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di Michele Paris
La corsa verso destra delle principali forze politiche olandesi nelle elezioni legislative di mercoledì è stata vinta dal Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) dell’attuale primo ministro, Mark Rutte. I liberali al governo avevano fatto propria buona parte dell’agenda di estrema destra del Partito per le Libertà di Geert Wilders (PVV), considerato il vero sconfitto del voto, puntando sulla promozione di sentimenti xenofobi anti-islamici per contenere i riflessi negativi delle politiche di austerity adottate negli ultimi cinque anni.
I sondaggi avevano correttamente anticipato una certa flessione del PVV dopo le previsioni di qualche mese fa che sembravano doverlo trasformare nel primo partito d’Olanda. Alla fine, Wilders e i suoi hanno aggiunto appena 5 seggi ai 15 che già occupavano nella “Tweede Kamer”, ovvero la camera bassa elettiva del parlamento de L’Aia.
Con poco più del 13% dei voti, il PVV è comunque il secondo partito olandese, dietro al VVD di Rutte. Quest’ultimo, nonostante i toni trionfalistici dei suoi leader e le reazioni sollevate di quelli europei, ha fatto segnare una netta flessione, passando dal 26,6% del 2012 al 21,3% odierno e da 41 a 33 seggi sui 150 totali.
Il VVD è sembrato beneficiare in maniera relativa dell’allontanamento dal PVV di Wilders di una parte di elettori orientati vero la destra estrema, grazie anche alla radicalizzazione del messaggio politico del primo ministro e, nei giorni che avevano preceduto l’apertura delle urne, agli effetti dello scontro con il governo della Turchia sul divieto imposto ad alcuni ministri di Ankara a tenere comizi in Olanda.
Ciò ha limitato parzialmente i danni per un partito che ha in ogni caso perso un numero importante di elettori. Il prezzo più caro per il sostegno al governo uscente lo ha pagato però il Partito Laburista di centro sinistra (PvdA), crollato dal 25% al 6%, con una perdita netta di ben 29 seggi.
La fuga degli elettori dai due partiti che formavano la coalizione di governo ha regalato qualche seggio in più a varie formazioni moderate e centriste, alcune delle quali si erano peraltro allineate al clima populista e di ostilità verso i migranti che ha dominato la campagna elettorale olandese. Così è stato soprattutto per i Cristiano Democratici (CDA), i quali hanno guadagnato 6 seggi grazie a un progresso di circa 4 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni.
Il CDA è stato a lungo forza di governo negli scorsi decenni e, da ultimo, tra il 2010 e il 2012 sotto la guida di Rutte. Vista la frammentazione del quadro politico olandese dopo il voto di mercoledì, è probabile che i Cristiano Democratici possano tornare a far parte dell’esecutivo olandese nell’immediato futuro.
In generale, anche in Olanda si è confermata la tendenza alla dispersione del voto, con i tradizionali partiti più importanti sempre meno in grado di intercettare la maggioranza dei consensi. Secondo alcuni dati riportati dalla stampa internazionale, nel 1986 i primi tre partiti olandesi raccoglievano complessivamente l’85% dei voti, mentre nel 2003 questa quota era scesa al 74% ed è oggi al 45%.
Se il clima di intolleranza che ha prevalso nelle scorse settimane ha finito per premiare con due seggi un altro partito di estrema destra da poco fondato, l’ultra-nazionalista e anti-europeista “Forum voor Democratie” (FvD), i segnali provenienti dagli elettori sono stati anche di segno diametralmente opposto.
La frustrazione nei confronti dell’establishment e del pensiero unico neo-liberista non ha infatti preso solo la strada del populismo di destra, ma ha premiato anche qualche formazione di (centro-)sinistra. Il Partito Socialista ex maoista (SP) ha aumentato di un solo seggio la sua delegazione in parlamento, ma i Verdi-Sinistra (GL) hanno più che triplicato i loro consensi, passando da 4 a 14 seggi.
L’immagine di modernità proiettata dal leader di quest’ultimo partito, il 30enne di origine marocchino-indonesiana Jesse Klaver, ha contribuito al raggiungimento di questo risultato, anche se ancora più determinanti sembrano essere state le posizioni anti-razziste e a favore dell’accoglienza di immigrati e rifugiati promosse dal suo partito in campagna elettorale.
L’aspetto più singolare dell’esito del voto in Olanda è stato però probabilmente l’entusiasmo manifestato dal partito del primo ministro Rutte e dai leader di molti governi europei per avere scongiurato l’ondata populista e xenofoba con la relativa sconfitta del PVV di Wilders.
L’euforia e l’auto-compiacimento che hanno caratterizzato le reazioni post-voto sono totalmente ingiustificate. I liberali olandesi, pur avendo vinto le elezioni, hanno visto una netta erosione dei consensi e, soprattutto, si sono confermati la prima forza politica dopo avere impostato una campagna elettorale nei termini dell’estrema destra. Ciò ha spinto il baricentro politico di questo paese ancor più verso destra e ha fatto in modo che la voce di Wilders rimanga influente nei prossimi cinque anni.
