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di Michele Paris
L’inattesa sconfitta nel primo turno delle primarie presidenziali in Francia dell’ex primo ministro, Manuel Valls, rischia di aggravare la profonda crisi in cui versa il Partito Socialista d’oltralpe (PS) dopo cinque anni sotto la guida del super-screditato François Hollande e dei governi da lui nominati. Valls ha chiuso al secondo posto dietro al “frondista” e suo ex ministro Benoît Hamon, in grado di intercettare la maggior parte dei consensi di un elettorato Socialista che continua a chiedere politiche progressiste e a respingere la deriva liberista accentuatasi in questi ultimi anni.
La destra del PS francese è apparsa essere in netta minoranza nella consultazione di domenica. Valls, emblema stesso dell’involuzione reazionaria del suo partito, si è fermato a poco più del 31%, mentre Hamon ha superato quota 36%.
Se ai voti del 49enne ex ministro dell’Educazione e deputato del dipartimento di Yvelines si aggiunge il 17,6% ottenuto da un altro ex membro di “sinistra” del primo governo Valls, Arnaud Montebourg, si comprende agevolmente come la maggioranza dei votanti auspichi una svolta in senso progressista del Partito Socialista. Sia Hamon che Montebourg erano stati di fatto allontanati dal governo Valls nel 2014 per avere criticato le politiche economiche liberiste dell’allora primo ministro.
Al di là dei risultati, le primarie di domenica si sono tenute prevedibilmente in un’atmosfera di relativa indifferenza. L’ostilità dei francesi nei confronti dei governi Socialisti e del presidente Hollande si è manifestata con un’affluenza che è stata meno della metà rispetto a quella registrata qualche settimana fa nelle primarie della destra gollista, vinte anch’esse a sorpresa da François Fillon.
Hollande sta facendo segnare il minimo storico nei livelli di approvazione per un presidente in carica dopo che il suo mandato è stato caratterizzato dall’implementazione e dal tentativo di implementazione di misure di austerity e dallo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Ancora, Hollande e lo stesso Valls sono identificati con l’adozione di misure anti-democratiche, come lo scavalcamento delle prerogative del Parlamento e lo stato di emergenza tuttora in vigore, quest’ultimo destinato teoricamente a combattere la minaccia di attentati terroristici.
Hamon ha in ogni caso incassato già nella serata di domenica l’appoggio di Montebourg, anche se il conforto della matematica potrebbe non essere sufficiente a garantirgli il successo nel secondo turno delle primarie di domenica prossima. Per i media francesi, a influire sulle scelte degli elettori del PS potrebbe essere il dibattito televisivo previsto a metà settimana tra Hamon e Valls.
Chiunque esca vittorioso dalle primarie, il candidato Socialista alla successione di Hollande, il quale ha da tempo ha annunciato di non volersi ripresentare alle elezioni per evitare una clamorosa batosta, sembra essere comunque destinato a una sonora sconfitta nel primo turno delle presidenziali nel mese di aprile.
I più recenti sondaggi danno addirittura l’aspirante presidente del PS in quinta posizione nel primo turno delle presidenziali, dietro a Fillon e a Marine Le Pen del Fronte Nazionale (FN) di estrema destra, ma anche all’indipendente ex ministro Socialista, Emannuel Macron, e a Jean-Luc Mélenchon del Partito di Sinistra (PG).
Dietro a Hamon si sono coalizzate quelle forze che cercano di conservare una qualche credibilità del PS, impostando una campagna elettorale basata sulle critiche all’impopolare presidenza Hollande e proponendo l’illusione di un partito che, dietro le pressioni popolari, possa mettere in atto misure come l’istituzione di un reddito minimo universale garantito per tutti.
Quest’ultima è una delle due proposte cardine di Hamon, da finanziare con una ancora più improbabile tassa sulla ricchezza in un clima nel quale le classi dirigenti di qualsiasi schieramento, in Francia come altrove, appaiono sempre più ostili anche a un minimo aumento della spesa sociale. L’altra iniziativa propagandata da Hamon è l’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo settimanale da 35 e 32 ore.
La fragilità del PS rischia di aggravarsi dopo il secondo turno di domenica prossima. Un’eventuale vittoria di Hamon acuirebbe le divisioni interne, nascoste a malapena negli ultimi cinque anni dal timore di riconsegnare il governo alla destra. Sotto la spinta dell’estrema destra e con la prospettiva sia di vedere all’Eliseo un presidente gollista critico dell’Unione Europea sia di sparire virtualmente dalla mappa elettorale francese, la maggioranza del PS e le forze borghesi europeiste che a esso fanno riferimento potrebbero optare per una soluzione clamorosa.
