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di Mario Lombardo
In un’elezione primaria apparentemente irrilevante nello stato americano dell’Alabama, si è consumato martedì un nuovo delicatissimo strappo tra l’establishment del Partito Repubblicano e la frangia di estrema destra populista che continua a gravitare attorno al presidente Trump. Nel voto ha prevalso il candidato promosso come “anti-sistema”, l’ex giudice fondamentalista cristiano Roy Moore, e il risultato ha gettato probabilmente le basi per una campagna ultra-reazionaria contro i vertici del partito a poco più di un anno dalle elezioni di medio termine.
Le primarie di martedì sono servite a scegliere il candidato repubblicano nell’elezione speciale di dicembre per il seggio al Senato di Washington lasciato vacante dall’attuale ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Il governatore dell’Alabama aveva nominato a inizio anno come senatore ad interim l’ex procuratore generale dello stato, Luther Strange, il quale aveva incassato l’appoggio praticamente unanime dei pezzi grossi del partito in vista del voto di conferma del suo nuovo incarico.
Approfittando di una serie di circostanze favorevoli, la destra repubblicana aveva però puntato sull’ex giudice Moore, in grado di prevalere sui rivali di partito, tra cui spiccava appunto Strange, nel primo turno delle primarie nel mese di agosto. Con l’approssimarsi della data del ballottaggio, gli esponenti più noti a livello nazionale dell’estrema destra repubblicana hanno raddoppiato gli sforzi a favore di Moore, finendo col trionfare grazie anche all’insofferenza diffusa, soprattutto negli stati più arretrati degli USA meridionali, nei confronti dei politici di Washington.
La sconfitta di Luther Strange è stata descritta dalla stampa americana come un fallimento sia per il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, sia per lo stesso Trump. Il primo, in particolare, si era impegnato a fondo per sostenere il proprio candidato, visto che una sua sconfitta per mano della destra del partito avrebbe aperto la strada ad altre battaglie interne per alcuni dei seggi al Senato che saranno in palio il prossimo anno.
McConnell aveva così guidato un assalto al giudice Moore finanziato da circa dieci milioni di dollari, mentre Trump era stato convinto ad appoggiare ufficialmente Strange e a presenziare ad alcuni eventi elettorali a favore di quest’ultimo.
In realtà, la posizione del presidente era apparsa da subito ambigua, tanto che almeno in un’occasione aveva affermato pubblicamente di non essere certo di fare la cosa giusta nel sostenere Strange. I suoi “tweet” più recenti per promuovere la candidatura del senatore ad interim sono poi improvvisamente spariti dall’account presidenziale dopo il risultato delle primarie di martedì, mentre Trump si è affrettato a esprimere le congratulazioni al vincitore.
L’atteggiamento di Trump è forse la chiave per comprendere l’importanza del voto di martedì in Alabama. La versione ufficiale è che il presidente sarebbe chiaramente tra i perdenti del voto, ma la sua posizione è in realtà molto più sfumata e l’appoggio esplicito che ha garantito al senatore ad interim Luther Strange è apparso come il tentativo di mediare tra le due anime del partito, quella che fa riferimento all’establishment e quella di estrema destra.
L’impegno nelle primarie dell’Alabama ha visto infatti Trump fare ricorso alla solita retorica ultra-nazionalista, xenofoba e, a tratti, razzista. Questo atteggiamento è sembrato essere perciò un segnale all’elettorato a cui puntavano l’ex giudice Roy Moore e i suoi sostenitori, piuttosto che a quello relativamente moderato di Strange e dei vertici del partito.
Il voto di martedì e la campagna che l’ha preceduto sono stati d’altra parte al centro delle manovre dell’ex consigliere di Trump, il neo-fascista Stephen Bannon, impegnato da tempo a costruire un movimento di estrema destra, svincolato dai due principali partiti americani, che serva da base per un governo sempre più autoritario.In questo progetto, l’attuale inquilino della Casa Bianca continua a essere un punto di riferimento, nonostante l’apparato militare o il cosiddetto “stato profondo”, bersaglio della retorica dell’estrema destra repubblicana, abbia ormai preso quasi del tutto il controllo delle decisioni più importanti che spettano in teoria al presidente.
Proprio Bannon ha dunque guidato l’offensiva a favore del candidato Roy Moore nelle primarie dell’Alabama e la sua strategia ha rivelato perfettamente i punti di riferimento e gli obiettivi della galassia neo-fascista americana rinvigorita dall’ascesa di Trump.
Bannon ha ad esempio dirottato verso il giudice Moore i finanziamenti dei ricchi donatori americani impegnati nelle cause ultra-conservatrici. Inoltre, il sito web da lui diretto, Breitbartnews, ha fatto da vera e propria cassa di risonanza per la campagna di Moore.
In maniera ancora più critica, Bannon ha anche favorito il coagularsi di una base elettorale a favore di Moore e del proprio progetto ultra-reazionario, manovrando negli ambienti evangelici e del fondamentalismo cristiano che nel sud degli Stati Uniti rappresentano un bacino consistente.
