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di Michele Paris
La definitiva vittoria di Benoît Hamon nel secondo turno delle primarie presidenziali, tenute nella giornata di domenica in Francia, rischia di spaccare un Partito Socialista (PS) già nel pieno di una gravissima crisi provocata dalle politiche di destra perseguite da François Hollande e dai governi che si sono succeduti a Parigi negli ultimi cinque anni.
Il successo dell’ex ministro dell’Educazione è stato ancora più netto di quanto prevedevano i sondaggi. Il 59% dei consensi ottenuti, contro il 41% dell’ex primo ministro Manuel Valls, ha confermato l’esistenza di un fortissimo malcontento popolare nei confronti dei vertici socialisti. Malcontento che si è materializzato anche con una bassa partecipazione al voto, fermatasi come al primo turno a circa due milioni, cioè la metà rispetto alle primarie della destra gollista (Les Républicaines) organizzate nel mese di novembre.
Lo schiaffo a Valls rappresenta così un’autentica umiliazione per il suo partito e, in particolare, per l’ala destra del PS che ha sostenuto Hollande e i suoi governi nell’attacco ai diritti democratici e dei lavoratori. Hamon, da parte sua, ha evidentemente beneficiato di questa situazione, proponendo una campagna basata su misure come l’istituzione di un reddito minimo universale e l’abrogazione delle odiate “riforme” del lavoro implementate da Hollande e Valls.
Alla chiusura delle urne, Hamon, ha celebrato la possibile rinascita della sinistra francese dopo gli anni di Hollande, con il quale aveva rotto proprio sulle politiche economiche dei suoi governi. Il 49enne deputato del dipartimento di Yvelines ha inoltre fatto appello ai candidati alla presidenza del Partito di Sinistra (PG), Jean-Luc Mélenchon, e dei Verdi (EELV), Yannick Jadot, per costruire quella che ha definito “una maggioranza governativa sociale, economica e democratica”.
La proposta politica di Hamon è però illusoria e destinata al fallimento. In primo luogo, quali che siano gli sviluppi delle prossime settimane, il candidato all’Eliseo del Partito Socialista finirà per incassare una pesante batosta nel primo turno delle presidenziali di aprile. Inoltre, qualsiasi iniziativa che implichi un aumento della spesa sociale è fortemente avversata da una larghissima maggioranza della classe politica francese, compresa quella rappresentata dal Partito Socialista.
La coalizione di “sinistra” che Hamon ipotizza con i Verdi e il “Parti de Gauche” è stata poi in sostanza alla base anche del successo di misura di Hollande su Nicolas Sarkozy nel 2012, quando l’allora candidato socialista prometteva anch’egli una rottura con le politiche liberiste del presidente in carica. La strategia del male minore e delle pressioni da “sinistra” non ha portato a nessun risultato positivo, ma ha in qualche modo avallato la deriva liberista del PS sotto la guida di Hollande e di fatto disarmato l’opposizione pure presente nel paese.
Anche nell’eventualità di un miracolo che portasse Hamon all’Eliseo, è più che probabile che quest’ultimo finirebbe per operare una voltafaccia simile a quello di Hollande o, quanto meno, si troverebbe a fare i conti con un PS e con un parlamento decisamente ostili.
Il programma di Hamon, oltretutto, presenta a ben vedere aspetti tutt’altro che progressisti. Ad esempio, l’istituzione di un reddito minimo garantito s’inserisce in una visione disfattista della situazione economica francese, nella quale sembra accettare come dato irreversibile il declino e la deindustrializzazione, così che l’unica prospettiva che resterebbe per milioni di persone non sarebbe altro che povertà e disoccupazione permanenti.
In campagna elettorale, Hamon ha anche sostanzialmente appoggiato le politiche reazionarie di Hollande sul fronte estero e della sicurezza nazionale. In altre parole, mentre in ambito sociale il candidato del PS dovrebbe percorrere una strada teoricamente progressista, senza apparenti contraddizioni sotto la sua guida verrebbero confermate sia la compressione dei diritti democratici in nome della lotta al terrorismo sia le sanzioni contro la Russia e le operazioni militari in vari paesi per la promozione degli interessi della classe dirigente d’oltralpe.
Uno degli aspetti più significativi della vittoria nelle primarie di Hamon, come già anticipato, è ad ogni modo il riflesso che essa avrà sulle dinamiche interne al Partito Socialista. Già dopo i risultati del primo turno, che lasciavano intravedere la disfatta di Valls, molti leader socialisti avevano iniziato a mobilitarsi per rendere chiara la loro netta opposizione all’adozione da parte del partito anche solo di una retorica vagamente di “sinistra”. Questa tendenza ha visto un’inevitabile accelerazione una volta ufficializzati i risultati del ballottaggio di domenica.
