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di Michele Paris
Il rimescolamento degli equilibri strategici in Asia sud-orientale innescato dall’elezione alla presidenza delle Filippine di Rodrigo Duterte, ha fatto segnare una nuova e potenzialmente importante tappa in questo inizio anno con l’approdo nella capitale, Manila, di due navi da guerra russe. Il cacciatorpediniere “Ammiraglio Tributs” e la petroliera “Boris Butoma” hanno attraccato nel porto filippino il 2 gennaio scorso e rimarranno nel paese-arcipelago fino a sabato prossimo.
L’ammiraglio russo Eduard Mikhailov ha cercato di inquadrare la visita in un contesto più ampio del semplice gesto di amicizia, su cui hanno insistito più che altro le autorità locali, ipotizzando la conduzione di esercitazioni relative alla lotta alla pirateria e al terrorismo.
Un portavoce della Marina militare filippina ha escluso però esercitazioni congiunte per questa settimana, ma, come aveva già anticipato qualche tempo fa il presidente Duterte, questa possibilità verrà presa in considerazione nel prossimo futuro. Secondo i media russi, quello di questa settimana è il primo contatto diretto in assoluto tra le marine dei due paesi. Per il governo di Manila, invece, si tratterebbe della terza visita di navi militari russe nei porti filippini, tra cui l’ultima era avvenuta nel 2012.
Che sia o meno senza precedenti, l’evento è indubbiamente di estrema rilevanza, soprattutto in considerazione delle circostanze in cui si inserisce. Le tensioni già alle stelle tra Cina e Stati Uniti si sono aggravate dopo l’ascesa di Duterte alla presidenza delle Filippine e in seguito ai suoi sforzi per ristabilire relazioni cordiali con Pechino. Parallelamente, l’elezione di Donald Trump minaccia un ulteriore irrigidimento di Washington nei confronti della seconda potenza economica del pianeta.
Gli alti ufficiali russi presenti in questi giorni nelle Filippine hanno poi fatto ben poco per nascondere le implicazioni strategiche della visita. Sempre l’ammiraglio Mikhailov ha sottolineato come Mosca intenda fornire a Manila “tutto l’aiuto di cui ha bisogno”. Inoltre, l’invito a condurre esercitazioni militari nel Mar Cinese Meridionale è allargato anche alla stessa Cina e alla Malaysia, il cui governo nei mesi scorsi ha fatto intravedere un possibile riallineamento strategico più o meno sul modello delle Filippine di Duterte.
L’eventuale ingresso della Russia nelle questioni del sud-est asiatico rappresenterebbe dunque un nuovo elemento di destabilizzazione dei piani egemonici americani, diretti contro la Cina e perseguiti negli ultimi anni dall’amministrazione Obama, sia pure senza troppo successo, attraverso un’escalation di provocazioni militari, economiche e diplomatiche.
Mosca ha infatti visto nella presidenza Duterte una chiara occasione per interferire negli interessi americani nella regione, ma anche per allargare il mercato dei propri produttori di armi, i quali in Asia sud-orientale vantano posizioni consolidate soprattutto in Vietnam.
Proprio il Mar Cinese Meridionale è stato poi il teatro dei principali scontri tra Washington e Pechino, con il governo USA che, ad esempio, ha ripetutamente attaccato quello cinese per la costruzione di installazioni civili e militari nelle isole controllate da quest’ultimo ma rivendicate da altri paesi della regione.
La Marina militare americana ha inoltre condotto svariate missioni di pattugliamento nelle acque al largo dei territori su cui Pechino afferma la propria sovranità, sollecitando allo stesso tempo i propri alleati ad alimentare le tensioni con la Cina. La stessa Russia, invece, proprio con il cacciatorpediniere “Ammiraglio Tributs lo scorso settembre aveva partecipato a esercitazioni militari nel Mar Cinese Meridionale assieme a unità navali di Pechino.
Il presidente filippino Duterte, da parte sua, ha da tempo mostrato la disponibilità a valutare esercitazioni militari con la Russia, così come ad acquistare equipaggiamenti militari da questo paese. L’apertura di Manila a Mosca e a Pechino è iniziata proprio quando gli Stati Uniti si aspettavano dall’alleato un’accelerazione delle iniziative anti-cinesi, sull’onda di quanto ottenuto dalla precedente amministrazione del fedelissimo di Washington, Benigno Aquino.
Sotto la guida dell’ex presidente, le Filippine avevano tra l’altro sottoscritto un accordo per il ritorno nelle basi militari del paese-arcipelago di truppe americane in pianta stabile e avviato con successo un procedimento presso un tribunale internazionale a L’Aia sulle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
Con l’elezione del populista Duterte, al contrario, le Filippine sono passate da alleato cruciale nella strategia asiatica degli Stati Uniti ad anello debole, con cui perciò l’amministrazione Trump dovrà fare i conti per evitare un effetto domino che potrebbe avere effetti rovinosi sui piani americani in questo continente, ovviamente a tutto vantaggio della Cina.
In questo scenario risulta evidente quali siano le implicazioni della visita delle due navi russe nelle Filippine, al di là del fatto che la possibile partnership tra Mosca e Manila, nella più ottimistica delle ipotesi, sia ancora alle fasi iniziali.
Sforzi per costruire rapporti più stretti con la Russia erano tuttavia iniziati già qualche mese fa. Duterte e Putin si erano incontrati lo scorso novembre a Lima, in Perù, nel corso del vertice della Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico (APEC).