Il giudice Roy Moore proviene d’altra parte da questo stesso ambiente, come conferma il suo curriculum. Nella sua carriera politico-giuridica ha frequentemente tuonato contro l’omosessualità e l’aborto. Moore, poi, nel 2003 e ancora nel 2016 era stato rimosso dal proprio incarico di giudice capo della Corte Suprema dell’Alabama per avere palesemente confuso i confini tra stato e religione.
Nel primo caso aveva fatto erigere un monumento ai Dieci Comandamenti di fronte al palazzo della Corte Suprema statale, rifiutandosi poi di rimuoverlo su ordine di un tribunale federale. Lo scorso anno, invece, Moore aveva ordinato alle autorità del suo stato di respingere le richieste per le licenze di matrimoni gay. Durante la festa per il successo di martedì, inoltre, il neo-candidato repubblicano al Senato ha a un certo punto sventolato la sua pistola di fronte ai sostenitori.
L’obiettivo di spostare a destra il Partito Repubblicano, attribuito generalmente a Bannon dalla stampa ufficiale americana, è ad ogni modo secondario o quanto meno accessorio a quello già ricordato in precedenza, cioè di superare il bipartitismo sostanziale del sistema politico degli Stati Uniti innestandovi una terza forza di orientamento più o meno apertamente fascista.
Questo progetto si scontra con l’ostilità della gran parte degli americani nei confronti dell’agenda reazionaria di Bannon e dello stesso Trump. Tuttavia, questo disegno sta trovando terreno fertile grazie in primo luogo al discredito della classe politica tradizionale, ma anche all’allargamento delle disuguaglianze sociali, alla distanza siderale tra le élites politiche, culturali ed economiche e le classi più disagiate, alla costante promozione di tendenze reazionarie nella popolazione e allo spostamento a destra del Partito Democratico.
Il progetto di Bannon e degli ambienti attorno ai quali gravita l’ex “stratega capo” della Casa Bianca non è quindi sostanzialmente differente da quello di Trump. Malgrado il loro appoggio a candidati diversi nelle primarie dell’Alabama, Bannon non ha mai spinto fino in fondo le critiche al presidente, ma ha attribuito piuttosto la ragione di determinate scelte non sufficientemente conservatrici al predominio dei rappresentanti dell’establishment di Washington nella sua amministrazione.
Questi processi e la battaglia interna a un Partito Repubblicano sempre più in crisi si intensificheranno con ogni probabilità nei prossimi mesi. Il successo dell’estrema destra in Alabama, che potrebbe essere amplificato dalla probabile vittoria di Roy Moore sul candidato democratico a dicembre, ha infatti già scatenato l’assalto ai senatori repubblicani uscenti che metteranno in palio i propri seggi nel novembre 2018.Bannon e i finanziatori che appoggiano il suo sforzo hanno già preso contatto con svariati candidati ultra-conservatori in vista delle primarie che porteranno alle elezioni di “midterm”. L’ondata neo-fascista, infine, spingerà quasi certamente anche alcuni senatori in carica a rinunciare alla difesa del loro seggio per timore di finire coinvolti in campagne dispendiose o umiliati da sfidanti di estrema destra.
Già martedì, ad esempio, uno dei più autorevoli esponenti repubblicani al Congresso, il senatore del Tennessee Bob Corker, presidente della commissione Esteri del Senato, ha annunciato il ritiro al termine del suo attuale mandato, lasciando intendere che i motivi della decisione sono legati precisamente al nuovo ambiente tossico venutosi ormai a creare all’interno del suo partito.
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di Michele Paris
Con il mutare delle sorti della guerra in Siria, il rischio di un confronto militare diretto tra le forze russe e americane impegnate su fronti opposti nel paese mediorientale è cresciuto pericolosamente nelle ultime settimane. Soprattutto nella provincia orientale di Deir Ezzor è sempre più chiaro il tentativo degli Stati Uniti di ostacolare, tramite i gruppi armati che essi appoggiano più o meno apertamente, l’avanzata delle forze governative siriane sostenute da Russia, Iran e Hezbollah.
Gli sviluppi dei giorni scorsi sono sembrati particolarmente preoccupanti, con Mosca che ha denunciato più di un attacco contro le proprie postazioni e quelle dell’esercito di Damasco, puntando il dito direttamente contro le forze speciali americane presenti illegalmente sul territorio siriano. Lunedì, poi, il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha accusato la “politica ambigua” degli USA in Siria per la morte del generale Valery Asapov e di due colonnelli in un attacco contro il quartier generale dell’esercito siriano nella città di Deir Ezzor.
Asapov è l’ufficiale russo più alto in grado a essere ucciso in Siria dall’inizio del conflitto e, secondo molti osservatori, la sua morte corrisponde a una sorta di dichiarazione di guerra non ufficiale di Washington contro Mosca. L’attacco è stato materialmente attribuito allo Stato Islamico (ISIS), ma la reazione della Russia implica che i militanti fondamentalisti hanno ricevuto appoggio, per condurre l’operazione, dalle forze speciali e dell’intelligence americane.