Pur nel riconoscere il mancato sfondamento, il leader del PVV ha espresso una certa soddisfazione, spiegando che il suo partito è tutto fuorché sconfitto e giocherà anzi un ruolo di spicco nella legislatura entrante, sia pure dall’opposizione. Soprattutto, l’estrema destra olandese sarà in grado di capitalizzare la debolezza di un governo che risulterà probabilmente debole, vista la necessità di mettere assieme una coalizione di almeno tre-quattro partiti, e che manterrà la stessa rotta di quello uscente per quanto riguarda le politiche economiche.
Archiviato il voto, Mark Rutte inizierà a breve i sondaggi e le trattative per la formazione della nuova maggioranza di governo. Secondo la stampa olandese, i partiti che hanno le maggiori probabilità di entrare in una nuova coalizione sono quelli cristiano-democratici, il CDA ma anche il più piccolo CU (“Unione Cristiana), seguiti dai social-liberali” Democratici 66 (D66), anch’essi in netta ascesa dopo il voto di mercoledì.
Il numero relativamente esiguo di seggi rimasti al partito del premier richiede un appoggio piuttosto ampio per far nascere il nuovo governo, così che i negoziati potrebbero essere lunghi e complicati. Il VVD parte infatti da una posizione più debole rispetto a cinque anni fa. Inoltre, a complicare il quadro sono anche le differenze ideologiche tra i partiti cristiani e i D66, nonché la prudenza di tutti questi ultimi nell’abbracciare un progetto di governo che rischia di tradursi in un rapido deterioramento della loro popolarità appena ritrovata.
Le esperienze dei due gabinetti guidati da Rutte dopo il voto del 2010 e quello del 2012 si sono infatti concluse in una disfatta per i partner di governo del VVD – rispettivamente il CDA e, appunto, il Partito Laburista – a causa delle politiche impopolari adottate. Le forze che accetteranno di entrare nella nuova maggioranza chiederanno perciò con ogni probabilità garanzie e concessioni non indifferenti, così da rendere particolarmente incerto il cammino del gabinetto che nascerà a L’Aia.
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di Mario Lombardo
Gli ultimi sviluppi della crisi che sta nuovamente investendo la penisola di Corea continuano a far crescere le preoccupazioni per l’esplosione di un possibile conflitto armato. Il comportamento del governo americano dopo l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca ha evidenziato un’accelerazione dei preparativi per un confronto militare, diretto nell’immediato contro il regime nordcoreano, ma che rischia di coinvolgere anche l’unico vero alleato di quest’ultimo, vale a dire la Cina.
Quasi come ogni anno, il mese di marzo è contrassegnato da una drastica impennata delle tensioni in Asia nord-orientale, dovute alle tradizionali massicce esercitazioni militari tra le forze armate USA e quelle sudcoreane. Le manovre, denominate “Foal Eagle” e “Key Resolve” proseguiranno per alcune settimane e, in questa occasione, hanno l’obiettivo di simulare un attacco alle installazioni militari e ai centri del potere politico in Corea del Nord.
Pyongyang ha sempre visto con giustificato sospetto queste esercitazioni condotte ai propri confini dai suoi due principali nemici, rispondendo puntualmente con provocazioni che includono spesso test missilistici condannati dalla comunità internazionale. Settimana scorsa, infatti, il regime di Kim Jong-un aveva effettuato un lancio di quattro missili balistici, tre dei quali precipitati al largo delle coste giapponesi.
Alle tensioni già solitamente alle stelle, si è aggiunto quest’anno un clima infiammato dalle iniziative della nuova amministrazione Repubblicana a Washington, determinata a mettere da subito la Nord Corea al centro della propria strategia asiatica, diretta principalmente al contenimento della Cina.
Se ufficialmente Trump e il Pentagono stanno ancora elaborando la condotta da tenere nei confronti di Pyongyang, le indiscrezioni riportate dalla stampa e, soprattutto, le misure adottate in queste settimane lasciano pochi dubbi sul fatto che Washington possa includere anche un’aggressione militare preventiva tra le opzioni a propria disposizione.
Ciò è apparso evidente dalla notizia circolata in questo inizio di settimana sull’impiego in Corea del Sud di forze inequivocabilmente “offensive”. A circa 270 km a sud di Seoul sarà stazionata una flotta di droni “Grey Eagle”, ciascuno in grado di portare quattro missili aria-terra Hellfire e altrettante bombe “plananti” Viper Strike.
Un portavoce delle forze armate americane in Corea del Sud ha sottolineato come la presenza dei droni nella penisola rafforzerà le capacità di “sorveglianza” e la “raccolta di informazioni”, anche se la loro reale utilità sembra essere ben diversa, come hanno chiarito la stampa e fonti militari sudcoreane.