Invece di appoggiare Hamon per la presidenza, questi ultimi potrebbero cioè dare il proprio sostegno a Emmanuel Macron, lasciando il candidato Socialista ufficiale a poter contare solo sui “frondisti” della “sinistra” del partito. Già alla vigilia delle primarie, decine di membri del PS che ricoprono cariche elettive a livello regionale avevano annunciato il loro appoggio a Macron, mentre fonti vicine a Hollande avevano affermato, prima di smentire le loro stesse dichiarazioni, che lo stesso presidente era pronto ad appoggiare l’ex banchiere ed ex ministro dell’Industria diventato indipendente.
Quali che siano le scelte di Hollande, è innegabile che Macron trovi ampi consensi nelle stanze del potere in Francia, soprattutto tra coloro che, ormai sicuri dell’inevitabile rovescio elettorale che attende i Socialisti, intendono puntare su un candidato che rappresenti un punto di riferimento per il business all’interno di un quadro europeista.
Macron, in altre parole, potrebbe essere l’unica residua speranza per installare all’Eliseo un presidente che, presentandosi con un’apparenza di modernità e un finto appeal da giovane imprenditore vincente, prosegua con le distruttive politiche di austerity di Hollande e si adoperi per evitare l’implosione dell’UE.
Se Valls dovesse quindi fallire, buona parte dei vertici del PS e dei poteri che a questa fazione fanno riferimento potrebbe essere pronta a scommettere su un candidato dal chiaro profilo ultra-liberista, chiudendo così definitivamente il cerchio di un percorso verso destra che ha portato sull’orlo del collasso quello che era il principale partito della sinistra francese.
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di Fabrizio Casari
Alla fine, com’era prevedibile, Joaquìn Guzmàn Loera, al secolo “il Chapo” Guzman, fondatore e rais del Cartello di Sinaloa, uno dei più importanti gruppi di narcos messicani, è stato estradato dal Messico verso gli Stati Uniti. Arrestato e fuggito dalle carceri di massima sicurezza messicana, “el Chapo” ha probabilmente visto per l’ultima volta il cielo del suo paese, dato che dal carcere di sicurezza statunitense dove andrà potrà vedere solo quello statunitense.
Dal carcere in Texas il boss del narcotraffico non potrà fuggire, il destino che lo attende è quello di passare dietro le sbarre tutto il tempo che gli resta da vivere.
I tribunali statunitensi, dal Distretto Occidentale del Texas al distretto Nord dell’Illinois, da San Diego al Distretto Ovest di Brooklyn, fino al Distretto Sud della Florida, lo imputano di numerosi delitti di diversa natura: omicidio, traffico di stupefacenti, cospirazione, riciclaggio di denaro, sequestro di persona, tortura.
Le pene previste viaggiano complessivamente intorno ai 30 anni di carcere, ma ove le imputazioni specifiche dello stato del Texas fossero riconosciute senza attenuanti, la pena di morte potrebbe essere sentenziata, visto che l’iniezione letale continua ad essere pratica riconosciuta dai texani. A tal riguardo, però, le autorità statunitensi hanno ufficialmente dichiarato che non verrà condannato a morte, visto il mandato di estradizione.
Sembra quindi concludersi con un viaggio di sola andata in elicottero e con le manette ai polsi l’avventura di un uomo che, basandosi sulla sua ferocia e abilità organizzativa, ha costituito quello che per lungo tempo è stato il più potente dei cartelli messicani. Almeno fino a quando non intervenne la rottura con la famiglia Beltran-Leyva, che lo ritenne responsabile dell’uccisione di alcuni suoi componenti e decise prima di rompere con Guzmàn e poi di muovergli guerra.
Ad amplificare la piaga del narcotraffico in Messico ci pensò il Presidente Felipe Calderon (2006-2012), che per compiacere gli Stati Uniti decise di dichiarare guerra al cartello di Sinaloa, producendo però il risultato opposto: nell’indebolimento del cartello del “Chapo” molti altri videro lo spazio per la formazione dei loro cartelli, dividendosi le diverse aree d’influenza. Se prima c’era un solo cartello a comandare, divennero numerosi, con migliaia di uomini a disposizione (tra i quali moltissimi appartenenti alle forze dell’ordine e ai militari) e qualunque possibilità di fermarli diveniva remota.
