di Mario Lombardo

La scadenza del primo obbligo di notifica al Congresso americano da parte dell’amministrazione Trump circa lo stato dell’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 (JCPOA) ha fornito in questi giorni al nuovo governo USA l’occasione di rilanciare la campagna di pressioni e minacce nei confronti della Repubblica Islamica, con il rischio di aprire un nuovo pericolosissimo fronte di crisi in Medio Oriente.

La Casa Bianca e il dipartimento di Stato hanno mostrato una logica del tutto particolare nel presentare le proprie posizioni sull’Iran. Da un lato, non è stato possibile fare altrimenti che ratificare il pieno rispetto di Teheran dei termini del JCPOA, poiché finora non vi è ombra di una qualche violazione, a conferma che l’intesa siglata a Vienna quasi due anni fa sta fugando ogni dubbio sul programma nucleare iraniano.

Dall’altro, però, l’amministrazione Trump ha attaccato l’accordo stesso, con il segretario di Stato, Rex Tillerson, che lo ha addirittura bollato come un “fallimento”. Il JCPOA è infatti sottoposto a un processo di “revisione” presso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano, le cui conclusioni dovranno stabilire se Washington continuerà a tenere in sospeso le sanzioni economiche e finanziarie applicate all’Iran, come previsto dall’intesa.

Anche per il governo USA, dunque, Teheran sta riducendo le proprie centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e garantendo agli ispettori internazionali l’accesso alle proprie infrastrutture nucleari. Ciononostante, per gli USA, il JCPOA avrebbe i giorni contati, visto che esso può soltanto “ritardare” il momento in cui l’Iran diventerà uno stato dotato di armi nucleari.

Questa posizione conferma in definitiva come l’obiettivo dell’amministrazione Trump non sia di fermare pacificamente e con l’accordo della comunità internazionale un programma nucleare dalle possibili implicazioni militari, peraltro mai dimostrate se non da dubbi “rapporti” delle agenzie di intelligence occidentali e israeliane, ma di continuare a prendere di mira l’Iran per ragioni esclusivamente strategiche.

Essendo questa la motivazione del governo USA, è anche evidente come vi sia poco o nulla che l’Iran può fare, a parte allinearsi interamente agli interessi americani in Medio Oriente, per evitare l’ostilità di Washington.

L’altro aspetto assurdo della presa di posizione americana di questi giorni è poi l’accusa, rivolta alla Repubblica Islamica dallo stesso Tillerson, di continuare a essere “il principale sponsor del terrorismo” e il primo fattore di destabilizzazione degli equilibri del Medio Oriente e non solo. Proprio per questo presunto ruolo di Teheran, gli Stati Uniti potrebbero finire col ritirarsi dall’accordo sul nucleare e ripristinare le sanzioni punitive che avevano messo in ginocchio l’economia iraniana.

L’accusa americana all’Iran di appoggiare il terrorismo e seminare il caos nella regione è difficilmente misurabile in termini di ipocrisia. Le parole del segretario di Stato USA, infatti, sono giunte proprio quando il rischio di una conflagrazione nucleare non è mai stato così alto da almeno un quarto di secolo a questa parte e precisamente a causa del comportamento dell’amministrazione Trump.

A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca, il nuovo presidente è intervenuto drammaticamente negli scenari di crisi ereditati dal suo predecessore, facendo aumentare sensibilmente le probabilità di una o più guerre su vasta scala dopo il bombardamento di una base militare siriana e l’escalation di minacce contro la Corea del Nord.

Per quanto riguarda la destabilizzazione del Medio Oriente, gli Stati Uniti continuano anche a garantire il loro totale appoggio all’aggressione saudita dello Yemen. Proprio mentre Tillerson attaccava verbalmente l’Iran, il numero uno del Pentagono, generale James Mattis, stava incontrando a Riyadh il sovrano saudita e i suoi due eredi al trono per rassicurarli dell’assistenza americana nel far fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Repubblica Islamica, accusata di interferire nelle vicende yemenite.

In modo da piegare la resistenza dei ribelli sciiti Houthi in Yemen, Mattis ha di fatto avallato i piani dell’Arabia Saudita per la città portuale di Al Hudaydah. Un’operazione militare in questa località aggraverebbe notevolmente la catastrofe umanitaria nel paese arabo, visto che proprio qui giunge la gran parte delle forniture di cibo destinate a una popolazione ormai allo stremo.

In Arabia, il segretario alla Difesa americano ha ribadito che l’appoggio dell’Iran agli Houthi è la causa della destabilizzazione dello Yemen, anche se la guerra sanguinosa condotta da Riyadh e dagli alleati del Golfo Persico con l’assistenza USA ha causato finora più di diecimila morti e almeno tre milioni di profughi.