L’agenzia di stampa Yonhap ha spiegato ad esempio come le armi trasportate dai droni “Grey Eagle” siano in grado di “colpire le principali installazioni militari [nordcoreane]” situate in prossimità della “Linea di Demarcazione” che separa i due paesi fin dall’armistizio che mise fine alla guerra nel 1953. Inoltre, i droni potrebbero facilmente “distruggere i comandi militari a Pyongyang” ed eliminare lo stesso Kim Jong-un in caso di guerra.
Parallelamente a questa notizia, gli Stati Uniti fatto sapere di avere inviato in Corea del Sud una unità di forze speciali appartenenti ai “SEAL Team 6” per partecipare alle esercitazioni in corso. Questa squadra è la stessa che nel 2011 uccise in Pakistan Osama bin Laden e il suo potenziale compito in Corea del Nord è facilmente intuibile.
Il ruolo delle forze speciali USA in Corea del Nord si comprende alla perfezione se si considera il contenuto del cosiddetto “OPLAN 5015”, concordato da Washington e Seoul già nel 2015. Questo piano dovrebbe delineare le azioni dei due alleati per abbattere il regime stalinista nordcoreano, secondo la testata giapponese Asahi Shimbun per mezzo di “guerriglia, assassinii [portati a termine] dalle forze speciali e attacchi mirati contro installazioni strategiche”. Soprattutto, “OPLAN 5015” prevede la possibilità di lanciare un attacco preventivo contro la Corea del Nord.
Martedì, poi, nei mari della Corea del Sud è arrivata anche la portaerei a propulsione nucleare “Carl Vinson”, accolta dalle minacce del regime di Kim. Pyongyang ha denunciato i piani militari “irresponsabili” di Washington e Seoul, nonché prospettato attacchi “senza pietà” nel caso venissero violate “la sovranità e la dignità” del paese.
Un’altra iniziativa provocatoria dell’amministrazione Trump ha recentemente coinvolto in maniera diretta la Cina, oltre alla Corea del Nord. Dopo il già ricordato test missilistico di Pyongyang, gli USA e il governo di Seoul avevano avviato l’installazione sul territorio della Sud Corea del sistema antimissilistico americano THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”), già negoziato dall’amministrazione Obama.
Quest’arma serve a intercettare missili balistici a corto e medio raggio e dovrebbe ufficialmente proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi del vicino settentrionale. In realtà, il THAAD è rivolto in primo luogo alla Cina, da dove infatti sono giunte accese proteste e minacce poiché il sistema antimissilistico potrebbe neutralizzare il deterrente nucleare di Pechino.
La determinazione con cui l’amministrazione Trump intende perseguire le proprie politiche aggressive nei confronti della Corea del Nord era emersa anche settimana scorsa, quando era stata respinta seccamente una proposta avanzata dal governo cinese per fermare l’escalation in atto nella penisola. Il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, era stato protagonista di un’uscita insolita che rivelava l’ansia del suo governo per la situazione coreana, proponendo cioè lo stop alle esercitazioni militari tra USA e Corea del Sud in cambio di un congelamento del programma nucleare e missilistico di Pyongyang.
La risposta americana era giunta dall’ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, la quale aveva rifiutato categoricamente l’ipotesi di qualsiasi negoziato con il regime di Kim, riaffermando piuttosto la volontà USA di non escludere alcuna opzione nell’affrontare la questione nordcoreana.
L’evoluzione della crisi nella penisola coreana dopo il cambio alla presidenza degli Stati Uniti è la conseguenza dell’atteggiamento di un’amministrazione Trump che ha individuato la Cina come il principale ostacolo al dispiegamento dell’influenza americana nel continente asiatico.
Che la strategia nordcoreana degli USA si intrecci in maniera inestricabile con quella cinese è confermato ad esempio dal fatto che ogni iniziativa diretta contro Pyongyang è accompagnata da dichiarazioni o provvedimenti volti a esercitare pressioni su Pechino per richiamare all’ordine il proprio alleato.
Il quadro in cui opera il nuovo governo americano è stato in ogni caso preparato dall’amministrazione Obama, la quale aveva inaugurato la cosiddetta “svolta” asiatica proprio per contrastare la crescente influenza economica, diplomatica e militare della Cina in Asia.
La strategia anti-cinese degli Stati Uniti ha così riacceso una serie di rivalità e di situazioni di crisi, tra cui quella tra le due Coree e le rivendicazioni territoriali e marittime nei mari al largo della Cina, che hanno moltiplicato il rischio dell’esplosione di un conflitto armato di ampia portata.
Proprio nel pieno dell’aggravarsi dello scontro nella penisola di Corea, infatti, il governo giapponese, anch’esso coinvolto in una serie di scontri diplomatici e (quasi) militari con Pechino in questi anni, ha annunciato l’invio della nave da guerra “Izumo” nell’oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale, dove sarà impegnata per tre mesi a partire da maggio in operazioni di pattugliamento ed esercitazioni militari assieme alle flotte di India e Stati Uniti.