Oltre al cartello di Sinaloa e al Beltran-Leyva, si formano Los Zeta, Jalisco Nueva Generacìòn, il Cartello del Golfo, la Familia Michoacana, il Cartello di Juarez, i Cavalieri Templari, il Cartello del Pacifico e il Cartello di Tijuana, solo per citare i maggiori. I narcos non sono più bande, divengono vere e proprie armate che producono miliardi di dollari. Sono organizzazioni criminali strutturate come eserciti: dotate di armamenti ad ogni livello, intrattengono relazioni con uomini politici, forze dell’ordine e business-man, costituiscono propri servizi d’intelligence e, grazie ad una sorta di welfare sussidiario, si reggono su una rete di sostegno territoriale che ne aumenta la penetrazione e l’efficacia.
Un potere vero, finanziario, economico e sociale, oltre che militare, che ha tolto il monopolio della forza allo Stato e che si configura in maniera evidente come un autentico “stato nello stato”.
Il venir meno del “Chapo” influirà relativamente sulla operatività del Cartello di Sinaloa, visto che i suoi vice hanno preso da anni le redini degli affari e che lo stesso Guzman era ormai fortemente indebolito dai rovesci degli ultimi tempi. Restano invece in Messico e liberi i suoi complici, tutti coloro i quali sostengono, da posizioni di rilievo sociale ed istituzionale, il narcotraffico messicano che ha decisamente superato di gran lunga il volume di potere e affari di quello colombiano. A stabilire chi occuperà lo spazio che lascerà "el Chapo" provvederà l'ennesima guerra tra cartelli.
L’estradizione del “Chapo” Guzmàn rappresenta però una resa senza condizioni del Messico. Ma, soprattutto, dimostra al mondo intero che una tra le prime 10 potenze economiche del mondo, il più potente e armato esercito latinoamericano (insieme a quello del Brasile) non è in grado di custodire un prigioniero. Non si tratta dell’impossibilità di gestire un detenuto di particolare pericolosità, si ammette di non poter controllare il livello di corruzione che potrebbe permetterne la fuga.
Non è un caso, però, che l’estradizione del “Chapo” Guzmàn avvenga in contemporanea con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Nelle intenzioni del Presidente Pena Nieto, che già lo ricevette con tutti gli onori a Città del Messico durante la campagna elettorale, riuscendo a far infuriare Hillary e a far indignare i messicani, la consegna del capo narcos è un cadeau di benvenuto.
Appare come un tentativo ridicolo di stemperare il clima polemico del neopresidente USA, una dimostrazione di amicizia verso chi da mesi offende i messicani e che chiede alle aziende statunitensi di ritirare i loro investimenti industriali dal paese Azteca.
Il Messico è una frontiera che rischia di divenire un paradigma politico dopo esser stato un dramma sociale. Proprio per questo da parte del governo azteca, di fronte a tanta arroganza ci si sarebbe aspettato un sussulto di dignità, una riaffermazione di sovranità, una rivendicazione delle responsabilità statunitensi.
Tanto in ordine al narcotraffico (gli USA sono i principali consumatori del mondo di stupefacenti) quanto all’emigrazione clandestina, favorita dall’alleanza tra coyotes messicani e statunitensi che lucrano sul traffico di esseri umani e del loro sfruttamento.
La scelta di Pena Nieto appare invece come una dichiarazione di resa di fronte allo strapotere statunitense, un voltare le spalle alla sovranità messicana, perché riconosce agli Stati Uniti e non al Messico la possibilità e la capacità di custodire, giudicare e condannare un criminale messicano.
Si chiude così un capitolo tremendo con un risultato a metà. “El Chapo” Guzmàn sarà giudicato infatti solo per i crimini ai danni dei cittadini statunitensi. Per quelli messicani è previsto un muro.
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di Michele Paris
La decisione presa questa settimana dal presidente uscente americano Obama di commutare la pena dell’ex analista dell’esercito, Chelsea (Bradley) Manning, in modo che possa essere scarcerata di qui a pochi mesi, rappresenta un tardivo, parziale e con ogni probabilità cinico ravvedimento da parte del capo di un’amministrazione che ha perseguito il numero più alto di “whistleblowers” nella storia degli Stati Uniti.
