di Michele Paris

Il secondo tentativo in poche settimane dell’amministrazione Trump e della leadership Repubblicana al Congresso americano di sostituire la riforma sanitaria di Obama con una nuova legge continua ad avere prospettive estremamente incerte a causa delle profonde divisioni interne al partito di governo su alcuni punti cruciali della proposta in discussione.

Nonostante il naufragio nel mese di marzo del cosiddetto “American Health Care Act” (AHCA), sempre per l’impossibilità di trovare un accordo tra i deputati Repubblicani, il presidente e i vertici del suo partito avevano provato a rilanciare sulla riforma sanitaria per consegnare alla Casa Bianca almeno un successo legislativo dopo i primi 100 giorni di governo Trump segnati da confusione e polemiche.

Le modifiche apportate all’AHCA hanno però confermato come la coperta resti molto corta sulla questione sanitaria. Il pacchetto che dovrebbe prendere il posto di “Obamacare” è stato infatti modellato per venire incontro alle perplessità dell’ala ultra-conservatrice del Partito Repubblicano, la quale aveva fatto saltare l’intesa sulla versione precedente, ma ha inevitabilmente provocato numerose defezioni tra i deputati “centristi”.

La sorte dell’AHCA dipende ora dalla possibilità di ottenere un compromesso tra le due anime del partito di maggioranza. La prima è intenzionata a dare la massima libertà alle compagnie assicurative private e a ridurre al minimo l’impegno finanziario pubblico per l’assistenza sanitaria, mentre la seconda appare preoccupata dalle reazioni negative dei propri elettori per l’eventuale perdita della copertura o per il possibile aumento dei costi necessari per riceverla.

La questione cruciale è rappresentata dall’obbligo per le compagnie di assicurazione private di garantire la copertura sanitaria a individui con “condizioni preesistenti” di malattia senza incrementi dei premi da pagare. Questa imposizione, prevista da “Obamacare”, è stata di fatto eliminata dalla nuova versione dell’AHCA, anche se lo stesso Trump e i leader Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti continuano in sostanza a negarlo.

Le nuove norme prevedono che le amministrazioni dei singoli stati americani possano concedere alle compagnie di assicurazione la possibilità di richiedere a clienti con una storia di malattia pregressa premi esorbitanti, cioè fino a cinque volte superiori a quelli applicati a individui sani e di giovane età.

I sostenitori della legge affermano che quanti presentano “condizioni preesistenti” non sarebbero penalizzati da costi maggiori per due ragioni. La prima perché i premi possono essere maggiorati solo se un individuo che ha avuto malattie in passato non è stato coperto da un’assicurazione sanitaria per un periodo di almeno 63 giorni nell’anno precedente la stipula della polizza.

La seconda perché gli stati che permettono il lievitare dei premi dovranno creare dei piani alternativi “ad alto rischio” destinati agli individui con “condizioni preesistenti”. A questo scopo, il governo federale stanzierà tuttavia appena 13 miliardi di dollari l’anno, cioè una cifra insufficiente a garantire una copertura decente a tutti coloro che vedranno moltiplicare i costi delle loro polizze private.

Che quest’ultima misura avrà un impatto trascurabile è confermato dal fatto che essa ha fatto poco o nulla per convincere i deputati Repubblicani indecisi ad appoggiare la nuova versione dell’AHCA o per far cambiare idea a quelli contrari. Secondo i media americani, lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, starebbe perciò preparando un’ulteriore modifica alla legge per persuadere i colleghi “moderati”, anche se ciò potrebbe nuovamente far perdere qualche voto tra i conservatori.

Vista l’umiliazione seguita al fallimento del primo tentativo di abrogare “Obamacare”, risoltosi senza nemmeno un voto dell’aula, è singolare come la questione sia stata riportata all’ordine del giorno da parte di Trump e dei vertici Repubblicani senza la certezza di un accordo all’interno del partito sulla nuova versione dell’AHCA. Una nuova sconfitta su questo fronte potrebbe oltretutto ripercuotersi negativamente sul resto dell’agenda della nuova amministrazione.

I numeri alla Camera sembrano per il momento tutt’altro che favorevoli per i promotori della legge sul sistema sanitario, senza parlare degli ostacoli ancora maggiori che essa incontrerebbe poi al Senato.

I 193 deputati Democratici voteranno compatti contro la nuova legge, così che la leadership Repubblicana potrà permettersi al massimo 22 defezioni tra la propria delegazione. Gli ultimi conteggi dei giornali USA davano 21 deputati Repubblicani decisi a votare “no” e 24 indecisi. Nelle ultime ore, le pressioni di Trump e del suo vice, Mike Pence, si sono però moltiplicate per convincere gli scettici, ricevuti dallo stesso presidente mercoledì alla Casa Bianca.

I tempi sono in ogni caso molto stretti. Giovedì la Camera dei Rappresentanti sospenderà i lavori fino al 16 maggio e senza un voto dell’aula l’AHCA potrebbe perdere definitivamente il già modesto slancio degli ultimi giorni.