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di Michele Paris
Lo scontro diplomatico virtualmente senza precedenti tra Olanda e Turchia è continuato nella giornata di lunedì con nuove misure e prese di posizione da parte di entrambi i governi dopo il durissimo scambio di accuse registrato nel fine settimana. Le tensioni di questi giorni si sono innestate su quelle già latenti tra la Turchia e l’Europa, a causa delle giravolte strategiche del presidente Erdogan, e sono state spinte fino al punto di rottura dai delicati appuntamenti elettorali che attendono entrambi i paesi nell’immediato futuro.
Com’è ormai noto, la rabbia di Ankara è esplosa dopo che il governo olandese aveva negato l’ingresso nel paese a due ministri turchi, quello degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, e quello della Famiglia, Fatma Betül Sayan Kaya, che avrebbero dovuto parlare ai propri connazionali espatriati per convincerli a votare “sì” nel referendum costituzionale voluto da Erdogan in programma il 16 aprile prossimo.
L’Aia aveva cancellato la manifestazione che a Rotterdam avrebbe dovuto ospitare Çavuşoğlu citando ragioni di ordine pubblico. Quando il ministro turco aveva fatto sapere di volere entrare ugualmente in Olanda, il governo di questo paese ha impedito l’atterraggio del suo aereo, ancora una volta motivando la decisione con la necessità di evitare scontri tra sostenitori e oppositori di Erdogan nella città portuale.
A questo punto, la reazione del presidente turco non si è fatta attendere. Erdogan ha sostanzialmente bollato come “nazisti” i leader olandesi, mentre il ministro Kaya decideva di entrare via terra in Olanda dalla Germania per parlare dal consolato turco di Rotterdam. Il governo del primo ministro Mark Rutte ha allora preso il drastico provvedimento di arrestare Kaya e di rimandarla in Germania.
Le proteste e le accuse di “nazismo” e “fascismo” indirizzate agli esponenti del governo olandese da parte di quello di Ankara si sono moltiplicate, assieme alle minacce di adottare sanzioni economiche nei confronti de L’Aia.
In Olanda, la vicenda è stata prevedibilmente sfruttata dal leader di estrema destra, Geert Wilders, il quale in una serie di “tweet” ha insultato pesantemente i turchi e il governo di Ankara, celebrando nel contempo come una vittoria la decisione di impedire l’ingresso nel suo paese ai ministri di Erdogan.
Domenica, il premier olandese Rutte aveva affermato di volere fermare l’escalation di tensioni con la Turchia, ma aveva però escluso di essere disposto a chiedere scusa a Erdogan per l’accaduto. Lunedì, poi, il ministero degli Esteri de L’Aia ha emesso un avviso ufficiale agli olandesi in Turchia, invitandoli a fare attenzione o a evitare del tutto i luoghi pubblici e quelli “affollati”.
Il vice-primo ministro, Lodewijk Asscher, ha invece rimandato al mittente l’accusa di nazismo, facendo notare come il governo turco stia facendo registrare “passi indietro” nell’ambito dei diritti umani. Ankara, a sua volta, sempre lunedì ha convocato per la terza volta in altrettanti giorni il “chargé d’affaires” olandese nella capitale turca per protestare il trattamento riservato al ministro rimandato in Germania e ai manifestanti turchi a Rotterdam.
A conferma delle implicazioni più ampie dell’incidente, altri governi europei sono intervenuti a sostegno dell’Olanda. In molti hanno annullato comizi con leader turchi previsti all’interno dei propri confini, mentre la cancelliera tedesca Merkel ha respinto come “del tutto inaccettabili” le accuse di nazismo lanciate da Ankara verso il governo olandese. Anche le autorità di varie città tedesche avevano d’altra parte cancellato recentemente alcuni eventi pubblici a favore del “sì” al referendum costituzionale turco, ai quali avrebbero dovuto partecipare esponenti del partito di Erdogan.
Questi comizi in territorio europeo hanno assunto sempre maggiore importanza per Erdogan, visto che il voto dei milioni di propri connazionali all’estero potrebbe risultare decisivo per l’approvazione di un referendum il cui esito appare in bilico. I provvedimenti dei governi europei e la crescente ostilità nei confronti del mondo musulmano sono stati a loro volta strumentalizzati da Ankara per raccogliere consensi a poche settimane dall’appuntamento con le urne.
Il progetto di riforma costituzionale promosso da Erdogan è senza dubbio profondamente reazionario, dal momento che minaccia di restringere ancor più gli spazi democratici in Turchia, consegnando di fatto al presidente poteri quasi assoluti. Ciononostante, le misure contro la libertà di espressione e lo stesso diritto internazionale da parte di governi come quello olandese o tedesco sono ugualmente anti-democratiche.
Esse non hanno nulla a che vedere con le tendenze semi-dittatoriali di Erdogan, come dimostrano ad esempio gli accordi da tempo siglati per fermare i rifugiati siriani, ma hanno il duplice scopo di alimentare una campagna ultra-reazionaria anti-islamica sul fronte domestico e di colpire un governo turco responsabile di avere voltato le spalle alla NATO e all’Occidente per riavvicinarsi alla Russia.