Manning tornerà in libertà il prossimo 17 maggio dopo avere scontato quasi sette anni di carcere, in gran parte in regime d’isolamento e di privazione della privacy e dei più normali diritti garantiti ai detenuti. Nell’agosto del 2013 le era stata inflitta una sentenza di 35 anni da parte di un tribunale militare dopo che, su suggerimento dei suoi legali, si era dichiarata colpevole di 20 dei 22 capi d’accusa mossigli dal governo e dalle forze armate.
Com’è noto, Manning aveva fornito a WikiLeaks una mole enorme di materiale classificato sui crimini dell’imperialismo americano, documentando tra l’altro i retroscena delle guerre in Iraq e in Afghanistan e le manovre diplomatiche su scala mondiale di un governo che agisce costantemente in violazione dei principi democratici a cui sostiene di ispirarsi nelle relazioni con gli altri paesi.
La detenzione di Manning ha rappresentato di per sé un crimine, a cominciare dal trattamento riservatole in carcere. Nel 2012 anche il relatore delle Nazioni Unite per le torture, Juan Mendez, dopo una lunga indagine aveva accusato il governo americano di avere trattato Manning in maniera “crudele e disumana”, confinandola in una cella per 23 ore al giorno per 11 mesi nonostante fosse ancora in attesa del giudizio di un tribunale.
La vicenda dell’ex militare, che compirà 30 anni il prossimo mese di dicembre, aveva avuto dei risvolti ancora più drammatici a causa dei problemi psicologici legati alla propria identità sessuale, per i quali le autorità militari si sono sempre rifiutate di garantire i trattamenti richiesti.
Nell’ultimo anno, rinchiusa presso il carcere militare di Leavenworth, in Kansas, Manning aveva messo in atto uno sciopero della fame e, secondo i suoi legali, aveva tentato il suicidio in due occasioni, nel mese di luglio e ancora in quello di ottobre. Dopo il primo tentativo era stata condannata a 14 giorni di isolamento con l’accusa di avere tenuto una condotta che rappresentava un rischio per la sua stessa persona.
Proprio i tentativi di togliersi la vita e l’aggravamento delle condizioni mentali di Manning devono avere pesato sulla decisione di Obama di accorciare la sua pena detentiva. Vista la persistente popolarità dell’ex analista dell’esercito e le continue pressioni di attivisti e organizzazioni a difesa dei diritti civili, un eventuale suicidio in carcere avrebbe provocato uno scandalo e macchiato ulteriormente una presidenza già tra le più reazionarie della storia americana.
Obama, da parte sua, ha giustificato l’indulto a Manning con il fatto che quest’ultima ha già trascorso un lungo periodo in carcere e che i 35 anni inflitti erano oggettivamente esagerati, alla luce anche delle pene di gran lunga inferiori subite in passato da condannati per reati di spionaggio o per avere trafugato materiale governativo classificato.
Si deve ricordare che Manning passò a Wikileaks le immagini e le registrazioni audio che documentavano a Baghdad, nel 2007, l’assassinio di 12 civili innocenti e disarmati (fra loro due giornalisti della Reuters) e i commenti entusiasti e razzisti dei militari autori della strage.
La scelta di non cancellare la pena e la condanna che Manning aveva subito nel 2013 hanno comunque implicazioni non indifferenti, al di là del dato oggettivo più importante, ovvero la libertà riconquistata. Il solo accorciamento della pena lascia infatti intatto il precedente di una condanna durissima che voleva essere un avvertimento per quanti intendevano seguire l’esempio di Manning.
Inoltre, in questo modo Obama sperava forse di limitare le reazioni prevedibilmente ostili alla notizia dell’indulto da parte dell’apparato militare americano e dei leader del Partito Repubblicano. Sempre a questo fine, il presidente uscente nei giorni scorsi ha anche concesso la piena amnistia all’ex vice comandante di Stato Maggiore, generale James Cartwright, condannato per avere mentito ad agenti federali che indagavano su una fuga di notizie relativa a un cyber-attacco condotto dagli USA contro il programma nucleare dell’Iran.
Le polemiche non si sono comunque fatte attendere. L’amministrazione entrante di Donald Trump ha subito condannato la decisione di Obama, il cui portavoce ha peraltro fatto notare come le critiche all’indulto a Chelsea Manning contraddicano i commenti relativamente positivi del neo-presidente su WikiLeaks e Julian Assange.