Poche settimane più tardi, i ministri degli Esteri e della Difesa filippini, Perfecto Yasay e Delfin Lorenzana, si erano recati a Mosca per discutere il possibile allargamento della cooperazione tra i due paesi, nonché per programmare una visita del loro presidente a Mosca.
Prima Duterte e in seguito sempre più anche i suoi ministri hanno ripetutamente parlato in maniera esplicita della portata strategica del riorientamento della politica estera di Manila, segnata di fatto dall’allontanamento dall’alleato americano, almeno in linea teorica.
L’elezione di Trump ha avuto infatti un effetto moderatore sulla retorica anti-americana di Duterte, il quale qualche mese fa era giunto addirittura a definire Obama “figlio di p…”. Dall’invito alle forze armate americane a lasciare le Filippine e dalla promessa di annullare ogni esercitazione militare con gli USA, Duterte è passato agli elogi e alla disponibilità a collaborare con il prossimo inquilino della Casa Bianca.
Sul suo atteggiamento influiscono con ogni probabilità le critiche rivolte dall’amministrazione Obama alla guerra sanguinosa condotta nelle Filippine da Duterte contro il narcotraffico e lasciate cadere da Trump. Il presidente americano uscente e il dipartimento di Stato avevano in realtà appoggiato anche finanziariamente questa battaglia, ma i toni sono presto cambiati quando il presidente filippino ha iniziato a mostrare un atteggiamento conciliante nei confronti della Cina.
Se Trump e Duterte sembrano avere inclinazioni simili, le crescenti divergenze tra USA e Filippine potrebbero non risolversi così agevolmente, visto che sono legate a fattori oggettivi ben più importanti. In particolare, l’avvicinamento di Manila a Pechino, ma anche a Mosca, è il risultato di un calcolo basato su considerazioni che hanno a che fare con il declino degli Stati Uniti, principalmente sul fronte economico.
Una parabola discendente, quella americana, che viene contrastata dalle varie amministrazioni di Washington con un ricorso sempre più spinto al militarismo, con il rischio di provcare rovinosi conflitti armati, di cui a farne le spese sarebbero in primo luogo proprio paesi come le Filippine.
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di Michele Paris
Con l’avvicinarsi del passaggio di consegne alla Casa Bianca tra Barack Obama e Donald Trump, il livello di isteria anti-russa negli Stati Uniti continua ad aumentare esponenzialmente in un quadro politico attraversato da profonde divisioni circa le priorità strategiche della classe dirigente americana. Le sanzioni contro Mosca decise dall’amministrazione Democratica uscente poco prima di Capodanno non hanno placato la rabbia del fronte anti-russo, il quale chiede ulteriori interventi in questo senso per rendere sempre più complicato l’eventuale processo di distensione tra le due potenze nucleari promesso dal neo-presidente Repubblicano.
Nonostante la propaganda amplificata da media e politici americani, la natura delle accuse rivolte al governo del presidente Putin per avere interferito nelle elezioni presidenziali americane del novembre scorso continua ad apparire tutta politica. Delle presunte responsabilità del Cremlino e dei servizi segreti russi non è stata infatti presentata finora una sola prova concreta.
Gli stessi giornali d’oltreoceano che stanno conducendo questa battaglia sono quasi sempre costretti ad ammettere, quanto meno tra le righe, come non vi sia evidenza dell’identità degli autori dei cyber-attacchi contro i sistemi informatici americani descritti da molte settimane a questa parte.
Titoli sensazionalistici che assicurano come sia in atto una gigantesca aggressione informatica da parte di Mosca anticipano in realtà soltanto dubbie rivelazioni che si basano su dichiarazioni di esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale USA, quasi sempre anonimi, o di compagnie private che operano nel campo della sicurezza informatica, con interessi economici direttamente connessi allo smascheramento dei responsabili delle intrusioni.
A quasi 14 anni dall’invasione dell’Iraq, la campagna in corso contro la Russia sembra così assumere sempre più le sembianze di quella che venne scatenata dall’amministrazione Bush e da media compiacenti, compresi quelli “liberal” come il New York Times, per fabbricare l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese mediorientale, pronte a essere utilizzate dal regime di Saddam Hussein.
La caccia alle streghe a cui si sta assistendo non è però condivisa da tutto il panorama politico, militare, dell’intelligence e del business negli Stati Uniti. Anzi, proprio l’amministrazione entrante di Donald Trump fa capo a una fazione dell’apparato di potere che, pur non essendo caratterizzata da particolari predisposizioni pacifiste, vede almeno per ora con preoccupazione l’aggravamento dei rapporti con la Russia registrata durante la presidenza Obama. Ciò perché, dalla loro prospettiva, lo scontro con Mosca non fa che distogliere attenzioni e risorse dal vero nemico degli USA su scala planetaria, ovvero la Cina.
Come già anticipato, è esattamente la possibilità di un riavvicinamento tra Washington e Mosca fatta intravedere da Trump che sta alimentando i continui blitz mediatici contro il Cremlino. L’obiettivo di questa parte dell’establishment USA è quello di avvelenare il più possibile i rapporti bilaterali, in modo da ostacolare un possibile disgelo che potrebbe avere luogo su questioni cruciali come la lotta al terrorismo, la guerra in Siria o l’espansione della NATO in Europa orientale.