In ogni caso, l’eventuale passo indietro del governo americano sull’accordo per il nucleare di Vienna, oltre a riaccendere a tutti gli effetti la crisi iraniana, assesterebbe anche un nuovo grave colpo allo stato già precario delle relazioni internazionali, incluse quelle tra gli alleati dell’emisfero occidentale.

Il JCPOA è tuttora sostenuto più o meno fermamente dai governi europei, a cominciare da quelli dei paesi che fanno parte del gruppo dei P5+1 (Francia, Regno Unito, Germania) protagonista delle trattative a Vienna, in primo luogo perché le promesse di nuove opportunità di business in Iran si sono già in parte concretizzate, così come hanno mosso i primi passi i progetti di collaborazione in ambito energetico.

Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, in una conferenza stampa nella giornata di mercoledì ha riconosciuto i rischi di un’azione unilaterale americana per far naufragare l’intesa. Allo stesso tempo, pur senza anticipare possibili mosse, ha però confermato l’intenzione di Washington di rivedere le proprie posizioni sull’Iran.

Gli sviluppi di questi giorni non sono d’altra parte imprevisti. Già in campagna elettorale Trump si era scagliato contro Teheran e il JCPOA. A febbraio, poi, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, generale Michael Flynn, in un discorso pubblico aveva minacciosamente messo l’Iran “sull’avviso” in seguito a un test missilistico condotto poco prima in maniera legittima.

Da allora, le minacce si sono moltiplicate, assieme alle iniziative del Congresso di Washington per adottare nuove sanzioni. Alla luce comunque della compattezza della posizione degli alleati degli USA che hanno sottoscritto l’accordo di Vienna e di quelli che ne stanno traendo beneficio, in molti ritengono che Trump finirà per rispettare, almeno per ora, il JCPOA.

Una prova delle intenzioni della Casa Bianca si avrà già nel mese di maggio, praticamente in concomitanza con le elezioni presidenziali in Iran, e poi ancora a giugno, quando dovrà essere deciso il prolungamento della sospensione di alcune sanzioni che gravavano sulla Repubblica Islamica.

Se, come prevede la maggior parte degli osservatori, Trump dovesse mantenere il suo governo nel quadro del JCPOA, il pressing su Teheran potrebbe proseguire al di fuori di esso. Gli USA, cioè, intenderebbero rispettare formalmente i termini dell’accordo sul nucleare ma potrebbero tenere alta la pressione sull’Iran continuando a sollevare le consuete finte questioni che servono a promuovere gli interessi americani all’estero, come il mancato rispetto dei diritti umani o l’appoggio al terrorismo.

Evidentemente, questa tattica rischia di innescare uno scontro che, di riflesso, finirebbe comunque per mettere a rischio il JCPOA. Anzi, a ben vedere ciò è quanto il governo americano sembra voler provocare, spingendo l’Iran a defilarsi dall’accordo di Vienna in risposta alle pressioni USA su questioni che esulano apparentemente da quella del programma nucleare.

Un’evoluzione di questo genere riporterebbe la crisi iraniana indietro di un paio d’anni, fornendo agli Stati Uniti la giustificazione per colpire anche militarmente la Repubblica Islamica, le cui vere colpe, agli occhi di Washington, hanno poco a che vedere col nucleare o col terrorismo, quanto piuttosto con l’appoggio al regime di Assad in Siria e, più in generale, con l’appartenenza a un asse di “resistenza” che ostacola il dispiegarsi degli interessi strategici americani in Medio Oriente e in Asia centrale.

di Michele Paris

Le autorità dello stato americano dell’Arkansas sono impegnate da qualche settimana in una serie di dispute legali nel tentativo disperato di portare a termine una raffica di esecuzioni capitali nell’arco di appena una decina di giorni, in un programma di morte che non ha precedenti nella storia moderna degli Stati Uniti.

Il piano delle condanne a morte che avrebbe dovuto iniziare all’inizio di questa settimana era stato stilato a febbraio dal governatore Repubblicano, Asa Hutchinson, e prevedeva appunto otto esecuzioni entro la fine di aprile. L’estrema urgenza era dettata dall’imminente data di scadenza delle scorte del sedativo “midazolam” a disposizione dello stato.

Il “midazolam” è il primo dei tre farmaci somministrati ai condannati a morte secondo la procedura adottata dall’Arkansas. Esso è seguito da una seconda sostanza che paralizza il detenuto, fermandone la respirazione, e da una terza che induce l’arresto cardiaco e il decesso.

Come molti altri stati americani, anche l’Arkansas sta faticando a reperire i medicinali che servono per mettere a morte i detenuti, poiché le aziende farmaceutiche e i governi europei hanno da tempo bloccato la vendita di questi prodotti se destinati a essere usati nelle esecuzioni capitali.

Questa carenza ha spinto alcuni stati sia ad approvare metodi alternativi cruenti, come la fucilazione o la camera a gas, sia ad autorizzare rifornimenti da aziende non certificate o a ricorrere a sostanze di dubbia efficacia che possono provocare atroci sofferenze ai condannati, in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione Americana.