Lo stato di degrado del PS francese è tale infatti da avere spinto numerosi deputati, ex ministri e amministratori locali a dichiarare la loro intenzione di sostenere nelle presidenziali della prossima primavera il candidato “indipendente” e “pro-business” Emmanuel Macron, ovviamente senza nessuno scrupolo per l’opinione espressa nelle primarie dagli elettori del partito.
Il 39enne banchiere e ministro dell’Economia dal 2014 al 2016 nel governo Valls qualche mese fa aveva lasciato il Partito Socialista per lanciare un proprio movimento – “En Marche !” – e la sua candidatura all’Eliseo, precisamente nella speranza di raccogliere consensi al centro strappandoli a un PS sempre più screditato dalla presidenza Hollande.
Nella realtà, attorno alla candidatura di Macron si è compattata quella parte dei grandi interessi economici francesi che, pur non tollerando un allentamento delle politiche anti-sociali e di austerity perseguite da Sarkozy e Hollande, vede con timore il crescere del sentimento anti-europeista e populista.
Dando ormai per certo il rovescio elettorale del PS sia nelle presidenziali sia nelle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale a giugno, questa sezione della classe dirigente transalpina scommette su Macron per impedire lo sfondamento del Fronte Nazionale (FN) e l’approdo all’Eliseo di un candidato di centro-destra – François Fillon – che ha già mostrato possibili tendenze filo-russe e (relativamente) anti-americane.
Molti giornali e siti di informazione in Francia e non solo hanno proclamato lunedì proprio Macron il vero vincitore della consultazione interna a un PS che sembra diretto sempre più verso una possibile spaccatura nel prossimo futuro.
Ancora a favore di Macron è da registrare infine un’altra vicenda che sta scuotendo il panorama politico francese. Con un tempismo perfetto, la settimana scorsa il candidato favorito alla presidenza del principale partito di centro destra è stato coinvolto in una vicenda che minaccia seri guai legali e, verosimilmente, la fine della sua corsa all’Eliseo.
Il settimanale satirico Le Canard Enchaîné aveva cioè rivelato che la moglie di nazionalità britannica di Fillon aveva incassato compensi pari ad almeno 600 mila euro per impieghi di assistente parlamentare che non avrebbe invece mai svolto.
Tra gli incarichi per cui Penelope Fillon aveva ricevuto denaro pubblico c’era quello di assistente di Marc Joulaud, il deputato del dipartimento di Sarthe, nella regione Paesi della Loira, che aveva occupato il seggio del marito dopo che quest’ultimo era diventato ministro. I giornalisti di Le Canard Enchaîné hanno intervistato un altro assistente di Joulaud, il quale ha affermato di non ricordare di avere mai lavorato con la signora Fillon.
La nomina di famigliari di politici per svolgere incarichi parlamentari più o meno reali è pratica piuttosto comune in Francia come altrove. Il caso che riguarda Fillon, particolarmente delicato viste le ambizioni presidenziali e la promozione di un’immagine di politico non corrotto a differenza anche dei colleghi del suo stesso partito, è tuttavia sospetto.
Come già ricordato in precedenza, Fillon prospetta una serie di cambiamenti degli orientamenti strategici di Parigi in caso di elezione a presidente. Cambiamenti che sono visti con sospetto da molti nell’establishment francese. Forse non a caso, l’emergere della vicenda dei pagamenti alla moglie è coincisa con una sua visita in Germania e il rilascio di interviste nelle quali metteva tra l’altro in discussione la linea dura dell’Europa nei confronti della Russia.
Allo stesso modo, Fillon criticava gli interventi occidentali in scenari di crisi come Siria e Ucraina, mentre auspicava la formazione di una sorta di asse con Berlino per contrastare l’agenda nazionalista della nuova amministrazione di Donald Trump negli Stati Uniti.
L’affondamento della candidatura di Fillon potrebbe essere perciò un obiettivo dei poteri che operano dietro le quinte della politica francese, assieme alla promozione di Emmanuel Macron. Il rischio concreto, tuttavia, è che simili manovre finiscano per gettare ancor più nel discredito la classe politica d’oltralpe, favorendo ulteriormente l’ascesa dell’estrema destra del “Front National”.
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di Fabrizio Casari
Le misure di Trump contro i rifugiati sono orripilanti sul piano etico, inutili sotto il profilo della sicurezza e dannose per l’economia statunitense. Non è certo la prima volta che gli Stati Uniti chiudono le loro frontiere o procedono ad espulsioni di massa di cittadini originari di altri paesi o anche, come fece Reagan, (accogliendo la mozione del senatore fascista Helms) verso i malati di HIV.
Dal 1882, nel primo provvedimento contro i cinesi che si riteneva togliessero lavoro agli americani, passando per i cittadini di origine giapponese espulsi dopo Pearl Harbor, la pulsione xenofoba ricorre costantemente nella storia di un paese che, in fondo, è nato come nazione sterminando un'altra nazione, quella dei nativi d’America. Ma questa volta l’allarme individua le misure islamofobiche associate a pulsioni razziste, cioè riscontra il pericolo tanto verso l'estero come verso l'interno.