In altre parole, dal punto di vista dell’amministrazione Obama e di coloro che a essa sono allineati sulla Russia, come sarà possibile per Trump raggiungere un qualche accordo con Putin se quest’ultimo è intervenuto in maniera così palese e illegale nel processo elettorale americano ? O ancora, come potrà Putin giustificare un’intesa con Washington essendo in vigore pesanti sanzioni contro il suo paese ?
L’eccezionalità delle accuse rivolte alla Russia dimostra in ogni caso quanto sia alta la posta in gioco in questo confronto sulla direzione strategica che dovranno tenere gli Stati Uniti nel post-Obama. Eccezionali sono anche le divisioni tra i due campi, visto anche che lo stesso Trump si troverà a far fronte non solo alla grande maggioranza del Partito Democratico ma anche a una buona parte dei suoi colleghi Repubblicani.
Uno dei senatori più legati all’apparato militare americano, l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain, continua ad esempio a essere in prima linea nella battaglia contro Mosca, in netta contrapposizione con il presidente eletto del suo partito. McCain, a cavallo del Capodanno, è stato protagonista di una trasferta in Ucraina e nei paesi Baltici assieme ai senatori Lindsey Graham (Repubblicano) e Amy Klobuchar (Democratica).
Durante la trasferta, i tre hanno ribadito il sostegno americano a regimi di destra e ferocemente anti-russi alla luce della presunta aggressività di Mosca. Lo stesso McCain ha poi auspicato un atteggiamento ancora più duro nei confronti di Putin e chiesto nuove sanzioni contro la Russia, giudicando insufficienti l’espulsione di 35 diplomatici e la chiusura di due strutture russe negli Stati Uniti, ordinate settimana scorsa da Obama.
La commissione Forze Armate del Senato, presieduta da McCain, ha inoltre fissato per giovedì un’udienza sui cyber attacchi attribuiti alla Russia, durante la quale testimonieranno, tra gli altri, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, e il numero uno dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), ammiraglio Mike Rogers.
Eventi come questo dovrebbero contribuire a tenere alto il livello di attenzione sulla questione russa, mentre già si profilano scontri tra la Casa Bianca e il Congresso. Il deputato Democratico della California, Adam Schiff, membro della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti, in una recente intervista a ABC News ha assicurato che il suo partito e la maggioranza Repubblicana si impegneranno per impedire a Trump di cancellare le sanzioni applicate alla Russia dall’amministrazione Obama. In maniera minacciosa, lo stesso deputato ha poi invitato il neo-presidente a smettere di “denigrare la comunità dell’intelligence”, visto che, una volta insediato, dovrà “fare affidamento su di essa”.
Un altro terreno di scontro saranno anche le audizioni al Senato per la ratifica della nomina a segretario di Stato di Rex Tillerson. Per questioni di affari, l’amministratore delegato di ExxonMobil ha coltivato rapporti molto stretti con i vertici dello stato russo, Putin compreso, e per questa ragione nelle ultime settimane è stato oggetto di critiche esplicite anche da parte di senatori Repubblicani.
La scelta di Tillerson, ma anche dell’ex generale Michael Flynn a consigliere per la sicurezza nazionale, sembra dunque profilare un riallineamento strategico dell’amministrazione Repubblicana entrante sulla Russia, nonostante le pressioni a proseguire la politica di confronto seguita da Obama.
A confermare che, almeno per il momento, su questo tema si vada verso l’aggravamento del conflitto interno alla classe dirigente americana ci sono le dichiarazioni di Trump dopo le sanzioni decise da Obama alla fine del 2016. Il presidente eletto aveva in sostanza elogiato Putin per la risposta pacata e la decisione di non espellere a sua volta diplomatici americani dalla Russia.
Domenica scorsa, poi, il prossimo portavoce di Trump alla Casa Bianca, Sean Spicer, in un’apparizione televisiva aveva criticato l’iniziativa di Obama nei confronti della Russia, ribadendo lo scetticismo del miliardario di New York circa le responsabilità di Mosca per gli attacchi informatici negli USA. Significativamente, Spicer aveva messo a confronto l’atteggiamento dell’amministrazione Democratica verso la Russia con quello che avrebbe tenuto con la Cina, accusando quest’ultimo paese di essere impegnato in una lunga serie di furti informatici ai danni del governo e delle compagnie americane. La moderazione di Trump nei confronti del Cremlino è d’altra parte dettata da una visione differente sulle priorità strategiche USA che vedono al primo posto non Mosca ma, appunto, Pechino.
A dare l’idea del clima che si respira negli Stati Uniti in merito ai rapporti con la Russia vale la pena citare infine l’ennesima accusa contro Mosca contenuta in una “rivelazione” del Washington Post, altra testata in prima linea nella crociata anti-Putin.
Venerdì scorso il giornale della capitale aveva pubblicato un articolo con un titolo allarmante che annunciava l’intrusione da parte di hacker al servizio del Cremlino nei sistemi informatici della rete elettrica americana attraverso un terminale di una compagnia operante in questo ambito nello stato del Vermont.
La notizia non aveva nessun fondamento, ma anche due dei politici più importanti dello stato del New England, il governatore Peter Shumlin e il senatore Patrick Leahy, entrambi Democratici, si erano lasciati andare ad accuse molto pesanti contro Putin.
Il Post ha dovuto alla fine pubblicare una rettifica, ammettendo che una versione precedente dell’articolo in questione attribuiva “erroneamente” la responsabilità dell’accaduto a hacker russi, dopo però che milioni di utenti avevano ormai letto il pezzo nella versione iniziale.