La tendenza alla vigilia di un possibile voto non promette comunque nulla di buono per i Repubblicani. Due defezioni di spicco hanno gettato un’ombra sulla nuova legge a inizio settimana, quando i deputati Billy Long e Fred Upton, rispettivamente di Missouri e Michigan, hanno fatto sapere ufficialmente di non poter votare a favore dell’AHCA nella versione attuale.

Long è considerato uno dei membri del Congresso più vicini a Trump, mentre Upton era stato il promotore di svariati disegni di legge Repubblicani approdati senza successo alla Camera a partire dal 2010 per cercare di revocare la riforma sanitaria di Obama. Dopo l’incontro con Trump, però, Upton è apparso più ottimista, poiché il presidente avrebbe appoggiato la sua proposta di aggiungere altri 8 miliardi di dollari allo stanziamento federale per i piani sanitari “ad alto rischio” nei singoli stati.

L’AHCA di Donald Trump rappresenta ad ogni modo un passo indietro rispetto a “Obamacare”, della quale aggrava gli aspetti più reazionari, come la prevalenza dell’offerta privata, il “focus” sul taglio dei costi sanitari e la promozione di un sistema di assistenza a due velocità, uno costoso e di prima qualità per chi può permetterselo e un altro con servizi razionati per i più poveri.

Oltre poi alla già ricordata questione dell’aumento dei premi assicurativi per quanti presentano “condizioni preesistenti”, l’AHCA consente ai singoli stati americani di non applicare la norma, anch’essa prevista da “Obamacare”, che impone ai piani di copertura sanitari offerti di includere una serie di servizi fondamentali, tra cui visite di emergenza, ricoveri ospedalieri, esami di laboratorio e vaccinazioni.

La gran parte degli elementi regressivi inclusi nella prima versione dell’AHCA è rimasta invariata dopo le modifiche alla legge oggetto di discussione in questi giorni. Per dare un’idea dell’impatto che essa avrebbe in caso di approvazione, basti ricordare che l’analisi di un ufficio indipendente del Congresso nel mese di marzo aveva stimato in 14 milioni il numero di americani che con l’AHCA perderebbe la copertura sanitaria già nel 2018 e 24 milioni entro il 2026.

Inoltre, la nuova legge cambierebbe i criteri di assegnazione dei sussidi per l’acquisto di polizze private, determinando un aumento complessivo dei premi per singoli e famiglie. L’AHCA, infine, ridurrebbe i fondi federali di Medicaid per centinaia di miliardi di dollari, con il risultato che, nel prossimo decennio, altri 14 milioni di americani sarebbero privati della copertura sanitaria ottenuta grazie al popolare programma di assistenza pubblico destinato ai redditi più bassi.

di Michele Paris

Il recente invito per un vertice alla Casa Bianca, presentato dal presidente americano a quello delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha scatenato un’ondata di critiche negli Stati Uniti e non solo per la tendenza di Donald Trump a ignorare violazioni dei diritti democratici di discussi leader stranieri, legittimando così i loro metodi autoritari.

La polemica è stata amplificata dalle dichiarazioni rilasciate praticamente in contemporanea da Trump sulla sua ipotetica disponibilità a incontrare  il dittatore nordcoreano, Kim Jong-un, nonostante le tensioni alle stelle tra i due paesi nemici. Inoltre, la stampa ufficiale negli USA, soprattutto quella di orientamento “liberal”, non ha mancato di ricordare come Trump abbia già accolto a Washington il presidente-macellaio egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, e, malgrado qualche recente ripensamento, avesse più volte manifestato la sua ammirazione per Vladimir Putin.

Se le ultime vicende mostrano per l’ennesima volta come la questione dei diritti umani e democratici sia per il governo americano uno strumento da utilizzare nelle relazioni internazionali a seconda della propria convenienza, le stesse critiche della stampa sono altamente selettive e tendono ad attenuarsi o a passare in secondo piano quando i dittatori di turno ospitati alla Casa Bianca sono completamente allineati agli interessi strategici degli Stati Uniti.

Detto questo, il rilievo dell’invito di Trump a Duterte, nonché il quasi rifiuto di quest’ultimo, è collegato all’evolversi della tesissima situazione in Asia orientale a causa dell’escalation di pressioni e minacce messa in atto dal governo USA nei confronti di Cina e Corea del Nord.

Per cominciare, il presidente americano avrebbe parlato telefonicamente con il suo omologo filippino nella giornata di sabato, durante la quale gli avrebbe appunto esteso un invito per un faccia a faccia alla Casa Bianca, senza però che l’offerta fosse stata preparata, come di consuetudine, dal dipartimento di Stato di Washington.

