di Michele Paris

In un’apparizione a sorpresa davanti ai giornalisti, questa settimana il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, ha offerto una visione relativamente conciliante delle varie crisi che si stanno accumulando sullo scacchiere internazionale e che vedono coinvolti gli Stati Uniti. Durante l’intervento, il numero uno della diplomazia USA ha prospettato la possibilità di aprire un dialogo con i propri rivali, a cominciare dalla Corea del Nord, anche se in parallelo alle sue dichiarazioni la stampa d’oltreoceano scriveva di un’amministrazione Trump ormai pronta a lanciare una vera e propria guerra commerciale contro la Cina.

Per Tillerson, Washington non avrebbe intenzione di rovesciare il regime di Pyongyang, né di forzare la riunificazione della penisola di Corea o di “trovare una scusa per inviare i nostri militari a nord del 38esimo parallelo”. Le ripetute provocazioni americane di questi mesi servirebbero perciò a far capire ai nordcoreani che gli Stati Uniti “non sono il nemico né rappresentano una minaccia”.

L’escalation diplomatica e militare degli USA, in sostanza, sarebbe la conseguenza del comportamento “inaccettabile” del regime stalinista di Kim Jong-un, al quale Washington non può che rispondere adeguatamente. La speranza di Tillerson sarebbe che, “a un certo punto”, la Corea del Nord finisca per “comprendere e decida di sedersi al tavolo delle trattative”.

Se i toni di Tillerson sono apparsi più pacati rispetto alle uscite anche delle ultime ore di altri membri dell’amministrazione Trump, le parole pronunciate davanti alla stampa al dipartimento di Stato ribadiscono il punto centrale della strategia americana relativa alla Corea del Nord.

La responsabilità della crisi in atto sarebbe cioè da attribuire interamente a Pyongyang, così come all’alleato cinese, e, di conseguenza, lo sblocco dello stallo dipende dalla disponibilità del regime di Kim a fare un passo indietro, a prescindere dall’atteggiamento del governo USA.

Tillerson ha poi ammesso che i rapporti tra il suo paese e la Cina stanno attraversando un momento molto difficile, ma ha provato a individuare un percorso di distensione, se non altro di convenienza, visti i legami economici e commerciali tra le due potenze, che possa evitare un “conflitto aperto”.

Tutta la conferenza stampa del segretario di Stato americano è stata condotta all’insegna di una moderata apertura ai rivali degli USA e, allo stesso tempo, dell’ammissione delle difficoltà nel risolvere pacificamente i conflitti internazionali.

La relativa moderazione di Tillerson è da un lato il segnale della parziale diversità di vedute, ammessa dallo stesso ex “CEO” di ExxonMobil, tra lui e il presidente Trump su alcune questioni di politica estera. Dall’altro, però, si è evidentemente in presenza del solito gioco delle parti che caratterizza il comportamento del governo di Washington, apparentemente aperto a qualsiasi soluzione pacifica, ma in realtà intento a manovrare per orientare i conflitti secondo i propri interessi.

Anche sulla Russia, infatti, Tillerson non ha nascosto la spirale negativa che hanno imboccato i rapporti bilaterali, dicendosi però convinto dell’impossibilità di un tracollo completo delle relazioni con la seconda potenza nucleare del pianeta.

Se all’interno dell’amministrazione Trump, così come nell’apparato militare e dell’intelligence americano, vi sono voci che auspicano un accomodamento con paesi come Russia o Cina, è altrettanto vero che le sezioni dell’establishment che spingono per lo scontro sono altrettanto attive e, anzi, prevalenti.

Proprio mentre Tillerson esponeva la sua visione relativamente moderata, sulla stampa americana sono apparse due rivelazioni che hanno dipinto un’amministrazione Trump con ben altre inclinazioni. Come già ricordato, la Casa Bianca starebbe per aprire una “indagine” sulle pratiche commerciali cinesi e, sulla base di una legge americana del 1974, adottare provvedimenti contro Pechino per la possibile violazione dei diritti di proprietà intellettuale, in particolare nel settore tecnologico.

Se, poi, Tillerson aveva detto che gli Stati Uniti non intendono incolpare la Cina per la situazione nella penisola di Corea, qualche giorno fa Trump aveva invece puntato il dito su Twitter proprio contro il governo di Pechino per non avere fatto nulla per risolvere la questione a favore degli USA.

Anche per quanto riguarda la Russia non mancano i messaggi conflittuali da Washington. A fare da contrappunto alle parole del numero uno del dipartimento di Stato sono giunte rivelazioni sulle intenzioni della Casa Bianca di autorizzare la fornitura di armi non solo “difensive” alle forze armate ucraine e alle milizie di estrema destra sorte dopo il golpe neo-fascista orchestrato a Kiev nel 2014. La sola ipotesi, com’era prevedibile, ha subito suscitato accese proteste da parte di Mosca.

Malgrado le timide aperture di Tillerson, gli scenari di crisi a livello internazionale continuano a registrare segnali tutt’altro che positivi. I due paesi al centro delle trame americane – Cina e Russia – hanno infatti entrambi mostrato i muscoli in questi giorni, facendo capire di essere intenzionati a non accettare pacificamente le politiche sempre più aggressive di Washington.

In Cina, il presidente Xi Jinping ha partecipato a una massiccia sfilata dell’Esercito Popolare di Liberazione in occasione del 90esimo anniversario della sua fondazione. Durante l’evento, già di per sé una chiara prova di forza, Xi ha affermato la volontà dell’esercito e del Partito Comunista di proteggere la sovranità cinese ad ogni costo e ovunque possa essere messa a rischio.

Mosca, invece, dopo l’ordine di Putin di ridurre di oltre 750 unità il personale impiegato presso le rappresentanze diplomatiche americane in Russia in seguito all’adozione di nuove sanzioni da parte del Congresso USA, ha annunciato un’esercitazione militare in Bielorussa per il mese di settembre.

Se le manovre in programma sono soltanto la risposta a quelle ben più massicce dei paesi NATO ai confini russi, esse hanno prevedibilmente fatto impennare i livelli di isteria dei governi occidentali e dei paesi baltici, tutti pronti a cogliere la palla al balzo per ingigantire ancora una volta la fantomatica minaccia di una possibile invasione russa.

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