di Michele Paris

La penisola di Corea è da qualche settimana tornata al centro di delicate vicende internazionali che minacciano l’esplosione di un conflitto nel quale potrebbero essere facilmente coinvolte potenze nucleari come Cina e Stati Uniti. A riaccendere gli animi in Estremo Oriente è stato l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump e il suo immediato innalzamento dei toni nei confronti sia di Pechino sia di Pyongyang, da dove continuano a giungere segnali tutt’altro che distensivi in risposta al persistente senso di accerchiamento del regime stalinista di Kim Jong-un.

Le tensioni già alle stelle sono state alimentate direttamente da Washington nella giornata di martedì, quando è circolata la notizia dell’inizio dell’installazione in territorio sudcoreano del sistema antimissilistico americano THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”). Questo impianto è stato fortemente voluto dal governo USA e serve a intercettare missili balistici a corto e medio raggio. Ufficialmente, il sistema dovrebbe proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi del vicino settentrionale e la sua installazione è stata infatti accelerata in seguito ai recenti test missilistici condotti da Pyongyang.

In realtà, il THAAD rientra nel quadro della strategia americana anti-cinese nel continente asiatico o, meglio, nei preparativi di guerra in atto da tempo contro Pechino. Il governo di questo paese è perfettamente cosciente della minaccia che il THAAD in Corea del Sud rappresenta per la propria sicurezza, dal momento che esso ridimensionerebbe in modo significativo il potenziale militare cinese.

Da Pechino sono state esercitate parecchie pressioni su Seoul per far naufragare il progetto antimissilistico americano, sfruttando i legami economici sempre più intensi tra i due paesi. I media ufficiali cinesi hanno da parte loro orchestrato una campagna per boicottare le aziende e i prodotti coreani. In particolare, di recente era stata presa di mira la catena di supermercati Lotte, la quale aveva venduto al governo di Seoul il terreno che dovrebbe ospitare il THAAD. Un ex generale dell’esercito cinese, in un commento pubblicato sulla testata on-line Global Times, aveva addirittura ipotizzato un attacco militare mirato in territorio sudcoreano per mettere fuori uso il THAAD.

L’implementazione del sistema antimissile, anche se già negoziata dall’amministrazione Obama, era apparsa subito una priorità di Trump, tanto che il suo segretario alla Difesa, James Mattis, aveva raccomandato al governo sudcoreano di stringere i tempi nel corso di una visita a Seoul lo scorso mese di febbraio. Una portavoce del contingente militare americano in Corea del Sud ha confermato che il primo dei cinque componenti del THAAD è giunto nel paese asiatico lunedì, mentre saranno necessari un paio di mesi per rendere il sistema completamente operativo.

L’insistenza americana è dovuta anche alle preoccupazioni legate all’incerta situazione politica in Corea del Sud. Il processo di impeachment che sta coinvolgendo la deposta presidente, Park Geun-hye, potrebbe portare a elezioni anticipate e al potere di qui a pochi mesi l’attuale opposizione di centro-sinistra contraria all’installazione del THAAD.

L’annuncio dell’inizio dei lavori ha seguito di un solo giorno il lancio di quattro missili balistici da parte del regime nordcoreano, tre dei quali precipitati in mare all’interno della cosiddetta “zona economica esclusiva” del Giappone. L’iniziativa è stata prevedibilmente bollata come l’ennesima irresponsabile provocazione di Kim. In realtà, essa non è altro che la risposta del regime all’annuale esercitazione militare “Foal Eagle” tra Stati Uniti e Corea del Sud.

Queste manovre sono sempre più imponenti e minacciose di anno in anno e prevedono ormai quasi apertamente prove di aggressione “preventiva” contro la Corea del Nord. A ciò va aggiunta poi la notizia, pubblicata dal Wall Street Journal settimana scorsa, che l’amministrazione Trump starebbe valutando la stesura di piani militari per rovesciare il regime di Kim nel quadro della nuova strategia USA nei confronti di Pyongyang.

Di fronte a queste minacce, il comportamento della cerchia di potere nordcoreana appare meno irrazionale di quanto sostengano i governi e i media occidentali. Detto questo, è altrettanto evidente che il militarismo e le provocazioni di Kim non fanno altro che aggravare la situazione nella penisola coreana, visto che forniscono continue occasioni agli Stati Uniti per rafforzare la propria posizione nella regione e, soprattutto, per esercitare pressioni sulla Cina, unico vero alleato di Pyongyang.

In questo quadro va inserita anche la vicenda dell’assassinio del fratellastro del leader nordcoreano, Kim Jong-nam, all’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malaysia, con una sostanza tossica che gli è stata fatta inalare da due donne successivamente arrestate dalle autorità locali.