In precedenza, infatti, il ministero della Difesa russo aveva indirizzato un’altra pesantissima accusa agli Stati Uniti e che è poi apparsa come un’anticipazione dell’incursione costata la vita ai tre alti ufficiali. Mosca aveva cioè reso pubbliche alcune immagini aeree che indicavano come un contingente di forze speciali USA fosse posizionato presso un accampamento precedentemente dell’ISIS a nord di Deir Ezzor.
Secondo i vertici militari russi, ciò sarebbe avvenuto senza che vi fossero tracce di battaglie nella stessa località né della costruzione di un perimetro difensivo da parte americana, facendo presumere che i soldati attualmente accampati in questa postazione vi erano giunti senza difficoltà ed erano certi di non finire sotto attacco da parte dell’ISIS, con i quali avevano evidentemente stipulato un qualche accordo.
Alle accuse russe sono poi seguite quelle degli Stati Uniti, secondo i quali sempre lunedì le forze di Mosca avrebbero bombardato gruppi armati sostenuti da Washington in tre località distinte nella provincia di Deir Ezzor. L’operazione sarebbe avvenuta in risposta alla conquista da parte delle milizie curde di un importante giacimento di gas naturale.
In sostanza, l’aggravamento della situazione sul campo in Siria orientale è la diretta conseguenza del successo delle operazioni militari a sostegno del regime di Damasco e della sconfitta sempre più vicina dei “ribelli” appoggiati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Di fronte a questo scenario, gli USA hanno deciso di intensificare la collaborazione con le formazioni armate anti-regime e di indirizzare gli attacchi di queste ultime contro le forze russe.I sospetti russi in questo senso erano stati alimentati anche dalla notizia, diffusa dalla CNN, che le forze USA in Siria avevano rafforzato il controllo e la sorveglianza del posizionamento delle truppe di Mosca. Da qui, comprensibilmente, il timore che gli americani abbiano deciso di passare queste informazioni ai gruppi armati attivi nel paese, incluso lo Stato Islamico.
Il risentimento americano nel veder andare in fumo il proprio progetto di cambio di regime o di balcanizzazione della Siria è indubbiamente un fattore importante in questi sviluppi. Il fatto però che il confronto tra USA e Russia stia avendo luogo nella provincia di Deir Ezzor ha anche significativi risvolti strategici.
Deir Ezzor si trova in una posizione strategica in direzione del confine iracheno e qui sono localizzati i principali giacimenti petroliferi e di gas naturale della Siria. A lungo, l’ISIS aveva occupato la provincia, da cui ricavava i finanziamenti per le proprie attività, e assediato la città omonima, controllata dal regime, prima dell’intervento decisivo a inizio settembre delle forze governative.
Quest’ultimo evento aveva fatto giungere nella provincia un numero consistente di altri gruppi “ribelli” appoggiati dagli USA, tra cui quelli inquadrati nelle cosiddette “Forze Democratiche della Siria” a maggioranza curda. Secondo alcuni, gli americani avrebbero poi stretto accordi anche con formazioni jihadiste o tribali già affiliate all’ISIS per combattere l’avanzata russo-siriana. D’altra parte, la strategia di Washington in Siria si è basata fin dall’inizio sull’appoggio clandestino di gruppi estremisti per rovesciare il regime di Damasco.
Le varie forze coinvolte nell’area di Deir Ezzor hanno fatto comunque segnare recentemente alterni successi, provocando spesso le ritorsioni dei rispettivi rivali, e il rischio concreto è che lo scontro possa sfociare in un confronto diretto e di vasta portata tra gli USA e la Russia.
La corsa al controllo di Deir Ezzor è importante per una serie di motivi, tanto che potrebbe decidere l’esito stesso della guerra in Siria. Nel sovrapporsi di interessi disparati e convergenti, senza dubbio Washington intende tenere in vita almeno il piano di dividere e indebolire la Siria, assegnando un territorio ricco di risorse energetiche nell’est del paese a una forza, quella curda, sotto il proprio controllo.
I curdi, da parte loro, cercano di occupare il più ampio territorio possibile per negoziare da una posizione di forza con il regime una possibile autonomia da Damasco in vista della fine della guerra. Il governo di Assad, con l’aiuto russo, necessita invece di tornare a controllare le risorse e l’industria energetica di Deir Ezzor nel quadro della futura ricostruzione del paese.
Le residue velleità degli USA, infine, prevedono la creazione di un ostacolo territoriale al corridoio che collega l’Iran al Libano attraverso l’Iraq e la Siria, in modo da impedire l’allargamento dell’influenza di Teheran nella regione attraverso il consolidamento dei legami con il regime di Assad e con Hezbollah.La situazione in Siria appare dunque sempre più infuocata e il sostanziale isolamento delle forze americane sul terreno a sostegno delle milizie anti-regime non esclude una possibile escalation dello scontro. Washington ha d’altra parte investito ingentissime risorse per abbattere il regime di Damasco, ritenuto un obiettivo chiave per promuovere i propri interessi strategici in Medio Oriente. Il fallimento del proprio progetto non può perciò comportare un disimpegno improvviso dalla Siria, ma piuttosto un ricorso a un qualche piano alternativo per ricavare il massimo dalle nuove circostanze.