Proprio il “midazolam” è una delle sostanze incriminate, responsabile di almeno quattro esecuzioni finite male dall’ottobre del 2013, data in cui è stato usato per la prima volta nelle condanne a morte in America. Questo medicinale, se non somministrato in maniera corretta, può non sedare del tutto il condannato, lasciandolo cosciente o semi-cosciente fino al sopraggiungere della morte.

L’uso del “midazolam” aveva suscitato una contesa legale finita alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale nel 2015 aveva stabilito che questo sedativo può essere comunque incluso nei protocolli degli stati che prevedono la pena capitale. Malgrado la sentenza, l’inaffidabilità del “midazolam” ha spinto gli stati di Arizona, Florida e Kentucky a escluderlo dai rispettivi cocktail letali.

Per quanto riguarda l’Arkansas, le vicende legali degli ultimi giorni si sono per ora risolte nel rinvio definitivo di tre condanne a morte delle otto fissate per il mese di aprile dal governatore Hutchinson. Tre condannati nel braccio della morte per omicidio – Don Davis, Bruce Ward e Jason McGehee – hanno visto accolti i ricorsi dei rispettivi avvocati e per loro l’appuntamento con il boia è per lo meno rinviato, secondo alcuni anche di anni.

Davis era ad appena 15 minuti dalla sua esecuzione nella serata di lunedì, quando, dopo che gli era stato servito l’ultimo pasto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la sospensione della condanna precedentemente disposta dalla Corte Suprema statale dell’Arkansas.

A fare ricorso al tribunale costituzionale di Washington era stata la procuratrice generale dello stato, Leslie Rutledge, la quale contestava la tesi degli avvocati di Davis che sostengono come, durante il processo per omicidio, a quest’ultimo fosse stato negato l’accesso a una consulenza legale indipendente per presentare le prove del suo grave ritardo cognitivo.

La Corte Suprema dell’Arkansas aveva fermato in precedenza anche l’esecuzione di Bruce Ward, prima di annullare il proprio ordine ed emetterne un secondo nella giornata di lunedì. Anche la contesa legale sul caso Ward riguarda le facoltà mentali del condannato, a cui è stata tra l’altro diagnosticata una forma di schizofrenia.

Per le autorità giudiziarie dell’Arkansas non è possibile eseguire le condanne di Davis e Ward prima che la Corte Suprema degli Stati Uniti si esprima su un caso che riguarda proprio l’accesso degli imputati per omicidio a consulenze legali indipendenti che certifichino eventuali ritardi mentali. Le audizioni sul caso dovrebbero iniziare nei prossimi giorni a Washington e una decisione del supremo tribunale è attesa per il mese di giugno.

Con una sentenza del 2002 e un’altra del 2014, la Corte Suprema USA ha stabilito che la condanna a morte di individui a cui venga riconosciuto un ritardo mentale viola la Costituzione americana. In questi pareri non era però specificato quali debbano essere i criteri esatti per valutare i disturbi mentali dei detenuti che determinino l’esonero dalla pena capitale. Ai singoli stati viene lasciata perciò una certa discrezione, così che anche dopo la sentenza del 2014 sono state registrate, ad esempio in Texas e in Georgia, esecuzioni di condannati con Q.I. nettamente al di sotto della media.

Se le prime tre esecuzioni previste per il mese di aprile in Arkansas sono state dunque fermate e anche le autorità dello stato hanno ammesso che non potranno essere rimesse in calendario a breve, quelle degli altri cinque detenuti dovrebbero essere invece confermate.

I giornali americani hanno raccontato di una corsa contro il tempo degli avvocati dei condannati per fermare la vera e propria catena di montaggio della morte decisa dal governatore Hutchinson. Doppie esecuzioni sono previste sia per giovedì 20 che per lunedì 24, mentre l’ultima è in programma tre giorni più tardi.

Nonostante i molti esempi della natura brutale e vendicativa del sistema giudiziario americano, i casi in cui la camera della morte negli USA è stata così affollata sono molto rari. Una doppia esecuzione nello stesso giorno era stata programmata per l’ultima volta nel 2014 dallo stato dell’Oklahoma.

In quel caso, però, finì in tragedia, con il primo dei due condannati che aveva patito un’agonia di quasi tre quarti d’ora a causa delle difficoltà del personale carcerario nell’individuare una vena per la somministrazione dei farmaci letali. Il condannato era alla fine deceduto per un arresto cardiaco e la seconda esecuzione era stata cancellata.

L’ultima doppia esecuzione portata a termine “con successo” risale invece al 2000 in Texas, ma sempre in Arkansas due detenuti erano stati giustiziati nello stesso giorno circa un anno prima. Dopo il già ricordato caso del 2014 in Oklahoma, un’agenzia di questo stato aveva raccomandato uno spazio di almeno sette giorni tra un’esecuzione e l’altra, anche per evitare problemi legati agli altissimi livelli di stress accumulati dal personale addetto alle condanne a morte.