I Repubblicani al Congresso si sono anch’essi scagliati contro Obama per avere garantito la libertà anticipata a quello che hanno bollato più o meno apertamente come “traditore”. Anche all’interno dell’amministrazione Democratica non deve esserci stato pieno accordo sull’indulto a Manning. I media americani hanno ad esempio scritto che il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva espresso parere negativo alla liberazione dell’ex militare.
Altri fattori possono avere influito sulla tardiva decisione di Obama, tutti riconducibili più che altro a ragioni di opportunismo. In primo luogo, la concessione della libertà anticipata a Manning serve a ridare una qualche credibilità al Partito Democratico - e allo stesso Obama - agli occhi dei suoi sostenitori “liberal”. Tanto più che il provvedimento può in qualche modo inserirsi nella strategia consolidata dei vertici Democratici di fare leva sulle questioni di genere e d’identità sessuale piuttosto che su quelle sociali, pacifiste o più generalmente legate ai diritti democratici.
Se è pratica comune che grazie, amnistie e indulti vengano concessi nelle ultime settimane dei mandati presidenziali negli Stati Uniti, è altrettanto vero che la decisione su Manning è stata presa da Obama solo dopo l’elezione di Trump al preciso scopo di ripulire l’immagine del suo partito una volta perduta la Casa Bianca. In altre parole, i Democratici non sono stati meno feroci dei Repubblicani nel condannare Manning, Wikileaks, Assange o Edward Snowden e, con ogni probabilità, se Hillary Clinton fosse stata eletta presidente molto difficilmente si sarebbe giunti al provvedimento di indulto di questa settimana.
Non solo: malgrado i distinguo proposti dall’amministrazione Obama, a rigor di logica la commutazione della pena di Manning avrebbe dovuto essere accompagnata da misure di clemenza per Snowden e Assange, la cui sorte dovrà invece confrontarsi con una nuova amministrazione che intende perseguire presunti “traditori” in maniera forse ancora più feroce.
Obama e il suo entourage devono avere avvertito anche l’aumentare delle pressioni a causa del diverso trattamento riservato a personalità militari di spicco che, come Manning, hanno passato informazioni riservate alla stampa o a individui non autorizzati a riceverle. Uno di questi è l’ex direttore della CIA, generale David Petraeus, il quale è andato incontro a trascurabili conseguenze legali per avere condiviso materiale segreto con la sua amante e biografa.
Da ultimo, non è escluso che Obama abbia deciso di graziare Manning in un estremo tentativo di mettere le mani su Julian Assange dopo che il fondatore di WikiLeaks aveva fatto sapere di essere disposto a consegnarsi alla giustizia americana se il presidente uscente avesse concesso l’amnistia a Manning.
Assange, tuttavia, ha escluso che il gesto di Obama sia sufficiente a spingerlo a rinunciare alla protezione che gli sta garantendo l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Infatti, hanno fatto sapere i suoi legali, il provvedimento a favore di Manning non prevede la libertà immediata né tantomeno l’amnistia e la conseguente estinzione totale del reato attribuitole, come appunto chiedeva più che ragionevolmente il numero uno di WikiLeaks.
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di Fabrizio Casari
Dopo 35 anni di carcere negli Stati Uniti, Oscar Lopez Rivera, leader indipendentista di Porto Rico, veterano della guerra in Vietnam e medaglia di bronzo al valor militare, è stato indultato dal presidente Obama. I trentacinque anni in carcere -13 dei quali in isolamento - Lopez Rivera li ha scontati per il delitto di sognare una patria libera dal protettorato statunitense. Nel 1981, infatti, ritenuto leader delle Forze Armate di Liberazione Nazionale, un gruppo clandestino che lottò per l’indipendenza dell’isola, venne accusato di “sedizione cospirativa” e condannato a 55 anni di carcere.
Nel 1988, accusato di un tentativo di fuga, ricevette una ulteriore condanna di 15 anni, il che elevò a 70 anni di carcere la pena complessiva. Una pena abnorme, per qualunque legislazione, a maggior ragione per quella statunitense. Oscar Lopez Rivera non ha mai commesso reati di sangue.
Fu solo nel 1999 che il Presidente Bill Clinton ritenne di dover muovere clemenza nei confronti di Oscar Lopez Rivera. Gli propose l’indulto per lui ma non per i suoi due compagni incarcerati. Lopez Rivera, semplicemente, rifiutò.