Il caso ha provocato un vero e proprio scontro diplomatico tra i due paesi, aggravatosi questa settimana dopo i provvedimenti adottati dai rispettivi governi. La Corea del Nord ha sempre respinto le conclusioni preliminari della Malaysia, chiedendo il corpo del fratellastro di Kim. Il governo malese è invece sulle tracce di sette cittadini nordcoreani che ritiene coinvolti nell’omicidio.

Tre di questi ultimi sarebbero ancora nel paese del sud-est asiatico e, secondo il governo malese, si troverebbero all’interno dell’ambasciata della Corea del Nord a Kuala Lumpur. Per questa ragione, la Malaysia ha deciso lunedì di espellere l’ambasciatore nordcoreano. A questa decisione è subito seguito un uguale provvedimento da parte di Pyongyang, anche se il primo rappresentate diplomatico malese in Corea del Nord era già stato richiamato in patria giorni fa.

Martedì, poi, il regime nordcoreano ha emesso un ordine di divieto di lasciare il paese per undici cittadini malesi, almeno fino a quando “l’incidente [dell’assassinio di Kim Jong-nam] non sarà risolto in maniera appropriata”. Il primo ministro malese, Najib Razak, ha reagito duramente alla misura decisa dalla Corea del Nord, accusando il regime di “tenere di fatto i nostri cittadini in ostaggio”.

In precedenza, le autorità della Malaysia avevano fatto sapere di avere aperto indagini su compagnie nordcoreane attive all’interno dei propri confini, gestite da spie e operanti clandestinamente nel traffico di armi. La Malaysia è uno dei pochi paesi, oltre alla Cina, ad avere rapporti cordiali con la Corea del Nord, ma le relazioni bilaterali si sono seriamente aggravate dopo la morte di Kim Jong-nam.

Molti aspetti dell’assassinio continuano a essere avvolti nel mistero e, al di là degli esecutori materiali, le ragioni che possono avere motivato un’operazione di questo genere sono difficili da individuare. La totale assenza di scrupoli del regime di Kim Jong-un potrebbe benissimo spiegare quanto accaduto all’aeroporto di Kuala Lumpur.

Il fratellastro del dittatore potrebbe essere stato ucciso perché rappresentava una potenziale alternativa “moderata” all’attuale regime, visto che in passato si era espresso, sia pure in modo prudente, a favore di un percorso “riformista” simile a quello cinese per il suo paese di origine. In particolare, Kim Jong-nam sembrava essere gradito da molti all’interno del governo di Pechino, il quale gli aveva garantito protezione nella sua vita da esule a Macao.

Anche se Kim Jong-nam aveva sempre escluso di essere interessato a svolgere un ruolo politico in Corea del Nord, la sua morte potrebbe essere un avvertimento, lanciato da Pyongyang a Pechino, a evitare qualsiasi trama volta a installare un regime più “responsabile” di quello attualmente al potere.

D’altro canto, è altrettanto evidente che un’operazione di questo genere comportava rischi non indifferenti, visto anche il momento estremamente delicato che la Corea del Nord sta attraversando dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. È difficile cioè credere che il regime non abbia considerato che l’assassinio in circostanze così clamorose del fratellastro di Kim, oltretutto in un paese “amico”, avrebbe suscitato una valanga di condanne internazionali, aumentando ancor più il cronico isolamento in cui si trova il paese.

Se le teorie cospirazioniste promosse principalmente proprio dalla Corea del Nord vanno prese quanto meno con cautela, il nuovo prevedibile putiferio scatenato su Pyongyang dalla morte di Kim Jong-nam ha contribuito ad alimentare il clima ostile verso il regime e a giustificare iniziative come quella dell’accelerazione dei lavori per l’installazione del sistema antimissilistico americano in Corea del Sud.

D’altra parte, subito dopo la diffusione della notizia dell’assassinio del fratellastro di Kim, i servizi segreti sudcoreani si erano affrettati ad annunciare che le responsabilità dell’operazione erano da attribuire al regime di Pyongyang. La presa di posizione era apparsa quanto meno sospetta, visto che le autorità malesi non si erano ancora espresse ufficialmente, e poteva sembrare un modo per far cadere qualsiasi ipotesi alternativa a quella proposta da Seoul.

Quale che sia la verità dietro ai fatti di Kuala Lumpur, essi sono stati comunque sfruttati da quanti si oppongono al regime nordcoreano e a quello cinese, così da aggravarne l’isolamento internazionale e contribuire a gettare le basi per la legittimazione di una possibile aggressione militare nel prossimo futuro.

di Michele Paris

Mentre il presidente americano Trump ha firmato nella giornata di lunedì un nuovo ordine esecutivo per tenere fuori dagli Stati Uniti i cittadini di sei paesi a maggioranza musulmana, l’eco delle polemiche sull’accusa rivolta a Obama di avere ordinato l’intercettazione delle sue comunicazioni telefoniche non si è ancora spenta.