A questo proposito, qualche settimana fa una ventina di agenti delle carceri dell’Arkansas aveva inviato una lettera al governatore Hutchinson per criticare le esecuzioni multiple in programma, a causa proprio dello stress mentale ed emotivo che comportano le procedure di condanna a morte.

Secondo i dati riportati dai media americani, in Arkansas circa i due terzi della popolazione sarebbe tuttora favorevole alla pena capitale. Le condanne a morte continuano d’altra parte a essere promosse dalla classe politica USA, soprattutto negli stati più conservatori del sud, come strumento di controllo sociale nel quadro di un sistema giudiziario spietato e che colpisce in larga misura gli appartenenti alle classi più oppresse e disagiate.

In generale, però, la sensibilità degli americani è relativamente cambiata negli ultimi anni e la pena di morte sembra essere sempre meno “popolare”, in seguito anche a svariati casi di detenuti nel braccio della morte che hanno visto annullare le loro condanne a causa di errori o abusi giudiziari.

Le decisioni prese dai tribunali nei giorni scorsi per fermare o rallentare la macchina della morte in Arkansas possono essere perciò in parte anche il riflesso di questa evoluzione, nel timore che l’orrore di condanne a morte in serie provochi ancora maggiore opposizione alla pena capitale negli Stati Uniti.

I leader politici favorevoli alla pena di morte, come il governatore Hutchinson, continuano comunque a invocare l’accelerazione delle esecuzioni, come se ciò fosse un modo per rendere giustizia ai famigliari delle vittime e non, piuttosto, di incoraggiare tendenze reazionarie tra la popolazione e di generare assuefazione a un sistema giudiziario fondamentalmente violento e oppressivo.

di Mario Lombardo

Con un annuncio a sorpresa nella tarda mattinata di martedì di fronte alla residenza di Downing Street, la premier britannica Theresa May ha fatto sapere di voler chiedere alla Camera dei Comuni di Londra lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate per il prossimo 8 di giugno. La decisione del governo Conservatore smentisce la posizione ufficiale sul voto che esso stesso aveva tenuto fino a poche settimane fa e testimonia delle gravi tensioni che attraversano la classe politica del Regno Unito in queste fasi iniziali delle trattative sulla “Brexit” con l’Unione Europea.

Il primo ministro non ha comunque la facoltà di indire elezioni anticipate ma, secondo quanto previsto dal “Fixed-term Parliaments Act” del 2011, necessita di un voto dei due terzi della Camera del Comuni. L’altro caso in cui il parlamento può essere sciolto prima della sua scadenza naturale è invece in seguito a una mozione di sfiducia e in assenza di un nuovo governo che succeda a quello dimissionario.

La premier May presenterà mercoledì all’aula la propria richiesta di voto anticipato e il sostegno già offerto dal Partito Laburista assicura l’esito voluto dal governo Conservatore. A dare conferma della posizione del principale partito di opposizione in Gran Bretagna è stato il suo leader, Jeremy Corbyn, il quale ha salutato le prossime elezioni con un comunicato decisamente troppo ottimistico rispetto alle reali chances di un partito lacerato da un violento conflitto interno.

Le ragioni che hanno spinto Theresa May a invertire la rotta sulle elezioni sono dunque legate principalmente alla “Brexit”. Nel suo annuncio di martedì ha affermato che, se la Gran Bretagna “non dovesse andare al voto ora, il gioco politico [delle opposizioni] proseguirebbe e i negoziati con l’UE raggiungerebbero il momento più complicato proprio alla vigilia delle prossime elezioni”, originariamente previste per il 2020.

In sostanza, la May ha riconosciuto l’esistenza di forze centrifughe scatenate dal referendum dello scorso anno sull’uscita di Londra dall’Unione Europea, pur scaricandone le responsabilità interamente su formazioni politiche diverse dal Partito Conservatore che, a suo dire, vorrebbero strumentalizzare il processo in atto e ostacolare il lavoro del governo.

La scommessa del primo ministro è così quella di rafforzare il mandato del governo con una più solida maggioranza parlamentare in modo da neutralizzare o, quanto meno, ridurre ai margini del dibattito politico gli oppositori della “Brexit” o delle posizioni che Downing Street terrà nel corso dei negoziati con Bruxelles.

La decisione di indire elezioni anticipate giunge ovviamente quando le trattative non sono ancora entrate nel vivo, nonostante siano già state registrate accese polemiche con l’Europa. Le tensioni che emergeranno al momento di discutere le questioni più esplosive – come l’accesso della Gran Bretagna al mercato unico europeo – potrebbero infatti pesare sui livelli di gradimento di un governo che ha già provocato la devastazione sociale in questi anni, mettendo in dubbio la conferma alla guida del paese dei Conservatori se il voto si fosse tenuto nel 2020.