Quello che viene considerato come uno dei più autorevoli giornali americani non aveva nemmeno ritenuto necessario sentire sull’accaduto la compagnia elettrica pubblica del Vermont, la Burlington Electric. Poco dopo l’uscita dell’articolo sul sito web del Washington Post, quest’ultima aveva pubblicato un comunicato sul giornale locale Burlington Free Press per precisare che era stata semplicemente riscontrata la presenza di un “malware” su un singolo computer “non connesso alla rete elettrica” dello stato.
L’unica “prova” delle responsabilità di Mosca, almeno per il Post, era il solo fatto che il software dannoso sembrava provenire dalla Russia. Come hanno spiegato svariati esperti informatici sui media americani, ciò non dimostra evidentemente nulla, poiché un “malware” realizzato in Russia come altrove può essere acquistato on-line e utilizzato da chiunque in qualsiasi parte del mondo.
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di Michele Paris
Con l’insediamento ufficiale del 115esimo Congresso degli Stati Uniti nella giornata di martedì, il Partito Repubblicano americano avrà a disposizione un’ampia maggioranza che, assieme al nuovo inquilino della Casa Bianca, potrebbe teoricamente consentire l’implementazione di un’agenda politica tra le più reazionarie della storia di questo paese.
Gli ambiti nei quali i leader Repubblicani sembrano essere intenzionati a intervenire sono molteplici e l’obiettivo generale dell’offensiva della destra americana è sostanzialmente quello di liquidare o, quanto meno, ridimensionare in maniera drastica le rimanenti regolamentazioni imposte al business privato e l’intervento pubblico a sostegno delle fasce più deboli della popolazione.
Sempre in linea teorica, la possibilità di contare su una maggioranza in entrambi i rami del Congresso di Washington permetterà inoltre l’abolizione della “riforma” del sistema sanitario di Obama (“Obamacare” o “Affordable Care Act”), tentata varie volte dai Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti negli ultimi anni, ma sempre bloccata dalla leadership Democratica al Senato, nonché dalla minaccia di veto della Casa Bianca.
Com’è accaduto con i piani per la revoca di “Obamacare”, l’avanzamento di un progetto politico improntato a deregulation e liberalizzazioni è stato definito negli ultimi sei anni di maggioranza Repubblicana alla Camera che hanno fatto registrare una costante deriva verso destra. Questo processo ha portato alla realizzazione di piani per interventi legislativi che potrebbero essere finalmente adottati già a partire dalle prossime settimane.
A dare l’idea dell’estremismo del progetto Repubblicano nel nuovo Congresso è il fatto che gli sforzi della maggioranza entrante si concentreranno da subito sui provvedimenti presi da Obama in vari ambiti, dall’ambiente al salario minimo, che già rappresentavano modeste concessioni, spesso quasi soltanto di facciata e tutt’altro che anti-business, alla base “liberal” del Partito Democratico.
Per quanti avevano creduto nella retorica populista di Trump, protagonista di una campagna elettorale caratterizzata dalla promessa di rilanciare la classe media americana, i prossimi mesi riserveranno così un brusco risveglio, già preannunciato dalle nomine dei membri di un gabinetto formato quasi del tutto da milionari e miliardari irriducibilmente ostili a ogni minima limitazione dei profitti del business privato.
Nel mirino di Trump e dei Repubblicani, oltre alla soppressione della riforma sanitaria del 2010, c’è in particolare la normativa sul settore bancario e finanziario, approvata nello stesso anno e conosciuta con il nome dei suoi due sponsor (“Dodd-Frank Act”). Questa legge ha fatto poco o nulla per limitare le minacce alla stabilità del sistema provocate dalle pratiche dell’industria finanziaria americana dopo la crisi finanziaria esplosa nel 2008, ma anche le esili misure in essa contenute sono viste da Wall Street come un ostacolo da eliminare.
Per entrambe le leggi la revoca potrebbe procedere spedita. I Repubblicani intendono infatti ricorrere a un espediente procedurale che, al Senato, renderebbe nulla la regola che richiede almeno 60 voti per licenziare un determinato provvedimento (“filibuster”). Nella camera alta del Congresso i Repubblicani dispongono di 52 seggi.
Tuttavia, se le leggi in discussione hanno in qualche modo a che fare con questioni di bilancio è possibile invocare una norma chiamata “budget reconciliation” che limita la durata del dibattito in aula e consente l’approvazione con una maggioranza semplice di 51 voti. Questo meccanismo era stato adottato dagli stessi leader Democratici per approvare “Obamacare” nel 2010 di fronte alla ferma opposizione Repubblicana.
Identico processo per superare l’eventuale ostruzionismo Democratico potrebbe essere riservato anche alla riforma del fisco, che Trump e i suoi colleghi al Congresso vogliono sempre più piegare a favore dei redditi più alti, per i quali è in previsione una riduzione delle aliquote a discapito del bilancio federale.
Come previsto negli Stati Uniti, entro certi limiti i presidenti hanno la facoltà di emettere direttive in vari ambiti con forza di legge anche senza l’approvazione del Congresso. Su queste misure sembrano volere lavorare da subito i Repubblicani, sfruttando una legge raramente utilizzata (“Congressional Review Act”) che consente al Congresso di annullare le direttive adottate dalla Casa Bianca e dalle agenzie federali entro i primi 60 giorni del nuovo calendario legislativo.