Va detto che le incongruenze contenute nel Decreto presidenziale sono tali da evidenziare come non si tratti affatto di misure securitarie, bensì di xenofobia allo stato puro. Basta infatti vedere i paesi destinatari del provvedimento: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Ora, a parte l’incoerenza di ritenere l’Irak paese terrorista mentre i soldati americani combattono insieme ai militari irakeni a Mosul e in altre parti del paese, se il fine fosse quello d’impedire l’ingresso di potenziali terroristi – ammessa e non concessa l’efficacia della misura - questa dovrebbe riguardare in primo luogo l’Arabia Saudita.
E’ Ryad, infatti, che ha creato, finanziato e organizzato l’Isis, e sono sauditi 15 degli attentatori delle Torri Gemelle, così come saudita era lo stesso Osama bin Ladin. I 150.000 visti annui che Washington concede a Ryad, però, non verranno toccati.
Per non parlare del Qatar, punto di riferimento delle Brigate Al-Nusra, ovvero la filiale siriana di Al-Queda Nella sua Tv satellitare, Al-Jazeera,viene intervistato il loro capo, Abu Mohammed al Jolani, addobbato con tanto di cintura esplosiva e kalashnikov. Ma anche qui, nonostante il ruolo evidente di Doha nel finanziamento e sostegno politico ai terroristi islamisti agli ordini di Ayman al Zawahiri, i novemila visti annui per gli USA non verranno sospesi. E infine: si vuole forse sottostimare il ruolo del Pakistan e dei suoi Servizi segreti nell’addestramento e copertura per i Talebani afghani? Ma il Pakistan non viene sottoposto a restrizioni e la collaborazione della sua intelligence con la CIA prosegue allegramente.
A leggere bene il senso vero del provvedimento, si può notare come si tratti di paesi poveri, poverissimi, privi comunque di risorse ritenute strategiche per gli USA. Alcuni di essi – Somalia, Libia, Yemen, Sudan – non sono nemmeno in grado di emettere passaporti vista l’inesistenza di uno Stato nel senso vero del termine. Dunque il senso del provvedimento è tutto propagandistico, utile a rinserrare le fila del suo elettorato, nella convinzione che esitare nell’attuazione di alcuni dei suoi deliri programmatici potrebbe confortare il dubbio sulla loro reale applicabilità. In definitiva, della sua stessa credibilità.
Le proteste contro Trump che si svolgono ormai da giorni sono certamente legittime, addirittura sacrosante. Magari mobilitarsi prima per impedire che fosse Hillary Clinton la candidata democratica da opporre a Trump e poi andare a votare per fermare il tycoon sarebbe stato più efficace, ma tant’è. Non protestano solo i cittadini, anche molte aziende sono sul piede di guerra.
Che siano le maggiori multinazionali statunitensi a dissociarsi dall’operato del neopresidente non deve stupire. Sono infatti esse, più di ogni altra impresa, ad aver realizzato profitti enormi con i loro investimenti all’estero.
Interpreti eccellenti della globalizzazione dei mercati, attraverso l’esternalizzazione della produzione e l’impiego di mano d’opera a prezzi stracciati hanno messo in piedi un dispositivo che si è giovato di un costo del lavoro da terzo mondo per realizzare prodotti venduti poi ovunque a pezzi da primo mondo.
Ovvio quindi che siano preoccupati e contrariati: c’è da aspettarsi che alle politiche xenofobe di Trump seguano altrettante reazioni basate sul concetto di reciprocità. Da Wall Mart a Starbucks, da MC Donald a Nike, Airbnb e molti altri marchi ancora, in molti casi il peso degli investimenti esteri è decisamente più rilevante di quelli in patria e, di conseguenza, il rischio di vedere colare a picco i profitti non può essere escluso.
Dal boicottaggio dei prodotti statunitensi fino all’innalzamento delle imposte locali per le imprese a stelle e strisce, cui potrebbero aggiungersi restrizioni o addirittura divieti alla libertà di movimento del management statunitense, sono possibili misure ritorsive verso gli USA che complicherebbero oltremodo le attività industriali delle major americane e causerebbero perdite finanziari di assoluto rilievo.
Peraltro, l’ipotetico scambio tra riduzione della pressione fiscale in cambio di un ritorno in patria della produzione ha margini ridotti, visto che già ora il prelievo e minimo. Invece, se la produzione si spostasse all’interno degli USA, i prezzi di ogni prodotto verrebbero come minimo quintuplicati e questo non sarebbe certo apprezzato dai consumatori.