Visto anche lo sbandamento del “Labour”, perciò, la leadership Conservatrice ha valutato sufficientemente rassicuranti i sondaggi più recenti che danno in media un margine attorno ai 20 punti percentuali tra i due principali partiti britannici.

Gli ambienti del business, da parte loro, malgrado la sorpresa hanno generalmente accolto positivamente l’annuncio di Theresa May, visti i vantaggi nei negoziati con l’UE di un governo più solido e una maggioranza più compatta rispetto a quella attuale.

La scommessa del primo ministro non è però senza rischi, se non altro alla luce dei sorprendenti risultati delle recenti elezioni in vari paesi occidentali e, ad esempio, dell’incertezza quasi senza precedenti delle presidenziali di domenica prossima in Francia dopo che per mesi la destra gollista sembrava destinata a vincere a mani basse.

Le forze politiche di opposizione in Gran Bretagna sono comunque screditate o in balia di guerre intestine. I Liberal Democratici cercheranno forse di trasformare l’imminente campagna elettorale in un secondo referendum sulla “Brexit”, ma il partito guidato da Tim Farron farà fatica a riprendersi dalla batosta del voto del 2015, quando perse quasi 50 seggi e oltre il 15% dei consensi per avere partecipato al governo a guida Conservatrice di David Cameron.

Il Partito Laburista è invece ancora molto lontano dal formulare un progetto politico alternativo all’austerity senza fine degli ultimi governi Conservatori, visto anche che Corbyn è sottoposto a un assalto continuo da parte della destra “blairita”. Quest’ultima fazione, probabilmente, vede oltretutto con favore una sconfitta alle urne, poiché fornirebbe l’occasione per una nuova offensiva contro l’attuale leadership del partito.

Al contrario, dal voto potrebbero trarre vantaggio sia l’UKIP di estrema destra, dato al di sopra del 10% in alcuni sondaggi, e l’SNP scozzese che a fine marzo aveva fatto approvare dal parlamento di Edimburgo una risoluzione per chiedere un secondo referendum sull’indipendenza da Londra.

La leader dell’SNP, Nicola Sturgeon, nella sua risposta ufficiale all’annuncio della May di martedì ha già anticipato i toni della campagna elettorale del suo partito, evidenziando comunque correttamente come, nel voto anticipato, i Conservatori vedano la possibilità di “governare per molti anni e spostare il Regno Unito ancora più a destra”, forzando nel contempo una “hard Brexit” e “imponendo tagli ancora più pesanti” alla spesa pubblica.

Secondo alcuni, proprio la necessità di avere le mani libere nelle trattative con Bruxelles per giungere a una “hard Brexit”, ovvero un’uscita dall’UE sostanzialmente senza accordo su questioni come l’accesso al mercato unico o la libertà di movimento delle persone, sarebbe stato uno dei fattori che hanno convinto la May a chiedere elezioni anticipate.

Una vittoria convincente nel voto di giugno le permetterebbe di imporre le proprie condizioni nei negoziati, superando le resistenze di quanti, anche all’interno del suo partito, auspicherebbero un’uscita più “soft”. Se la premier non ha in realtà chiarito del tutto le sue intenzioni su questo tema cruciale, le indicazioni di questi mesi appaiono a molti abbastanza chiare.

Soprattutto dopo l’elezione di Trump, la May è sembrata abbracciare il nazionalismo e l’anti-europeismo del nuovo presidente americano, lasciando intendere che un trattato di libero scambio con Washington e, più in generale, un rafforzamento della partnership col tradizionale alleato di Londra siano da preferire al mantenimento di un rapporto privilegiato con l’UE.

Come già anticipato, nonostante i sondaggi sembrino parlare chiaro sugli attuali equilibri politici in Gran Bretagna, ci deve essere qualche apprensione all’interno della leadership Conservatrice in previsione del voto anticipato.

In primo luogo, i governi May e Cameron hanno condotto un assalto frontale in questi anni contro il welfare britannico e l’apparente popolarità del partito di maggioranza dipende in larga misura dal discredito delle altre principali forze politiche.

I rovesci, per non dire le umiliazioni, che il governo di Londra ha già dovuto incassare dopo l’avvio ufficiale delle trattative per la “Brexit”, assieme alle conseguenze negative che determinerà l’addio da Bruxelles, hanno fatto poi dubitare molti elettori dell’opportunità di lasciare l’Unione e ciò potrebbe incidere almeno parzialmente sulla performance dei “Tories”.