Visti i limiti di tempo, l’attenzione Repubblicana sarà rivolta alle iniziative maggiormente contestate dalla destra e dal business americano, a cominciare dalle regolamentazioni in materia ambientale che dovrebbero gravare su molte aziende private e dal recepimento dell’accordo sul clima di Parigi del dicembre 2015.
La maggioranza Repubblicana potrà inoltre approvare senza troppi intoppi anche le nomine di Trump relative a incarichi di natura amministrativa e giudiziaria. Quest’ultimo ambito è particolarmente rilevante, poiché i giudici federali che saranno scelti dalla nuova amministrazione minacciano di rimodellare in senso ultra-conservatore il panorama giudiziario negli Stati Uniti.
La conferma dei nuovi giudici, ad eccezione di quelli della Corte Suprema, necessita di appena 51 voti al Senato, dopo che proprio la maggioranza Democratica nella camera alta del Congresso, per velocizzare un processo di nomina spesso rallentato da manovre ostruzionistiche, aveva cancellato la necessità dei 60 voti.
Il controllo di Congresso e Casa Bianca da parte del Partito Repubblicano, se da un lato assicura senza alcun dubbio il drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano, dall’altro non garantisce automaticamente un’azione legislativa spedita e priva di ostacoli sulle singole questioni.
Al di là dell’opposizione di un Partito Democratico che in alcuni ambiti potrebbe anche allinearsi alla maggioranza, l’implementazione di un’agenda dai caratteri marcatamente classisti e anti-sociali comporta l’inevitabile esplosione di tensioni e scontri in un paese già segnato dalle proteste contro l’elezione di Donald Trump.
Soprattutto, i possibili interventi contro la riforma sanitaria e il programma di assistenza pubblico destinato agli anziani (“Medicare”), da tempo nel mirino dei Repubblicani, rischiano di scontrarsi con la resistenza di decine di milioni di americani. Ciò potrebbe avere effetti rovinosi sulla molto relativa popolarità di Trump e del suo partito, dovuta oltretutto in larga misura al discredito dei Democratici e dell’amministrazione Obama.
Se “Obamacare” contiene ben pochi elementi progressisti, essendo una riforma basata quasi interamente sul settore privato e che mira al contenimento dei costi sanitari attraverso la riduzione dei servizi offerti, milioni di americani hanno nondimeno ottenuto una qualche copertura per la prima volta in questi anni. Allo stesso modo, la riforma ha vietato alle compagnie assicurative di negare la sottoscrizione di una polizza a coloro che soffrono di patologie “pre-esistenti”.
Su questo fronte non vi è poi accordo tra i Repubblicani sul modello che dovrebbe sostituire “Obamacare”, se non che l’alternativa dovrà fondarsi ancor più sul settore privato e sull’ulteriore impulso alla creazione di una sanità a doppia velocità, una per i ricchi con la possibilità di garantirsi le migliori cure disponibili e una per i più poveri improntata al razionamento e alla scarsa qualità dei servizi.
La vera battaglia potrebbe combattersi però su “Medicare”, visto che qui sembrano esserci le divisioni più pronunciare all’interno del campo Repubblicano. Fino a pochi anni fa, il popolare programma pubblico di assistenza per gli over 65 era considerato quasi intoccabile e il partito che proponeva modifiche a sfavore dei beneficiari veniva quasi sempre punito alle urne.
I cambiamenti politici più recenti hanno invece legittimato le posizioni della destra Repubblicana, anche grazie al sostanziale accoglimento da parte dei Democratici della tesi dell’insostenibilità finanziaria nel medio e lungo periodo di “Medicare”, il quale necessiterebbe perciò interventi che ne ridimensionerebbero l’efficacia e ne comprometterebbero il carattere pressoché universale.
Anche in questo caso non vi è ancora un progetto di intervento ben definito da parte Repubblicana, ma l’intenzione è quella di trasformare “Medicare” in un piano con limiti di finanziamento ben precisi, all’interno dei quali i singoli stati dovranno gestire un numero inevitabilmente ridotto di prestazioni.
“Medicare” minaccia anche di mettere precocemente in evidenza le divisioni nel Partito Repubblicano, dal momento che tra gli stessi membri della maggioranza al Congresso vi sono punti di vista differenti. Ad esempio, lo “speaker” della Camera, Paul Ryan, è tradizionalmente un fautore della “riforma” di “Medicare”, mentre svariati senatori del suo partito hanno già lasciato intendere che l’intervento su questo programma pubblico dovrebbe essere per lo meno rimandato.
Forse determinante potrebbe essere allora la posizione che assumerà Trump. Il presidente eletto metterà in gioco buona parte del suo capitale politico su “Medicare”, dal momento che aveva escluso tagli a questo programma in campagna elettorale.
Dopo la sua elezione, però, Trump ha fatto intravedere un cambio di rotta, scegliendo tre nemici della sanità pubblica per ricoprire altrettanti ruoli chiave nella gestione dei programmi sanitari federali: il deputato della Georgia Tom Price alla guida del ministero della Salute, il suo collega della South Carolina Mick Mulvaney per dirigere l’ufficio della Casa Bianca dedicato alle questioni di Bilancio e la “consulente” sanitaria Seema Verma a capo dell’agenzia che amministra direttamente “Medicare” (“Centers for Medicare and Medicaid Services”).
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di Michele Paris
L’aspetto più importante dell’accordo siglato questa settimana a Mosca tra Russia, Iran e Turchia su una possibile risoluzione del conflitto in Siria, per lo meno in attesa di verificarne l’efficacia, è rappresentato senza dubbio dall’esclusione degli Stati Uniti dai negoziati condotti tra i tre governi le cui forze armate risultano impegnate nel paese mediorientale.