Duterte viene considerato in Occidente e, in particolare, negli Stati Uniti, come un leader da cui tenersi alla larga e possibilmente da emarginare, poiché da quando è diventato presidente delle Filippine nel giugno del 2016 ha promosso e presieduto a una durissima guerra contro il narcotraffico che ha finora provocato migliaia di omicidi “extra-giudiziari” per mano della polizia e di vere e proprie squadre della morte.

In realtà, questa violenta campagna di Duterte era stata appoggiata inizialmente dall’amministrazione Obama, anche tramite finanziamenti diretti alle forze di sicurezza filippine, e la sua fama di “sceriffo” senza scrupoli per i diritti civili era già nota in precedenza, vista la guerra simile condotta per anni in veste di sindaco della città di Davao.

Il cambiamento di retorica a Washington nei confronti di Duterte è dovuto così al rimescolamento degli obiettivi strategici delle Filippine avvenuti dopo la sua elezione. Mentre il suo predecessore, Benigno Aquino, era stato un docile esecutore delle direttive di Washington, Duterte ha subito mostrato di voler perseguire una politica estera più indipendente e di aprire diplomaticamente ed economicamente alla Cina.

La mossa di Trump del fine settimana va perciò inserita in questo quadro e lo stesso presidente americano ha chiarito in un’intervista rilasciata lunedì a Bloomberg News come le Filippine siano “molto importanti strategicamente e militarmente” per gli Stati Uniti.

Già dopo che era circolata la notizia della telefonata tra Trump e Duterte, definita “molto amichevole” dall’inquilino della Casa Bianca, il capo di gabinetto del presidente, Reince Priebus, aveva chiarito in un’apparizione alla ABC che la conversazione era stata dedicata interamente alla Corea del Nord. Vista la gravità della crisi nella penisola di Corea, in sostanza, gli USA starebbero cercando il più ampio appoggio possibile dai partner della regione.

In molti hanno peraltro fatto notare come le Filippine abbiano ben poca influenza sugli eventi coreani, anche se il riferimento dell’amministrazione Trump a Pyongyang è da leggere in chiave cinese. La campagna contro la Corea del Nord, cioè, ha come vero obiettivo il contenimento di Pechino e, in questa prospettiva, le Filippine sono una pedina fondamentale per la strategia statunitense.

L’intervento di Trump con il presidente filippino e l’invito a Washington fanno parte insomma degli sforzi della nuova amministrazione Repubblicana di “riconquistare” Manila dopo le frizioni con Obama e di riportare il tradizionale alleato in Estremo Oriente sulla stessa lunghezza d’onda degli USA nell’approccio alla Cina.

Non a caso, infatti, la telefonata tra Trump e Duterte è avvenuta durante le fasi finali del vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN), andato in scena a Manila e presieduto dal governo filippino, al termine del quale gli Stati Uniti speravano di ottenere la tanto sospirata dichiarazione ufficiale di condanna delle attività di Pechino nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale.

Al contrario, i membri dell’ASEAN non si sono accordati su questo punto e ancora una volta nel comunicato finale del summit non si è avuta traccia di censura della Cina. Nel recente passato erano stati paesi molto vicini a Pechino, come Cambogia o Laos, a bloccare dichiarazioni critiche nei confronti della Cina, ma in questo caso sarebbe stato proprio Duterte a stralciare ogni riferimento alle contese nel Mar Cinese Meridionale.

Il leader delle Filippine avrebbe bocciato una bozza di dichiarazione ASEAN che faceva riferimento a una sentenza dello scorso anno di un tribunale internazionale, seguita a una causa intentata proprio da Manila su indicazione di Washington, che aveva condannato la Cina per le sue attività di costruzione su isole rivendicate da vari paesi nel Mar Cinese Meridionale.

Duterte, poi, ha se possibile rincarato ulteriormente la dose, infliggendo un’altra umiliazione agli Stati Uniti, quando ha detto di non essere certo di poter accettare l’invito di Trump visti i suoi impegni che lo porteranno a breve in Russia e in Israele. Queste ultime dichiarazioni, inoltre, Duterte le ha rilasciate dopo avere visitato personalmente tre navi da guerra cinesi ancorate al porto della città di Davao.

Com’è spesso accaduto anche nei mesi scorsi, le parole di Duterte che hanno evidenziato un’attitudine marcatamente anti-americana sono state in parte rettificate da membri del suo governo. In questo caso è stato un portavoce del ministero degli Esteri a precisare che il presidente filippino si recherà “probabilmente” a Washington nei prossimi mesi e che il governo di Manila sta attendendo la notifica ufficiale dell’invito dalla Casa Bianca.

Ciò non attenua comunque di molto il messaggio lanciato da Duterte all’alleato americano, anche se conferma l’esistenza di forze contrastanti nella classe dirigente delle Filippine circa l’approccio da tenere nei confronti degli USA e, di conseguenza, della Cina. Soprattutto, poi, tra gli esponenti dell’opposizione politica e i vertici militari appare evidente l’agitazione anti-Duterte, con ogni probabilità alimentata da Washington, concretizzatasi in tentativi di impeachment e voci di un possibile golpe.