Il nuovo capitolo dello scontro in atto tra la Casa Bianca e gli oppositori della nuova amministrazione è solo l’ultima delle situazioni virtualmente senza precedenti registrate nelle ultime settimane. Ciò è la dimostrazione degli effetti laceranti che continuano a produrre sulla classe dirigente degli Stati Uniti il declino della posizione internazionale della prima economia del pianeta e le posizioni divergenti in merito alle decisioni in materia di politica estera che dovranno essere prese nei prossimi mesi.

In maniera poco sorprendente, Trump non ha presentato nessuna prova del presunto ordine di sorveglianza ai suoi danni che l’ex presidente Democratico avrebbe sottoscritto prima delle elezioni del novembre scorso. Le accuse a Obama erano state espresse in alcuni tweet scritti da Trump sabato scorso e poi seguite dalla richiesta del suo portavoce, Sean Spicer, di un’indagine del Congresso nel quadro di quella già annunciata sui rapporti con il governo russo del presidente e di alcuni membri del suo staff.

Singolarmente, i media ufficiali negli Stati Uniti hanno criticato Trump a causa dell’assenza di prove a supporto delle sue accuse, nonostante la vera e propria caccia alle streghe in atto da mesi sull’interferenza russa nelle elezioni americane sia basata allo stesso modo su dichiarazioni e rapporti di esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale finora non confermati da nessun fatto concreto.

Vista la scarsa attitudine di Trump per la verità, è del tutto possibile che le recenti accuse a Obama siano un’invenzione per contrattaccare alle accuse sui suoi legami con Mosca. In molti hanno attribuito la mossa di Trump contro il suo predecessore al consigliere neo-fascista del presidente, Stephen Bannon. Ciò sembra avere una qualche attendibilità, anche perché il sito web di estrema destra che Bannon dirigeva prima di essere assunto da Trump, Breitbart News, il giorno prima dei già ricordati tweet del presidente aveva ipotizzato l’esistenza di un’operazione clandestina per sorvegliare l’allora candidato Repubblicano alla Casa Bianca.

L’inclinazione di Breitbart per le tesi cospirazioniste è ben nota, così come quella di altre fonti ultra-conservatrici che avevano ispirato l’articolo in questione. Tuttavia, alcuni dei precedenti che hanno fatto da sfondo alle accuse di svariate pubblicazioni di estrema destra contro Obama sono reali e sollevano più di un interrogativo.

Nel periodo precedente alle presidenziali, ad esempio, l’FBI aveva esaminato dei dati relativi a un “flusso di attività” tra un server usato dalla campagna di Trump e la banca russa Alfa Bank, i cui vertici, secondo i giornali americani, avrebbero stretti legami con il presidente Putin. Per questa indagine non ci sarebbero prove che l’FBI abbia ottenuto un mandato per intercettare il traffico di dati, anche se almeno una testata on-line di estrema destra lo aveva dato per certo.

Ancora, l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, generale Michael Flynn, era stato costretto alle dimissioni dopo che era emersa una discussione con l’ambasciatore russo a Washington sul possibile allentamento delle sanzioni imposte da Obama contro Mosca. Flynn era stato intercettato dall’FBI e, essendo implicato nella vicenda un membro di un governo estero, è estremamente probabile che in questo caso fosse stata richiesta e ottenuta un’autorizzazione al tribunale speciale per la sorveglianza (FISC).

Già a gennaio, inoltre, i britannici Guardian e BBC avevano citato due casi relativi ad altrettante richieste di sorveglianza da parte di agenzie federali ai danni di individui dell’entourage di Trump sospettati di avere legami con la Russia e perciò oggetto di indagini.

In definitiva, malgrado le smentite dei portavoce e di ex membri dell’amministrazione Obama, questi fatti indicano l’esistenza di un quadro investigativo, fatto anche di intercettazioni, diretto contro Trump e i suoi possibili rapporti con Mosca che non può fare escludere del tutto la possibilità che lo stesso attuale presidente sia stato tenuto sotto controllo dall’intelligence.

Coloro che respingono questa tesi fanno notare come non ci sia evidenza dell’iter legale che avrebbe portato al rilascio di un’autorizzazione specifica all’intercettazione. Tuttavia, visti i precedenti, prendere per buone le rassicurazioni sul fatto che Obama non abbia mai ordinato o avallato la sorveglianza di cittadini americani o che ciò non possa essere avvenuto in maniera illegale rappresenta un atto di estrema ingenuità. Soprattutto alla luce della gravità dello scontro che si sta verificando ai vertici dello stato americano.

La pesantezza del clima che si respira a Washington è risultata evidente anche domenica in seguito alla notizia che il direttore dell’FBI, James Comey, avrebbe chiesto, senza successo, al dipartimento di Giustizia di smentire le dichiarazioni di Trump sull’ordine di intercettazione di Obama. Anche il gesto del numero uno della polizia federale americana, così come quello del giorno prima di Trump, è stato estremamente insolito e sarebbe stato dettato dal timore che l’FBI venisse accusato di avere agito illegalmente.

