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di Mario Lombardo
Questa settimana, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato il via alle udienze su un caso, relativo all’assassinio di un giovane cittadino messicano disarmato per mano di un agente dell’immigrazione americana, che potrebbe avere profonde implicazioni sia sulle avventure belliche USA all’estero sia sulle iniziative anti-migranti dell’amministrazione Trump.
La vicenda al centro della discussione risale al 7 giugno del 2010, quando l’agente della Polizia di Frontiera di El Paso, in Texas, Jesus Mesa, dal territorio americano sparò fatalmente alla testa al 15enne Sergio Hernandez Guereca, il quale si trovava invece oltre il confine con il Messico, a Ciudad Juarez.
La ricostruzione dei fatti varia parzialmente a seconda della versione fornita dalle parti in causa. L’agente americano non ha negato di avere ucciso il ragazzo messicano, ma sostiene che Hernandez e altre persone che erano con lui stavano lanciando pietre verso la frontiera. Inoltre, in quel momento era in corso un tentativo di attraversare il confine verso gli Stati Uniti da parte di un gruppo di messicani, tra cui figurava la stessa vittima.
Per Mesa, inoltre, Sergio Hernandez non era del tutto innocente come vorrebbero far credere i suoi familiari. Il 15enne sarebbe stato arrestato due volte per il suo coinvolgimento nel traffico di migranti ed entrambe le volte rimpatriato “volontariamente”, vista la sua giovane età.
Filmati ripresi da telefoni cellulari hanno però smentito la versione dell’agente americano. In quel giorno di giugno non sembra esserci stato nessun lancio di pietre all’indirizzo delle guardie di frontiera americane. Sergio Hernandez, come sostengono i genitori, stava piuttosto giocando con alcuni amici, sfidandoli a correre in direzione degli Stati Uniti, toccare la struttura che segna il confine con il Messico e tornare al luogo di partenza.
A un certo punto, l’agente Mesa aveva afferrato uno dei giovani per poi sparare a Hernandez, il quale stava cercando riparo dietro un pilastro di cemento nella zona di confine. La giovane vittima, in sostanza, non rappresentava alcuna minaccia per il poliziotto di frontiera americano.
L’uccisione di Sergio Hernandez non è affatto un caso isolato, ma si inserisce in un sistema di violenze che contraddistingue la condotta di decine di migliaia di agenti USA che operano al confine tra il loro paese e il Messico e sul quale l’amministrazione Trump intende basare la propria escalation contro l’immigrazione “clandestina”.
I metodi degli agenti americani sono stati documentati da varie indagini negli ultimi anni. Una delle più note fu quella pubblicata nel 2013 dal giornale Arizona Republic. In essa veniva descritto come la polizia di frontiera americana aveva ucciso almeno 42 persone negli otto anni precedenti. Un’altra ricerca, uscita lo stesso anno sulla rivista Washington Monthly, aveva invece documentato, tra il 2008 e il 2013, almeno una decina di episodi in cui le guardie di frontiera americane avevano sparato oltre il confine meridionale, facendo un totale di sei vittime in territorio messicano. Il dato comune a tutti questi episodi è la completa immunità garantita agli agenti responsabili degli omicidi.
Per quanto riguarda il caso di Sergio Hernandez, l’amministrazione Obama si era rifiutata sia di incriminare il suo assassino sia di accogliere la richiesta di estradizione presentata dalla giustizia messicana. L’indagine a carico dell’agente Mesa venne chiusa nel 2012 senza alcun provvedimento. Per il governo USA, il ricorso alla violenza era stato insomma giustificato.
I legali dei familiari del giovane messicano avevano allora avviato un procedimento civile in un tribunale federale negli Stati Uniti per ottenere almeno un risarcimento. Secondo il giudice distrettuale del Texas incaricato del caso, tuttavia, i genitori non avevano “legittimità legale” per presentare denuncia, poiché Hernandez non era un cittadino americano ed era stato ucciso in territorio messicano. Per queste ragioni, alla vittima non erano riconosciuti i diritti previsti dalla costituzione degli Stati Uniti.
In Appello, un collegio di tre giudici aveva ribaltato la sentenza di primo grado, sostenendo che i genitori di Hernandez avevano almeno la facoltà di procedere con la loro denuncia. L’intera corte d’Appello del Quinto Circuito degli Stati Uniti avrebbe però in seguito riaffermato il giudizio iniziale, finché il caso non è finito alla Corte Suprema per un verdetto definitivo che è atteso nel prossimo mese di giugno.
Per i genitori di Hernandez, i diritti costituzionali americani vanno applicati anche alla vicenda del loro figlio. In particolare, l’assassinio per mano di Jesus Mesa avrebbe violato il Quarto e il Quinto Emendamento della Costituzione USA. Il primo mette al riparo dall’uso di “forza eccessiva” da parte delle autorità, mentre il secondo proibisce esecuzioni sommarie e garantisce un “giusto processo” a chiunque, senza distinzioni in base alla nazionalità.