Le tensioni e gli scontri in atto nella parte orientale della Siria si incrociano oltretutto alle altre dispute che stanno infiammando pericolosamente la regione, dalla rinnovata offensiva degli USA contro l’Iran alle minacce della Turchia contro le spinte indipendentiste curde, facendo aumentare in maniera sensibile il rischio di una conflagrazione generale nella quale sarebbero sempre più coinvolte le principali potenze del pianeta.
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di Mario Lombardo
Le elezioni per il rinnovo del parlamento federale tedesco nel fine settimana hanno assegnato come previsto il quarto mandato alla guida del governo alla cancelliera, Angela Merkel. Questo esito è stato però l’unico a rappresentare una prova della presunta stabilità del sistema-Germania, dove l’ondata populista ha finito per investire una classe politica evidentemente ritenuta responsabile non tanto della “crisi” dei migranti, quanto soprattutto di quella sociale che continua a crescere dietro un’apparente solidità economica.
I risultati definitivi del voto hanno registrato le prestazioni peggiori degli ultimi 60 anni dei due partiti che hanno dominato la scena politica tedesca nel dopoguerra. L’Unione Cristiano Democratica (CDU) della Merkel e l’alleato dell’Unione Cristiano Sociale bavarese (CSU) hanno perso complessivamente 65 seggi, fermandosi ad appena il 33% dei consensi, contro il 41,5% del 2013.
Ancora peggiore è stata la batosta incassata dal Partito Social Democratico (SPD), fermo al 20,5% dopo che a inizio anno il lancio del candidato alla cancelleria, Martin Schulz, era sembrato prospettare per un breve periodo addirittura un avvicendamento alla guida del paese. Gli otto anni nella “grande coalizione” con la Merkel sono stati dunque pagati molto cari da un partito che, nel suo elettorato di riferimento, continua a essere visto correttamente come responsabile di avere inaugurato, ormai oltre un decennio fa, l’assalto al welfare a favore del business tedesco.
Proprio l’assenza dal governo di Berlino ha invece beneficiato i liberali dell’FDP (Partito Democratico Libero), ex partner di coalizione della Merkel che nella precedente tornata elettorale non erano stati nemmeno in grado di superare la soglia di sbarramento del 5%. Questo partito ha superato abbondantemente il 10%, con un risultato che gli garantirà un’ottantina di deputati.
All’FDP guarderà ora principalmente la cancelliera per mettere assieme la prossima coalizione di governo. Per far nascere l’esecutivo saranno però necessari altri seggi e nel mirino della Merkel sembrano esserci soltanto i Verdi, in leggera salita rispetto al 2013, visto che i leader socialdemocratici hanno comprensibilmente fatto sapere di volere posizionarsi all’opposizione nei prossimi quattro anni.
I vertici dei Verdi hanno per ora mandato segnali contrastanti sulla possibilità di entrare in un governo di centro-destra, vista la diversità di vedute, soprattutto con FDP e CSU, su varie questioni come quella fiscale e dei migranti. Le alternative sembrano comunque improbabili, dal governo di minoranza a nuove elezioni, così che le differenze tra i partiti di una nuova potenziale coalizione “giamaicana” – dai colori della bandiera del paese caraibico che corrispondono a quelli delle formazioni che dovrebbero farne parte – potrebbero essere superate nelle prossime settimane.
Quasi tutti gli osservatori prevedono un nuovo gabinetto insolitamente fragile e instabile a Berlino, con il conseguente probabile tramonto precoce del progetto franco-tedesco di riforma dell’Unione Europea all’insegna di una maggiore integrazione tra i suoi membri.
Il dato più importante del voto di domenica in Germania è stato comunque il risultato dell’estrema destra dell’AfD (Alternativa per la Germania). Per la prima volta dopo la fine del nazismo, un partito apertamente xenofobo e razzista avrà dei propri rappresentanti nel parlamento federale tedesco.Non solo, politicamente l’AfD avrà un peso ben superiore rispetto alla sua effettiva popolarità tra la popolazione. A riprova di ciò, sono avvenute già nella serata di domenica manifestazioni spontanee di protesta contro l’AfD in molte città della Germania, tra cui a Berlino dove il partito di estrema destra stava celebrando la sua performance elettorale.
Il 13% dei voti e i 94 deputati ottenuti da questo movimento sono stati possibili pressoché interamente grazie al costante spostamento a destra degli equilibri politici tedeschi. I partiti tradizionali si sono cioè in larga misura adeguati ai toni della destra estrema, promuovendo in maniera più o meno esplicita politiche contro i migranti e il rafforzamento dei poteri repressivi e di sorveglianza dello stato.
Al contrario di quanto sostengono in molti, l’emorragia di voti sofferta da CDU e CSU non sembra essere dovuta alle presunte posizioni troppo accomodanti nei confronti degli immigrati della cancelliera, se non per una frangia di elettori di estrema destra. Il colpo assestato all’establishment politico tradizionale e alla stessa Merkel, tradottosi in parte nel successo dell’AfD, è piuttosto il risultato del tentativo di alimentare i sentimenti più reazionari nella popolazione tedesca da parte di media e partiti “mainstream”.