Secondo il New York Times, i vertici dell’FBI non avevano inoltre richiesto nessun mandato per mettere sotto controllo i telefoni di Trump perché, se avessero fatto ciò, avrebbero “alimentato aspettative sul fatto che le autorità federali erano in possesso di prove significative” per collegare il presidente alla mai dimostrata campagna di Mosca volta a influenzare le elezioni. Prove che, evidentemente, nonostante il putiferio mediatico di queste settimane sembrano essere inesistenti.

Queste ultime vicende confermano ad ogni modo come la battaglia interna all’apparato di potere americano sia tutt’altro che risolta a meno di una settimana dall’intervento di Trump al Congresso che aveva generato commenti largamente positivi anche dai media che lo avevano attaccato sulla questione russa.

Già un paio di giorni dopo il discorso del presidente, il Washington Post era tornato infatti alla carica affermando che il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, prima delle elezioni dello scorso anno aveva incontrato in un paio di occasioni l’ambasciatore russo negli USA, senza informarne i membri della commissione del Senato incaricata di ratificare la sua nomina.

Sotto le pressioni della stampa, del Partito Democratico e di una parte di quello Repubblicano, Sessions aveva finito per chiamarsi fuori dall’indagine sulle presunte interferenze russe che dovrà condurre il suo dipartimento, smentendo di fatto un Trump che poco prima si era invece schierato a difesa del suo operato.

Le tensioni che stanno esplodendo negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca sono la manifestazione di un conflitto che si sta consumando attorno alle priorità strategiche di Washington. Gli oppositori del presidente, in particolare nel Partito Democratico e sui media “liberal”, stanno cercando di convogliare le fortissime resistenze contro un’amministrazione di estrema destra verso una campagna anti-russa di stampo “maccartista” per ragioni ben precise.

Da un lato, questi ultimi intendono dare voce agli ambienti militari e dell’intelligence che hanno investito enormemente nella demonizzazione e nell’offensiva contro gli interessi della Russia, considerata il principale ostacolo alle mire strategiche americane, ostacolando perciò qualsiasi riavvicinamento a Mosca. Dall’altro, l’obiettivo è quello di impedire che il movimento di protesta popolare contro Trump assuma caratteri progressisti, ma venga piuttosto imbrigliato in un’agenda ugualmente reazionaria e guerrafondaia.

Così facendo, continua a non esservi quasi traccia di una reale opposizione politica all’ondata di iniziative ultra-reazionarie già adottate o promesse dal neo-presidente in queste prime settimane del suo mandato alla guida degli Stati Uniti.

di Michele Paris

La prima apparizione in assoluto di Donald Trump di fronte ai due rami del Congresso di Washington è stata giudicata quasi all’unanimità dalla stampa ufficiale americana come uno sforzo, fatto dal neo-presidente degli Stati Uniti, per attenuare i toni delle ultime settimane e, assieme, per cercare un qualche accordo bipartisan con l’opposizione Democratica.

Ad apparire a tratti diversa nel discorso di Trump è stata però solo la forma, caratterizza di solito da aggressività e confusione. Nella sostanza, l’inquilino della Casa Bianca ha di fatto ribadito i principi di un’agenda ultra-nazionalista e reazionaria, fatta di tagli alle tasse per i più ricchi e ai programmi di assistenza sociale, di aumento delle spese militari e di guerra aperta agli immigrati.

La stampa USA ha ammesso che nel suo intervento nella serata di martedì, Trump ha più che altro “smussato gli angoli”, come ha sostenuto ad esempio un’analisi del sito Politico.com, mentre non sono cambiati i contenuti delle sue proposte. Malgrado ciò, titoli e commenti apparsi anche sui media “liberal” hanno dato in prevalenza un rilievo positivo al discorso, a conferma che le differenze e i contrasti tra i vari schieramenti politici americani, e tra questi e il presidente, risultano soprattutto di natura tattica e non sostanziale.

L’apparizione di Trump al Congresso era stata anticipata dall’annuncio di una proposta della Casa Bianca per un nuovo incremento degli stanziamenti destinati all’apparato militare e della sicurezza nazionale. Il possibile aumento di oltre 50 miliardi di dollari di un bilancio già esorbitante sarebbe da compensare con tagli ai fondi destinati a svariati ministeri e agenzie federali, ma anche ai programmi sociali di anno in anno finanziati da delibere del Congresso.

Nel discorso di martedì, i riferimenti a questa iniziativa sono stati minimi, mentre Trump ha lasciato intendere che la Casa Bianca e il Congresso dovranno farsi carico anche della “riforma”, ovvero del drastico ridimensionamento, dei programmi esclusi dalla recente proposta di bilancio, cioè i popolari Medicare, Medicaid e Social Security.