L’amministrazione Trump si è ovviamente schierata dalla parte dell’agente di frontiera, chiedendo l’archiviazione del caso. Il governo messicano partecipa invece al procedimento a fianco dei familiari della vittima. In una dichiarazione presentata dalle autorità di questo paese viene correttamente evidenziato come, a parti invertite, il governo USA avrebbe fatto senza dubbio enormi pressioni per ottenere giustizia.
Uno dei legali della famiglia Hernandez, nel corso della prima audizione alla Corte Suprema, ha avvertito che un’eventuale sentenza contraria ai propri assistiti rischierebbe di “creare una terra di nessuno” nelle aree di confine, ovvero “una zona esclusa dall’applicazione della legge nella quale gli agenti americani hanno facoltà di uccidere i civili impunemente”. Per l’avvocato, perciò, la Corte dovrebbe affermare che “il nostro confine non è un interruttore attraverso il quale si possono assicurare o negare le protezioni fondamentali previste dalla Costituzione”.
Gli orientamenti dei giudici della Corte Suprema emersi finora sembrano riflettere le divisioni ideologiche che li caratterizzano. I quattro giudici conservatori o ultra-conservatori sentenzieranno con ogni probabilità a favore del governo, mentre i moderati potrebbero favorire la famiglia Hernandez. Un verdetto di 4-4 lascerebbe comunque invariata l’ultima decisione d’Appello, così che l’agente Mesa verrebbe definitivamente scagionato.
La Corte Suprema americana opera con solo otto membri invece dei nove previsti da oltre un anno, a partire cioè dalla morte del gudice ultra-reazionario Antonin Scalia. Il candidato al posto di quest’ultimo scelto da Obama non era stato nemmeno preso in considerazione per la conferma da parte della maggioranza Repubblicana al Senato, vista la vicinanza delle elezioni presidenziali. Trump, dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ha nominato il giudice federale Neil Gorsuch, il quale, nel caso fosse confermato in tempo dal Senato, garantirà quasi certamente un voto in più ai conservatori che appaiono orientati a respingere l’istanza della famiglia messicana.
Il caso “Hernandez contro Mesa” ha comunque implicazioni che vanno al di là dell’assassinio di un innocente di 15 anni da parte di un rappresentante del governo americano. In particolare, un’eventuale decisione a favore dei genitori del giovane potrebbe avere conseguenze sul comportamento all’estero dei militari e dei cittadini USA in genere.
Visti gli innumerevoli crimini commessi nei molti paesi invasi, occupati o semplicemente devastati da operazioni come quelle condotte con i droni, il riconoscimento alle vittime della violenza americana all’estero del diritto di denunciare i responsabili in un tribunale degli Stati Uniti rischia di aprire una valanga di procedimenti. Questo timore è stato espresso più o meno chiaramente nel corso della prima udienza da vari giudici della Corte Suprema e non solo tra quelli conservatori.
La vicenda Mesa-Hernandez avrà conseguenze anche sulle politiche anti-migratorie dell’amministrazione Trump in fase di elaborazione. Una sentenza contraria alla vittima rafforzerebbe ad esempio il senso di impunità degli agenti federali incaricati dell’implementazione delle nuove brutali misure.
Allo stesso tempo, un esito simile potrebbe anche favorire il percorso nei tribunali americani delle nuove leggi contro gli immigrati. La sostanziale impossibilità dei tribunali di contraddire il giudizio del governo sulle questioni migratorie è infatti la tesi sostenuta dai legali del dipartimento di Giustizia nella difesa dei discussi provvedimenti discriminatori adottati nelle scorse settimane dal neo-presidente Trump.
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di Michele Paris
Con l’adozione di due decreti da parte del dipartimento per la Sicurezza Interna americano, l’amministrazione Trump questa settimana ha accelerato la stretta sull’immigrazione “illegale”, fornendo alle agenzie preposte gli strumenti concreti per una campagna di detenzioni e deportazioni di massa che potrebbe colpire pesantemente milioni di individui e le loro famiglie.
I due provvedimenti emanati martedì sono il corollario di altrettanti “ordini esecutivi” firmati in precedenza da Trump relativi sempre alla questione migratoria. Le nuove linee guida non nascono dal nulla, ma partono dai presupposti fissati dall’amministrazione Obama, fino ad ora di fatto la più dura nei confronti degli immigrati, per ampliare lo scopo della legislazione in vigore.
In altre parole, Trump ha spazzato via le restrizioni formali alle deportazioni a tappeto degli “irregolari” presenti sul suolo americano che aveva stabilito il suo predecessore. A dare l’idea del clima che si respirerà negli Stati Uniti a partire dai prossimi giorni è stato il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, il quale nel presentare i due decreti del dipartimento per la Sicurezza Interna ha annunciato che “chiunque si trovi qui illegalmente potrà essere soggetto a deportazione in qualsiasi momento”.