Il Partito Conservatore rimane ad ogni modo favorito, almeno per il momento, ma potrebbe anche vincere le elezioni con un margine non necessariamente maggiore o di poco superiore rispetto a quello registrato due anni fa. Una vittoria meno convincente della precedente sotto la guida di David Cameron potrebbe trasformarsi così in un boomerang per Theresa May e, invece di rafforzare la sua posizione, rischierebbe di indebolire il governo e aggravare le divisioni e i conflitti innescati dalla “Brexit” che il voto anticipato dovrebbe cercare di risolvere.

di Michele Paris

Il margine di vittoria minimo registrato dal “sì” nel referendum costituzionale in Turchia di domenica scorsa ha rappresentato con ogni probabilità una certa delusione per il presidente Erdogan, al quale, in ogni caso, è stata consegnata la possibilità di trasformare la democrazia parlamentare del suo paese in un sistema dai connotati marcatamente autoritari.

Se Erdogan ha comunque incassato un successo che riteneva fondamentale per le sue ambizioni e il suo progetto politico, nondimeno il 51,4% dei favorevoli alla proposta di stravolgimento della costituzione avanzata dal suo partito (AKP) conferma la realtà di una Turchia profondamente divisa, principalmente proprio a causa del suo presidente.

Come avevano confermato le numerose proteste popolari contro il governo di Erdogan e dei suoi primi ministri a partire da quelle del 2013, esplose attorno a un controverso progetto edilizio a Istanbul, soprattutto nelle aree urbane turche continua a essere forte il malcontento nei confronti dell’AKP. Il sostegno al referendum costituzionale è arrivato infatti dalle aree rurali e più conservatrici della Turchia. Le principali metropoli – Istanbul, Ankara, Izmir – hanno visto invece prevalere il “no”, talvolta nettamente, così come in alcune città industriali, a cominciare da Bursa.

Subito dopo la diffusione dei primi dati, i principali partiti di opposizione, come il kemalista CHP e l’HDP curdo, hanno denunciato brogli diffusi che avrebbero influito in maniera decisiva sull’esito del voto. L’Alta Commissione Elettorale ha ad esempio ammesso che molte schede sono state distribuite ai votanti nonostante fossero sprovviste del timbro ufficiale della stessa commissione, previsto dalla legge turca. Queste schede, per l’Alta Commissione, sono però da considerarsi valide, a meno che non venga provata l’esistenza di una qualche frode elettorale.

Gli osservatori internazionali dell’OSCE, da parte loro, pur non riscontrando episodi particolarmente gravi nella giornata di domenica, hanno evidenziato come il voto non abbia rispettato gli “standard internazionali”. Soprattutto, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa ha evidenziato come il referendum si sia svolto “in un clima politico nel quale le libertà fondamentali ed essenziali di un processo autenticamente democratico sono risultate ridotte”.

Inoltre, le due parti – i sostenitori del “sì” e quelli del “no” – “non hanno avuto le stesse opportunità di far sentire le proprie ragioni agli elettori”. La drastica limitazione degli spazi concessi dal governo agli oppositori delle modifiche costituzionali ha probabilmente influito in maniera decisiva sull’esito del voto. Erdogan stesso ha fatto campagna elettorale attiva per il “sì” al referendum, giungendo spesso a bollare come poco meno di “traditori” o “terroristi” i contrari al suo progetto autoritario.

Fino a poche settimane prima dell’appuntamento con le urne, svariati sondaggi indicavano come fosse il “no” ad avere un leggero margine di vantaggio, ma alla vigilia del voto gli equilibri sembravano essersi consolidati a favore di Erdogan.

Oltre che a questi metodi e a possibili brogli, il presidente turco, il quale può comunque contare su un ampio consenso in Turchia, si è assicurato la maggioranza dei votanti anche in un altro modo. A fare spostare verso il “sì” un certo numero di elettori, verosimilmente tra quelli gravitanti attorno all’AKP, è stata anche la strategia di Erdogan di presentare il suo governo e l’intero paese come vittime delle manovre delle potenze occidentali.

Importanti consensi il fronte del “sì” li ha certamente guadagnati dopo gli scontri diplomatici di qualche settimana fa con paesi come Olanda, Germania o Austria a causa delle decisioni dei governi di questi ultimi di impedire a politici turchi di fare campagna elettorale per il referendum entro i loro confini.

Erdogan ha sfruttato abilmente queste iniziative oggettivamente anti-democratiche, collegandole tra l’altro alle accuse che dalla scorsa estate rivolge all’Occidente di essersi immischiato nelle vicende interne turche con il fallito golpe che lo aveva quasi rimosso dal potere.

Nel suo primo discorso dopo la chiusura delle urne, Erdogan ha ad ogni modo assunto i consueti toni aggressivi, prospettando una rapida evoluzione verso l’autoritarismo in Turchia. Inquietante è stata ad esempio la promessa di tenere un prossimo referendum sulla reintroduzione della pena di morte, abolita nel 2004. Un passo in questo senso metterebbe fine ai già moribondi negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Dopo il successo del “sì”, che dovrebbe essere ratificato ufficialmente tra pochi giorni, si metterà in moto un processo parlamentare che introdurrà entro un anno le modifiche alla costituzione volute da Erdogan.