Una parte importante dell’intervento è stata dedicata invece alla questione dei migranti. Trump ha citato con compiacimento il giro di vite in atto nel paese contro i “clandestini”, di fatto criminalizzati in maniera indistinta. Per molti commentatori, il presidente Repubblicano avrebbe però anche mostrato una certa disponibilità a modificare alcune misure contenute nel famigerato bando anti-immigrati firmato qualche settimana fa e bloccato dai giudici federali.

Queste presunte aperture erano state anticipate in un’intervista a FoxNews trasmessa poche ore prima del discorso al Congresso e prevedrebbero il mantenimento del flusso migratorio per i lavoratori altamente qualificati e un possibile limite alle deportazioni per coloro che vivono da anni negli Stati Uniti senza avere commesso crimini.

Qualsiasi ipotesi di moderazione sulla questione migratoria è comunque smentita dal fatto che, proprio in questi giorni, l’amministrazione Trump sta preparando una nuova versione del bando che vieta l’ingresso negli USA ai cittadini di determinati paesi a maggioranza musulmana.

Le concessioni fatte da Trump in questo e in altri ambiti, se pure possono essere considerate tali, sono decisamente trascurabili e, perciò, l’attitudine in genere positiva di stampa e politici nei suoi confronti, mostrata dall’uso frequente dell’aggettivo “presidenziale” per definire il suo intervento, risulta particolarmente insidiosa.

Nel complesso, il relativo abbassamento dei toni di Trump davanti al Congresso è una mossa studiata a tavolino per cercare di attenuare la valanga di polemiche e contenere le proteste popolari provocate dalla sua condotta fin dall’insediamento alla Casa Bianca.

Il fatto che a scrivere il discorso di Trump siano stati in particolare due dei suoi più stretti consiglieri, entrambi con inclinazioni apertamente fasciste, conferma da solo questa tesi. A Stephen Miller e Stephen Bannon vengono infatti attribuite le iniziative più estreme in ambito economico, militare e dell’immigrazione adottate o proposte fino ad ora, così da rendere improbabile una qualsiasi svolta moderata nel prossimo futuro.

Una parte cruciale del suo intervento ha avuto a che fare inoltre con il nazionalismo economico che già era al centro del programma elettorale. Le iniziative che ne derivano sono anche le più allarmanti e il discorso di martedì ha confermato la decisione con cui la nuova amministrazione intende procedere su questa strada.

Tra le priorità di Trump vi è l’imposizione di nuovi dazi sulle merci importate che rischiano di fare esplodere una guerra doganale su scala planetaria dalle conseguenze facilmente immaginabili, visti i precedenti storici che portarono al secondo conflitto mondiale.

A ciò si dovrebbero accompagnare un abbattimento del carico fiscale per le aziende americane e lo smantellamento delle regolamentazioni imposte al business privato a livello federale, come quelle relative ai diritti e alla sicurezza dei lavoratori e alla salvaguardia dell’ambiente.

Per quanto “presidenziale” Trump possa essere apparso agli occhi di qualcuno, nel suo discorso non sono mancate le solite affermazioni sconnesse se non del tutto false. Particolarmente sgradevole è stato anche il riferimento alla morte del “Navy SEAL” William Owens, la cui vedova era presente martedì al Congresso, nel raid fallito lo scorso mese di gennaio in Yemen.

Trump ha ribadito la posizione ufficiale della sua amministrazione circa il successo dell’operazione delle forze speciali USA nonostante poche ore prima la NBC avesse citato fonti governative che confermavano invece la sostanziale inutilità dell’intervento di terra nel paese arabo. In precedenza, anche il padre di Owens aveva criticato duramente la Casa Bianca per avere autorizzato un’operazione tutt’altro che necessaria.

A caratterizzare il discorso di martedì al Congresso è stata infine una patina di ottimismo diversa dall’evocazione di scenari cupi che era prevalsa nei precedenti interventi pubblici di Trump. Questa variazione è stata probabilmente decisa per proiettare un’immagine immediatamente collegabile ai consueti interventi presidenziali del passato, ma anche come concessione esteriore all’establishment del partito del presidente. Il New York Times ha spiegato infatti come Trump abbia innestato più volte temi cari “all’ortodossia Repubblicana” nell’atmosfera di fiducia che ha attraversato il suo discorso.

Gli auspici e i proclami che prospettano un aggiustamento morale e materiale degli Stati Uniti sotto la guida di Donald Trump sono però irrimediabilmente illusori, dal momento che tutti i segnali, a cominciare dalla sua stessa elezione a presidente, indicano piuttosto un declino in stato avanzato del capitalismo americano, così come dell’ordine sociale e delle forme di governo che ne derivano.

di Mario Lombardo

L’offensiva interna ai Laburisti britannici per colpire e costringere alle dimissioni il segretario, Jeremy Corbyn, ha ripreso vigore da qualche giorno a questa parte in seguito alla clamorosa sconfitta in un’elezione speciale per un seggio al Parlamento di Londra in un distretto considerato una roccaforte del partito.