Viste le ovvie implicazioni logistiche e le resistenze alle nuove politiche in ampie fasce della popolazione, Spicer e l’amministrazione Trump hanno allo stesso tempo cercato di attenuare parzialmente i toni. Se, però, la Casa Bianca ha invitato a evitare manifestazioni di panico nelle comunità dei migranti, le misure draconiane che si annunciano potrebbero risultare di natura relativamente limitata soltanto in questa prima fase.
I piani per il tentativo di deportare tutti o buona parte dei circa 11 milioni di immigrati senza documenti che vivono negli Stati Uniti saranno infatti implementati dopo che il governo federale avrà creato l’infrastruttura logistica necessaria a portare a termine questo obiettivo. L’espulsione di un numero così alto di persone dal territorio americano è vincolata cioè a misure che richiedono mesi o forse anni per essere messe in pratica, come il reclutamento di migliaia o decine di migliaia di nuovi agenti e la costruzione di una vasta rete di strutture detentive.
La prima modifica alla normativa esistente riguarda il profilo degli immigrati esposti al rischio deportazione. Le regole stabilite da Obama prevedevano già la possibilità teorica di deportare tutti gli “irregolari”, ma nella pratica agli agenti dell’ICE (“Immigration and Customs Enforcement”) era garantita ben poca discrezione, poiché la priorità doveva essere per i casi ritenuti più urgenti, come quelli relativi a criminali o membri di gang.
Ora, invece, queste distinzioni cesseranno di esistere e, nella prima fase del programma, gli agenti dell’immigrazione avranno la facoltà di valutare a proprio piacere quali siano gli individui da espellere tra quelli che hanno un qualsiasi precedente penale, sono accusati o sospettati di avere commesso un crimine o, ancora, che hanno presumibilmente “abusato” di servizi pubblici.
Non solo: il decreto del dipartimento per la Sicurezza Interna parla anche della possibilità di arrestare o deportare tutti coloro che siano sospettati di avere “violato le leggi sull’immigrazione”. Per l’amministrazione Trump, le stime massime del numero di soggetti esposti a questi provvedimenti potrebbero arrivare addirittura a 15 milioni. Un numero così alto ha fatto ipotizzare a molti che il governo intenda colpire prima poi anche i possessori della “carta verde”, ovvero stranieri residenti legali e in maniera permanente.
Trump intende inoltre modificare la pratica di rilasciare negli Stati Uniti immigrati “irregolari” fermati appena superato il confine americano in attesa che le loro domande di asilo siano prese in considerazione. Questa procedura richiede spesso alcuni anni e al termine di essa gli individui interessati possono essere difficilmente reperibili.
Con la nuova legislazione, al contrario, i rilasci cesseranno e gli immigrati dovranno essere spediti in centri detentivi oppure espulsi verso l’ultimo paese di provenienza, quasi sempre il Messico, anche se di diversa nazionalità. Questa norma potrebbe essere considerata però incostituzionale, assieme a un’altra che prevede un processo rapido di deportazione senza la sentenza di un giudice, da applicare a immigrati che si trovano in America anche per periodi di tempo ben superiori alle due settimane, considerati ancora “in transito” da una sentenza della Corte Suprema.
Particolarmente crudele e insensata è poi la misura che potrebbe rendere soggetti a deportazione gli immigrati “irregolari” che si adoperano per organizzare l’ingresso negli Stati Uniti dei loro figli. Dal momento che i genitori spesso pagano degli intermediari per il viaggio dei figli, essi potrebbero essere accusati di facilitare il traffico illegale di persone.
Grande preoccupazione tra gli immigrati ha suscitato anche l’ipotesi di revocare il cosiddetto DACA (“Deferred Action for Childhood Arrivals”), cioè il programma adottato da Obama che garantisce una certa protezione a circa 750 mila “irregolari” giunti negli USA da bambini.
L’intervento di questa settimana di Trump lo ha lasciato ufficialmente inalterato, ma l’ordine di deportazione dallo stato di Washington che ha colpito nei giorni scorsi un 23enne di origine messicana con i requisiti per restare in America sembra avere messo in discussione anche questa salvaguardia.
Un punto centrale della strategia anti-migratoria dell’amministrazione Trump è infine quello dell’aumento massiccio degli agenti deputati all’implementazione delle nuove regole, con il dipartimento per la Sicurezza Interna che conta di assumere almeno 15 mila persone nei prossimi due anni. In parallelo, la Casa Bianca ha tutta l’intenzione di riattivare un piano, parzialmente accantonato da Obama a causa degli abusi che aveva generato, per coinvolgere nelle politiche persecutorie nei confronti dei migranti le forze di polizia locali e statali.
La brutalità e la latitudine delle misure per la lotta agli “irregolari” previste da questi primi provvedimenti adottati dalla nuova amministrazione Repubblicana appaiono decisamente spropositate rispetto alla reale minaccia rappresentata dal fenomeno migratorio negli Stati Uniti.