A dimostrazione del fatto che l’amministrazione Duterte stessa sta provando a intraprendere un percorso diplomatico basato sull’equidistanza tra Washington e Pechino, da Manila continuano infine a non mancare anche i segnali anti-cinesi.

Ad esempio, qualche settimana fa il ministro della Difesa filippino, Delfin Lorenzana, e il comandante delle Forze Armate di Manila, generale Eduardo Año, avevano visitato un’isola nell’arcipelago conteso delle Spratly, nel Mar Cinese Meridionale, per rivendicare la sovranità filippina su di essa.

Il blitz era stato criticato da Pechino, da dove più recentemente i lavori ordinati dal governo filippino per potenziare le infrastrutture già costruite sull’isola sono stati bollati come “illegali”. Manila, da parte sua, ha invece ribadito fermamente la legittimità delle operazioni condotte su un’isola da considerarsi a tutti gli effetti parte della municipalità filippina di Palawan.

di Michele Paris

Con l’avvicinarsi del traguardo dei primi 100 giorni alla Casa Bianca e viste le crescenti inquietudini di Wall Street per un’amministrazione fin qui inconcludente sul fronte economico, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha presentato questa settimana una proposta molto approssimativa di riforma fiscale destinata ad abbassare drasticamente il livello di tassazione degli americani più ricchi, a cominciare da egli stesso e dalla sua famiglia.

Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il direttore del Consiglio Nazionale per l’Economia, Gary Cohn, sono stati protagonisti di una conferenza stampa alla Casa Bianca nel pomeriggio di mercoledì per spiegare i punti fondamentali della proposta di Trump in ambito fiscale.

Con particolare entusiasmo, i due membri multimilionari ed ex Goldman Sachs del gabinetto Trump hanno elencato i principali cambiamenti proposti alle regole del fisco americano che, se implementati, allargheranno in maniera smisurata il deficit federale e il debito pubblico degli Stati Uniti per consentire ai redditi più elevati e alle grandi imprese di accumulare ulteriori ricchezze.

La misura più consistente e significativa avanzata dal presidente USA è la riduzione della tassa nominale sulle imprese dall’attuale 35% al 15%. Molte grandi corporation americane non pagano nemmeno lontanamente la quota attuale, grazie a espedienti più o meno legali, sottraendo già ingenti risorse pubbliche spesso “parcheggiate” in paradisi fiscali o in paesi che offrono regimi fiscali più vantaggiosi.

Secondo alcuni studi citati dai media americani, l’implementazione di questo taglio alle tasse delle aziende private determinerebbe mancati introiti per le casse federali per almeno duemila miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

La Casa Bianca e i sostenitori dell’abbassamento del carico fiscale sulle imprese continuano a proporre la favola della necessità di liberare risorse a favore di queste ultime per creare posti di lavoro, in modo che la crescita economica così stimolata possa compensare il diminuito gettito fiscale.

Come ha già dimostrato la storia di questi ultimi anni, in gran parte i profitti extra delle corporation non vengono in realtà destinati agli investimenti ma sono piuttosto distribuiti agli azionisti o impiegati nel riacquisto delle proprie azioni.

Comunque, anche ammettendo per vera questa fantasia neoliberista, gli stessi economisti conservatori avvertono in molti casi dell’impossibilità di far fronte interamente al buco di bilancio provocato dai tagli alle tasse per i più ricchi attraverso il margine di crescita economica che simili iniziative dovrebbero generare, tanto più in scenari precari come quelli attuali.

Ad esempio, la presidente del “Committee for a Responsible Federal Budget”, che si batte per il rigore delle finanze pubbliche negli USA, in un’intervista al New York Times ha calcolato che l’intera riforma fiscale di Trump ridurrebbe le entrate federali per una cifra compresa tra i tremila e i settemila miliardi di dollari in dieci anni, così da richiedere, per compensazione, un tasso di crescita economica annua del 4,5%, vale a dire più del doppio di quello previsto.

Il costo enorme della riforma fiscale proposta da Trump è determinato anche dall’abolizione della tassa di successione, oggi applicata solo alle fortune superiori ai 5 milioni di dollari, e alla cosiddetta “Alternative Minimum Tax” (AMT), ovvero una sorta di tassa supplementare sul reddito che va a compensare esenzioni e riduzioni dell’aliquota di quella tradizionale di cui beneficiano spesso e per vari motivi i contribuenti più benestanti.

Queste due misure finirebbero per favorire in modo sensibile proprio il presidente Trump e la sua famiglia, nonché molti membri facoltosi del suo gabinetto. Per quanto riguarda la prima, gli effetti sono di per sé evidenti, mentre per la seconda ciò si evince dalla recente pubblicazione da parte del presidente della sua dichiarazione dei redditi per l’anno 2005. In essa era emerso come Trump avesse pagato 38 milioni di dollari di tasse invece di 5 proprio in base alla AMT.

