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di Mario Lombardo
Il bilancio dell’attacco terroristico nella metropolitana di San Pietroburgo è stato aggiornato nella giornata di martedì a 14 morti, mentre le autorità di sicurezza russe hanno fatto sapere di avere identificato l’autore della strage in un cittadino russo di origine kirghisa.
Nonostante non siano giunte finora rivendicazioni ufficiali, come per gli episodi che hanno sconvolto varie città europee in questi ultimi anni l’origine dell’attentato è molto probabilmente da collegare al fondamentalismo islamista e alla guerra vera o presunta condotta contro questa minaccia dalle potenze internazionali in Medio Oriente e in Asia centrale.
Praticamente tutti i giornali occidentali e non solo in questi giorni hanno ricordato il doppio fronte sul quale Mosca combatte il jihadismo da un paio di decenni, quello caucasico e, più recentemente, quello siriano, a cui vanno aggiunti i primi segnali di un possibile allargamento dell’impegno alla Libia.
Nel quadro della campagna anti-russa che sta infuriando in Occidente, i media ufficiali hanno nascosto a malapena una certa soddisfazione nel descrivere gli effetti collaterali dello sforzo russo contro il terrorismo islamista. In molti hanno anche insistito sui metodi brutali avallati da Putin come motivo della vendetta jihadista, tralasciando di ricordare ad esempio le recenti incursioni aeree americane contro l’ISIS a Mosul, responsabili della morte di centinaia di civili innocenti.
Soprattutto, la Russia pagherebbe però la decisione del suo governo di schierarsi dalla parte “sbagliata” nella guerra in Siria, a sostegno cioè del regime di Assad e a fianco di Iran e Hezbollah. Com’è quasi universalmente noto, l’obiettivo dell’impegno bellico russo in Siria, da ritenersi legittimo dal punto di vista del diritto internazionale, al contrario di quello di altri paesi come Stati Uniti e Turchia, è la galassia jihadista dell’opposizione sunnita, armata e finanziata precisamente da Washington e dai suoi alleati in Medio Oriente.
Se le città russe subiscono uguale o peggiore sorte di quelle occidentali a causa della fuoriuscita del fenomeno fondamentalista, gli attentati di San Pietroburgo non possono dunque finire nello stesso calderone di quelli di Parigi, Bruxelles, Berlino o Londra.
Infatti, gli attentati in Occidente, così come in Turchia, sono la diretta conseguenza di avventure belliche intrecciate in maniera inestricabile con politiche e scelte deliberate che, direttamente o indirettamente, utilizzano proprio il presunto nemico del fondamentalismo islamista come arma al servizio degli interessi dei governi coinvolti.
Per quanto riguarda la Russia, al contrario, pur essendo fuori discussione la brutalità dei metodi e le motivazioni legate ai propri interessi strategici, è evidente che le azioni intraprese nel Caucaso e in Medio Oriente sono di natura fondamentalmente difensiva.
Senza giungere a stabilire un legame diretto nell’organizzazione degli attentati tra la miriade di gruppi integralisti attivi in Medio Oriente e altrove e gli ambienti dei servizi segreti delle monarchie sunnite del Golfo Persico, della Turchia o degli stessi Stati Uniti, è altrettanto chiaro che stragi come quella di lunedì a San Pietroburgo intendono mandare un messaggio a Mosca il cui mittente potrebbe essere ugualmente lo Stato Islamico, al-Qaeda o i governi dei paesi appena elencati.
In altre parole, le iniziative russe in Medio Oriente disturbano allo stesso modo Washington, Riyadh o il cosiddetto “califfato”. L’attentato nella seconda città della Russia è avvenuto d’altra parte in concomitanza con la chiusura dell’ennesimo round di negoziati sulla Siria, alla guida dei quali Mosca ha soppiantato da tempo gli Stati Uniti.
Inoltre, la presenza di Putin nella giornata di lunedì a San Pietroburgo, dove ha incontrato il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, conferma ancora più chiaramente l’ipotesi del messaggio diretto ai vertici del governo russo. Tanto più che nei giorni precedenti, lo stesso presidente russo aveva incontrato a Mosca il suo omologo iraniano, Hassan Rouhani, in un vertice che era servito a sottolineare i sensibili progressi nel consolidamento di una partnership strategica con la Repubblica Islamica.