Per quanto riguarda l’Olanda, lo scontro di questi giorni arriva non a caso nell’immediata vigilia delle elezioni legislative di mercoledì che potrebbero assegnare la maggioranza relativa al Partito per la Libertà di estrema destra (PVV) di Wilders. Per contrastarne l’ascesa, il premier Rutte e il suo Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia di centro-destra (VVD) hanno da tempo cavalcato l’isteria anti-musulmana, nella speranza di sottrarre voti all’estrema destra e distogliere l’attenzione degli elettori dalle politiche anti-popolari del governo.
L’accesa disputa con la Turchia coinvolge ad ogni modo quasi tutti i governi europei ed è appunto il risultato del rimescolamento strategico degli ultimi mesi sulla spinta della guerra in Siria, ma anche dello spostamento verso oriente degli equilibri economici globali.
Dopo la presa d’atto della fallimentare politica siriana del governo turco, basata sull’appoggio a formazioni ribelli fondamentaliste per forzare il cambio di regime a Damasco, Erdogan ha operato una drastica inversione di rotta, riallacciando le relazioni con Mosca e mandando ai minimi storici quelle con gli alleati della NATO.
I rapporti con l’Europa e gli Stati Uniti si sono ulteriormente inaspriti dopo il fallito colpo di stato contro Erdogan dello scorso mese di luglio, secondo il governo di Ankara organizzato o quanto meno appoggiato proprio da Washington.
In questo quadro, è evidente che i governi occidentali auspichino una sconfitta di Erdogan nel referendum di aprile, in modo da favorire un’evoluzione degli scenari politici turchi che porti a un significativo indebolimento della posizione del presidente. Per fare ciò, da Berlino a L’Aia si sta cercando di privare Erdogan e la sua cerchia di potere di un palcoscenico importante in territorio europeo per promuovere le ragioni del referendum costituzionale.
Queste iniziative, tuttavia, oltre a essere di dubbia legalità e a non essere motivate da nessun autentico scrupolo democratico, rischiano sia di avere l’effetto contrario e di favorire Erdogan sia di contribuire ulteriormente all’avvelenamento del clima politico in Europa, favorendo l’ascesa dell’estrema destra alla vigilia degli appuntamenti elettorali che attendono vari paesi nelle prossime settimane.
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di Mario Lombardo
Le elezioni legislative previste per mercoledì prossimo in Olanda sono il primo di una serie di appuntamenti con le urne in Europa che, nel corso del 2017, potrebbero cambiare radicalmente il volto non solo dei paesi interessati ma anche della stessa Unione. La relativa marginalità olandese ha perciò lasciato spazio quest’anno a un profondo interesse internazionale per l’esito del voto in questo paese, dove la variabile decisiva è rappresentata dal Partito per la Libertà di estrema destra (PVV) di Geert Wilders.
A lungo dato come probabile primo partito nella futura camera bassa del parlamento olandese, secondo i più recenti sondaggi il PVV sembra ora in declino, così che a raccogliere il maggior numero di seggi potrebbe essere nuovamente il Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia di centro-destra (VVD) dell’attuale primo ministro, Mark Rutte.
Se pure quello di Wilders dovesse diventare il primo partito olandese, è improbabile, anche se non del tutto da escludere, che quest’ultimo possa assumere la carica di primo ministro. Tutti o quasi i principali partiti si sono infatti detti non disponibili a entrare in un governo di coalizione con il PVV, mentre Wilders ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di allearsi con Rutte e il suo VVD.
Il risultato dell’estrema destra olandese sarà nondimeno osservato con estremo interesse fuori e dentro i confini del paese. Nell’immediato, un risultato solido o superiore alle attese potrebbe incoraggiare e dare un’ulteriore spinta al Fronte Nazionale (FN) in Francia, dove a Marine Le Pen vengono date ottime probabilità quanto meno di approdare al secondo turno di ballottaggio delle presidenziali che si terranno tra aprile e maggio.
L’affermazione del PVV, insomma, potrebbe accelerare un’ondata populista, xenofoba e anti-europeista che minaccia di travolgere le strutture europee già in gravissima crisi dopo il voto sulla “Brexit” e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.
L’avanzata della destra estrema non è ovviamente un fenomeno solo olandese o francese, come stanno dimostrando gli eventi politici di questi mesi, né esso è legato alle singole personalità di un Wilders o di una Le Pen. La minaccia che questi movimenti rappresentano e la loro capacità di intercettare consensi relativamente ampi tra la classe media e i lavoratori dei singoli paesi sono la diretta conseguenza delle politiche dei partiti tradizionali, sia di destra sia nominalmente di sinistra.
Il caso olandese non fa eccezione. La stampa internazionale si sta chiedendo in questi giorni come un paese che vanta un tasso di crescita economica tutto sommato sostenuto e un livello di disoccupazione appena superiore al 2% possa mostrare segnali di malessere tali da rischiare di ritrovarsi con un governo di estrema destra. La ragione offerta solitamente è quella di una popolazione sempre più ostile ai flussi migratori, così che questi sentimenti hanno finito per essere cavalcati dai partiti populisti e conservatori che vedono ora salire i propri indici di consenso.