L’altro particolare di rilievo è che l’annuncio di un piano comune da parte dei rispettivi ministri degli Esteri riuniti nella capitale russa non è stato ostacolato né ritardato dall’assassinio, avvenuto lunedì ad Ankara, dell’ambasciatore di Mosca in Turchia, Andrey Karlov, per mano di un agente della polizia turca.
Se motivazioni ed eventuali legami dell’attentatore, opportunamente eliminato dalle forze di sicurezza turche, non sono ancora chiari, è difficile pensare a uno scenario differente da quello in cui un’operazione così cruenta sia stata messa in atto come ritorsione o per impedire il riavvicinamento in atto tra Russia e Turchia, manifestatosi su più fronti, tra cui appunto quello siriano.
In quella che è stata battezzata come “Dichiarazione di Mosca”, i rappresentanti dei tre governi coinvolti hanno affermato di essere pronti ad agire da “garanti” di un accordo di pace tra Damasco e l’opposizione. I punti principali dell’intesa riguardano l’implementazione di un cessate il fuoco e il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria.
Inoltre, la lotta allo Stato Islamico (ISIS/Daesh), alla filiale di al-Qaeda in Siria, ovvero il cosiddetto Fronte Fatah al-Sham (ex Fronte al-Nusra), e ad altri gruppi fondamentalisti proseguirà, mentre una proposta russa prevede colloqui diplomatici, da tenersi ad Astana, in Kazakistan, tra il regime di Assad e l’opposizione interessata al dialogo.
L’ambizione delle tre parti, e soprattutto di Mosca, è dunque quella di gettare seriamente le basi per una risoluzione del sanguinoso conflitto in Siria e di un processo di transizione politica in termini che salvaguardino i loro interessi nella regione.
Quella in corso appare un’evoluzione diametralmente opposta al quadro nel quale fino a pochi mesi fa erano condotti – da Stati Uniti e Russia – gli improbabili negoziati di pace di Ginevra sotto la supervisione ONU. Proprio a questi ultimi ha fatto riferimento in maniera indiretta martedì il ministro degli Esteri russo, Sergei Shoigu, nel bollare come fallimentari i precedenti sforzi degli Stati Uniti e dei loro partner, nessuno dei quali aveva “una reale influenza sulla situazione sul campo”.
La marginalizzazione di Washington appare ancora più significativa alla luce del fatto che, secondo il nuovo formato dei futuri negoziati lanciati a Mosca, i rapporti con l’opposizione anti-Assad saranno tenuti dalla Turchia. Questo ruolo sembra essere stato concordato proprio con il Cremlino.
Non solo, secondo la stampa russa, l’ambasciatore Karlov aveva stabilito contatti con l’opposizione siriana, verosimilmente grazie alla mediazione del governo di Ankara, per promuovere i negoziati di pace di cui si è parlato nei giorni scorsi a Mosca. La sua morte sarebbe perciò direttamente connessa agli sviluppi della crisi in Siria e all’evolversi dei rapporti tra Russia e Turchia.
L’assassinio, in ogni caso, sembra avere avuto l’effetto contrario a quello desiderato dai possibili mandanti. Se la posizione di Erdogan nei confronti di Putin si è fatta indubbiamente più delicata, restringendo forse le opzioni e i margini di manovra della Turchia in Siria, i due governi si sono subito ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda circa le responsabilità dell’omicidio e le misure da adottare in conseguenza di esso.
Le relazioni tra Turchia e Russia continueranno cioè a rafforzarsi, in parallelo al raffreddamento registrato con Europa e Stati Uniti. Significative in questo senso sono state le dichiarazioni degli esponenti del governo turco sulla situazione ad Aleppo, dove Ankara ha svolto un ruolo cruciale nel mandare in porto l’accordo per l’evacuazione dei “ribelli” rimasti nei quartieri orientali assediati dall’esercito di Damasco.
La Turchia, in sostanza, da sponsor dell’opposizione armata al regime di Assad ha finito per elogiare l’operazione di Siria, Russia, Iran e Hezbollah che ha portato alla liberazione di Aleppo. Questa è d’altra parte la logica conseguenza del riallineamento strategico deciso da Erdogan dopo il punto più basso toccato dalle relazioni con Mosca in seguito all’abbattimento del jet russo sui cieli della Siria nel novembre del 2015.
Nei mesi successivi, le scuse formali del presidente turco sono state seguite da una serie di iniziative che hanno fatto crescere il disagio dei partner occidentali di Ankara: dalla promozione della cooperazione in ambito militare con Mosca al lancio ufficiale del gasdotto “Turkish Stream” per trasportare il gas russo verso l’Europa meridionale. Anche l’intervento militare turco nel nord della Siria iniziato la scorsa estate, principalmente in funzione anti-curda, sembra essere stato concordato con la Russia.
La notizia dell’accordo di Mosca, seguito alla sconfitta dei “ribelli” ad Aleppo, ha ulteriormente indebolito la posizione americana in Siria e, più in generale, nell’intera regione mediorientale. A poco sono servite le rassicurazioni del dipartimento di Stato sul mantenimento da parte di Washington della propria influenza sugli eventi, così come il tentativo di minimizzare l’esclusione dall’iniziativa diplomatica di Mosca.
Tutto ciò che è stato concesso a Washington è stata una telefonata del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al segretario di Stato, John Kerry, per metterlo al corrente dei risultati del vertice nella capitale russa una volta ultimati i lavori.