Inoltre, dietro alla pretesa di razionalizzare il complesso sistema di tassazione americano, la Casa Bianca ha inserito un ulteriore regalo ai più ricchi. Le aliquote riservate ai contribuenti individuali passeranno da sette a tre, ma quella più alta scenderà dal 39,6% al 35%. La sovrattassa sui “capital gains” del 3,8%, introdotta da Obama per finanziare la legge sul sistema sanitario del 2010, dovrebbe essere infine eliminata.

Nella proposta di riforma ci sono anche alcune iniziative rivolte ai contribuenti delle classi medie. Una di queste è il raddoppio delle deduzioni fiscali consentite a singoli e famiglie, anche se gli effetti benefici potrebbero essere annullati dallo stop ad altre detrazioni solitamente previste negli Stati Uniti, come quelle per le tasse pagate a livello statale e locale o per l’assistenza sanitaria offerta dai datori di lavoro.

Le reazioni del panorama politico di Washington alla bozza di riforma fiscale proposta da Trump sono state particolarmente rivelatrici. I vertici del Partito Democratico hanno denunciato il colossale regalo ai ricchi americani che essa comporterebbe, ma più che altro hanno espresso critiche nei confronti del presidente a causa dell’esplosione del debito pubblico che questi tagli alle tasse provocherebbero.

Molti giornali hanno poi descritto il presunto travaglio dei conservatori all’interno del Partito Repubblicano, i quali dovranno decidere se appoggiare una riforma che intende realizzare uno dei principi cardine del loro programma politico – un carico fiscale irrisorio per i più ricchi – pur correndo il rischio di allentare la presa sulla riduzione del debito pubblico, considerando anche che il gigantesco bilancio militare USA continua a risultare non solo intoccabile ma in costante crescita.

In effetti, le dichiarazioni di svariati “falchi” del debito federale in questi giorni non hanno mostrato particolari apprensioni o dilemmi e ciò perché il taglio delle tasse per i redditi più alti e per le grandi aziende sarà compensato con un vero e proprio assalto alla spesa sociale, da tempo oggetto di sforzi bipartisan e, soprattutto, del partito che oggi governa a Washington.

Anzi, proprio l’allargamento del buco del bilancio americano e del debito pubblico attraverso la riduzione del carico fiscale per i più ricchi faciliterà il compito di quanti chiedono una riforma complessiva dei cosiddetti “entitlements”, vale a dire i programmi pubblici di assistenza come Medicaid, Medicare e Social Security che assorbono una fetta consistente della spesa federale e svolgono spesso una funzione letteralmente vitale per gli americani più poveri.

Per quanto riguarda il Partito Democratico, nonostante le critiche a Trump di questi giorni è probabile che almeno una parte di esso sarà alla fine disponibile a qualche compromesso. Già l’amministrazione Obama aveva infatti proposto la riduzione delle aliquote riservate a individui e aziende, sia pure non ai livelli prospettati da Trump, mentre anche molti Democratici al Congresso hanno mostrato in più occasioni di condividere con i colleghi Repubblicani la teoria dello stimolo all’economia tramite l’abbattimento del carico fiscale.

La proposta di Trump presentata mercoledì è ad ogni modo solo il primo passo di un processo che prevederà lunghe discussioni e trattative prima del necessario voto del Congresso. Determinante, in questo quadro, sarà capire se la maggioranza Repubblicana intenderà procedere per conto proprio o se si cercherà di coinvolgere almeno una parte dell’opposizione Democratica.

Infatti, per essere introdotti in maniera permanente, i tagli alle tasse dovranno essere approvati da una super-maggioranza al Senato di Washington, cosa che richiede l’appoggio di almeno otto membri Democratici. Questa opzione obbligherà quasi certamente i leader Repubblicani e la Casa Bianca ad attenuare alcune misure più estreme.

Se, invece, questi ultimi dovessero respingere ogni compromesso e procedere secondo la linea tracciata da Trump, una volta superate le resistenze interne potrebbero comunque votare un pacchetto fiscale con una maggioranza semplice. Secondo le regole del Senato, tuttavia, in questo caso i tagli alle tasse durerebbero solo per dieci anni e dovrebbero essere poi eventualmente prolungati da un nuovo voto dell’aula.

di Mario Lombardo

Il governo americano ha intrapreso una nuova serie di iniziative in questi giorni che confermano la ferma intenzione di tenere alta la pressione sulla Corea del Nord e il principale alleato di quest’ultimo paese, ovvero la Cina. Nel pieno dei festeggiamenti in corso a Pyongyang per l’85esimo anno dalla creazione del precursore dell’esercito nordcoreano, mercoledì il comando delle forze armate USA di stanza in Corea del Sud ha deciso di procedere con l’installazione di un sistema di difesa anti-missilistico altamente controverso.