Nel 2011 decise di chiedere il perdono presidenziale a Barak Obama, visto che il Parole Board (l’organo amministrativo che stabilisce la possibilità per il detenuto di essere scarcerato sulla base della condotta tenuta e delle garanzie future circa il comportamento una volta libero ndr) aveva negato la possibilità di un provvedimento di scarcerazione a breve o medio termine. Se l’esponente indipendentista portoricano non avesse fatto richiesta di grazia a Obama, la sua scarcerazione sarebbe stata possibile solo nel 2023, ovvero quando Lopez Rivera compirà 80 anni.
Una vicenda, quella di Lopez Rivera, che ai meno giovani ricorderà quella di George Jackson e dei “Fratelli di Soledad", mentre dai meno adulti potrà essere considerata per molti aspetti simile a quella di Silvia Baraldini, incarcerata con una condanna spaventosa per reati associativi che non avevano prodotto nessun spargimento di sangue. Come nel caso di Oscar Lopez Rivera, anche la Baraldini rifiutò di voltare le spalle ai suoi compagni e fu per questo che la sua detenzione, nonostante le sue precarie condizioni di salute, si estese fino a quando il governo italiano riuscì a farla rientrare in patria.
Porto Rico, oltre ad essere un protettorato USA, è in sostanza una base militare della US Navy, visto che le sue installazioni coprono i quattro punti cardinali dell’isola, tristemente nota per essere stata una sorta di poligono militare statunitense. In particolare Viques, dove per anni, nonostante le ripetute proteste della popolazione (duramente represse), vennero testati proiettili all’uranio impoverito che determinarono una impennata straordinaria di linfomi, oltre che a vittime innocenti di errori di mira nelle esercitazioni. I soliti “danni collaterali”, insomma.
Per la liberazione del militante indipendentista si sono pronunciati numerose associazioni, avvocati, giornalisti e organizzazioni umanitarie, ma Obama ha avuto bisogno di quasi 6 anni per chiudere il dossier vergognoso della carcerazione dura di un uomo il cui unico obiettivo è sempre stato la richiesta d’indipendenza del suo paese.
Tra le figure più importanti che si sono mobilitate per la libertà di Lopez Rivera, c’è quella del Comandante Daniel Ortega, Presidente del Nicaragua, che ha ripetutamente richiesto a Obama un provvedimento di clemenza. Le occasioni più recenti sono state l’anniversario della Rivoluzione Sandinista, il 19 Luglio del 2016 e, ultima in ordine di tempo, il suo intervento di pochi giorni orsono alla chiusura dei lavori del Foro di Sao Paulo, l’organismo che riunisce la sinistra di tutto il continente latinoamericano.
Qui, il Comandante Ortega ha rivolto un suo accorato appello a Obama affermando: “Mi appello al Presidente Obama affinché liberi il patriota di Puerto Rico, Oscar Lopez Rivera. Obama ha dato continuamente indulti, l’ultimo per il fine anno 2016. Bene, prima di lasciare la Casa Bianca, chiedo al Presidente Obama che liberi Oscar Lopez Rivera”. Così è stato, Obama ha voluto accogliere la richiesta di Ortega e dei numerosi intellettuali e giuristi che per decenni hanno considerato la pena inflitta al patriota portoricano un insulto al buon senso e alla ragionevolezza.
L’indulto di Obama a Lopez Rivera, così come quello a Manning, la “gola profonda” di Wikileaks, aggiungono comunque indubbio valore all’uscita di scena di una presidenza che avrebbe però potuto e dovuto operare in questo senso ben prima dei suoi ultimi giorni. Anche solo per sfuggire alle malevoli interpretazioni che vedono le due misure più come trappole politiche per il presidente entrante che non come espressione autentica di generosità e ravvedimento da parte di quello uscente.
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di Mario Lombardo
Una grave crisi politica è esplosa nei giorni scorsi in Irlanda del Nord in seguito alle dimissioni improvvise del vice primo ministro nel governo di “unità nazionale” di Belfast, Martin McGuinness, del partito nazionalista repubblicano Sinn Fein. Oltre che dalle sue precarie condizioni di salute, la decisione del 66enne ex comandante della “Provisional IRA” è motivata ufficialmente da uno scandalo finanziario nel quale è coinvolta il primo ministro unionista, Arlene Foster, ma dietro alla vicenda che porterà a elezioni anticipate agiscono fattori legati a questioni politiche ed economiche di portata decisamente più ampia.