Proprio l’asse Mosca-Teheran risulta essere un motivo di preoccupazione per Washington, Riyadh e Tel Aviv, il cui tentativo di isolare l’Iran è da collegare in buona parte alla partecipazione di questo paese nel conflitto siriano a fianco della Russia contro l’opposizione islamista armata.
A questo proposito, è difficile non ricordare la minaccia nemmeno troppo velata rivolta alla Russia lo scorso mese di settembre dall’allora portavoce del dipartimento di Stato americano, John Kirby. Se Mosca non si fosse adoperata per mettere fine alla guerra in Siria, ovviamente secondo i termini dettati da Washington, quest’ultimo aveva avvertito che gli “estremisti” avrebbero allargato il proprio raggio d’azione, prendendo di mira gli “interessi russi” e, “forse, anche le città russe”.
A riprova dell’attitudine occidentale nei confronti della Russia e della lotta al terrorismo, è singolare che i governi europei e quello americano non stiano parlando, dopo l’attentato di San Pietroburgo, della necessità di un maggiore “coordinamento” e “scambio di informazioni” con Mosca per prevenire e combattere una minaccia che dovrebbe essere comune. Appelli alla cooperazione tra i vari governi dei paesi colpiti dal terrorismo sono invece puntualmente lanciati dai leader occidentali quando i fatti di sangue avvengono entro i propri confini.
La stampa filo-russa ha ricordato in questi giorni come il governo di Mosca avesse nel recente passato sollecitato soprattutto gli Stati Uniti a condividere le informazioni di intelligence sul movimento jihadista, ma, come ha ad esempio spiegato al network RT l’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, “il Pentagono aveva respinto questa proposta”.
Che la lotta al terrorismo appaia diversa agli occhi dei leader occidentali se a essere coinvolto è un rivale strategico, come appunto la Russia, è evidente infine dalle reazioni anche simboliche alla strage di San Pietroburgo.
Il cordoglio espresso ufficialmente dai governi in Occidente non è andato infatti molto al di là di dichiarazioni pro-forma rivolte ai familiari delle vittime, alla popolazione o ai leader russi. Manifestazioni di solidarietà decisamente più appariscenti sono state in pratica inesistenti, a differenza di quanto accaduto dopo gli attentati dei mesi scorsi nelle città dell’Europa occidentale.
Sui social media e sulla stampa “alternativa” si è discusso molto ad esempio della mancata illuminazione con i colori della bandiera russa di edifici simbolo come la Torre Eiffel o la Porta di Brandeburgo. Solo in seguito alle pressioni popolari, il sindaco di Parigi ha deciso che martedì notte le luci che illuminano la Torre Eiffel rimarranno spente come segno di solidarietà con San Pietroburgo.
Questa partecipazione al dolore di popolazioni di altri paesi colpiti dal terrorismo era diventata una consuetudine in Europa dopo gli attacchi più recenti, ma, evidentemente, la sensibilità dei governi occidentali risulta meno sollecitata se a essere colpiti sono obiettivi in territorio russo.
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di Michele Paris
Appena pochi giorni dopo l’attivazione ufficiale della procedura che porterà il Regno Unito fuori dall’Unione Europea, un acceso scontro diplomatico attorno allo status di Gibilterra ha spinto in superficie le tensioni crescenti tra i governi del vecchio continente che caratterizzeranno con ogni probabilità le trattative tra Londra e Bruxelles nei prossimi due anni.
La disputa che sta coinvolgendo il governo britannico, quello spagnolo e i vertici europei è scaturita dal contenuto di una bozza di documento UE sulla strategia da tenere in relazione alla “Brexit”. In esso si afferma che i termini di qualsiasi accordo con la Gran Bretagna verranno applicati al territorio di Gibilterra solo con il consenso della Spagna. Madrid avrebbe fatto cioè pressioni su Bruxelles per ottenere una sorta di veto sulla questione, provocando immediatamente le proteste di Londra.