I primi componenti del cosiddetto THAAD (“Difesa d’Area Terminale ad Alta Quota”) sono stati trasportati da alcuni veicoli militari americani nel luogo dove il sistema dovrebbe essere posizionato in territorio sudcoreano in base a quanto stabilito dai governi di Washington e Seoul lo scorso mese di luglio.

Le parti del THAAD posizionate nei pressi della località di Seongju erano arrivate in Corea del Sud a marzo. L’improvvisa accelerazione dei lavori sulle batterie anti-missile è dovuta in primo luogo all’intenzione da parte americana di lanciare un ulteriore segnale minaccioso nei confronti del regime di Kim Jong-un, visto che l’avvio dell’installazione coincide con uno dei momenti più delicati nella storia recente dei rapporti USA-Corea del Nord.

Non solo, l’ordine di procedere con il THAAD è legato alla necessità di mettere il prossimo governo sudcoreano davanti al fatto compiuto, poiché sembra probabile che dalle elezioni presidenziali del 9 maggio prossimo uscirà vincitore il candidato di centro-sinistra, Moon Jae-in, che aveva assunto posizioni relativamente critiche dello stesso sistema anti-missile.

In realtà, con l’approssimarsi del voto il leader del Partito Democratico di Corea ha in parte ammorbidito la sua opposizione al THAAD, giudicandolo accettabile come strumento difensivo se Pyongyang dovesse continuare a minacciare Seoul.

Gli Stati Uniti temono però che un suo successo alle urne possa fare esplodere le proteste contro un piano militare impopolare e di fatto imposto da Washington dietro le spalle dei sudcoreani. Già nella primissima mattinata di mercoledì, i mezzi americani giunti a Seongju con i componenti del THAAD sono stati infatti accolti da migliaia di residenti che hanno cercato di bloccarli, prima dell’intervento della polizia sudcoreana.

La possibilità di installare e rendere operativo il THAAD è stata in ogni caso offerta dalle continue provocazioni della Corea del Nord, anche se questo sistema, al contrario di quanto sostengono i governi di Stati Uniti e Corea del Sud, non è difensivo né è rivolto principalmente a Pyongyang.

L’obiettivo è piuttosto la Cina e, in seconda battuta, la stessa Russia, visto che il THAAD in territorio sudcoreano rischierebbe di neutralizzare il loro deterrente nucleare, soprattutto quello di Pechino, rendendo potenzialmente inefficace una risposta a un eventuale primo attacco americano.

La decisione di questa settimana sul THAAD segue poi l’arrivo nelle acque dell’Asia orientale di varie navi da guerra USA per condurre esercitazioni con le forze non solo della Corea del Sud ma anche del Giappone.

Nella serata di mercoledì è previsto anche il lancio di un missile balistico intercontinentale in grado di portare una testata nucleare, in un test americano che vedrà partire l’ordigno dalla California e atterrare nell’oceano Pacifico. Singolarmente, il test missilistico degli Stati Uniti è della stessa natura di quello che in molti stanno attendendo da Pyongyang e che, se condotto, potrebbe scatenare un attacco militare da parte dell’amministrazione Trump.

Malgrado il livello di tensione alle stelle, in molti ritengono comunque improbabile un attacco militare americano contro la Corea del Nord, così che l’escalation promossa dalla Casa Bianca servirebbe più che altro per esercitare pressioni sia su Pyongyang sia su Pechino, in modo da rimettere in linea il regime di Kim.

A sostegno di questa interpretazione ci sarebbe tra l’altro il rapporto “amichevole” instaurato da Trump con il presidente cinese, Xi Jinping, dopo il recente faccia a faccia nella residenza del presidente americano in Florida. I due hanno discusso telefonicamente della Corea del Nord anche lunedì, nel quadro di una sorta di linea diretta tra le due potenze che per alcuni dovrebbe scongiurare il pericolo di un conflitto nella penisola di Corea.

In realtà, la nuova amministrazione Repubblicana, dietro la spinta dell’apparato militare e della galassia “neo-con”, ha già mostrato di non avere troppi scrupoli nel cercare di imporre i propri interessi strategici, come ha testimoniato il bombardamento dei primi di aprile contro una base aerea delle forze armate siriane.

L’escalation di provocazioni nei confronti della Corea del Nord rischia poi di spingere il livello dello scontro al di là dei limiti entro i quali lo stesso governo cinese può essere in grado di influenzare le decisioni del regime di Pyongyang.

Da Pechino si moltiplicano infatti le dichiarazioni allarmate per la situazione nella penisola di Corea, a conferma che la leva cinese nei confronti di Kim è limitata. I media cinesi ufficiali continuano a pubblicare commenti e editoriali nei quali si mette in guardia dal pericolo di una conflagrazione che potrebbe facilmente sfociare in un conflitto nucleare, come se questo rischio sia da considerare imminente.

Allo stesso tempo, la Cina insiste affinché gli Stati Uniti dimostrino la loro disponibilità a fare qualche concessione alla Corea del Nord in cambio di un segnale da parte di Kim ad astenersi da ulteriori provocazioni e a congelare il proprio programma nucleare e balistico.