Le manovre della destra del “Labour” sono state finalmente denunciate da uno degli storici alleati di Corbyn, il “cancelliere-ombra” John McDonnell, in un articolo apparso nel fine settimana sul sito web Labour Briefing. In questo sfogo, McDonnell ha parlato apertamente di un “golpe soft” in atto nei confronti del numero uno del partito, condotto da elementi interni e “dall’impero mediatico di [Rupert] Murdoch”.

Questa campagna anti-Corbyn sta andando in scena “dietro le quinte”, dal momento che i precedenti tentativi di attaccare direttamente e pubblicamente il leader Laburista si sono risolti in un boomerang. Infatti, l’opposizione interna a Corbyn è rappresentata da una galassia di parlamentari ed esponenti locali del partito legati in gran parte a Tony Blair e al cosiddetto “New Labour”, ovvero a un ex leader e a un progetto che suscitano ormai una profonda ostilità.

McDonnell ha affermato che il metodo preferito dai golpisti dentro al “Labour” è quello di generare una copertura mediatica sfavorevole a Jeremy Corbyn, distorcendo spesso le notizie relative a quest’ultimo in modo da dipingerlo come un leader debole alla guida di un partito lacerato dalle divisioni. Il Times e il Sun sarebbero in prima linea nella battaglia in corso contro Corbyn ed entrambe le testate sembra abbiano beneficiato di fughe di notizie tendenziose provenienti dagli oppositori del numero uno del partito.

L’articolo di McDonnell, con ogni probabilità concordato con lo stesso Corbyn, è apparso decisamente insolito, visto l’atteggiamento fin troppo conciliante che ha sempre caratterizzato le risposte del segretario e dei suoi fedelissimi alle iniziative dei complottisti nel partito.

Per questa ragione, non è stata una sorpresa la relativa marcia indietro fatta da un portavoce di John McDonnell il giorno dopo la pubblicazione on-line dell’articolo. Il commento sarebbe stato cioè scritto più di una settimana prima come reazione a un intervento di Tony Blair diretto contro la leadership di Corbyn e, presumibilmente, non rappresentava il pensiero più recente di McDonnell. Alla parziale rettifica delle tesi sostenute sul sito Labour Briefing si è accompagnato inoltre il solito patetico appello all’unità del partito.

La nuova occasione sfruttata dalla destra Laburista per attaccare Corbyn era giunta dopo il voto, tenuto in due distretti elettorali, per la sostituzione di altrettanti deputati del partito che avevano deciso di dimettersi. Sia a Copeland, nella contea di Cumbria, che a Stoke-on-Trent, nello Staffordshire, il “Labour” aveva dominato per decenni, ma in molti davano i suoi candidati in serio pericolo.

A Stoke, tuttavia, i Laburisti sono riusciti a conservare il proprio seggio, distanziando il candidato di estrema destra del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di oltre 12 punti percentuali nonostante un certo calo dei consensi. A Copeland, invece, il successo è andato ai Conservatori, con il “Labour” che si è fermato al secondo posto.

Qui, i Laburisti hanno arrestato l’avanzata dell’UKIP, accreditato da molti alla vigilia come favorito per la conquista di un seggio in Parlamento, poiché il referendum sulla “Brexit” dello scorso anno aveva fatto segnare numeri altissimi a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Il seggio di Copeland era stato occupato però da un esponente Laburista fin dal 1950, così che la sconfitta è stata subito seguita da una valanga di polemiche nei confronti di Corbyn.

Contro lo stesso leader si sono scagliati gli oppositori interni anche in seguito alla sua decisione di non partecipare alla riunione settimanale dei membri del Parlamento Laburisti subito dopo il voto. Uno di questi ultimi, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano The Independent, ha addirittura definito l’assenza di Corbyn come un atto di “totale negligenza” nei confronti del partito.

Corbyn, da parte sua, aveva parlato in precedenza nel corso di una conferenza del Partito Laburista scozzese, accettando la sua parte di responsabilità nella sconfitta a Copeland, mentre si era scusato con i parlamentari del partito per l’impossibilità di partecipare a una riunione che, peraltro, non lo vede presente tutte le settimane.

La leadership Laburista ha dovuto anche smentire pseudo-rivelazioni di alcuni giornali britannici che avevano dato Corbyn sull’orlo delle dimissioni dopo la sconfitta elettorale di settimana scorsa. Svariate testate, sia schierate a destra, come ad esempio il Daily Telegraph, che a “sinistra”, come il Guardian, hanno poi pubblicato commenti nei quali si invitava Corbyn a prendere atto della sua gestione fallimentare e, quindi, a farsi da parte il prima possibile.

A partire dalla sua elezione a leader dei Laburisti nel 2015, Jeremy Corbyn è stato al centro di attacchi e trame golpiste che hanno visto protagonisti gli esponenti della destra interna, in maggioranza nel partito ma profondamente impopolari tra l’elettorato di riferimento.