Una tendenza già evidente in molti altri paesi europei e negli Stati Uniti e che in sostanza dovrebbe servire alle classi dirigenti per contenere e orientare le tensioni sociali, prodotte dalla crisi economica, dalla precarietà del lavoro e dalla costante crescita delle disuguaglianze di reddito, in direzioni nazionalistiche e xenofobe, in modo da dividere le classi più colpite e neutralizzarne il potenziale di rivolta.
Vari sondaggi hanno d’altra parte indicato come la netta maggioranza degli elettori dell’AfD non sia sostenitrice di questo partito, e non sia interessata paradossalmente nemmeno al messaggio anti-migranti, ma lo ha votato in segno di protesta verso il sistema politico tradizionale. Come altrove, questa dinamica è stata favorita anche in Germania dal vuoto politico della sinistra e non solo quello che dovrebbe occupare la SPD. Anche la sinistra di opposizione di Die Linke, pur avendo incrementato di poco la propria quota di voti, ha ad esempio ceduto il passo quasi ovunque nella ex Germania Est all’AfD, dopo che qui aveva a lungo fatto segnare risultati importanti.
I vertici dell’AfD hanno subito promesso di voler condurre una battaglia aggressiva contro il prossimo governo Merkel, garantendo quindi un ulteriore spostamento a destra del centro politico tedesco. Dopo l’affermazione di domenica dell’estrema destra, infatti, la CDU/CSU e i suoi alleati risponderanno con ogni probabilità allineandosi ancora di più alle tendenze reazionarie promosse dall’AfD.
In questo senso vanno lette le dichiarazioni del numero uno della CSU, Horst Seehofer, il quale domenica ha affermato che il suo partito e quello della Merkel si sono visti sottrarre voti dall’AfD perché hanno “lasciato aperto il loro fianco destro”, ma che in futuro sarà necessario rimediare prendendo “una chiara posizione” in proposito, ovvero facendo proprie molte delle politiche dell’estrema destra.Al di là della composizione del prossimo governo tedesco, della sua solidità o della stessa sorte della Merkel, la cui leadership della maggioranza di centro-destra potrebbe per qualcuno essere messa in discussione nel prossimo futuro, gli indirizzi generali del nuovo esecutivo sembrano essere ben definiti, anche se i contenuti di essi sono rimasti in larga misura fuori dal dibattito elettorale.
Sul fronte interno, come ha subito invitato a fare il presidente della Federazione dell’Industria tedesca (BDI), Dieter Kampf, dovrà essere mantenuta la competitività del business tedesco. Su quello esterno, invece, anche il nuovo gabinetto proseguirà nello sforzo per la promozione in maniera sempre più aggressiva delle ambizioni della classe dirigente della Germania, in un quadro caratterizzato dalle crescenti rivalità internazionali, a cominciare da quelle già apparse più che evidenti nei mesi scorsi tra Berlino e gli Stati Uniti di Donald Trump.
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di Michele Paris
Dopo l’attacco frontale di Donald Trump all’Iran e all’accordo sul suo programma nucleare durante l’intervento di martedì alle Nazioni Unite, il governo americano sembra essere sul punto di accelerare le manovre per far saltare l’intesa siglata a Vienna nel 2015. Da tempo si attende dall’amministrazione repubblicana un’inversione di rotta sulla Repubblica Islamica, ma fino ad ora l’approccio di Trump è stato relativamente cauto, retorica a parte, per il timore di aggravare le tensioni con gli alleati europei che continuano ad appoggiare senza riserve l’accordo sul nucleare iraniano.
I media americani hanno anticipato questa settimana la decisione che il presidente potrebbe prendere con l’avvicinarsi della prossima scadenza contemplata dalla legge USA. Ogni 90 giorni, cioè, la Casa Bianca è tenuta a certificare al Congresso la conformità del comportamento iraniano alle condizioni dell’intesa di Vienna. La prossima scadenza è prevista per il 15 ottobre.
Trump sarebbe intenzionato a “de-certificare” l’Iran con una mossa che, se pure per molti non implica necessariamente il boicottaggio dell’accordo sul nucleare, rischierebbe probabilmente di farlo naufragare. In questo caso, la palla passerebbe al Congresso, il quale avrebbe 60 giorni di tempo per decidere se reimporre contro Teheran le sanzioni che erano state cancellate nel 2015.
Tra i parlamentari di entrambi gli schieramenti a Washington c’è una prevalenza, anche se non assoluta, di falchi sulla questione iraniana e un possibile ritorno al regime delle sanzioni spingerebbe Teheran ad abbandonare l’accordo. Anche senza azioni del Congresso, comunque, la mancata certificazione di Trump del rispetto del dettato dell’intesa da parte dell’Iran verrebbe prevedibilmente vista da questo paese come una nuova seria minaccia alla propria sicurezza.