Una parte della classe dirigente britannica non ha esitato a evocare la possibilità anche di un intervento militare per evitare quello che in molti hanno considerato un tentativo di annessione più o meno mascherata da parte spagnola.
Il possesso britannico del territorio di Gibilterra venne ratificato dal trattato di Utrecht del 1713 che precedette la fine della Guerra di Successione Spagnola, dopo che una forza anglo-olandese lo aveva occupato già nel 1704. Madrid ha sempre contestato lo status quo, nonostante in anni recenti gli abitanti di Gibilterra avessero respinto nettamente in due referendum (1967 e 2002) il ritorno alla sovranità spagnola.
Il ministro della Difesa britannico, Michael Fallon, nel fine settimana ha assicurato che il suo paese è pronto a fare qualsiasi cosa per proteggere Gibilterra, poiché i suoi abitanti “hanno espresso chiaramente la volontà di non essere governati dalla Spagna”.
Le parole più pesanti sono state però pronunciate poco più tardi in un’intervista televisiva dall’ex leader Conservatore, Lord Michael Howard. Quest’ultimo si è detto certo che il primo ministro, Theresa May, per salvaguardare la sovranità britannica su Gibilterra non avrebbe esitazioni nel mostrare la stessa risolutezza che Margaret Thatcher ebbe per “difendere la libertà di un altro piccolo gruppo di cittadini britannici da un altro paese di lingua spagnola”. Il riferimento è andato evidentemente alla guerra delle Falkland del 1982 contro l’Argentina, un conflitto che provocò oltre 900 morti, tra cui più di 250 soldati britannici.
Le parole di Lord Howard sono state condannate in maniera inequivocabile da un numero relativamente ristretto di esponenti politici a Londra. Tra i Conservatori, in molti, pur esprimendo cautela per quanto riguarda possibili conseguenze militari con la Spagna, hanno ribadito sostanzialmente l’intenzione del governo di fare di tutto per conservare il controllo su un’enclave di meno di sei km quadrati dove vivono circa 30 mila abitanti.
La premier May ha escluso che la sovranità di Londra su Gibilterra sia sul tavolo nei negoziati con l’UE, mentre ha garantito tutto l’impegno della Gran Bretagna per il proprio Territorio d’Oltremare. In una conferenza stampa nella mattinata di lunedì, inoltre, Downing Street ha escluso l’ipotesi di inviare una spedizione militare a Gibilterra, rifiutandosi però ancora una volta di condannare le dichiarazioni inquietanti di Lord Howard.
Anche il ministro degli Esteri di Londra, Boris Johnson, si è espresso con toni simili a quelli del primo ministro dopo che venerdì aveva incontrato il capo del governo locale di Gibilterra, Fabian Picardo. Quest’ultimo, da parte sua, non ha fatto molto per allentare le tensioni, ma si è detto certo che Gibilterra non sarà “merce di scambio” nei negoziati sulla “Brexit”. Picardo ha poi accusato il governo spagnolo di volere discriminare il territorio da lui governato in maniera “non necessaria, ingiusta e inaccettabile”.
Dall’opposizione in Gran Bretagna sono giunte invece critiche alle minacce di guerra contro la Spagna provenienti dagli ambienti Conservatori, malgrado la questione della sovranità di Londra abbia trovato ampio spazio anche tra Laburisti e Liberal Democratici. Se il leader Laburista, Jeremy Corbyn, non ha finora rilasciato commenti sulla vicenda, molti giornali d’oltremanica hanno dato spazio alle parole dell’ex ministro degli Esteri, Jack Straw, che ha definito l’idea di uno scontro armato per Gibilterra “assurda” e “in odore di nazionalismo da 19esimo secolo”.
Come dimostra anche il curriculum di Straw nel governo Blair e i precedenti dello stesso Partito Laburista, è però evidente che le prese di posizione più caute su Gibilterra non rappresentano tanto una ferma opposizione alla guerra, ma riflettono piuttosto le diverse posizioni sulla “Brexit” che stanno lacerando la classe dirigente britannica.