Si tratta ora di capire l’impatto effettivo che le strampalate teorie di Trump avranno sul complesso del sistema militar-finanziario statunitense. L’impressione è che fino a quando le sue decisioni potranno misurarsi con provvedimenti più simboliche che concreti, l’opposizione resterà quella dei manifestanti, salvo proteste formali, benché nette, da parte di alcuni degli attori economici statunitensi.
Ove invece Trump dovesse incidere davvero nel cuore del sistema, ovvero mettere in discussione la centralità del complesso militar-industriale e la leadership internazionale, allora altri e di diverso spessore saranno gli oppositori. Non esibirebbero cartelli né pubbliche marce, si muoverebbero come sanno muoversi: silenti e letali. Impeachment, scandali, i mezzi non mancano, la fantasia nemmeno, la predisposizione di Trump neppure. A quel punto, il cammino del magnate esperto in bancarotta sarà segnato. Se prima non avrà segnato il nostro.
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di Michele Paris
Una bozza di un decreto presidenziale fatta circolare nei giorni scorsi dalla Casa Bianca ha aggiunto un nuovo motivo di allarme per i contorni che minaccia di assumere precocemente l’amministrazione entrante di Donald Trump. Il documento, non confermato dal portavoce del neo-presidente, è stato pubblicato mercoledì da New York Times e Washington Post e sembra gettare le basi per un possibile ritorno alle detenzioni arbitrarie e alle torture di presunti terroristi da parte della CIA autorizzate da George W. Bush dopo l’11 settembre 2001.
Vista la gravità del contenuto della bozza di un provvedimento sui cui Trump potrebbe mettere la firma nel prossimo futuro, in molti ritengono che la proposta sia solo un'altra iniziativa per galvanizzare gli ambienti di estrema destra che hanno sostenuto la sua candidatura.
Il ripristino dei metodi più estremi della “guerra al terrore” dovrebbe in effetti fronteggiare svariati ostacoli legali, oltre che politici; ma il documento in questione, al di là delle smentite, è sintomatico del dibattito interno a una amministrazione i cui membri, a cominciare dal presidente, hanno già mostrato pochissimi scrupoli per il diritto internazionale e le più elementari norme democratiche.
La bozza di decreto sarebbe stata diffusa da un membro dello staff del segretario del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, il generale Keith Kellogg, allo scopo di stimolare una discussione interna allo stesso organo della Casa Bianca. Tra le proposte avanzate c’è appunto la richiesta sottoposta ai vertici dell’intelligence di studiare la possibile riapertura di strutture detentive “off-shore”, gestite dalla CIA, dove riprendere gli interrogatori di presunti terroristi, anche ricorrendo a metodi di tortura.
Nel piano allo studio figura anche il trasferimento al lager di Guantanamo di eventuali sospetti, cosa che l’amministrazione Obama aveva vietato dopo il suo insediamento nel 2009 malgrado la mancata chiusura dello stesso carcere. Nel documento, la prigione sull’isola di Cuba viene definita “legale”, “sicura” e “umana”, nonché “conforme” al diritto internazionale.
Il capo dell’ufficio stampa della Casa Bianca, Sean Spicer, mercoledì in una conferenza stampa ha detto di non conoscere la provenienza del documento, ma i due giornali americani che ne hanno dato notizia hanno citato fonti interne alla nuova amministrazione che si sono dette certe della sua autenticità.
Il piano così diffuso farebbe parte di una serie di “ordini esecutivi” che nei giorni successivi all’insediamento di Trump sono stati prodotti dallo staff presidenziale e per i quali sono stati richiesti pareri e commenti ai membri della nuova amministrazione.
A rendere più che probabile l’autenticità del documento è anche la coincidenza di un’intervista rilasciata nella serata di mercoledì da Trump alla ABC, durante la quale ha ribadito la sua disponibilità a tornare ai metodi dell’amministrazione Bush nella lotta al terrorismo. Come aveva fatto in campagna elettorale, Trump ha sostenuto che il “waterboarding” e altri metodi violenti usati dopo l’11 settembre negli interrogatori della CIA su autorizzazione della Casa Bianca sono del tutto legittimi ed efficaci.
Per il neo-presidente, se il segretario alla Difesa, generale James Mattis, e il direttore della CIA, Mike Pompeo, dovessero raccomandare il ritorno a questi metodi, dalla Casa Bianca non ci sarebbe alcuna opposizione. Mattis, da parte sua, nonostante i precedenti da comandante delle forze di occupazione USA in Iraq che lo rendono un potenziale criminale di guerra, ha escluso il ricorso alle torture durante le recenti audizioni al Senato per la conferma della sua nomina.
Lo stesso aveva fatto inizialmente anche Pompeo, ma nelle successive risposte scritte alle domande dei senatori della commissione Servizi Segreti è risultato decisamente più ambiguo, dicendosi aperto a ogni eventualità in base alle necessità della sicurezza nazionale americana.