Il nodo della crisi coreana resta però difficilmente risolvibile, dal momento che in essa si intrecciano le mire di un governo, come quello americano, spinto da una logica distruttiva che non ammette concessioni o cedimenti agli interessi di altri paesi con il dilemma strategico che caratterizza le azioni della Cina.

Pechino deve cioè muoversi entro margini molto stretti, misurando le pressioni che può esercitare sull’alleato nordcoreano, in modo da non fornire l’occasione per un’aggressione militare americana, con la necessità di preservare il regime di Kim, la cui caduta materializzerebbe l’incubo di vedere le forze armate degli Stati Uniti subito al di là del confine cinese.

Le manovre americane per la penisola di Corea e, di riflesso, per la gestione dei rapporti con la Cina, sembrano comunque dover riservare qualche mossa clamorosa. L’amministrazione Trump continua infatti a mantenere la crisi coreana in cima alla propria agenda, anche attraverso gesti plateali e decisamente insoliti, per non dire senza precedenti, come quello registrato mercoledì.

Il presidente ha convocato tutti e cento i membri del Senato americano alla Casa Bianca, dove sono stati informati della situazione in Corea del Nord, ovvero dei piani di guerra che sembrano essere allo studio. I senatori di entrambi gli schieramenti sono stati ragguagliati dal segretario alla Difesa, generale James Mattis, dal capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, dal direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats, e dal segretario di Stato, Rex Tillerson.

Il briefing ai senatori presso la Casa Bianca testimonia non solo della gravità degli scenari coreani, ma anche il processo avanzato di deterioramento delle procedure democratiche negli Stati Uniti, con il Congresso di fatto privato del potere di autorizzare azioni militari, decise ormai in completa autonomia dall’esecutivo e dai militari.

La campagna in atto contro la Corea del Nord dovrebbe proseguire infine nella giornata di venerdì, quando lo stesso Tillerson presiederà al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una riunione incentrata sul regime di Kim e il suo programma nucleare.

L’evento, è facile prevedere, fornirà un’ulteriore occasione agli USA per dipingere Pyongyang come una minaccia vitale alla propria sicurezza e a quella del pianeta, mentre la quasi certa proposta di adottare nuove sanzioni punitive, che ostacolino i limitatissimi scambi commerciali della Corea del Nord, finirà per restringere ancor più le opzioni a disposizione del governo cinese.

di Michele Paris

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia di domenica ha segnato il clamoroso tracollo del sistema sostanzialmente bipartitico che ha dominato il paese negli ultimi decenni. I candidati del Partito Socialista (PS) al governo e la destra gollista de I Repubblicani (LR) sono stati infatti eliminati a beneficio dell’ex ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, e della leader del Fronte Nazionale (FN) neo-fascista, Marine Le Pen.

Per una volta, i sondaggi di opinione della vigilia sono stati confermati dal voto. Macron e Le Pen si sono in pratica equivalsi, con l’ex Socialista che ha sfiorato il 24% e quest’ultima attestata attorno al 21,5%.

Il candidato gollista, François Fillon, non è riuscito a recuperare terreno a sufficienza dopo lo scandalo relativo a un finto lavoro ricoperto dalla moglie e retribuito con soldi pubblici. L’ex primo ministro si è fermato a poco meno del 20% dei consensi, determinando la prima eliminazione al primo turno delle presidenziali francesi di un candidato gollista da oltre tre decenni a questa parte.

Il collasso del PS francese è apparso chiaro invece dall’umiliante 6,3% raccolto da Benoît Hamon. Il vincitore a sorpresa delle primarie del suo partito era stato di fatto scaricato più o meno formalmente dai vertici Socialisti, schieratisi a favore di Macron, perché ritenuto troppo “progressista”.

A determinare l’affondamento di proporzioni storiche del Partito Socialista è stata però l’eredità del presidente uscente, François Hollande, e dei governi che ha presieduto negli ultimi cinque anni. Austerity, deregolamentazione del mercato del lavoro, guerra, stato di emergenza permanente ed erosione dei diritti democratici hanno caratterizzato l’esperienza di governo Socialista, trasformandosi in una batosta elettorale ancora peggiore di quella del 2002 che vide l’esclusione dal secondo turno dell’allora primo ministro, Lionel Jospin.

In molti hanno fatto notare come il ritiro della candidatura di Hamon a favore di Jean-Luc Mélenchon avrebbe potuto spingere quest’ultimo al ballottaggio. Il leader del Partito di Sinistra (PG) e del movimento “France insoumise” (“Francia ribelle”), creato ad hoc per le presidenziali, ha toccato domenica il 19,6% dopo essere riuscito a capitalizzare almeno in parte il diffuso sentimento anti-bellico e anti-liberista tra la popolazione francese.