Soprattutto, le dinamiche innescate dal referendum sull’uscita dall’UE dello scorso mese di giugno hanno aggravato a dismisura le rivalità e i conflitti nel continente, già riemersi dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 e contenuti a fatica dalla fragile impalcatura europea.
Un semplice assaggio del clima ostile che accompagnerà i negoziati sulla “Brexit” si è avuto settimana scorsa in seguito all’invio a Bruxelles, da parte del governo di Londra, della comunicazione ufficiale dell’attivazione delle procedure per l’uscita dall’Unione.
Il documento del governo May è stato subito bocciato dalla cancelliera tedesca Merkel nella parte in cui Londra chiede che le discussioni sulla “Brexit” procedano di pari passo con le trattative su un possibile futuro accordo commerciale tra Regno Unito e Unione Europea. Altri leader europei hanno poi sollevato la questione del rimborso da circa 60 miliardi di sterline che Londra dovrebbe versare nelle casse UE in seguito alla “Brexit”.
In questo scenario di rapido deterioramento dei rapporti continentali si inserisce dunque anche la vicenda di Gibilterra, tanto più che il territorio a poche miglia dalle coste africane risulta fondamentale per Londra da un punto di vista strategico, visto che qui si trova un’importante base militare britannica, e finanziario, essendo di fatto un paradiso fiscale.
Al di là delle motivazioni del governo spagnolo nello spingere la questione del veto su Gibilterra e la “Brexit”, anche la sola evocazione dello spettro di un conflitto militare tra due paesi dell’Europa occidentale, oltretutto entrambi membri della NATO, testimonia dell’approssimarsi del naufragio del progetto unitario europeo, le cui conseguenze destabilizzanti per le relazioni nel vecchio continente saranno sempre più evidenti nel corso delle trattative appena iniziate tra Londra e Bruxelles.
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di Carlo Musilli
Con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la premier britannica Theresa May non ha solo avviato l’uscita dell’UK dall’Ue. Ha anche aperto due contese interne che minacciano l’unità della stessa Gran Bretagna e che Londra dovrà gestire in contemporanea alle trattative con Bruxelles.
Il primo fronte è quello scozzese. Il 28 marzo, 24 ore prima che May avviasse la procedura per la Brexit, il Parlamento di Edimburgo ha approvato la richiesta del proprio governo di indire un nuovo referendum sulla secessione dal Regno Unito.
Nel settembre 2014 la prima consultazione sull’indipendenza da Londra si concluse con la vittoria degli unionisti (55 a 45 per cento). Ma oggi una riedizione del voto avrebbe probabilmente esito opposto, perché una delle ragioni che due anni e mezzo fa indusse la Scozia a non uscire dall’UK fu proprio la volontà di rimanere nell’Ue. Un proposito confermato al referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno, che a livello nazionale si concluse con un’affermazione di misura del “Leave” (52 a 48 per cento), ma fra i soli scozzesi vide una netta affermazione del “Remain” (62 a 38 per cento).
La nuova consultazione scozzese potrebbe essere usata da Bruxelles come strumento di pressione su Londra nelle trattative per la Brexit. May lo sa, per questo ha già lasciato intendere che il voto non si potrà tenere prima della conclusione del negoziato con l’Europa. In teoria, il governo britannico avrebbe anche il potere di proibire la consultazione. In pratica, se lo facesse, sconfesserebbe il principio della devolution che negli ultimi decenni ha contribuito a tenere insieme il paese.
Ma anche se riuscisse finalmente a votare in favore della secessione, per la Scozia i problemi non sarebbero finiti. L’uscita dal Regno Unito non comporterebbe automaticamente la permanenza nell’Ue, perciò il nuovo Stato dovrebbe avviare una procedura di adesione ex novo. Purtroppo per gli scozzesi, questo significa che sarebbe necessario il consenso tutti i 27 Stati membri dell’Unione, alcuni dei quali voterebbero certamente contro pur di non incoraggiare le spinte indipendentiste all’interno dei propri confini. Per la Spagna, ad esempio, sarebbe un suicidio consegnare un argomento di propaganda così potente nelle mani dei secessionisti catalani e baschi.