Le centinaia di miglia di iscritti e simpatizzanti che avevano appoggiato la candidatura di Corbyn erano stati attratti dalla sua agenda nominalmente progressista, lontana anni luce – quanto meno a livello ufficiale – dalla direzione neo-liberista data al partito dalla gestione Blair.

Dopo il voto sulla “Brexit”, Corbyn era stato poi accusato di non essersi impegnato abbastanza per la permanenza di Londra nell’UE e l’esito del referendum era stato sfruttato ancora una volta dai suoi oppositori interni per spingerlo alle dimissioni. Corbyn aveva però resistito e la nuova consultazione per la leadership Laburista nel 2016 aveva restituito lo stesso risultato dell’anno precedente. Anzi, Corbyn aveva raccolto una percentuale di consensi ancora maggiore rispetto alla prima elezione, a conferma dell’ostilità popolare verso la destra Laburista e le trame golpiste dei suoi esponenti.

Le tensioni interne al “Labour” e la continua situazione precaria della leadership sono però dovute in buona parte proprio allo stesso Corbyn e a un atteggiamento eccessivamente accomodante che ha finito per incoraggiare gli attacchi nei suoi confronti.

Di fronte a un’offensiva durissima, condotta con l’appoggio dei principali media britannici, Corbyn e i suoi uomini hanno continuato a manifestare aperture alla destra “blairita”, mettendo l’unità del partito davanti alla volontà dei propri elettori e al perseguimento di politiche anche solo moderatamente progressiste.

Lo scontro interno alla classe dirigente d’oltremanica sulla “Brexit” e i termini dell’uscita dall’Unione Europea hanno poi ulteriormente inasprito la battaglia nel “Labour”, così che l’opposizione anti-Corbyn ha moltiplicato gli sforzi per operare un cambio ai vertici del partito con ogni mezzo.

La sconfitta dei Laburisti nell’elezione speciale della settimana scorsa ha infine consolidato la determinazione dei golpisti, disposti anche ad affondare il proprio partito, e favorire ancor più l’ascesa dell’estrema destra, pur di evitare che quest’ultimo possa tornare a rappresentare anche solo l’illusione di una formazione politica aperta agli interessi dei lavoratori e della classe media britannica.

di Michele Paris

Nel fine settimana appena trascorso, il Partito Democratico americano ha scelto come nuovo segretario il candidato dell’establishment ufficiale, appoggiato dal clan Clinton e dalla maggior parte dei membri dell’amministrazione dell’ex presidente Obama. L’elezione di Thomas Perez è stata probabilmente la più combattuta nella storia del Comitato Nazionale Democratico (DNC) e ha confermato sia le tensioni nel partito dopo l’umiliante sconfitta nelle presidenziali di novembre sia l’impossibilità di riformarlo dall’interno in una direzione anche solo vagamente progressista.

Per molti “liberal” americani, il successo relativamente di misura di Perez è stata una sorpresa negativa, viste le aspettative riposte nel suo principale sfidante, il deputato musulmano del Minnesota, Keith Ellison. Quest’ultimo era di fatto collegato al movimento nel Partito Democratico coagulatosi attorno alla candidatura alla presidenza del senatore del Vermont, Bernie Sanders.

Le modalità con cui Sanders era stato sconfitto nelle primarie vinte da Hillary Clinton e le frustrazioni dei suoi sostenitori avevano causato forti preoccupazioni tra i vertici del partito, moltiplicatesi dopo la vittoria di Donald Trump. Per contrastare la crisi dei Democratici e l’emorragia di consensi si era provato così ad aprire le porte del partito a uomini vicini a Sanders, in modo da dare l’illusione della disponibilità a integrare un messaggio politico di “sinistra”.

In questo quadro, l’eventuale elezione di Ellison a numero uno del Comitato avrebbe potuto rappresentare una concessione simbolica e, tutto sommato, inoffensiva alla base “liberal”. Infatti, questo organo non ha particolari funzioni di elaborazione politica, ma serve più che altro a raccogliere fondi e a coordinare le strategie elettorali dei candidati Democratici ai vari uffici federali e locali.

La promozione e il successo di Tom Perez, ex ministro del Lavoro di Obama, ha invece suggellato il dominio del tradizionale apparato di potere Democratico sul partito. Una prova di forza, quella andata in scena sabato scorso ad Atlanta, che si è resa necessaria per bloccare sul nascere qualsiasi illusione sulla natura di un partito che è semplicemente l’espressione di quei poteri forti americani non schierati dalla parte dei Repubblicani.

L’elezione di Keith Ellison, al di là delle sue attitudini non esattamente rivoluzionarie, avrebbe potuto cioè ridare un qualche entusiasmo alla tradizionale base elettorale Democratica, minacciando la traiettoria reazionaria pro-business imboccata dal partito e dai suoi leader ormai da svariati decenni.