Tra di esse spicca l’abolizione della carica di primo ministro con il trasferimento del potere esecutivo al presidente. Quest’ultimo avrà facoltà di nominare i ministri, ma anche la maggioranza dei membri della versione turca del CSM. Infine, il presidente potrà dichiarare lo stato di emergenza e sciogliere il Parlamento, il quale diventerà di fatto una sorta di organo di ratifica dell’esecutivo. Le modifiche entreranno in vigore con le elezioni del 2019 e il presidente resterà in carica cinque anni e per un massimo di due mandati, così che Erdogan potrà continuare a guidare la Turchia fino al 2029.

L’esito del referendum è stato accolto da reazioni differenti a livello internazionale. Se le monarchie assolute del Golfo persico o il vicino Azerbaigian si sono complimentati con Erdogan per il successo, evidenti sono state le critiche dell’Occidente. Qui, i governi di vari paesi e i vertici UE hanno anche sottolineato come il margine di vantaggio del “sì” sia stato ridotto e hanno invitato perciò Erdogan a cercare il più ampio consenso possibile nell’implementare i cambiamenti alla costituzione.

Alcuni commenti sui media europei prima e dopo il voto, pur riconoscendo lo scivolamento della Turchia in una quasi-dittatura, hanno però anche rilevato come una sconfitta di Erdogan avrebbe complicato la sua permanenza al potere e messo a rischio la tenuta stessa della Turchia. Grazie al successo, al contrario, il presidente turco avrà la possibilità di stabilizzare il paese con amplissimi poteri conferitigli da un processo “democratico”.

Le preoccupazioni occidentali per la situazione in Turchia, in definitiva, non sembrano essere tanto per la deriva autoritaria che si prospetta, quanto per gli orientamenti strategici di un presidente spesso imprevedibile. Se Erdogan, cioè, dovesse operare una nuova svolta e tornare ad allinearsi agli interessi europei e americani, soprattutto in Siria e nell’intera regione mediorientale, gli scrupoli “democratici” prodotti dal referendum costituzionale finiranno probabilmente col dissolversi in fretta.

di Michele Paris

A poco più di una settimana dal primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, la competizione continua a essere una delle più imprevedibili e difficilmente pronosticabili della storia repubblicana. Dopo la quasi caduta dell’ormai ex favorito, il gollista François Fillon, l’ex Socialista “indipendente” Emmanuel Macron e Marine Le Pen del Fronte Nazionale (FN) sembravano ormai certi di accedere al secondo turno di ballottaggio, ma nell’ultima settimana il candidato della sinistra “radicale”, Jean-Luc Mélenchon, ha fatto segnare una rapida risalita nei sondaggi, diventando improvvisamente un serio pretendente nella corsa all’Eliseo.

Le rilevazioni di opinione più recenti danno il leader del “Parti de Gauche” (Partito di Sinistra) alternativamente in terza o in quarta posizione, cioè più o meno alla pari con Fillon, e a una manciata di punti dai due attuali favoriti, a loro volta attestati su livelli simili attorno al 23-25%. Mentre però i numeri di Macron e Le Pen stanno ristagnando, Mélenchon in poche settimane ha quasi raddoppiato i propri potenziali consensi.

Lo stesso candidato della sinistra francese vanta poi la percentuale più alta di opinioni favorevoli tra i candidati alla presidenza e viene dato in vantaggio in un eventuale ballottaggio sia con Macron che con Le Pen e Fillon. L’ascesa di Mélenchon è avvenuta finora quasi interamente a spese del candidato del Partito Socialista (PS), Benoît Hamon, il quale al momento non supererebbe nemmeno quota 10%.

Hamon aveva vinto a sorpresa le primarie del PS dopo una campagna elettorale in opposizione al presidente Hollande, ma la profonda impopolarità di quest’ultimo e la decisione di molti leader del suo partito di appoggiare Macron hanno pesato in maniera decisiva sulla sua candidatura. Alcune voci della sinistra francese stanno perciò chiedendo a Hamon di farsi da parte a favore di Mélenchon già a partire dal primo turno di domenica 23 aprile.

I progressi di Mélenchon stanno in ogni caso suscitando qualche preoccupazione negli ambienti di potere e del business in Francia. Il riflesso di queste ansie si è osservato ad esempio nel sensibile allargamento dello “spread” tra i bond francesi e quelli tedeschi negli ultimi giorni, dopo che i sondaggi sembrano dare appunto concrete possibilità al candidato del movimento “France Insoumise” (Francia Ribelle) di qualificarsi per il secondo turno delle presidenziali.

Mélenchon si presenta con un programma che prevede, tra l’altro, un piano di investimenti pubblici addirittura da 100 miliardi di euro e la rinegoziazione dei trattati europei, in modo da allentare l’austerity imposta dall’Unione in questi anni praticamente a tutti i paesi.