Molto diversa è invece la situazione sull’altro fronte interno aperto dalla Brexit. All’Irlanda del Nord, May ha assicurato che non intende revocare il diritto di spostarsi liberamente tra Sud e Nord dell’isola e che “non ci sarà un ritorno ai confini del passato”. Il problema è che la stessa Premier ha detto più volte di volere una “Hard Brexit”, opzione che prevede, fra l’altro, il controllo dell’immigrazione dall’Ue.
Ora, se la frontiera fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord rimanesse aperta, qualsiasi cittadino europeo potrebbe prendere un volo per Dublino e da lì un autobus per Belfast, ritrovandosi senza problemi sul suolo di Sua Maestà. Perciò, se la Gran Bretagna vuole davvero controllare i flussi migratori in entrata, non ha altra scelta se non chiudere il confine irlandese come al tempo della guerra civile.
Una decisione che avrebbe conseguenze pesantissime. Secondo i dati del governo irlandese, più di 10 mila persone vivono sul lato opposto della frontiera, che ogni mese viene attraversata da quasi due milioni di automobili. Il ripristino della dogana sarebbe un disastro per l’economia dell’isola, che si ritroverebbe in parte all’interno del mercato unico europeo e in parte fuori. Senza contare che la chiusura del confine potrebbe riaccendere le ostilità fra gli irlandesi fedeli al Regno e quelli che vorrebbero unirsi alla Repubblica.
Ma non basta: proprio in questi giorni l’Irlanda del Nord sta attraversando la crisi politica più grave della sua storia recente. Dopo le elezioni del 2 marzo, che hanno portato i repubblicani dello Sinn Fein a un solo seggio dagli unionisti del Dup, i due partiti non sono riusciti a trovare un accordo per la costituzione di un nuovo governo locale d’unità nazionale.
La ragione dello scontro è la stessa che ha fatto cadere il precedente governo: lo Sinn Fein non vuole che a ricoprire il ruolo di premier (destinato al partito che ha ottenuto più voti) sia la numero uno del Dup, Arlene Foster, coinvolta in uno scandalo di malversazione sulle energie rinnovabili. Questa era la posizione dell’ex leader repubblicano, Martin McGuinness, venuto a mancare pochi giorni fa. E la nuova leader dello Sinn Fein, Michelle O’Neill, non ha intenzione di cambiare linea.
Il caso politico però ha tutta l’aria di essere un pretesto. I due partiti hanno opinioni lontanissime sul programma di governo da adottare e soprattutto sulla gestione della Brexit. In scia agli scozzesi, anche i repubblicani nordirlandesi vorrebbero organizzare un referendum per chiedere agli elettori di abbandonare Londra e abbracciare Dublino. Come gli scozzesi, anche i nordirlandesi 9 mesi fa votarono per rimanere nell’Ue (56 a 44 per cento). Ma al contrario degli scozzesi, i nordirlandesi avrebbero davvero l’occasione di riuscirci, perché la Repubblica d’Irlanda fa già parte dell’Unione (e dell’Eurozona). Se cambiassero bandiera, rimarrebbero automaticamente nella famiglia europea. A quel punto la famiglia sarebbe al completo: mamma Brexit con le sue due figlie, Scoxit e Irexit.
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di Mario Lombardo
La vista di questa settimana in Russia del presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha rappresentato un significativo passo avanti nel consolidamento di una partnership che sembra dover resistere anche alle scosse che attraversano gli scenari mediorientali e al possibile rimescolamento strategico prospettato dall’amministrazione Trump. Il primo viaggio a Mosca di Rouhani ha anche rafforzato l’immagine di Putin e del suo governo, soprattutto in relazione al Medio Oriente.
Il faccia a faccia tra i due presidenti ha seguito le visite del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in quella che è sembrata una sorta di sfilata per conferire e ottenere concessioni o garanzie dal leader della potenza con la maggiore influenza nella regione o, quanto meno, sulla crisi più urgente in atto, vale a dire quella siriana.