In realtà, ciò che è accaduto sembra essere piuttosto il contrario. La destra e l’estrema destra hanno alimentato deliberatamente la presunta minaccia di immigrati e rifugiati, ovvero la parte più debole della società, in modo da distogliere l’attenzione degli elettori dai problemi e dalle contraddizioni di un sistema economico in declino e che non è più in grado di garantire il benessere relativamente diffuso dei decenni scorsi.
Anche in Olanda, d’altra parte, i governi che si sono succeduti fino a oggi hanno imposto tagli importanti al welfare o hanno accelerato la casualizzazione del mercato del lavoro, malgrado la generosità delle protezioni sociali rimanga superiore a quella che si registra ad esempio nei paesi dell’Europa meridionale. I partiti di estrema destra come il PVV olandese si sono così appropriati in maniera opportunistica della difesa delle classi più disagiate, laddove le formazioni tradizionali di sinistra hanno abbracciato il neo-liberismo economico.
Significativamente, lo stesso Wilders è passato dall’essere un convinto liberista quando faceva parte del VVD al populismo attuale. Il risicato programma elettorale del suo partito prevede, tra l’altro, l’abbassamento dell’età pensionabile, la riduzione dei contributi pagati dai singoli cittadini per i propri piani sanitari e l’aumento della spesa pubblica destinata all’assistenza per gli anziani. Il tutto accompagnato dalla chiusura di moschee e scuole islamiche, dalla messa al bando del Corano e dallo stop agli immigrati provenienti dai paesi musulmani.
A riassumere perfettamente il senso di disorientamento e di frustrazione nei confronti della classe politica tradizionale, assieme al vuoto della sinistra e agli effetti deleteri della retorica populista della destra estrema, sono ad esempio le parole di un’elettrice olandese raccolte e pubblicate nei giorni scorsi dalla rivista tedesca Der Spiegel.
La pensionata 66enne intervistata dal magazine tedesco sostiene di essere sempre stata un’elettrice del Partito Socialista olandese (SP), come lo erano quasi tutti i suoi ex colleghi di lavoro. I leader di questo partito sono considerati però ora dei “bugiardi”. Il governo è invece colpevole di avere “aumentato l’età di accesso alla pensione” e il suo assegno mensile è fermo da tempo. Inoltre, aggiunge la donna, ogni mese è costretta a “sborsare 151 euro per l’assicurazione sanitaria, mentre i musulmani ottengono tutto gratis”. Il suo voto mercoledì prossimo andrà ovviamente al PVV di Geert Wilders.
Nella realtà dei fatti, quella in atto in Olanda non è esattamente un’invasione di immigrati e rifugiati. Nel 2015, sugli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, l’Olanda ne ha ricevuti 43 mila, vale a dire circa la metà di quelli della Germania in proporzione al numero degli abitanti. Lo scorso anno, poi, la quota si è ulteriormente dimezzata in seguito all’accordo di Bruxelles con la Turchia per il controllo dei rifugiati provenienti dalla Siria.
La percezione della minaccia degli stranieri continua però a essere superiore alla realtà e ciò a causa principalmente del clima creato deliberatamente dai politici, non solo di estrema destra. La Reuters ha citato questa settimana un sondaggio Ipsos del 2016, secondo il quale gli olandesi credono in media che circa il 19% della popolazione del loro paese sia costituita da musulmani, mentre in realtà si aggira attorno al 5%.
Questa retorica anti-immigrati è stata sposata da tempo anche dai partiti centristi in Olanda. Uno studio condotto da un’organizzazione di avvocati olandesi ha recentemente concluso che i programmi di tutti e cinque i principali partiti che parteciperanno alle elezioni legislative contengono iniziative “apertamente discriminatorie”, illegali e contrarie alla costituzione.
Il partito del premier Rutte promette da parte sua un giro di vite sulle norme per l’immigrazione, l’aumento del periodo di residenza in Olanda necessario per ottenere la naturalizzazione, l’obbligo di avere un impiego e la conoscenza della lingua locale per i futuri immigrati, la revoca della cittadinanza per gli stranieri che commettono crimini.
Lo stesso capo del governo nel mese di gennaio aveva pubblicato una lettera aperta nella quale descriveva il “crescente disagio nei confronti di persone che si avvantaggiano delle nostre libertà per creare problemi”. Rutte affermava inoltre di condividere il parere degli olandesi che sostengono nei confronti degli immigrati: “se siete così fondamentalmente ostili al nostro paese, è meglio che ve ne andiate”.
La strategia del VVD di Rutte, ma anche di altri partiti “moderati”, appare simile a quella messa in atto in maniera fallimentare e drammaticamente controproducente anche in Francia dai Socialisti e dalla destra gollista per cercare di contrastare l’ascesa del Fronte Nazionale. Il tentativo è cioè quello di far proprie alcune proposte xenofobe e anti-democratiche in una corsa verso destra che non fa che legittimare e favorire i partiti estremisti.