Nella stessa bozza di decreto si riconoscono gli ostacoli rappresentati dai decreti di Obama del 2009 per mettere fine alle torture della CIA. Queste misure sono state inoltre recepite da un emendamento del 2016 alla legge di bilancio per il Pentagono che vieta il ricorso a tecniche di interrogatorio non espressamente autorizzate o non previste dal manuale dell’esercito.
Inoltre, la stessa legge prevede che la Croce Rossa Internazionale sia informata sulle strutture detentive americane e abbia accesso ai prigionieri fatti dagli Stati Uniti in un qualsiasi conflitto armato.
L’emendamento era stato approvato su richiesta del senatore Repubblicano dell’Arizona, John McCain, e dalla collega Democratica della California, Dianne Feinstein. I due sono stati tra i primi a criticare il contenuto del documento reso noto da New York Times e Washington Post. Entrambi, peraltro, come in pratica tutti coloro che ricoprivano cariche elettive a Washington durante l’amministrazione Bush, erano perfettamente al corrente di quanto accadeva per mano degli agenti della CIA.
L’indignazione ostentata oggi e negli anni successivi alla chiusura del programma che prevedeva le cosiddette “tecniche avanzate di interrogatorio” rivela perciò il loro opportunismo politico e il tentativo di conservare quel minimo di parvenza rimasta agli Stati Uniti di baluardo dei diritti democratici che Trump, agendo in maniera sconsiderata, rischia di spazzare via definitivamente.
Non tutti i membri del Congresso americano sembrano essere comunque sulle posizioni di McCain e Feinstein. Il deputato Repubblicano dell’Illinois, Adam Kinzinger, non ha ad esempio escluso il ricorso alle torture in situazioni di emergenza, verosimilmente nel caso in cui “centinaia di migliaia di vite siano a rischio”.
Il fatto che la riapertura di strutture detentive clandestine e illegali, assieme all’uso di torture durante gli interrogatori, sia tornata in qualche modo al centro della discussione negli Stati Uniti è un’altra conferma della deriva ultra-reazionaria del quadro politico americano.
Che ciò accada al termine di due mandati di un presidente Democratico che continua a essere celebrato come una sorta di modello di progressismo dai “liberal” americani è tutt’altro che casuale. Obama ha per molti versi accelerato il decadimento del clima democratico negli USA, pur vietando formalmente le torture e i cosiddetti “black sites”, mentre ha garantito la totale impunità ai responsabili dei crimini commessi nell’ambito della “guerra al terrore” all’interno dell’amministrazione Bush.
Gli scenari che si stanno venendo a creare con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca sono ancora più clamorosi alla luce dell’esistenza di un lunghissimo rapporto sulle torture prodotto anni fa dalla commissione Servizi Segreti del Senato. Un estratto dello studio era stato pubblicato nel 2014, dopo anni di dispute tra i vari organi del governo, e mostrava nel dettaglio il livello di criminalità della CIA e dell’amministrazione Bush nella gestione dei sospettati di terrorismo.
Mentre Trump sembra studiare il ritorno degli Stati Uniti a uno dei punti più bassi della loro storia, quanto meno per quel che riguarda i crimini ammessi pubblicamente, i leader Repubblicani al Congresso e la sua nuova amministrazione si stanno d’altra parte adoperando per sopprimere definitivamente il rapporto del Senato sulle torture impedendone la diffusione.
Quest’ultimo, infatti, finora non è mai stato reso pubblico nella sua forma integrale e, se gli sforzi in atto avranno successo, potrebbe rimanere sconosciuto agli americani anche per i prossimi decenni.
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di Michele Paris
I primi atti ufficiali da presidente di Donald Trump hanno subito messo in chiaro gli orientamenti ultra-reazionari della nuova amministrazione Repubblicana, ben decisa a perseguire la promessa deregolamentazione del business assieme a misure anti-democratiche a cui si oppongono decine di milioni di americani. Alla promessa fatta a inizio settimana di facilitare gli affari delle grandi aziende e ai decreti presidenziali per sbloccare la costruzione di due discussi oleodotti, si sono aggiunti mercoledì i primi passi nell’ambito della lotta all’immigrazione e per la costruzione del famigerato muro di confine con il Messico.
Le ultime iniziative erano state anticipate attraverso i soliti “tweet” di Trump che annunciavano mercoledì come un “grande giorno” per la sicurezza nazionale. Oltre al muro, tra le misure per cui il neo-presidente ha dato indicazione c’è il taglio dei fondi federali alle amministrazioni delle cosiddette “città santuario”, quelle cioè che garantiscono protezione ai migranti che non hanno i requisiti legali previsti per vivere sul territorio americano
Nei prossimi giorni sono previste poi misure per limitare il numero di immigrati e rifugiati a cui sarà consentito l’ingresso negli Stati Uniti. La Casa Bianca avrebbe intenzione di congelare per alcuni mesi l’emissione di visti di ingresso per cittadini siriani e di altri paesi mediorientali e africani, in attesa della definizione di un meccanismo più stringente per la valutazione dei requisiti e dei precedenti di coloro che chiedono ospitalità. Questa misura dovrebbe sostituire, almeno per il momento, il divieto d’ingresso a tutti gli stranieri di fede musulmana che era stato propagandato da Trump durante la campagna elettorale per la Casa Bianca.