I tre vertici che hanno visto protagonista Putin nel mese di marzo sono dunque avvenuti con altrettanti leader di paesi che hanno punti di vista divergenti in Siria e che proprio con Mosca devono fare i conti per la promozione dei rispettivi interessi.
Il rapporto con l’Iran sembra ad ogni modo quello più importante per la Russia in questo momento, se non altro per il fatto che Mosca e Teheran combattono sullo stesso fronte in Siria a salvaguardia di interessi strategici cruciali per entrambi i governi.
Svariati analisti hanno fatto notare come Rouhani fosse alla ricerca di rassicurazioni nella sua trasferta a Mosca. I buoni rapporti della Russia con Israele e la recente incursione dei jet di quest’ultimo paese in Siria per colpire Hezbollah, anche se condannata più o meno esplicitamente dal Cremlino, devono avere infatti messo in allarme i leader della Repubblica Islamica.
Su un altro fronte, l’Iran vede con una certa apprensione anche le voci di un possibile accordo tra Mosca e Washington che preveda la relativa normalizzazione delle relazioni bilaterali tra le due potenze nucleari, come ipotizzato da Trump, in cambio di un raffreddamento dell’attitudine russa nei confronti di Teheran.
Di una simile prospettiva non vi è tuttavia alcun segnale, visto anche il sempre più probabile ripiegamento del presidente americano sulla spinta della campagna anti-russa in atto a Washington. Quasi a sottolineare la fermezza di Mosca sulla questione della partnership con l’Iran, inoltre, il documento finale seguito al vertice Putin-Rouhani ha ribadito la contrarietà di entrambi all’applicazione di “sanzioni unilaterali” contro qualsiasi paese, in un chiaro riferimento alle nuove misure punitive rivolte a Teheran allo studio al Congresso di Washington.
La scarsissima lungimiranza della politica estera americana, soprattutto quella dettata dalla galassia “neo-con”, è in ogni caso la prima ragione del progressivo irrobustimento delle relazioni tra Russia e Iran. Di ciò si è avuta ulteriore conferma proprio nei giorni scorsi, quando il numero uno del Comando Centrale americano, generale Joseph Votel, responsabile delle operazioni militari in Medio Oriente, ha definito Teheran come “la più grande minaccia a lungo termine della stabilità” della regione.
Senza insistere sulla colossale ipocrisia del rappresentante di una potenza che ha seminato e continua a seminare distruzione nel mondo arabo, le dichiarazioni di Votel hanno prospettato apertamente il possibile ricorso a “mezzi militari” per neutralizzare la presunta minaccia iraniana. Nei pensieri del generale americano vi era con ogni probabilità anche la collaborazione sul fronte militare tra Mosca e Teheran, sottolineata dallo sblocco della consegna del sistema di difesa anti-aereo russo nella primavera del 2016 in conseguenza della rimozione delle sanzioni internazionali dopo l’accordo sul nucleare iraniano.
L’intenzione di Rouhani è comunque quella di ottenere dalla Russia un qualche impegno a impedire il consolidarsi di un’alleanza anti-iraniana tra i paesi arabi, di cui si osservano da tempo i segnali nella guerra dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti e nella costante campagna mediatica che vorrebbe la Repubblica Islamica impegnata ad allargare illegittimamente la propria influenza nel mondo arabo.
Visto il ricorso, soprattutto da parte delle monarchie del Golfo Persico, al fondamentalismo sunnita per la proiezione dei propri interessi, è evidente che Russia e Iran sono interamente sulla stessa lunghezza d’onda nella battaglia contro questa minaccia.
In prospettiva futura, tuttavia, sono in molti a rilevare come Mosca, per varie ragioni, non abbia alcun interesse ad alienarsi i regimi del Golfo né tantomeno a schierarsi da una parte della barricata nel conflitto tra sunniti e sciiti. Un impegno in questo senso destabilizzerebbe ancor più un Medio Oriente nel quale la Russia intende piuttosto agire come forza stabilizzatrice in grado di esercitare la propria influenza e difendere i propri interessi.