La giustificazione per questo pugno di ferro sarebbe da collegare a un presunto dilagare della criminalità nelle città americane a causa dell’afflusso di milioni di immigrati “clandestini”. Questa tesi ha però basi del tutto irrazionali ed è stata smentita da numerosi studi che indicano come gli immigrati senza documenti siano meno propensi a commettere crimini rispetto a coloro che hanno status di cittadini.
Non solo, mentre la percentuale di “irregolari” in America è aumentata a ritmi sostenuti nell’ultimo decennio, quella dei crimini violenti è andata nella direzione esattamente opposta. Per citare ulteriori dati, anche la popolazione carceraria negli USA è costituita da una percentuale minore di immigrati rispetto a quella che questi ultimi rappresentano nel paese in generale.
Di questa realtà, la classe dirigente americana, inclusa l’amministrazione Trump, è perfettamente al corrente. La strategia è perciò quella di alimentare paure e odio nei confronti della parte più vulnerabile e indifesa della società per scopi ben precisi.
Il primo è quello di distogliere l’attenzione della grande maggioranza della popolazione dai veri problemi, legati alla crisi strutturale del capitalismo e alle esplosive disuguaglianze sociali, e dai veri responsabili di essi. Il secondo, che sta distinguendo in maniera chiarissima il nuovo presidente, è la creazione di strutture da stato di polizia in previsione di una crescente opposizione popolare.
Ciò è possibile solo attraverso la formazione di una base di sostegno di orientamento ultra-reazionario, se non apertamente fascista, stimolata appunto da leggi come quelle più recenti sull’immigrazione, ma anche, ad esempio, da provvedimenti e dichiarazioni anti-islamiche o volte a compiacere la destra cristiana. Tutte queste iniziative, e altre ancora di uguale natura, sono state infatti prese dal neo-presidente Trump fin dal suo ingresso alla Casa Bianca poco più di un mese fa.
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di Michele Paris
Nella serata di lunedì, il presidente americano, Donald Trump, ha annunciato ufficialmente la nomina del generale Herbert Raymond McMaster a consigliere per la Sicurezza Nazionale in sostituzione dell’ex generale Michael Flynn, dimessosi settimana scorsa per avere mentito alla Casa Bianca sul contenuto delle sue discussioni private con l’ambasciatore russo a Washington.
La scelta di McMaster ha fondamentalmente due implicazioni. La prima e più ovvia è legata all’intenzione di Trump di continuare ad assegnare un ruolo prioritario ai militari all’interno della sua amministrazione, mentre la seconda indica un possibile precoce cambiamento di rotta sugli orientamenti strategici USA che riguardano i rapporti con la Russia.
McMaster, per cominciare, è almeno il quarto alto ufficiale – in servizio o a riposo – a occupare un incarico cruciale nella formulazione delle politiche relative agli affari esteri e alla “sicurezza nazionale” del nuovo governo. Gli altri sono il segretario alla Difesa, James Mattis, quello per la Sicurezza Interna, John Kelly, e il capo di gabinetto del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Keith Kellogg.
Dopo le dimissioni di Flynn, quest’ultimo aveva svolto le funzioni di direttore ad interim del Consiglio, mentre ora tornerà a occupare la posizione che gli era stata assegnata in precedenza, diventando di fatto il numero due di McMaster.
La stampa ufficiale americana ha accolto largamente con favore la nomina del nuovo consigliere del presidente, evitando del tutto i commenti critici che avevano accompagnato la scelta di Michael Flynn, ritenuto da subito troppo accomodante nei confronti del Cremlino.
Le doti attribuite spesso con entusiasmo a McMaster si riferiscono soprattutto alle sue doti di comando, ma anche a quelle “intellettuali” che gli hanno consentito di distinguersi nell’analisi delle strategie militari e delle minacce alla sicurezza americana, ma anche alla capacità di sapersi confrontare con i propri superiori o con le autorità civili per la difesa delle proprie idee.
Quest’ultima caratteristica, assieme al fatto di non avere ricoperto incarichi ai vertici della NATO né di avere legami apparenti con gli ambienti “neo-con”, ha convinto alcuni commentatori filo-russi a intravedere nella nomina di McMaster una certa coerenza con quella di Michael Flynn o, quanto meno, l’intenzione di Trump di provare a resistere alle pressioni di quella parte della classe dirigente USA che chiede continuità con le politiche di confronto verso Mosca adottate dall’amministrazione Obama.
Trump avrebbe infatti messo da parte altri candidati alla carica di consigliere per la Sicurezza Nazionale facilmente riconducibili alla fazione dei “falchi” anti-russi, come l’ex sottosegretario di Stato ed ex ambasciatore USA all’ONU, John Bolton, e l’ex direttore della CIA, generale David Petraeus, in modo da avere al proprio fianco una personalità disposta ad assecondare la propria visione strategica.