Soprattutto, la classe dirigente d’oltralpe teme che il proprio candidato preferito, l’ex ministro dell’Economia Macron, finisca per sgonfiarsi, lasciando strada a un populista di destra o di sinistra che metta a rischio la stabilità dell’Unione Europea, l’orientamento strategico atlantista e anti-russo e il mantenimento della rotta neo-liberista in ambito economico.

Il fattore Mélenchon è determinato in primo luogo dalla crescente repulsione anche degli elettori francesi per la politica tradizionale, rappresentata in primo luogo dai governi Socialisti sotto una presidenza Hollande segnata da tagli al settore pubblico, chiusura di storici impianti industriali, precarizzazione del lavoro e imposizione di uno stato di emergenza che, in nome della lotta al terrorismo, ha ridotto sensibilmente i diritti civili e democratici.

Mélenchon non è comunque una faccia nuova nel panorama politico francese, essendo stato membro dal 1976 al 2008 del PS, per il quale ha ricoperto molte cariche, tra cui quella di ministro dell’Educazione tra il 2000 e il 2002 nel governo Jospin. Inoltre, nel 2012 Mélenchon aveva appoggiato Hollande nel secondo turno delle presidenziali contro Sarkozy, alimentando l’illusione di poter orientare verso sinistra il futuro capo dello stato che, al contrario, avrebbe ben presto operato una decisa svolta a destra sia sul fronte domestico che internazionale.

Nonostante il suo passato, Mélenchon sta però approfittando delle tensioni sociali che attraversano la Francia e la diffusa ostilità per i due candidati favoriti, animati da tendenze ugualmente reazionarie, sia pure con orientamenti differenti.

In particolare, Mélenchon ha beneficiato di una prestazione convincente nell’ultimo dibattito televisivo tra gli aspiranti all’Eliseo, andato in onda il 4 aprile scorso. In esso, Mélenchon aveva denunciato fermamente le politiche dei governi Socialisti e le disuguaglianze sociali che hanno favorito.

Allo stesso tempo, sull’esempio della candidatura di Bernie Sanders per le primarie del Partito Democratico negli USA lo scorso anno, Mélenchon ha costruito un’organizzazione in grado di promuove la sua immagine soprattutto tra i giovani grazie a un’attenta gestione della rete e dei social networks.

A dargli un’ulteriore spinta nei sondaggi è stato anche il bombardamento deciso giovedì scorso dal presidente americano Trump contro una base delle forze armate siriane. Mélenchon, al contrario dell’establishment politico francese, aveva subito denunciato l’iniziativa di Washington, presentandosi come il “candidato della pace”.

Questa presa di posizione ha raccolto parecchi consensi tra una popolazione che continua a manifestare sentimenti pacifisti malgrado le inclinazioni guerrafondaie della classe politica e la propaganda dei media ufficiali. Ugualmente, Mélenchon si è espresso con toni ben diversi da quelli xenofobi e razzisti dei leader di tutti i principali partiti, impegnati in Francia e non solo nel presentare l’immigrazione come un fenomeno catastrofico che sembra minacciare l’esistenza stessa dell’Occidente.

La scalata nei sondaggi di Mélenchon smentisce dunque la tesi di una Francia spostata sempre più a destra e conferma piuttosto come le tendenze reazionarie caratterizzino più che altro le classi dirigenti di fronte al crescere delle tensioni sociali e alla polarizzazione della società.

Che, poi, Mélenchon riesca anche solo a raggiungere il secondo turno delle presidenziali del 7 maggio è tutt’altro che certo. Le forze che spingono Macron verso l’Eliseo sono infatti formidabili e sostanzialmente le stesse che stanno già suonando l’allarme circa il pericolo di un’eventuale presidente appartenente alla sinistra “radicale”.

Ancor più, anche un’eventuale clamoroso successo di Mélenchon con ogni probabilità non si tradurrebbe nell’implementazione di un’agenda progressista. In primo luogo, il leader del “Parti de Gauche” molto difficilmente potrebbe contare su una maggioranza parlamentare dopo le elezioni legislative in programma nel mese di giugno, così che l’approvazione del suo programma risulterebbe pressoché impossibile.

Inoltre, Mélenchon ha trascorso la sua carriera politica nell’ultimo decennio gravitando più o meno attorno al Partito Socialista, trasformatosi ormai in un movimento politico dai contorni reazionari. Questa realtà, assieme alle enormi pressioni domestiche e internazionali, determinerebbero un sicuro ammorbidimento delle posizione registrate in campagna elettorale già all’indomani dell’ingresso all’Eliseo.

Nondimeno, l’avanzata di Mélenchon nei sondaggi e l’imprevedibilità della corsa alla presidenza a pochi giorni dal voto testimoniano della fortissima richiesta di cambiamento in senso progressista tra la popolazione francese, così come di una ferma opposizione al neo-liberismo, alla guerra e al razzismo che, tuttavia, non trova ancora una chiara espressione nel panorama politico odierno.


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