Questa realtà sembra essere forse il limite attuale nell’evoluzione dei rapporti tra Russia e Iran, malgrado i progressi innegabili su numerosi fronti. Allo stesso tempo, le tendenze che si registrano in Medio Oriente, dalla promozione del settarismo sunnita del regime saudita alla rinnovata aggressività statunitense, appaiono propizie all’ulteriore rafforzamento dei legami nel prossimo futuro.
Questa convergenza d’interessi è d’altra parte supportata da un’intensificazione delle relazioni in ambito commerciale, energetico, militare e degli investimenti, confermata dal numero di importanti accordi bilaterali e “memorandum d’intesa” siglati durante la visita di Rouhani a Mosca.
Il Cremlino ha ad esempio approvato una linea di credito da oltre due miliardi di dollari per la costruzione di infrastrutture in Iran che coinvolgeranno compagnie russe. Inoltre, in programma vi è l’aggiunta di due reattori per una centrale nucleare iraniana già esistente e la realizzazione di altri due nuove impianti, sempre con tecnologia russa.
Su un piano più ampio, Putin e Rouhani hanno discusso poi di una possibile intesa su un’area di libero scambio tra l’Iran e l’Unione Economica Euroasiatica (EEU), promossa da Mosca e che comprende anche Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan.
Una spinta importante alla partnership russo-iraniana potrebbe arrivare infine dalla decisione, prevista per il prossimo mese di giugno e di cui i due leader avranno discusso questa settimana a Mosca, di accogliere la Repubblica Islamica come membro a tutti gli effetti dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).
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di Fabrizio Casari
Il premier britannico Theresa May ha dunque firmato la lettera con la quale Londra comunica all’Europa la sua uscita dall’Unione Europea. Seppur con un discorso dai toni visibilmente propagandistici, la Premier britannica non ha voluto comunque disegnare un profilo isolazionista sul modello di Trump; anzi, ha ribadito che la Gran Bretagna vuole decidere in solitudine il suo destino proprio perché prefigura maggiore apertura al mondo e un ruolo più importante nel consesso internazionale quale condizione per una maggiore prosperità interna.
Difficile biasimare i passaggi nei quali la May critica l’eurocrazia e la bulimia legislativa europea, ma comunque, sebbene il discorso ha utilizzato richiami patriottici obiettivamente fuori luogo (Londra non era sotto occupazione europea) la Premier ha voluto in qualche misura attutire il livello dello scontro con Bruxelles che nei mesi passati aveva conosciuto momenti più aspri.
La retorica della May nasconde però il timore per le ripercussioni negative della scelta, dal momento che le trattative per stabilire termini e condizioni degli accordi commerciali che interverranno tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna si annuncia lunga (almeno un paio d’anni, si presume) e niente affatto semplice, con un rischio di ricadute sulla stabilità economico-finanziaria inglese non trascurabili.
Non si tratta solo dell’abbandono di agenzie europee importanti, la principale quella sui farmaci (che il governo italiano vorrebbe portare a Milano), quanto piuttosto di poter continuare ad ospitare decine di sedi di multinazionali europee che godevano di priorità procedurali e quant’altro e che, ora, vedrebbero venir meno. E' uno degli interrogativi che si aprono circa l’impatto - al momento difficile da prevedere con precisione - che l’uscita dalla Ue avrà sulla City.
D’altra parte Bruxelles non ha intenzioni di fare sconti di fronte a quello che ritiene in fondo un tradimento e, comunque, non può e non dare l’impressione di essere disposta a cedere su scambi commerciali e accordi economici, giacché questo aprirebbe la strada ad un effetto emulativo che certo non si vuole innescare. Dal canto suo Londra non potrà certo contare sul sostegno statunitense nelle trattative con Bruxelles, visto che le relazioni tra USA e UE attraversano la fase peggiore della loro storia.
La May si è detta fiduciosa e piena di speranze, ma l’ottimismo appare un modo per coprire le incognite che, anche sul piano politico interno alla GB, sono rilevanti. C’é tensione con Edimburgo, il cui Parlamento ha votato a favore dell’indizione del referendum per la secessione (parziale) dalla Gran Bretagna.