In realtà, più che la semplice considerazione riservata a Bolton o a Petraeus, è proprio la nomina stessa di McMaster ad apparire come una concessione agli oppositori interni di Trump che, nella comunità dell’intelligence, nel Partito Democratico e in una parte di quello Repubblicano stanno alimentando la caccia alle streghe anti-russa negli Stati Uniti.
Anche se McMaster non è direttamente legato a questi ambienti, i suoi precedenti lasciano pochi dubbi sulle posizioni relative alla Russia. Già distintosi come capitano durante la prima Guerra del Golfo, il nuovo consigliere di Trump aveva attirato l’attenzione proprio di Petraeus per essere stato il primo comandante a reclutare con successo milizie tribali sunnite in Iraq che avrebbero in seguito aiutato le forze di invasione americane a combattere i cosiddetti “insorti” nel paese mediorientale.
A fianco di Petraeus, il quale ha recentemente definito quella russa una minaccia “senza precedenti” per gli Stati Uniti, McMaster ha scalato le gerarchie dell’esercito, mentre più recentemente è stato coinvolto nella “pianificazione strategica” del ruolo delle forze armate USA per il futuro a fronte delle crescenti sfide planetarie.
Quasi tutti i commenti di questi giorni sulla sua nomina hanno poi citato un suo libro del 1997 sulla guerra in Vietnam, ampiamente diffuso tra i vertici militari americani. In esso, McMaster criticava gli alti ufficiali del suo paese e l’allora segretario alla Difesa, Robert McNamara, per non avere offerto maggiore resistenza ai fallimentari piani militari del presidente Johnson, definiti in sostanza troppo prudenti.
L’insistenza su questo particolare, che rifletterebbe una qualche attitudine anti-establishment del generale McMaster, sembra quasi un avvertimento a Trump della capacità del suo nuovo consigliere a resistere eventuali tentazioni filo-russe della Casa Bianca.
A definire ancora meglio gli orientamenti di McMaster è stata però la soddisfazione espressa per la sua nomina da parte di molti politici e commentatori che hanno attaccato Trump per il suo approccio troppo tenero nei confronti della Russia.
Tra i più entusiasti va segnalato il senatore Repubblicano dell’Arizona, John McCain, finora probabilmente il più feroce accusatore delle presunte interferenze di Mosca negli affari americani, ma anche protagonista di accese critiche verso il neo-presidente. L’ex candidato alla Casa Bianca ha elogiato Trump per una scelta che non avrebbe potuto immaginare migliore.
Anche dagli ambienti Democratici sono giunte parole di stima sia per McMaster che per la decisione di Trump. Il deputato Adam Smith, della commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti, ha ad esempio definito la nomina un chiaro miglioramento rispetto a Michael Flynn.
McMaster, d’altra parte, negli ultimi anni è stato impegnato in prima persona nell’elaborazione dei piani militari che hanno come obiettivo la Russia, considerata da coloro che attaccano Trump come il principale ostacolo al dispiegarsi dell’egemonia di Washington in aree cruciali del globo, a cominciare dall’Europa, dal Medio Oriente e dall’Asia centrale.
Alcuni giornali americani lo hanno definito “tutt’altro che amico della Russia”. La pubblicazione Roll Call, dedicata all’attività del Congresso USA, ha ricordato come lo scorso mese di maggio McMaster avesse discusso presso l’influente think tank Center for Strategic and International Studies (CSIS) della minaccia di Mosca e dell’annessione della Crimea in termini assimilabili alla retorica anti-russa dilagata in America in questi ultimi anni.
Nello stesso intervento era rilevabile infine un vero e proprio compendio del pensiero “neo-con”, così come delle apprensioni che animano la classe dirigente americana per il declino del proprio paese.
Nel definire di natura “offensiva” gli obiettivi e le attività della Russia, McMaster aveva accusato il Cremlino di volere il “tracollo dell’ordine seguito alla Seconda Guerra Mondiale”, assieme allo stravolgimento degli equilibri economici, politici e relativi alla sicurezza del dopo Guerra Fredda, in modo da costruire nuovi scenari “più favorevoli ai propri interessi”.
Se i rapporti di forza all’interno dell’amministrazione Trump appaiono ancora in fase di assestamento e il conflitto interno ai vari organi dello stato americano tutt’altro che risolto, gli sviluppi più recenti suggeriscono un progressivo avanzamento delle posizioni della fazione anti-russa. Le dimissioni di Michael Flynn e la nomina a nuovo consigliere per la Sicurezza Nazionale del generale McMaster non fanno altro che confermare questa tendenza in atto.