Se la matematica del dopo voto indica che la confluenza dei voti di Hamon su Mélenchon avrebbe fatto di quest’ultimo il vincitore del primo turno, è altrettanto probabile che un eventuale accordo con il candidato Socialista, che pure era stato esplorato, gli avrebbe fatto perdere un numero considerevole di consensi, visto il discredito del partito di governo tra gli elettori più orientati a sinistra.

Dopo il primo turno di domenica, in ogni caso, i francesi si ritroveranno ora con la prospettiva di una nuova orgia neo-liberista, in caso di successo di Macron al ballottaggio, o dell’abisso della deriva neo-fascista.

Lo scampato pericolo di una sfida al secondo turno tra Mélenchon e Le Pen, oltre all’entusiasmo dei mercati, ha già scatenato la prevedibile campagna pro-Macron dei media e dell’establishment politico francese. Fillon e Hamon hanno già dato indicazione ai propri elettori di votare per il 39enne ex banchiere Rothschild. Mélenchon, invece, non ha per ora espresso apertamente la sua preferenza, sapendo forse che un “endorsement” a favore di Macron sfocerebbe nuovamente in un vicolo cieco per il potenziale movimento progressista coagulatosi attorno alla sua candidatura in questi mesi.

Emmanuel Macron è dunque il candidato di gran lunga preferito dai poteri forti in Francia e in Europa. La sua candidatura è stata costruita a tavolino dopo l’addio al Partito Socialista e la creazione dal nulla di un movimento (“En Marche !”) con nessun radicamento nel paese. Dietro a Macron c’è in sostanza l’élite finanziaria transalpina ed esponenti del Partito Socialista protagonisti della deriva neoliberista, nonché della virtuale distruzione, di questo partito.

Macron è riuscito a sfruttare il discredito del PS, le cui rovinose politiche economiche di questi anni ha peraltro contribuito a formulare, presentandosi come un candidato giovane, dinamico e svincolato dalle logiche di destra e sinistra. La sua rapida ascesa a favorito per l’Eliseo è stata possibile anche grazie all’implosione della candidatura di Fillon, legata in parte ai suoi orientamenti filo-russi, e alla costante promozione della sua immagine da parte dei media ufficiali.

Su questi aspetti il vincitore del primo turno è tornato nel suo discorso seguito alla chiusura delle urne. La retorica del rinnovamento della Francia, del superamento delle divisioni ideologiche e la lotta al nazionalismo del Fronte Nazionale nascondono tuttavia una realtà ben diversa e che è in definitiva ancora una volta quella del neo-liberismo sfrenato, in perfetta continuità con i mandati di Sarkozy e, ancor più, di Hollande.

Nelle due settimane che separano la Francia dal secondo turno, la candidata del FN cercherà perciò di approfittare della natura stessa del progetto politico di Macron, così da smascherare le forze che lo sostengono e di proporsi essa stessa come l’unica alternativa anti-establishment per gli elettori, soprattutto quelli appartenenti alle classi più disagiate.

La strategia dell’estrema destra francese è infatti sempre la stessa. Denuncia della globalizzazione, del capitalismo senza freni e dello smantellamento del welfare, il tutto indirizzato però verso l’ultranazionalismo, l’anti-socialismo, la xenofobia e il razzismo, in un mix che non può che tradursi in un disastro per lavoratori e classe media.

Praticamente tutti i sondaggi ufficiali danno ora Macron in netto vantaggio sulla Le Pen nel secondo turno. In media, l’ex ministro Socialista sembra dover ottenere più del 60% dei consensi nel voto del 7 maggio.

I veri equilibri elettorali potrebbero però essere almeno in parte diversi da quelli proposti dalla stampa, tanto che qualcuno prospetta una possibile sorpresa da qui a due settimane. A rappresentare un’incognita per le chances di successo di Macron è in primo luogo la sua stessa natura artificiosa e di controfigura dei grandi interessi economico-finanziari francesi.

Se, poi, in Francia e nel resto d’Europa c’è da attendersi una certa mobilitazione per evitare l’ascesa al potere della destra neo-fascista, le credenziali di Marine Le Pen e del Fronte Nazionale sono oggi notevolmente superiori rispetto ad esempio al 2002, quando Jean-Marie Le Pen accedette al ballottaggio dove venne schiacciato da Jacques Chirac.

Con il persistere della crisi del capitalismo francese e l’emergere di fortissime tensioni sociali, infatti, la classe dirigente transalpina ha progressivamente adottato buona parte dell’agenda di estrema destra del FN, finendo in definitiva per legittimarlo come un normale partito del panorama politico ufficiale.

A causa anche di queste dinamiche, di fronte a un favorito che, al di là delle apparenze, risulta legato a doppio filo con l’establishment respinto domenica dagli elettori francesi, nel vuoto della sinistra francese potrebbe infilarsi così con successo l’estrema destra e consegnare un risultato che, a tutt’oggi, i sondaggi sembrano escludere categoricamente.


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