita collettiva.

Ancor più che a Mosca, l’accento della visita di Xi a Berlino è stato proprio sulle questioni economiche e, in particolare, l’abbraccio da parte della cancelliera Merkel della “Nuova Via della Seta” (“One Belt One Road” o, più recentemente, “Belt and Road Initiative”), cioè il megaprogetto cinese per la costruzione di infrastrutture che dovrebbero favorire i collegamenti e la cooperazione tra i paesi eurasiatici, ha confermato l’importanza fondamentale di Pechino nello sviluppo del vecchio continente.

Anche la retorica dei leader politici tedeschi nei giorni scorsi ha chiarito le profonde divisioni che stanno emergendo tra le potenze occidentali. La Merkel ha in sostanza ribadito la necessità della Germania di non contare più sulla sola protezione dell’alleato americano, mentre nel campo socialdemocratico sono stati frequenti gli inviti espliciti a isolare l’amministrazione Trump anche nel corso del G20.

Le frizioni transatlantiche non sono peraltro cosa nuova e, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, erano già emerse drammaticamente nelle fasi che avevano portato all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. L’agenda ultra-nazionalista del nuovo governo USA ha però ora fatto esplodere tutte le tensioni accumulate negli ultimi anni e alimentate dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2009.

Le crescenti rivalità internazionali e il coagularsi di intese al di fuori delle alleanze tradizionali sono in sostanza il prodotto di una competizione sempre più aspra tra i grandi interessi economici dei vari paesi per l’accaparramento di nuovi mercati e fonti energetiche.

Non a caso, infatti, l’ostilità crescente nei confronti di Trump a livello internazionale è in questi mesi scaturita dalle ripetute critiche del presidente allo stato delle relazioni economiche e commerciali tra gli USA e alcuni paesi nominalmente alleati, ritenuto responsabile del declino americano. Gli strali di Trump si sono ad esempio abbattuti sui trattati di libero scambio, a suo dire svantaggiosi per Washington, con paesi come Messico o Corea del Sud, mentre proprio le aziende automobilistiche tedesche sono state accusate di “invadere” in maniera scorretta il mercato americano.

Lo stravolgimento, probabilmente ancora in fase iniziale, degli equilibri internazionali rischia di evolversi in qualche pericoloso confronto armato nel medio o lungo periodo, come conferma la tendenza alla militarizzazione tra le principali potenze del pianeta. Per il momento, le divisioni continueranno a manifestarsi soprattutto negli appuntamenti come quello del G20 del fine settimana, sempre più teatro di tensioni e rivalità che non organo collegiale per la risoluzione pacifica e condivisa dei conflitti internazionali.


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