Trump potrebbe chiedere poi alle agenzie governative preposte di rafforzare il controllo della frontiera meridionale e avviare una campagna sul territorio nazionale per stanare e rimandare nei loro paesi di origine il maggior numero possibile di immigrati “illegali”.
Il Washington Post ha scritto mercoledì che dietro a queste prime decisioni relative ai fenomeni migratori ci sono con ogni probabilità i membri della nuova amministrazione con le inclinazioni più populiste, per non dire fasciste. Tra di essi figurano il “capo stratega” della Casa Bianca ed ex direttore del sito web di estrema destra Breitbart News, Stephen Bannon, il candidato alla carica di ministro della Giustizia, senatore Jeff Sessions, e il consigliere politico del presidente, Stephen Miller.
Tutte le iniziative prese e da prendere rappresentano un attacco ai diritti degli immigrati e confermano come Trump intenda fare di questa sezione più debole della popolazione un capro espiatorio e assieme un diversivo dei problemi economici e sociali degli Stati Uniti.
È necessario ricordare, comunque, che l’accanimento anti-migratorio di Trump non è che la prosecuzione dei metodi impiegati negli ultimi otto anni dall’amministrazione Obama, responsabile, tra l’altro, del maggior numero in assoluto di deportazioni della storia americana.
La firma sui decreti presidenziali citati è avvenuta significativamente nel corso di una visita del presidente Repubblicano presso la sede di Washington del dipartimento della Sicurezza Interna, deputato al controllo delle frontiere e alla cui guida il Senato ha confermato qualche giorno fa l’ex generale dei Marines, John Kelly.
Per quanto riguarda il muro con il Messico, sono in molti a credere che la sua costruzione risulterà problematica, sia per ragioni logistiche che economiche, visto anche che il presidente messicano, Enrique Peña Nieto, ha escluso che il suo governo lo finanzi, come chiede invece Trump. Il solo annuncio di mercoledì rappresenta però un messaggio difficilmente equivocabile circa gli orientamenti del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Le misure che dovrebbero accelerare invece la costruzione di due oleodotti negli USA rischiano di scatenare nuove manifestazioni di protesta dopo che già negli ultimi mesi e anni entrambi i progetti erano stati contestati duramente da ambientalisti e nativi americani.
Uno dei due oleodotti è il Dakota Access (DAPL) e nei mesi invernali del 2016 i lavori per il completamento dell’opera erano stati di fatto bloccati da un accampamento di tribù indiane e ambientalisti. I manifestanti erano stati spesso fermati con metodi violenti dalle forze di polizia locali e dalle guardie private delle compagnie impegnate nella costruzione dell’infrastruttura.
Alla fine, l’amministrazione Obama aveva sospeso le operazioni, ordinando una revisione del progetto di un’opera che dovrebbe attraversare falde acquifere cruciali e terre considerate sacre per alcune tribù di indiani d’America.
L’intervento di Obama era stato in realtà un modo per passare la risoluzione della vicenda nelle mani del nuovo presidente, il quale non ha mai nascosto la sua intenzione di far ripartire i lavori. La sua amministrazione è d’altra parte composta da negazionisti del cambiamento climatico, fermi sostenitori delle fonti di energia inquinanti e, soprattutto, politici e imprenditori legati alle compagnie petrolifere.
Sul DAPL, inoltre, nell’amministrazione Trump abbondano i conflitti di interesse. Lo stesso presidente possiede azioni della compagnia costruttrice, la Energy Transfer Partners, mentre il prossimo segretario all’Energia, l’ex governatore del Texas Rick Perry, sedeva nel suo consiglio di amministrazione. Ancora, uno dei beneficiari dell’oleodotto sarà il petroliere Harold Hamm, cioè uno dei principali finanziatori della campagna elettorale di Trump.
L’altro oleodotto è il Keystone XL, il quale dovrebbe portare il petrolio estratto dalle super-inquinanti sabbie bituminose dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie americane nel Golfo del Messico. Anche questo progetto era stato al centro di infinite proteste per il potenziale inquinante di eventuali incidenti, fino a che l’amministrazione Obama aveva deciso di bloccarne la costruzione nel 2015.
