Il precipitare della crisi politica e lo stato di emergenza in vigore nelle Maldive sono in larga misura da inquadrare nel sempre più acceso confronto strategico nel continente asiatico; in particolare nelle acque dell’oceano Indiano, tra la Cina da una parte e l’India, assieme agli Stati Uniti, dall’altra.

 

L’apparente trascurabilità del peso politico di questo paese-arcipelago, noto universalmente come meta turistica di lusso, è smentita dalla feroce competizione che coinvolge non solo le potenze regionali, ma anche gli USA e l’Europa, per esercitare su di esso la maggiore influenza possibile.

Si intitola “Revisione della posizione nucleare” il documento del Pentagono pubblicato tre giorni orsono e viene considerato una prima riforma della dottrina nucleare militare degli Stati Uniti. In effetti, vi sono contenute le idee e i progetti operativi (quelli che vogliono si sappiano, off course) con cui Washington pensa di fronteggiare le “minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

La pubblicazione nel fine settimana scorso di un documento, redatto dal presidente della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha gettato un’ombra lunghissima sulla già barcollante legittimità dell’indagine sulle presunte interferenze russe nelle elezioni americane del 2016.

 

Il “memorandum” del deputato repubblicano Devin Nunes - se il suo contenuto corrisponde effettivamente a verità - ha in sostanza rivelato come ambienti legati al Partito Democratico avessero di fatto fabbricato prove infondate contro Trump e membri dell’organizzazione dell’allora candidato alla Casa Bianca, grazie alle quali l’FBI, sotto il controllo del dipartimento di Giustizia di Obama, aveva richiesto e ottenuto un mandato per sorvegliare le comunicazioni di un ex consigliere del futuro presidente.

A pochi giorni dall’apertura dei giochi olimpici invernali, a cui prenderà parte una delegazione di atleti della Corea del Nord, i segnali di distensione tra Seoul e Pyongyang continuano per il momento a suscitare poca fiducia per un possibile percorso di pace in Asia nord-orientale. Malgrado le aperture e la disponibilità sudcoreana, l’elemento destabilizzante di una situazione caldissima rimane il governo di Washington, da dove i segnali che giungono sono invece invariabilmente minacciosi.

Il sanguinoso conflitto nello Yemen, in corso ormai da quasi tre anni, ha visto aprirsi in questi giorni un nuovo pericoloso fronte che minaccia di far crollare la coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita e intervenuta nel paese per riportare al potere il deposto presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Domenica scorsa è infatti andato in scena uno scontro violento tra le forze del governo appoggiato da Riyadh, temporaneamente installato nella città portuale di Aden, e quelle in teoria alleate che fanno capo al Consiglio di Transizione del Sud (STC), finanziate e armate dal regime degli Emirati Arabi Uniti.


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