Il 9 gennaio McGuinness aveva annunciato l’addio a un incarico che ricopre praticamente in maniera ininterrotta dal maggio del 2007. Il gesto era giunto in segno di protesta contro la gestione di uno scandalo esploso attorno a un programma di incentivi fiscali, lanciato dal governo di Londra, che intendeva promuovere l’utilizzo di biomassa per il riscaldamento.
Al contrario di quanto previsto in Gran Bretagna, in Irlanda del Nord il programma non aveva limiti, così che numerose aziende e fattorie bruciavano di fatto quanto più combustibile “verde” possibile in modo da incassare i generosi sussidi governativi. Il piano, introdotto nel novembre del 2012, era amministrato a Belfast dal ministero per le Imprese, il Commercio e gli Investimenti, alla cui guida vi era appunto l’attuale primo ministro del Partito Unionista Democratico (DUP). Il danno stimato per le casse pubbliche nordirlandesi è stato alla fine di circa 500 milioni di sterline.
Le dimissioni di McGuinness hanno subito messo a rischio il governo di coalizione. Infatti, secondo quanto stabilito dai cosiddetti accordi del Venerdì Santo (“Good Friday”) del 1998, che hanno messo fine ufficialmente ai “Disordini” (“Troubles”), il partito del vice primo ministro dimissionario, così come eventualmente quello di un primo ministro che intendesse lasciare, ha sette giorni di tempo per nominare il suo sostituto. Se ciò non avviene, come aveva immediatamente fatto sapere il Sinn Fein settimana scorsa, il segretario di stato del governo di Londra per l’Irlanda del Nord è tenuto a indire nuove elezioni.
Il voto è stato così fissato per il prossimo 2 marzo, cioè appena dieci mesi dopo le ultime elezioni per l’Assemblea nordirlandese che aveva dato vita all’attuale governo del DUP e del Sinn Fein. Il principale partito unionista ha duramente criticato il proprio partner di governo, accusandolo di opportunismo e di volere capitalizzare a fini politici la polemica sul programma di incentivi ai consumi di carburanti non inquinanti.
Oltre a quest’ultima vicenda e al rifiuto del primo ministro di autosospendersi in attesa di indagini, nella sua lettera di dimissioni McGuinness ha indicato anche altre ragioni per la decisione di abbandonare il governo. L’ormai ex vice primo ministro ha accusato il DUP di “settarismo” e di incapacità di riconoscere la rabbia verso le istituzioni diffusa tra la popolazione nordirlandese. McGuinness ha inoltre puntato il dito contro il governo Conservatore di Londra, responsabile dell’imposizione della “Brexit” e di politiche di austerity in Irlanda del Nord.
Gli sviluppi di questi giorni hanno evidentemente colto di sorpresa sia i leader unionisti nordirlandesi, sia il governo della Repubblica d’Irlanda e quello di Londra. I rispettivi esponenti hanno manifestato preoccupazione per la crisi politica che ne è scaturita, dal momento che il malcontento a cui ha fatto riferimento McGuinness rischia di far salire le tensioni sociali in quella che è già la parte più povera di tutto il Regno Unito.
Il ministro per l’Irlanda del Nord, James Brokenshire, ha tenuto così a sottolineare che il governo britannico non prevede di tornare a imporre il proprio controllo diretto su Belfast, bensì intende assicurare che la “devoluzione” sopravviva alle elezioni anticipate. Gli stessi primi ministri di Gran Bretagna e Irlanda, Theresa May e Enda Kenny, avevano parlato con i leader del Sinn Fein e del DUP per convincerli a ricucire lo strappo e a evitare il voto.
L’asprezza dei toni tra i due partiti di governo rende però tutt’altro che certa l’ipotesi di un nuovo gabinetto di “unità nazionale”, sempre che Sinn Fein e DUP si confermino come le principali forze politiche nordirlandesi. L’eventuale impossibilità di raggiungere un accordo comporterebbe perciò il ritorno del governo diretto di Londra, con tutte le conseguenze politiche del caso. Il partito Social Democratico e Laburista (SDLP) di opposizione, ad esempio, ha fatto sapere di non volere accettare il controllo del governo May dopo il voto sulla “Brexit”, contro cui ha votato la maggioranza degli elettori in Irlanda del Nord.