Lo stesso Trump ha comunicato alla stampa di avere già “deciso” il da farsi sull’Iran, ma ha evitato di anticipare le sue conclusioni. Altri membri della sua amministrazione hanno delineato con sufficiente chiarezza le intenzioni della Casa Bianca, come il segretario di Stato, Rex Tillerson, impegnato mercoledì in una riunione con i rappresentati dei paesi che avevano negoziato l’accordo di Vienna, a cui ha partecipato anche il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif.
Dalle dichiarazioni di Tillerson è emerso come non vi siano ragioni tecniche per denunciare l’accordo, visto che all’Iran viene riconosciuto universalmente, compreso dagli stessi Stati Uniti, il rispetto delle condizioni imposte a Vienna. Vista dunque l’unità di vedute a livello internazionale sull’efficacia dell’intesa, l’amministrazione Trump ha alla fine abbandonato anche la finzione che le riserve sull’Iran siano legate al suo programma nucleare.
Nell’affermare che Teheran non sta rispettando lo “spirito” dell’accordo di Vienna e che in questi due anni la “minaccia” iraniana sulla regione mediorientale non è venuta meno, Tillerson rivela così molto più di quelle che sono le sue intenzioni.
L’Iran, in altre parole, ha fatto tutto ciò che gli era richiesto di fare nel quadro dell’accordo, tranne quello a cui gli Stati Uniti miravano realmente acconsentendo ai negoziati, vale a dire piegarsi agli interessi di Washington in Medio Oriente, rompere l’asse della resistenza anti-americana e quanto meno rallentare la formazione di un blocco economico-strategico euro-asiatico con Cina e Russia.Queste sono precisamente le ragioni del nuovo attacco degli USA all’Iran ed erano in effetti anche gli obiettivi dell’amministrazione Obama nel promuovere il dialogo con Teheran. Le sezioni della classe dirigente USA tuttora favorevoli all’accordo ritengono che, attraverso un mix di pressioni e incentivi, sia possibile attrarre nell’orbita americana l’Iran, puntando soprattutto sugli esponenti moderati del regime sciita, rappresentati da Zarif e dal presidente Rouhani. Trump e i falchi “neo-con”, al contrario, sostengono una linea decisamente più aggressiva, allineata in sostanza alle posizioni di Israele e Arabia Saudita, che mira ad annichilire l’Iran, se necessario attraverso un’aggressione militare o il cambio di regime.
Il piano della Casa Bianca per cancellare i progressi fatti sui rapporti con l’Iran dopo Vienna sta già incontrando comunque la prevista opposizione di Francia, Gran Bretagna e Germania, per non parlare di Russia e Cina, tutti paesi che hanno ristabilito contatti in ambito commerciale ed energetico con la Repubblica Islamica. Le posizioni divergenti sono emerse al termine del già ricordato incontro di mercoledì a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU.
La parole più dure nei confronti degli USA sono sembrate quelle di Federica Mogherini, rappresentante UE per gli affari esteri, la quale ha affermato che “la comunità internazionale non può permettersi di smantellare un accordo che funziona e sta dando risultati”. L’ex ministro degli Esteri italiano ha poi respinto anche la proposta che il governo americano sembra essere intenzionato ad avanzare per superare le resistenze dei partner europei, cioè una possibile rinegoziazione del trattato di Vienna.
Washington spera infatti di potere introdurre una serie di nuove condizioni da dettare a Teheran a margine dell’accordo firmato nel 2015. Una manovra di questo genere vincolerebbe l’Iran ancora di più al volere delle potenze internazionali, aggiungendo nuove e più invasive ispezioni delle proprie strutture militari, ulteriori restrizioni al programma nucleare civile e, soprattutto, lo stop allo sviluppo dei missili balistici.
La questione dei missili balistici iraniani è al centro delle accuse degli Stati Uniti e sarebbe una ragione del presunto mancato rispetto dello “spirito” dell’accordo di Vienna, anche se in esso non sono contemplate restrizioni in questo ambito.
Anche considerando in buona fede l’amministrazione Trump, la proposta di riaprire i negoziati con l’Iran, così da giungere a un’estensione del trattato già sottoscritto e funzionante, è destinata a fallire e, infatti, è già stata rispedita al mittente dalla Repubblica Islamica. Una nuova trattativa implicherebbe la necessità da parte americana di fare qualche concessione per convincere l’Iran ad accettare una serie di nuove condizioni.
Con un’amministrazione Trump che già denuncia come eccessive quelle ottenute dalla Repubblica Islamica a Vienna, però, non è chiaro cosa potrebbe ricevere in cambio quest’ultima per abbandonare, ad esempio, il proprio programma di missili balistici. Essendo le forze armate USA dispiegate di fatto ai confini dell’Iran, oltretutto, rinunciarvi corrisponderebbe a una sorta di suicidio.L’interrogativo su un possibile nuovo negoziato è ad ogni modo superfluo. Le manovre americane non sono in nessun modo rivolte a cercare una soluzione pacifica o a contenere una minaccia iraniana peraltro inesistente, ma servono unicamente a esercitare nuove pressioni su Teheran e a imporre richieste impossibili da accettare per demolire il processo diplomatico e mettere in ginocchio un paese nemico degli interessi USA in Medio Oriente.