Questi provvedimenti di Trump fanno parte di una strategia deliberata per smantellare le regolamentazioni ambientali e relative alla sicurezza dell’industria energetica e non solo. Con il pretesto di facilitare le attività del business privato e la creazione di posti di lavoro, la nuova amministrazione intende favorire i profitti delle grandi aziende facendone pagare i costi e le conseguenze ai lavoratori e alle comunità americane.
Questa agenda classista mascherata da propaganda populista e nazionalista è apparsa chiara anche in seguito agli incontri di inizio settimana del presidente Repubblicano, prima con i vertici delle più importanti compagnie manifatturiere americane e successivamente con gli amministratori delegati di General Motors, Ford e Fiat Chrysler.
In entrambi i casi, Trump ha promesso uno snellimento di quelli che vengono definiti impedimenti burocratici al business, assieme a un drastico taglio delle tasse che gravano su corporation che, peraltro, con manovre più o meno legali pagano già una parte irrisoria del loro teorico carico fiscale.
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di Michele Paris
La decisione presa da Donald Trump di fare uscire gli Stati Uniti dalla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP) appena tre giorni dopo il suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca è il primo previsto atto volto a implementare un’agenda all’insegna del nazionalismo economico che dovrebbe teoricamente rilanciare il sistema America nei prossimi quattro anni.
Come la sua stessa elezione, la firma di Trump sul decreto che ha cancellato la presenza di Washington nell’accordo di libero scambio tra 12 paesi del continente asiatico e di quello americano ha gettato nel panico i governi che avrebbero dovuto farne parte, tutti costretti con ogni probabilità a fare i conti con l’aggravarsi delle tendenze protezioniste che la nuova amministrazione Repubblicana sembra prospettare per l’immediato futuro.
L’abbandono del TPP da parte di Washington era stato promesso da Trump già durante la campagna elettorale e, dopo l’inaugurazione di venerdì scorso, il neo-presidente ha messo in moto le procedure anche per rinegoziare il Trattato di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), ovvero lo strumento che da oltre due decenni regola i traffici commerciali tra USA, Canada e Messico.
Queste iniziative di Trump confermano l’intenzione del nuovo presidente, e di quella parte della classe dirigente americana che lo appoggia, di stravolgere le regole e i meccanismi che hanno disciplinato l’ordine capitalista internazionale dopo il secondo conflitto mondiale con il preciso scopo di evitare i conflitti, anche e soprattutto relativi all’ambito commerciale, esplosi negli anni Trenta.
Più che un trattato di libero scambio vero e proprio, il TPP avrebbe dovuto essere un mezzo per regolamentare i rapporti economici e commerciali tra un blocco di paesi che produce oltre il 40% del PIL globale secondo gli interessi del business americano. Esso avrebbe anche rappresentato un esempio per altri accordi con al centro gli Stati Uniti, primo fra tutti il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP) con l’Unione Europea.
La priorità degli interessi delle corporation americane, il prevalere di queste ultime sulla stessa sovranità dei singoli paesi, le trattative condotte in segreto, l’allentamento delle regolamentazioni imposte al capitale privato e l’erosione dei diritti dei cittadini sono tutti elementi che non possono che fare accogliere positivamente la probabile morte del TTP e, forse, anche del TTIP.
Tuttavia, le motivazioni della decisione di Trump non hanno nulla di progressista e il rimescolamento degli equilibri economici e commerciali che lascia intravedere la sua amministrazione, nel tentativo di rinvigorire il capitalismo americano, ha implicazioni preoccupanti. Da un lato, ciò rischia di peggiorare ulteriormente le differenze sociali in patria, visto che i presunti benefici per i lavoratori americani sono fumo negli occhi, mentre dall’altro conduce allo scontro diretto non solo con potenze rivali, come la Cina, ma virtualmente anche con alleati i cui interessi potrebbero finire per divergere in maniera drammatica da quelli degli USA, come ad esempio il Giappone.
D’altra parte, gli obiettivi principali dell’amministrazione Obama nella promozione del TPP non erano tanto di natura economica, bensì strategica, visto che esso serviva principalmente a consolidare la presenza americana in un’area esposta all’influenza di Pechino e a cercare quanto meno di limitare l’integrazione degli altri 11 paesi membri nel progetto di espansione cinese.
Il TPP doveva essere insomma lo strumento economico e commerciale della più ampia strategia di contenimento della Cina messa in atto dagli USA e che ha preso il nome corrente di “svolta” asiatica. A esso si sono accompagnate iniziative di natura diplomatica e militare rivolte ai tradizionali alleati americani in Estremo Oriente e agli altri paesi disposti ad approfondire i legami con Washington.
Questi obiettivi e, soprattutto, il confronto con la Cina, rimangono in cima all’agenda di Trump e verranno perciò perseguiti con metodi diversi, basati non tanto sul multilateralismo o sulle alleanze collettive per fare pressioni su Pechino, quanto piuttosto sull’unilateralismo e il nazionalismo spinto, tradotti negli slogan “America First” e “Make America Great Again” dello stesso neo-presidente.