Agli scenari destabilizzanti che produrrebbe la sospensione dell’auto-governo ha fatto riferimento il ministro Brokenshire a inizio settimana, quando ha invitato a “non sottovalutare le sfide” che dovranno affrontare nelle prossime settimane “le istituzioni politiche in Irlanda del Nord”. Non solo, l’esponente del governo di Londra ha assicurato che la crisi politica in atto non avrà effetti sui piani del primo ministro May per l’attivazione dell’articolo 50 che innescherà appunto la “Brexit”.
Sul possibile esito del voto, in questi giorni tra i commentatori nordirlandesi ha prevalso l’incertezza. Soprattutto, la comunità unionista non si aspettava un’elezione in tempi così brevi e in molti si chiedono quali saranno i riflessi dello scandalo che ha coinvolto il primo ministro Foster e, forse ancor più, dell’implementazione di politiche economiche impopolari.
Lo sfidante principale del DUP per i voti unionisti è il Partito Unionista dell’Ulster (UUP). Il suo leader, Mike Nesbitt, ha cercato di inquadrare il voto dei primi di marzo nell’ondata di proteste contro i governi in carica che sta caratterizzando gli appuntamenti elettorali in Europa e dall’altra parte dell’Atlantico. L’UUP cerca in sostanza di proporsi come alternativa di governo al DUP assieme alle altre forze di opposizione nazionaliste o non settarie, come l’SDLP e il Partito dell’Alleanza dell’Irlanda del Nord.
Un altro fattore decisivo da considerare sarà il livello di astensione che potrebbe penalizzare proprio i partiti di opposizione. Per il Belfast Telegraph, il numero di nordirlandesi che disertano le urne sarebbe aumentato del 15% negli ultimi anni e un’astensione di massa non sarebbe esattamente un attestato di fiducia nel DUP, anche in caso di vittoria di quest’ultimo partito.
Per quanto riguarda il Sinn Fein, la mossa che ha innescato il voto anticipato sembra essere una vera e propria scommessa. Il partito di Martin McGuinness e Gerry Adams, da qualche anno impegnato politicamente nella Repubblica d’Irlanda, deve far fronte alla sfida da sinistra dell’Alleanza Popolo Prima del Profitto, già in grado di conquistare due seggi nelle elezioni del maggio 2016.
Se, ovviamente, il Sinn Fein non perderà voti a favore dei partiti unionisti, nondimeno la permanenza in nome della stabilità per oltre un decennio nei governi di “unità nazionale”, screditati dalle politiche liberiste adottate e da numerosi scandali ed episodi di corruzione che hanno coinvolto il DUP, potrebbe deprimere l’elettorato repubblicano, facendo alzare l’astensionismo o il voto di protesta.
Il fatto che il Sinn Fein abbia considerato ormai insostenibile la situazione attuale dipende principalmente da due considerazioni. In primo luogo le frustrazioni diffuse per il continuo aumentare delle disuguaglianze sociali in Irlanda del Nord hanno inevitabilmente messo il partito in una posizione scomoda che, se mantenuta, avrebbe prodotto un’emorragia di consensi in prospettiva futura. Tanto più che il Sinn Fein continua a proporsi come forza di opposizione anti-austerity nella Repubblica d’Irlanda.
L’altro fattore è legato invece alla “Brexit”, tra i partiti principali appoggiata in Irlanda del Nord solo dal DUP. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea rischia di aggravare la crisi economica e sociale in Irlanda del Nord. Non solo gli aiuti europei potrebbero svanire, ma anche il ristabilimento di un confine a tutti gli effetti con il vicino meridionale avrebbe un impatto negativo sul fronte economico, soprattutto se, come ha affermato proprio martedì Theresa May, il governo di Londra sarà costretto ad accettare una “hard Brexit” con l’addio all’accesso al mercato unico europeo.
La scommessa del Sinn Fein è connessa dunque ai processi che si innescheranno con l’inizio delle trattative per la “Brexit” e alle tensioni politiche e sociali che si rifletteranno anche in Irlanda del Nord. Che la mossa di McGuinness porti benefici al suo partito e stabilità in Irlanda del Nord sembra a molti quanto meno dubbio, ma gli scenari interni ed esterni potrebbero cambiare rapidamente nelle prossime sei settimane.