Pur con le dovute differenze con la Brexit - principalmente sotto il profilo dell’integrità territoriale del Regno Unito - per quanto la May abbia ribadito il NO di Londra al voto scozzese, non sarà semplice sostenere due punti di vista opposti circa la libertà e la sovranità di un popolo a seconda degli interessi in gioco. E il secessionismo scozzese, da sempre spina nel fianco dell’impero, amplierà simpatie e consensi ovunque e potrebbero verificarsi ripercussioni anche in Irlanda del Nord, dove il conflitto sembrerebbe potersi riaccendere. Questi fattori finirebbero per generare un problema non trascurabile di tenuta politica complessiva della Gran Bretagna.
Dal canto suo Bruxelles perde relativamente con l'addio di Londra. Certo, si tratta di un indebolimento politico, ma sotto l’aspetto militare Londra non ha mai nemmeno preso in considerazione l’idea di distanziarsi dagli Stati Uniti, ovvero nell’interrompere la catena di comando di Washington sulla sua politica estera e di difesa. Per quanto attiene alla moneta, Londra ha scelto di non aderire all’Euro e, anche sotto il profilo bancario, ha voluto mantenere il ruolo della prestigiosa Banca d’Inghilterra a sostegno della Sterlina (che pure appare un po' più cagionevole dopo l'esito del referendum che ha deciso la Brexit).
Ma tuttavia la Gran Bretagna resta un paese leader a livello globale e, da ieri, l’Unione Europea non è più quella che fu. La Brexit, oltretutto, viene ufficializzata proprio in un momento delicatissimo per l’Unione Europea. Le tensioni con i paesi dell’Est che, sostenuti dall’Austria, si sfilano dagli impegni europei sui flussi migratori (ma pretendono di continuare ad avere gli aiuti economici dell’Unione) e le prossime delicatissime elezioni francesi, che nel caso di una vittoria di Marie Le Pen scriverebbero il sostanziale epitaffio sull’Unione Europea, aprono la fase più difficile e più incerta della vita dell’istituzione continentale.
Le aperture timidissime sulla flessibilità dei bilanci emerse a denti stretti dal vertice di Roma sono un pannicello caldo a fronte della crisi di credibilità ed autorevolezza di un progetto come quello della UE nato sotto i migliori auspici e condotto dalle mani più sbagliate nella direzione peggiore. Invece di rappresentare la "terza via", d’imporre un suo modello socio-economico e culturale, l’Europa è divenuta soprattutto un cartello di banche che hanno scaricato i loro fallimenti sui bilanci pubblici dei diversi stati membri.
E’ stata incapace di leggere il contesto sociopolitico continentale e di riformarsi. Non è stata in grado di decifrare ed affrontare le sfide e i rischi della globalizzazione per governarli ed indirizzarli, rivelandosi inutile nel prefigurare scenari a medio e lungo termine di governance mondiale. Invece di cercare un dialogo e una partnership con la Russia per la costruzione di un mercato unico continentale in grado di dialogare con l'Asia e la gestione delle crisi europee e mediorientali, ha preferito la rottura politica e le sanzioni economiche come Washington chiedeva.
Politicamente inconsistente e militarmente superflua, non ha saputo e voluto darsi una politica estera e di difesa comune e, di conseguenza, non è stata capace di assumere un ruolo sullo scenario internazionale, preferendo continuare a seguire pedissequamente gli Stati Uniti in ogni guerra e il turbo liberismo in politica economica, anche quando gli stessi USA hanno innestato un parziale cambio di rotta.
Il risultato finale è stato non far fatto nascere un continente politicamente all’altezza del suo peso economico, commerciale, culturale e demografico. Ha visto crescere invece una egemonia tedesca assoluta e pericolosa, quando proprio per arginare l’egemonismo ed espansionismo tedesco, tra le altre cose, l’Unione Europea era nata. Il sogno di una Europa unita, a oggi, si è rivelato un incubo per gli europei e l’inizio della Brexit potrebbe non essere altro che il primo capitolo del libro di memorie della UE.