Per dare una qualche impressione di cambiamento, Perez aveva abbracciato quasi per intero l’agenda nominalmente “liberal” di Ellison. Dopo l’ufficializzazione dei risultati del voto dei membri del DNC nella serata di sabato, inoltre, il nuovo numero uno del partito si è affrettato a fare appello all’unità, nominando a proprio vice il suo sfidante.

La mossa era con ogni probabilità già stata studiata, visti anche gli ottimi rapporti tra i due, ma ha assunto carattere di urgenza dopo che l’annuncio della vittoria di Perez era stato accolto dai sostenitori di Ellison con urla di rabbia e slogan che invitavano a consegnare il partito “al popolo” e “non ai grandi interessi economici”.

L’esito del voto indica comunque l’esistenza di gravi divisioni sugli indirizzi del partito, non tanto per dare o meno una reale rappresentazione agli interessi di lavoratori e classe media, quanto piuttosto sulle concessioni esteriori necessarie per mantenere un’immagine credibile ed evitare di perdere del tutto la propria base elettorale nel paese.

Le apprensioni che circolano tra i Democratici sono state confermate dai numeri stessi. Mentre in passato l’elezione del numero uno del DNC era stata quasi sempre una formalità, sabato sono state necessarie due votazioni. Alla prima, Perez ha mancato la quota che gli avrebbe garantito il successo immediato per un solo voto. Alla seconda ha alla fine prevalso con 235 voti contro i 200 raccolti da Ellison.

Nelle primarie per le presidenziali dell’anno scorso, i membri del DNC che si erano schierati con Sanders erano stati appena 39 su quasi 450 totali, a conferma che da allora i vertici Democratici hanno moltiplicato gli sforzi per cooptare i sostenitori del senatore ed evitare una possibile spaccatura nel partito.

Anzi, nell’elezione a segretario del partito, Ellison aveva ottenuto anche l’appoggio di personalità importanti nell’apparato di potere Democratico, a cominciare dal leader di minoranza al Senato, Charles Schumer. Al suo fianco si erano schierate anche varie organizzazioni sindacali che un anno fa avevano invece sostenuto la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca.

Sulla sorte di Ellison hanno pesato inoltre le accuse di anti-semitismo che gli sono state rivolte e il suo presunto insufficiente impegno a favore di Israele. Secondo alcuni, la presa di posizione contro il deputato del Minnesota da parte del finanziatore Democratico israeliano-americano, Haim Saban, aveva rappresentato una sorta di veto per quest’ultimo. Saban e la moglie sono d’altra parte molto influenti nel partito, avendo donato negli ultimi anni ai suoi organi, nonché soprattutto alla famiglia Clinton, svariate decine di milioni di dollari.

La questione del nuovo segretario del Partito Democratico ha ad ogni modo suscitato poco interesse negli Stati Uniti al di fuori degli ambienti della politica e della stampa ufficiale. La sostanziale indifferenza in cui si è tenuto il congresso di Atlanta è stata dovuta anche all’assenza dal dibattito tra i candidati delle questioni politiche ed economiche più urgenti.

Soprattutto, poi, nessuno ha fatto accenno ai motivi che hanno gettato il partito nel discredito e permesso l’elezione di Trump alla presidenza, vale a dire la deriva reazionaria che ha raggiunto il culmine negli otto anni di presidenza Obama segnati da guerre, austerity e smantellamento costante dei diritti democratici.

Su questi punti, il Comitato Nazionale Democratico non ha avuto nulla da dire. Anzi, su un’altra questione che sta animando il dibattito politico USA, quella della presunta influenza del governo russo sull’amministrazione Trump, l’atteggiamento che ha prevalso in larghissima misura è stato di isteria e di assecondamento della caccia alle streghe in atto.

In questo senso si era espresso lo stesso Ellison nel corso di un dibattito tra i candidati alla guida del DNC trasmesso pochi giorni prima del voto dalla CNN. Perez, a sua volta, dopo avere incassato il successo è apparso nei programmi politici della domenica mattina per puntare di nuovo il dito contro Mosca, chiedere un’indagine sulle interferenze russe nel processo elettorale americano e collegare Trump al presidente Putin.

Le parole del nuovo segretario Democratico hanno così confermato come la battaglia del suo partito contro la nuova amministrazione Repubblicana continuerà a essere condotta principalmente da destra e avrà al centro gli interessi di quella parte della classe dirigente USA che considera la Russia come il proprio principale nemico strategico.

Parallelamente, la linea del Partito Democratico non divergerà da quella mantenuta finora, favorevole cioè ai grandi interessi economici e finanziari. Questa tendenza è stata confermata, tra l’altro, dal voto del Comitato nella giornata di sabato per bocciare la reintroduzione del divieto, deciso da Obama nel 2008 e abolito prima delle elezioni del novembre scorso, di accettare contributi elettorali dalle grandi aziende americane.


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