Ad ogni modo, mercoledì prossimo i circa 13 milioni di olandesi con diritto di voto dovranno scegliere tra 28 partiti che si divideranno i 150 seggi messi a disposizione attraverso una legge strettamente proporzionale. La soglia di consensi che garantisce la rappresentanza nella camera bassa è dello 0,67% che tra gli 11 e i 15 partiti dovrebbero essere in grado di superare.
Attualmente, la maggioranza di governo è formata da una coalizione tra il VVD del premier Rutte e il Partito Laburista di centro sinistra (PvdA). Quest’ultimo è dato in netto calo, a causa delle politiche di destra che ha appoggiato negli ultimi cinque anni. Gli altri partiti di orientamento centrista che dovrebbero spartirsi il maggior numero di seggi e che potrebbero entrare in una coalizione di governo sono i Cristiano Democratici (CDA), i “social-liberali” Democratici 66 (D66) e l’Unione Cristiana (CU).
Tra le altre formazioni di centro-sinistra dovrebbero far segnare invece progressi i Socialisti (SP) e i Verdi (GL), il cui leader è il 30enne di origine marocchino-indonesiana, Jesse Klaver, il quale sta facendo campagna elettorale ricalcando le strategie di Obama e Bernie Sanders negli Stati Uniti.
Secondo consuetudine, il leader del partito che otterrà il maggior numero di voti dovrà cercare di mettere assieme una nuova maggioranza di governo, ma ciò avverrà difficilmente se a prevalere dovesse essere il PVV di Wilders. Al momento, Rutte sembra essere favorito per confermarsi alla guida del prossimo governo, anche se la composizione della futura maggioranza sarà tutta da verificare.
Quel che è certo è che, se anche Wilders rimarrà fuori dalle stanze del potere a L’Aia, la sua presenza continuerà a essere determinante e, anzi, dall’opposizione contribuirà con ogni probabilità a spostare ulteriormente a destra il panorama politico olandese e, forse, anche quello di altri paesi europei.
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di Mario Lombardo
Dopo avere rivelato le operazioni di sorveglianza di massa condotte dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), WikiLeaks ha pubblicato martedì la prima parte di un archivio digitale della CIA che mostra come anche la principale agenzia d’intelligence USA sia in possesso di un’ampia gamma di strumenti per penetrare i dispositivi elettronici e come di questi ultimi faccia ampio uso senza il minimo scrupolo morale o legale. La prima tranche di oltre ottomila documenti della CIA è stata battezzata “Anno Zero” e il più ampio progetto di pubblicazione di informazioni riservate dell’agenzia di Langley va sotto il nome di “Vault 7”.
Nel comunicato stampa apparso sul sito di WikiLeaks viene spiegato che il vero e proprio arsenale di “malware” destinato alle operazioni di hackeraggio in mano alla CIA circola da tempo “in maniera non autorizzata” tra “contractors” e addetti ai lavori alle dipendenze del governo, uno dei quali ha deciso di condividere le informazioni con l’organizzazione di Julian Assange.
In breve, i documenti apparsi on-line martedì dimostrano come la CIA abbia a disposizione “malware, virus, trojan e sistemi per il controllo remoto” che le consentono, tra l’altro, di penetrare, raccogliere informazioni e controllare apparecchi come smartphone e tablet, ma anche televisori con connessione a internet e automobili di ultima generazione.
La divisione all’interno della CIA che si occupa di queste attività prende il nome di Center for Cyber Intelligence (CCI) e, grazie ai suoi cinquemila addetti, ha realizzato più di mille sistemi di hackeraggio. Oltre ai programmi sviluppati internamente, la CIA fa uso anche di “malware” già in circolazione oppure scoperti o realizzati da altre compagnie che operano nell’ambito della sicurezza informatica. Secondo WikiLeaks, la CIA “ha creato a tutti gli effetti la propria NSA”, ma con ancora meno trasparenza e vincoli legali.
La prima gravissima preoccupazione legata all’esistenza di queste operazioni è la violazione sistematica del diritto di qualsiasi individuo alla privacy e a non subire perquisizioni o requisizioni arbitrarie, sia pure di informazioni elettroniche. Ciò era vero anche per i programmi della NSA, i quali però sono almeno in parte “autorizzati” da un apparato pseudo-legale creato ad hoc che la CIA non è tenuta invece a rispettare.
L’altro aspetto allarmante, più volte sottolineato da WikiLeaks, ha a che fare con la possibilità che i programmi utilizzati dalla CIA per penetrare nei dispositivi si diffondano in rete ed entrino in possesso di truffatori e organizzazioni criminali. Per WikiLeaks, anzi, la CIA avrebbe già “perso il controllo della maggior parte del proprio arsenale di hackeraggio”.