Le recriminazioni sul ridimensionamento degli USA hanno trovato invece libero sfogo sui giornali d’oltreoceano, soprattutto tra quelli che da tempo chiedono un intervento più deciso nel teatro di guerra siriano.
Al riconoscimento che Assad potrebbe rimanere al suo posto ancora a lungo si sono mescolate le accuse rivolte a Obama per non avere avuto il coraggio di adottare iniziative efficaci volte al rovesciamento del regime di Damasco. A causa di ciò, gli USA si sono ritrovati a svolgere un ruolo da spettatori, mentre il destino della Siria sembra decidersi a Mosca, Teheran e Ankara.
In realtà, il fallimento americano in Siria deriva direttamente dalla decisione deliberata di fomentare una rivolta studiata in buona parte a tavolino e basata su formazioni con tendenze fondamentaliste. I legami quasi del tutto inesistenti di questi gruppi armati con la popolazione siriana e l’implementazione di un’agenda estremista e settaria nelle località strappate al controllo del governo, ancora prima delle bombe russe hanno determinato una più o meno rapida perdita di terreno nel paese, nonostante il massiccio appoggio finanziario e militare garantito dagli stessi Stati Uniti e dai loro alleati nel mondo arabo.
Il progetto americano per la Siria, a causa della sua stessa natura, ha finito poi con l’essere sopraffatto dalle proprie contraddizioni. Ad esempio, il presunto approccio prudente dell’amministrazione Obama, dovuto all’impossibilità di far digerire una nuova guerra totale in Medio Oriente alla popolazione americana, ma anche a una parte dell’apparato militare, è consistito nell’appoggio non solo a formazioni “ribelli” con inclinazioni non esattamente democratiche, ma anche alle milizie curde, a lungo considerate lo strumento più efficace nella guerra all’ISIS/Daesh.
Il ruolo assegnato ai curdi nella crisi in Siria ha creato il panico in Turchia, il cui governo era uno degli sponsor principali dell’opposizione anti-Assad, e ha contribuito al raffreddamento dei rapporti con Washington e alla distensione con Mosca. Il rimescolamento delle priorità strategiche di Erdogan ha poi probabilmente spinto gli Stati Uniti quanto meno ad appoggiare tacitamente il fallito colpo di stato del luglio scorso, attribuito a quegli stessi “gulenisti” che oggi sembrano essere dietro all’omicidio dell’ambasciatore russo Karlov, sventato proprio dalle informazioni sui preparativi comunicate da Mosca ad Ankara.
Al di là delle possibilità di successo della “Dichiarazione di Mosca” e degli eventuali sviluppi delle prossime settimane, le speranze di una qualche stabilizzazione della Siria e del Medio Oriente rimangono comunque fragili se non del tutto illusorie.
Per cominciare, l’allontanamento della Turchia dai suoi alleati NATO prefigura una serie di scosse difficili da sopravvalutare, visto il ruolo svolto per decenni da questo paese nell’Alleanza Atlantica. Il raffreddamento dei rapporti con Ankara e, ancor più, il continuo rafforzamento della posizione della Russia in Medio Oriente non saranno accettati passivamente dagli Stati Uniti, malgrado la retorica del presidente eletto Trump appaia diametralmente opposta a quella di Obama in questo ambito.
In generale, quindi, gli sviluppi della crisi siriana osservati a Mosca indicano anch’essi un’accelerazione del processo di integrazione euro-asiatica in atto ormai da tempo, a discapito delle potenze occidentali, prima fra tutte quella americana.
Se questi sviluppi prospettano in linea teorica un’inversione dell’escalation di violenza e distruzione che ha caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti, la reazione di questi ultimi al progressivo indebolimento della propria posizione internazionale rende quanto mai precaria ogni previsione ottimistica sul futuro della Siria o di qualsiasi altro paese coinvolto in un conflitto che si intrecci con gli interessi strategici di Washington.
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di Fabrizio Casari
Come a Nizza, il terrore fatto in casa ha colpito. Alla strage ha fatto seguito, puntuale, la rivendicazione dell'ISIS. Non che vi fossero molti dubbi sulla paternità dell'attentato. Nella dinamica di quanto avvenuto a Berlino ci sono diversi elementi che di forte similitudine con quanto avvenne in Costa Azzurra, a cominciare dalla relativa semplicità con la quale l’attentato è organizzato e realizzato. Non c’è bisogno di una grande preparazione militare per lanciare un camion contro la folla, dunque nemmeno di cellule organizzate e coordinate.
Nella sua barbarie, la relativa semplicità dell’attentato incute dunque un surplus di allarme, perchè se la paternità politica e terroristica è nota, non altrettanto lo sono i possibili lupi solitari in grado di attuare le direttive jahidiste. Il gesto isolato apre infatti scenari inquietanti proprio perché rende la sua prevenzione difficile da organizzare. Ma, come si è visto, il gesto di uno solo non sempre è organizzato in solitudine.
Per quanto Berlino potrebbe apparire come gesto da lupo solitario, la sua realizzazione è stata tutto meno che spontanea. Molto più verosimilmente condivisa - se non ordinata - con l’organizzazione terroristica di riferimento. Assistiamo dunque alla conferma di una modalità operativa con dinamiche diverse da quelle viste a Parigi e Bruxelles. Si conferma la virata verso il ricorso ad unità di kamikaze, piuttosto che di commandos, indicando con ciò una regia militare che lavora ad una riduzione al minimo delle risorse umane ma capace comunque di colpire duro e produrre stragi.