Trump e i membri della sua amministrazione hanno dichiarato che i trattati come il TPP lasceranno spazio ad accordi da negoziare in sede bilaterale e che il principio che guiderà il nuovo governo sarà quello dell’equità degli scambi commerciali. In realtà, la natura della visione di Trump comporta l’imposizione di condizioni favorevoli soprattutto, se non esclusivamente, agli interessi degli Stati Uniti, sotto la minaccia nemmeno troppo velata di misure ritorsive, come l’imposizione di pesanti dazi doganali.
Proprio questa prospettiva ha determinato la risposta piuttosto cauta delle autorità cinese e dei media ufficiali della Repubblica Popolare al boicottaggio del TPP da parte di Trump. Se è vero che Pechino vede chiaramente la possibilità di penetrare nello spazio lasciato dagli USA, rilanciando i negoziati per accordi alternativi come l’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) o l’FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific), le incognite sulla gestione dell’agenda commerciale americana sono parecchie, così come i timori per l’imposizione di misure protezionistiche.
Le preoccupazioni cinesi erano state espresse settimana scorsa dal presidente, Xi Jinping, nel suo intervento al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, dove aveva celebrato la globalizzazione e, riferendosi indirettamente all’amministrazione entrante a Washington, messo in guardia da possibili involuzioni di stampo protezionista, da cui nessun paese uscirebbe vincitore.
Le reazioni più allarmate sono giunte invece dalla fazione anti-Trump del Partito Repubblicano negli Stati Uniti e dai governi dei paesi che hanno negoziato il TPP. A Washington, il senatore dell’Arizona, John McCain, ha definito un “grave errore” la decisione di Trump di uscire dall’accordo, poiché “permette alla Cina di riscrivere le regole economiche” a spese degli USA e “manda un segnale preoccupante del disimpegno americano nell’area Asia-Pacifico”.
Martedì, poi, i primi ministri di Australia e Nuova Zelanda hanno manifestato l’intenzione di adoperarsi per salvare il TPP, non solo cercando di convincere l’amministrazione Trump a tornare sui suoi passi ma, addirittura, coinvolgendo nel trattato altri paesi, come la Cina o l’Indonesia.
L’allargamento ad altre potenze economiche o la sostituzione di Washington con Pechino rappresenterebbe un’evoluzione clamorosa del TPP, vista la natura sostanzialmente anti-cinese dell’intesa promossa dall’amministrazione Obama. Le dichiarazioni dei capi dei governi australiano e neozelandese - Malcolm Turnbull e Bill English - dimostrano perciò il potenziale destabilizzante dell’azione di Donald Trump nei rapporti consolidati tra alleati.
Ancor più, ciò è osservabile nel caso del Giappone, il cui primo ministro, Shinzo Abe, non a caso subito dopo l’elezione di Trump lo scorso novembre aveva fatto di tutto per fissare un faccia a faccia a New York col presidente eletto allo scopo di essere rassicurato sui rapporti bilaterali.
Infatti, quello giapponese è forse il governo che più ha investito politicamente sul TPP, faticando oltretutto a farlo digerire a buona parte della base elettorale del partito di maggioranza con la promessa di un rilancio dell’economia da troppo tempo in fase di stagnazione.
Il colpo assestato ora da Trump all’accordo è stato accolto con costernazione e un certo risentimento a Tokyo, aggravato dai commenti critici del neo-presidente americano sulle presunte disparità nell’accesso ai rispettivi mercati delle merci prodotte dai due paesi.
Sempre martedì, il ministro dell’Economia nipponico, Nobuteru Ishihara, ha anch’egli ipotizzato il perseguimento di soluzioni alternative da parte di Tokyo per fare in modo che “il libero scambio rimanga il perno della crescita economica del paese”. Allo stesso tempo, ai giornalisti che gli hanno chiesto della possibilità di discutere un tratto di libero scambio bilaterale con Washington, il ministro del gabinetto Abe ha risposto dicendosi “tutt’altro che certo” della disponibilità americana ad avviare negoziati in questo senso.
L’indisponibilità, peraltro, potrebbe essere anche di Tokyo, visto che, come fanno notare molti osservatori, le condizioni che Trump potrebbe chiedere al Giappone rischiano di essere difficilmente accettabili e ancora più svantaggiose di quelle previste dal TPP.
La situazione, ad ogni modo, a una manciata di giorni dall’insediamento di Trump rimane molto fluida, nonostante i messaggi molto chiari provenienti da Washington. Sul fronte cruciale del commercio internazionale, oltre alle prossime mosse della nuova amministrazione americana, sarà da guardare con attenzione il vertice organizzato in fretta e furia per la metà di marzo in Cile tra i paesi inclusi nel TPP e rimasti orfani degli Stati Uniti.