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di Mario Lombardo
La trasferta europea del vice-presidente americano, Mike Pence, avrebbe dovuto servire a rassicurare i leader del vecchio continente circa l’impegno della nuova amministrazione Trump nei confronti della NATO, ma anche per l’integrità dell’Unione e per il consolidamento della partnership transatlantica, nonostante le prese di posizione minacciose su tutti questi fronti da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Gli interventi pubblici di Pence, prima in occasione dell’annuale Summit sulla Sicurezza di Monaco di Baviera poi a Bruxelles nella giornata di lunedì, non sembrano essere andati però al di là di rassicurazioni formali in merito al mantenimento dei tradizionali legami tra USA ed Europa. Da questa parte dell’Atlantico, perciò, la diffidenza è apparsa evidente, così come le apprensioni per le scelte di un’amministrazione che potrebbe minacciare per la prima volta gli equilibri strategici in Occidente usciti dal secondo conflitto mondiale.
Già a Monaco, Pence aveva suscitato più di un malumore dopo avere confermato sostanzialmente le intenzioni di Trump di cercare un’intesa con Mosca su determinate questioni. Vista l’isteria anti-russa che continua a prevalere in alcuni paesi europei, ciò è bastato a far passare relativamente in secondo piano la promessa del “fermo sostegno” alla NATO da parte di Washington.
Le ansie europee vanno collegate a una serie di dichiarazioni fatte da Trump fin dalla campagna elettorale, come quella in cui aveva definito la NATO “obsoleta”. In altre occasioni, il neo-presidente americano aveva invitato i partner dell’Alleanza ad aumentare le spese militari almeno fino al 2% del PIL, per evitare il possibile disimpegno degli USA nei confronti di alleati che non intendano contribuire a sufficienza alla propria sicurezza.
Su quest’ultimo punto era tornato settimana scorsa il segretario alla Difesa, generale James Mattis, e lo ha ribadito lo stesso Pence a Monaco. Entrambi avevano in mente soprattutto la Germania, i cui leader hanno però escluso che questo livello di spesa possa essere raggiunto nel breve periodo, nonostante il massiccio aumento già previsto da Berlino per gli stanziamenti destinati all’ambito militare.
Per quanto riguarda l’approccio alla Russia, la delegazione americana a Monaco ha mostrato tutte le divisioni che sono emerse a Washington e che hanno recentemente portato alle dimissioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn.
Se Pence ha dato voce in parte agli auspici di Trump per la riapertura del dialogo con Mosca, due senatori USA presenti a Monaco – il Repubblicano Lindsey Graham e il Democratico Christopher Murphy – sono apparsi di tutt’altro avviso. Il primo, ad esempio, ha annunciato che nel corso del 2017 il Congresso americano si dedicherà alla stesura di nuove sanzioni contro la Russia, mentre il secondo ha garantito che su questo fronte non ci saranno differenze tra i punti di vista dei due partiti.
Le parole di Pence sono state però quelle ascoltate con maggiore attenzione in Europa. I media hanno evidenziato il persistere di riserve da parte dei leader europei, non tanto per le convinzioni del vice-presidente quanto per il fatto che nessuno in questo momento appare in grado di sapere fino a che punto gli impegni presi da quest’ultimo corrispondano a quelli che intenderà prendere Trump.
Per alcuni giornali americani, il sentimento prevalente in Europa dopo la visita di Pence è perciò di “aperto scetticismo”. All’ambivalenza di Pence sulle questioni della sicurezza in Europa ha fatto seguito quella del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L’ex premier polacco ha assicurato di avere ricevuto tre risposte confortanti da Pence su altrettante domande relative alla visione di Washington “sull’importanza dell’ordine internazionale basato sul diritto, sulla sicurezza fondata sul ruolo della NATO e sull’idea di un’Europa unita”.
Tuttavia, Tusk non ha nascosto nemmeno alla stampa il momento critico che stanno vivendo le relazioni transatlantiche, poiché “troppe cose sono accadute nei mesi scorsi negli USA e in Europa, troppe opinioni nuove e talvolta sorprendenti sono state espresse… per fare finta che tutto sia come prima”. Simili dichiarazioni sono decisamente inconsuete nel quadro di un vertice bilaterale tra alleati e confermano la natura eccezionale di un frangente nel quale sembra essere proprio il governo americano il principale elemento destabilizzante degli equilibri occidentali.
I tentativi del vice-presidente americano di calmare le acque nei rapporti con i vertici europei, quanto meno in attesa di una definizione migliore delle strategie della Casa Bianca, sono comunque apparsi chiari. Ad esempio, nell’incontro organizzato lunedì con la numero uno della politica estera della UE, Federica Mogherini, l’ex governatore dello stato dell’Indiana ha manifestato l’impegno del nuovo governo di Washington nel “cercare nuove modalità per rafforzare i legami con l’Unione”.
Che le relazioni rimangano tese è però innegabile e lo conferma un’iniziativa estremamente insolita presa recentemente dai leader dei tre principali gruppi del parlamento europeo, i quali hanno scritto ai presidenti della Commissione e del Consiglio per chiedere loro di bloccare il candidato alla carica di ambasciatore USA presso l’UE.