Il disaccordo tra Washington e l’Europa sull’approccio alla questione iraniana rende ad ogni modo complicato il progetto delineato dall’amministrazione Trump. L’attitudine del governo americano, dominato dai militari e permeato da una tossica ideologia ultra-nazionalista, suggerisce tuttavia di non escludere iniziative unilaterali che, è facile prevedere, rischierebbero di aggravare seriamente le tensioni sia con l’Iran e i suoi alleati a Mosca e a Pechino sia con gli stessi governi europei.
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di Vincenzo Maddaloni
BERLINO. Da qualche anno a questa parte o forse più, ogni fine settimana in qualche paese o città della Germania compaiono i neonazisti che marciano con i loro tatuaggi, con i loro scarponi chiodati, con i loro irritanti striscioni, con le loro bandiere. Ancora sopravvive il ricordo dei semila partecipanti al Neonazi-Festival “Rock für Identität” di due mesi fa a Themar, una cittadina della Turingia.
Durante quella manifestazione, che si era svolta con il benestare del tribunale, erano state vendute centinaia di t-shirt con la scritta “HTLR” che sta per “Patria-Tradizione-Lealtà-Rispetto”, non a caso al prezzo di 8,80 euro, perché 8 è la lettera H dell’alfabeto e 88 è il codice che “collega” i nostalgici all' “Heil Hitler!”, e al “1933”, l’anno in cui i nazisti conquistarono il potere.
Naturalmente, gli scarponi chiodati non sono d'obbligo per poter partecipare alle sfilate. Da due anni, ogni lunedì a Dresda i militanti marciano indossando le scarpe di tutti i giorni in sintonia con il loro abbigliamento curato, da media borghesia insomma. Si dichiarano i difensori della “cultura tedesca dalle invasioni degli immigrati islamici”, e marciano con slogan, canti, e qualche fiaccolata. Sono i Pegida (in tedesco Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, che tradotto significa: Patrioti europei contro l'islamizzazione dell'Occidente), i quali si battono per delle misure più restrittive in materia di immigrazione.
Sicuramente il 24 settembre essi voteranno l'Afd, Alternative für Deutschland, il partito di opposizione che predica un estremismo di chiaro stampo xenofobo e che fa leva anche sullo scoramento dei tedeschi moderati che, da qualche tempo a questa parte stanno chiedendo un cambio di rotta sulla gestione dei flussi migratori.
Naturalmente, come prevede Roberto Giardina, corrispondente di lungo corso da Berlino, «il risultato delle elezioni di domenica 24 settembre è già scontato. Per la quarta volta vincerà Angela, con qualche voto in meno rispetto al 2013. L’unico dubbio è se ci sarà una nuova Grosse Koalition, oppure un’alleanza tra cristianodemocratici e liberali». Ma, avverte Giardina, «per la prima volta, entrerà al Bundestag l'AfD, Alternative für Deutschland, che raccoglierà i voti dei neonazisti, e anche di molti degli appartenenti alla classe media e alla borghesia benestante. Sicché per molti versi si infrangerà un tabù».
L'Afd dovrebbe incassare – così i sondaggi – il dieci per cento dei voti e forse più. E' un risultato epocale perché il populismo dirompente nella Germania del welfare è un fenomeno su cui si appuntano gli occhi dell'Europa intera. La Germania del benessere - dal 2013 anno di nascita dell'AfD - è diventata una sorta di laboratorio per studiare il fossato che si allarga a dismisura in ogni parte d'Europa, tra la gente comune e la piccola e media borghesia da un lato e dall'altro lato l'immigrazione, favorita dai circoli affaristici ed economici in nome della libera circolazione delle persone e dei capitali.
Una immigrazione incontrollata, massiccia e incalzante, tale da generare nuove guerre fra poveri già aggravate dal sistema economico capitalista e dai fenomeni di terrorismo islamico che rendono la situazione ancora più disperante. Così la rabbia dei tedeschi entrerà con l'AfD nel Bundestag e i Podemos in Spagna, il Front National e France Insoumise in Francia, il Movimento Cinque Stelle in Italia avranno un alleato in più. Un alleato molto speciale con tutti i requisiti per diventare il leader indiscusso del populismo europeo.
Sebbene, dagli inizi del secolo fino ad oggi la povertà in Europa si è via via urbanizzata, si è “ringiovanita” perché i giovani sono più poveri delle generazioni precedenti, in Germania non ha mai raggiunto i picchi di disperazione dell'Italia, della Spagna, della Francia per non parlare della Grecia. Nel paese della Cancelliera il tasso di disoccupazione in agosto girava intorno al cinque per cento e, sempre un mese fa, il numero di disoccupati è diminuito di 5 mila unità. Eppure, benché la situazione sia di gran lunga migliore rispetto all'Italia, alla Spagna, alla Francia, il populismo tedesco è un fenomeno in crescendo, non episodico e nemmeno elettorale.Certamente la campagna elettorale è servita come pretesto. Frau Merkel è stata accolta da un lancio di pomodori durante un comizio a Heidelberg, nota città universitaria, nel Baden-Württemberg sulle rive del fiume Neckar. Uguale sorte la Cancelliera ha subito a Vacha, cittadina di tremila e cinquecento abitanti della Turingia e a Annaberg-Buchholz in Sassonia. Persino a Bitterfeld che ai tempi della Ddr era considerata la città più “sporca” d'Europa per via dell'alta concentrazione sul territorio dell'industria chimica, e che oggi è un esempio di come si deve bonficare, Angela è stata accolta con i fischi.