Dovuto forse al ripiegamento militare e finanziario da Siria ed Irak, l’Isis e la sua galassia variamente dispiegata sembrano aver abbandonato la strategia dell’attacco guerrigliero e dello scontro diretto con le forze di sicurezza come avvenne a Parigi. Era quello, probabilmente, un modo di agire legato ad un’altra fase del reclutamento, destinata ad impressionare, a dimostrare come la potenza tecnologica e territoriale del nemico poco può contro la determinazione nel colpire.
Oggi, quando le forze del Califfo sono in ripiegamento, cacciate dalla Siria e dall’Irak, gli attacchi assumono piuttosto una dinamica di retroguardia. Nel primo tipo era l’avanzata militare che forniva alimento e motivazioni alle azioni delle cellule guerrigliere; nel secondo sono le azioni dei singoli che intendono comunicare alle truppe in fuga che, come può, la retroguardia prova a sostenerli.
Ma proprio la complessità di quanto avviene sul terreno mediorientale non deve indurre ad errori di semplificazione eccessiva. Ad Ankara si è trattato di altra storia. Se infatti la data comune potrebbe configurare a prima vista due elementi a sostegno della tesi di una comune regia, non è detto che le cose stiano esattamente così. Il gesto di Berlino è attribuibile all’ISIS, quello di Ankara ha invece origini diverse pur se obiettivi condivisi. Per quanto riguarda Berlino, la similitudine con Nizza e la scelta di rendere i civili obiettivo unico dell’attentato è tipico di una logica che spaccia terrore per terrore, propria di una organizzazione vigliacca, nata per volontà dell’Occidente, giovatasi di migliaia di mercenari sunniti, armata e finanziata dall’Arabia Saudita, ovvero da uno dei regimi più sanguinari ed oscurantisti della storia contemporanea.
L’ISIS è stata forte fino a quando non ha trovato una risposta militare adeguata, ovvero quella che Mosca ha deciso di dare entrando nel conflitto a sostegno del governo di Assad. Con l’entrata in campo dei russi da un lato e dai Peshmerga kurdi dall’altro, il cosiddetto stato del Califfo si è dimostrato aggregato contraddittorio e tutt’altro che invincibile. Aver preso in ostaggio la popolazione civile, essersi riparato dietro di essa nella speranza di veder indietreggiare il nemico, è stato l’ultimo dei suoi errori di valutazione politici e militari.
L’attentato di Ankara, invece, disegna una pista parzialmente diversa da quella dell’ISIS. L'obiettivo è un alto funzionario del governo russo, in prima fila nella cacciata degli jihaidisti dalla Siria. L’attentatore era un poliziotto dei reparti antisommossa che, per un periodo di tempo, aveva anche svolto l’incarico di scorta del premier Erdogan.
Islamico, probabilmente deluso dal cambio di rotta le suo governo in merito alla partita siriana, nell’associare la difesa di Aleppo all’assassinio dell’ambasciatore russo ha offerto una sua possibile carta d’identità politica che rimanda al magma di organizzazioni anti-Assad sostenute da Stati Uniti, Francia e Siria.
Il cambio repentino di linea politica da parte di Erdogan nei confronti di Mosca e dunque della Siria, così come l’arrivo di Trump alla Casa Bianca - che potrebbe comportare la sottrazione statunitense dall’appoggio alle guerriglie finanziate e dirette dai sauditi - ha certamente generato la consapevolezza che la partita siriana è finita. Sono iniziati oggi a Mosca i colloqui tra Russia, Iran e Turchia e l’Occidente, che quella guerra ha voluto, non è di scena.
La guerra è finita e Assad non andrà via se non nel quadro di un accordo con Mosca in tal senso e Francia e GB, private del sostegno USA, daranno vita ad un ripiegamento tattico con vista sulla Libia. In questo senso il gesto di Ankara rimanda ad un atto di disperazione, di protesta estrema contro il proprio governo e il suo cambio di linea politica, oltre che verso i russi.
Che Erdogan incolpi Gulen è ovvio: non solo non vuole apparire a Mosca come alleato inaffidabile, anzi ci tiene a dimostrare come la sua nuova collocazione è ribadita pur se comporta costi di natura politica. Inoltre, approfitterà dell’occasione per stringere ulteriormente il cappio al collo del suo paese, dando vita a nuove ondate repressive ed al rafforzamento delle misure liberticide.
Quello che certamente può indicare quanto avvenuto a Berlino e ad Ankara è quanto le distinte organizzazioni terroristiche si sentano ormai private dei loro originari riferimenti, di quell’interlocuzione privilegiata con chi li aveva ingaggiati a combattere per ridisegnare la mappa del Medio Oriente in chiave sunnita, con il mondo sciita seppellito sotto il tallone delle monarchie del Golfo, trasformatisi da regimi da operetta in dominus nel ruolo di unica potenza regionale.
La commozione per quanto avvenuto ad Aleppo così come in ogni altra città mediorientale, irakene, libiche e siriane soprattutto, restano eredità vergognosa di chi ha scelto di giocare a domino sulla pelle di 500 milioni di persone. Un Occidente che ha inteso la sovversione continuata di ogni ordinamento politico come strada principale per l’imposizione del suo ed ha provato ad aprire il capitolo della guerra permanente senza avere nemmeno un’idea di come governarne le conseguenze.