Il reparto della CIA dedicato ai dispositivi mobili ha sviluppato numerosi sistemi per attaccare e controllare remotamente gli smartphone con i sistemi operativi iOS (Apple), Android e Windows. Un’altra rivelazione dimostra poi come il dibattito in corso da tempo negli USA sull’opportunità di consentire al governo l’accesso alle comunicazioni elettroniche criptate sia fuorviante e ormai di fatto superato. Se la CIA non sarebbe in grado di violare i sistemi crittografici previsti da programmi come WhatsApp, essa può comunque “bypassarli” e impossessarsi del dispositivo, riuscendo a leggere i messaggi scambiati dal suo possessore.
Il tipico modo di operare della CIA è spiegato dallo sfruttamento delle vulnerabilità dei software sviluppati dalle aziende produttrici dei dispositivi elettronici. Eventuali punti deboli di questi programmi vengono chiamati in gergo “zero giorni”, poiché, in seguito a una direttiva emanata dall’amministrazione Obama dopo le rivelazioni di Snowden, le agenzie governative americane che dovessero scoprirli si impegnano a informarne tempestivamente le stesse compagnie private in modo da consentire loro di porvi rimedio il prima possibile.
La CIA, però, è rimasta in silenzio sui buchi dei sistemi operativi di smartphone e tablet, così da poterli utilizzare per avere accesso ai dispositivi degli utenti, consentendo allo stesso tempo anche all’intelligence di altri paesi o a cyber-criminali di poterli sfruttare.
Ampio rilievo è stato dato dalla stampa di tutto il mondo al programma “Weeping Angel”, utilizzato per assumere il controllo delle “smart TV”. In maniera degna del “Grande Fratello” orwelliano, la CIA è infatti in grado di attaccare i televisori Samsung con connessione a internet. Una volta penetrati, questi dispositivi vengono messi apparentemente in modalità “spento”, ma in realtà un “malware” registra le conversazioni delle persone che si trovano nelle vicinanze e le invia a un server della CIA.
Uno dei documenti pubblicati da WikiLeaks rivela anche come l’agenzia di Langley nell’ottobre del 2014 discuteva della possibilità di hackerare i sistemi di controllo di automobili e altri mezzi di trasporto di recente costruzione. Lo scopo di simili operazioni non è spiegata in modo esplicito, ma WikiLeaks ipotizza ragionevolmente che ciò potrebbe servire a portare a termine assassini i cui responsabili sarebbe di fatto impossibile individuare.
A molti, questa capacità ha ricordato la vicenda del giornalista Michael Hastings, morto nel 2013 in seguito a uno strano incidente stradale a Los Angeles. Hastings aveva da poco pubblicato un articolo che aveva costretto alle dimissioni l’allora comandante delle forze di occupazione USA in Afghanistan, Stanley McChrystal, e stava lavorando a un profilo del direttore della CIA, John Brennan.
Nei giorni precedenti l’incidente fatale, il giornalista di Rolling Stone e BuzzFeed aveva confidato ad amici e colleghi di sentirsi sotto sorveglianza e che la sua auto era stata probabilmente manomessa. Molte teorie erano state proposte per spiegare l’incidente, ma alcuni esperti avevano affermato che la dinamica poteva far pensare a un hackeraggio del sistema informatico dell’auto su cui viaggiava Hastings.
Le attività di hackeraggio della CIA sono condotte infine non solo dal quartier generale di Langley, nello stato americano della Virginia, ma anche dal consolato USA di Francoforte, in Germania, mentre almeno una parte dei programmi vengono sviluppati in collaborazione con l’MI5, cioè il servizio segreto domestico britannico.
Agli agenti incaricati degli attacchi informatici di stanza in Germania vengono forniti passaporti diplomatici e la copertura del dipartimento di Stato. Nei documenti di WikiLeaks viene spiegato come gli hacker della CIA dovevano rispondere alle domande degli agenti della dogana tedesca dicendo di essere consulenti tecnici addetti al consolato americano di Francoforte.
Le ultime rivelazioni di WikiLeaks giungono nel pieno dello scontro tra il presidente Trump e i suoi oppositori sulla questione della presunta interferenza della Russia nelle elezioni presidenziali americane. Mentre in molti nel Partito Democratico e in quello Repubblicano continuano a invocare un’indagine ufficiale sul ruolo di Mosca e dei possibili legami tra l’entourage di Trump e il Cremlino, c’è da credere che nessuno a Washington chiederà di far luce sulle operazioni di sorveglianza ben più gravi della CIA.
Queste ultime sono state sviluppate e ampliate nell’ultima fase della presidenza Obama e sono perfettamente coerenti con l’espansione dei poteri dell’apparato della “sicurezza nazionale”, ma anche con l’intensificazione dell’impegno militare all’estero e l’erosione dei diritti democratici, che ha caratterizzato i due mandati dell’ormai ex inquilino della Casa Bianca.
Il sistema di sorveglianza di massa su cui ha fatto nuovamente luce questa settimana WikiLeaks, e che già aveva esposto Edward Snowden, è stato consegnato ora a una nuova amministrazione dalle inclinazione fasciste, la quale se ne servirà per accelerare ancor più le politiche reazionarie e anti-democratiche che hanno segnato gli Stati Uniti negli ultimi due decenni.