“Mutti Coraggio”, “Madre Coraggio”, così il settimanale Der Spiegel aveva titolato la cronaca di quella giornata, durante la quale gli apprezzamenti della Cancelliera sull'opera svolta e su quel che resta da fare erano stati accolti da una valanga di fischi, di urla, di invocazioni del tipo “più lavoro, salari più alti, più prospettive di carriera”. Che poi è quel che va predicando Alternative für Deutschland, da quando è iniziata la campagna elettorale.
Nell'ex Germania comunista, l'AfD pesca molto tra coloro che oggi hanno più di cinquant’anni e ricordano la Ddr con nostalgia, non certo per il sistema oligarchico che vi governava, ma perché vi era l’illusione che le aspirazioni del popolo fossero in cima alle priorità. Beninteso, questa nostalgia diffusa è storia recente che rischia di diventare contagiosa da quando la parola “gente” - qui come altrove in Europa - ha preso il posto della parola popolo. Lo scambio è avvenuto sull’onda della crisi economica che ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell’economia.
Infatti, dapprima la sensazione è che la società che consuma appaia più "libera" e venga percepita come la più "democratica" e la più "prospera". Poi, quando se ne diventa parte, ci si accorge che benché sia il trionfo dell'individualismo moderno di matrice liberale e progressista, essa finisca con l' opprimere i popoli, ovvero i loro intrinseci bisogni di socialità, solidarietà, stabilità, comunità e dunque di autentica libertà. In Germania questi “bisogni” sono avvertiti nell'ex Ddr più che in Baviera, e l'avanzata dell'AfD è un chiaro segnale che la voglia di cambiamento non soltanto esiste, ma si sta estendendo.
Il fatto che avviene anche nella patria della Cancelliera fa notizia, come usa dire. Perché la Germania è in Europa un fulgido esempio di quella"governance" - molto di moda nell'ultimo decennio - che obbliga i governi ad attuare scelte tecniche in linea con le esigenze del mercato e della finanza. La "governance" è infatti il trionfo degli interessi dei pochi privilegiati che governano i destini del mondo, ogni qualvolta riesce a plasmare la società sul modello del mercato. Il quale non va affatto d'accordo con la democrazia, ma tende a subordinarla alle sue regole esigendo, di volta in volta la soppressione delle frontiere, la liberalizzazione dell'economia, degli stili di vita, della precarizzazione dei rapporti umani e affettivi, dello sradicamento identitario e via dicendo. Insomma, i mercati asservendo i governi ai propri interessi gestiscono di fatto il potere con una tale determinazione, come mai era accaduto da sessant’anni a questa parte.
Il merito della Cancelliera è di aver saputo gestire questa realtà senza arrecare traumi eccessivi, anzi migliorando il welfare del suo popolo, il quale gliene è molto grato, come confermano i sondaggi della vigilia elettorale. Tutto questo è stato possibile alla Cancelliera perché nel suo team ci sono personaggi come il ministro delle finanze, Schaeuble, che continua a spremere i paesi più poveri dell’Europa meridionale; o come il ministro della difesa, Ursula von der Leyen, che sollecita altri miliardi per la difesa e manda i soldati nel deserto del Mali, sulle montagne dell’Afghanistan. E infine come il ministro dei trasporti Alexander Dobrindt che sorvola di molto sugli inquinamenti prodotti dell’industria automobilistica tedesca.
Sono questi alcuni esempi - tra i tanti - su come in Germania si può migliorare il welfare senza fare tanto chiasso. Dopotutto questo è il paese dove la politica non si sorregge sulla rissa, non ricorre alle sbracamento totale per raccogliere i consensi. Sono comportamenti che non rientrano nella cultura dei tedeschi, per i quali - per capirci - gli strilli della Lorenzin, gli insulti di Di Maio, sono puro folklore.E tuttavia, nel Paese esiste questo malessere diffuso che l'Alternative für Deutschland con il suo pacchetto di voti ben rappresenta. I neonazisti sono diventati minoranza perché oramai, «il tipico elettore AfD è di età media, con un’istruzione media, e un reddito medio», come informa Der Spiegel. E dunque, nel movimento i neonazisti debbono lasciar spazio alle genti della middle class alle quali sta particolarmente a cuore il destino della Germania-Nazione, punto di riferimento per tutti i paesi d' Europa.
Insomma, il media mainstream ha già approntato il ritratto: a Berlino l' AfD sarà il tarlo del Bundestag. Quanto basta per riaprire un discorso serio sull'equità sociale, prima che se ne stravolgano il valore e il significato. Le ultime cronache tedesche ne evidenziano l'urgenza, per Francia, Spagna e Italia soprattutto.