Trump ha infatti scelto l’ex diplomatico Ted Malloch, più volte dichiaratosi oppositore dell’Unione Europea e sostenitore della “Brexit”. In un’intervista nel mese di gennaio alla BBC, Malloch aveva poi paragonato l’UE all’Unione Sovietica, auspicando in sostanza anche il crollo della prima.
Malgrado i toni generalmente concilianti impiegati a Monaco e a Bruxelles, la trasferta europea di Mike Pence ha fatto dunque poco o nulla per alleviare le preoccupazioni legate all’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. L’agenda ultra-nazionalista del nuovo presidente americano, assieme agli incerti progetti di pacificazione con la Russia, prospetta infatti un percorso divergente tra USA e Europa e, soprattutto, tra Washington e Berlino, sotto le spinte di una competizione crescente in ambito economico e commerciale.
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di Michele Paris
Le dimissioni a inizio settimana dell’ormai ex consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, generale Michael Flynn, hanno infiammato il gravissimo conflitto in corso tra il presidente Trump e una comunità dell’intelligence americana intenzionata a imporre a tutti i costi la propria visione strategica alla nuova amministrazione Repubblicana.
Per quanti si attendevano una capitolazione da parte di Trump alla fazione dell’apparato di potere ferocemente anti-russo, che fa capo agli ambienti politici “neo-con” ed è ben rappresentato anche all’interno del nuovo governo, le dichiarazioni del presidente nella giornata di mercoledì sono arrivate come una doccia fredda.
Trump è infatti tornato ad attaccare frontalmente le agenzie di intelligence americane, a conferma non tanto della sua determinazione personale nel mettere queste ultime sotto il controllo politico dell’esecutivo, quanto della forza dei poteri che lo hanno lanciato verso la Casa Bianca e che intendono perseguire strategie diverse nei confronti di Mosca rispetto a quelle dell’amministrazione Obama.
Trump ha dunque condannato senza mezzi termini le fughe di notizie che nei giorni scorsi avevano provocato un’accesa polemica attorno alle discussioni di Flynn con l’ambasciatore russo a Washington, durante le quali il consigliere del presidente aveva promesso un rilassamento delle sanzioni adottate da Obama nei confronti di Mosca.
Le imbeccate sui presunti legami con la Russia di uomini vicini al presidente da parte della CIA a giornali come New York Times e Washington Post, sempre più spesso vere e proprie casse di risonanza dell’intelligence americana, sono state definite da Trump “illegali” e “criminali” nel corso di una conferenza stampa con il premier israeliano Netanyahu. Già in precedenza, poi, Trump aveva tuonato su Twitter contro CIA, FBI e NSA, minacciando una qualche purga per eliminare gli elementi ostili alla sua amministrazione.
La battaglia contro le tendenze del neo-presidente a fare della Russia una sorta di partner temporaneo degli Stati Uniti, sia pure per ragioni tattiche e di natura tutt’altro che pacifista, era stata d’altra parte alimentata poche ore prima da nuovi articoli del Times e del Post, rigorosamente basati su informazioni non provate e ottenute da anonime fonti dell’intelligence.
Il primo, ad esempio, aveva scritto di contatti tenuti da tempo tra personalità vicine al presidente con esponenti dei vertici dell’intelligence russa. Delle opinioni esposte non è stato dato come di consueto nessun riscontro concreto, ma esse sono state presentate nuovamente come fatti incontestabili solo perché garantite dalle parole di anonimi “officials” dei servizi segreti, di non specificate agenzie governative o dello stesso Consiglio per la Sicurezza Nazionale.
A far salire le tensioni e allo stesso tempo a dare l’idea del livello di scontro in atto è stato anche un articolo pubblicato giovedì dal Wall Street Journal. In esso viene spiegato come le agenzie di intelligence americane abbiano deciso di non sottoporre al presidente determinate informazioni sensibili da loro raccolte, per il timore esplicito di possibili fughe di notizie e, implicito, che lo stesso Trump o uomini del suo staff possano volontariamente o accidentalmente passarle alla Russia.
Quest’ultima conclusione, anche se non espressa apertamente dal Journal o dalle sue fonti, è particolarmente inquietante. Infatti, da una simile considerazione alla formulazione di accuse per un eventuale impeachment, se non addirittura per tradimento, il passo sembra decisamente breve. Proprio dell’ipotesi impeachment per Trump si sta peraltro parlando pubblicamente a Washington, soprattutto da parte di esponenti di un Partito Democratico pressoché interamente allineato alle posizione dell’intelligence americana.
Lo stesso articolo ricorda che per l’intelligence USA non è pratica nuova tenere un presidente all’oscuro di alcuni aspetti del proprio lavoro, in particolare riguardo ai metodi relativi alla raccolta di informazioni o all’identità delle fonti. Tuttavia, mentre in passato l’occultamento di alcune informazioni era dovuto per lo più alla necessità ad esempio di proteggere le stesse fonti o gli agenti sul campo, nel caso attuale la decisione dell’intelligence dipende dalla mancanza di fiducia nel presidente.
Nel caso qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio sulla natura delle divisioni tra Casa Bianca e intelligence, il Journal spiega infine che determinate informazioni vengono tenute lontane dal tavolo di Trump a causa delle “ripetute manifestazioni di simpatia e ammirazione espresse dal presidente per Vladimir Putin”.
Questa ostilità dell’intelligence nei confronti di Trump spiega anche un’iniziativa che la Casa Bianca starebbe prendendo in considerazione e che è circolata giovedì sui media americani. Il presidente avrebbe cioè intenzione di affidare al numero uno del fondo di investimenti Cerberus Capital Management, Stephen Feinberg, l’incarico di condurre una “revisione” delle modalità con cui operano le agenzie di intelligence USA, con l’obiettivo finale di implementare una ristrutturazione delle stesse per portarle sotto il controllo più stretto del presidente.
Particolare spazio alla notizia è stato dato ancora una volta dal New York Times. Dando voce ripetutamente a minacce dei vertici dell’intelligence dai contorni quasi mafiosi, il giornale newyorchese riporta come tra questi ultimi ci sia una “forte resistenza” al possibile incarico da affidare a Feinberg. Le ragioni di ciò sarebbero legate ai timori per la possibile “limitazione dell’indipendenza” delle agenzie di intelligence e “il ridimensionamento del flusso di informazioni contrarie al punto di vista del presidente”.
La presunta “indipendenza” dei servizi segreti USA è in realtà una fantasia propagandata dalla politica e dai media ufficiali americani, visto che essi servono interamente gli interessi della classe dirigente e dei poteri forti d’oltreoceano o, quanto meno, della fazione all’interno di essi con la maggiore influenza in un determinato frangente storico.
Significativo è anche il riferimento all’ostacolo al “flusso di informazioni contrarie al punto di vista del presidente”, da interpretare appunto nel quadro dei tentativi messi in atto dall’intelligence per impedire la svolta strategica auspicata da Trump in merito ai rapporti con Mosca e al riassestamento delle priorità dell’imperialismo USA. Questi ambienti hanno d’altronde investito parecchio nella demonizzazione del governo russo per accettare pacificamente un cambiamento di rotta: dal golpe in Ucraina, all’aumento delle forze NATO di stanza in Europa orientale e al sostegno alle forze integraliste anti-Assad in Siria.
L’incarico a Feinberg è sostenuto alla Casa Bianca dai principali fautori della politica estera del presidente, lo “stratega capo” neo-fascista, Stephen Bannon, e il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. Entrambi avrebbero addirittura spinto dopo il voto di novembre per nominare Feinberg a direttore dell’Intelligence Nazionale o a capo delle operazioni clandestine della CIA. Questa candidatura, tuttavia, deve essere naufragata ben presto sotto le pressioni delle forze “neo-con” gravitanti attorno alla nuova amministrazione.
All’interno di essa vi sono infatti personalità estremamente influenti che hanno legami con lo stesso apparato militare e dell’intelligence che cerca di ostacolare l’attuazione della visione strategica di Trump e proprio per questo lo scontro in atto appare tanto più violento e dall’esito incerto. Con ogni probabilità, Trump è stato costretto a fare una serie di nomine contrarie alle proprie inclinazioni, principalmente per evitare che il Partito Repubblicano gli voltasse le spalle in campagna elettorale e per mediare con gli ambienti di potere a lui ostili. I rappresentanti di questa fazione sono soprattutto il vice-presidente, Mike Pence, il neo-direttore della CIA, Mike Pompeo, e il candidato a direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats.
Un altro campo su cui si consumerà il conflitto interno al governo americano è anche la scelta del successore di Michael Flynn alla direzione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. I giornali americani, dopo le dimissioni dell’ex generale si sono affrettati ad annunciare come favoriti il vice-ammiraglio Robert Harward e l’ex comandante delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ed ex direttore della CIA David Petraeus, entrambi grosso modo ascrivibili alla fazione anti-russa.
In corsa ci sarebbe però anche la vice di Flynn nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale, K. T. McFarland, la cui eventuale nomina potrebbe rappresentare un segnale di continuità e confermare l’intenzione di Trump di perseguire una certa distensione con Mosca. La McFarland vanta una lunga carriera nelle strutture della sicurezza nazionale americana e, soprattutto, è considerata una discepola di Henry Kissinger, con cui lavorò in giovanissima età nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale durante l’amministrazione Nixon.
Proprio Kissinger, secondo alcuni, sia pure in maniera defilata sarebbe uno dei principali promotori degli orientamenti strategici di Trump, basati appunto su un relativo allentamento delle tensioni con la Russia nel tentativo di ostacolare l’integrazione euroasiatica in fase di consolidamento e dirottare gli sforzi diplomatico-militari americani verso quella che viene considerata come la più grave minaccia all’egemonia americana nel pianeta, ovvero la Cina.