Proprio quando sembrava aprirsi all’orizzonte un possibile sbocco pacifico del sanguinoso conflitto in corso da oltre due anni in Yemen, la già drammatica situazione nel paese arabo è tornata a precipitare in seguito al fallimento delle ultime manovre dei regimi del Golfo Persico, sfociate lunedì con l’uccisione dell’ex presidente, Ali Abdullah Saleh.

I tentacoli del “Russiagate” si stanno sempre più avvicinando al presidente americano Trump dopo che il suo ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, ha raggiunto settimana scorsa un accordo con l’FBI. La notizia ha immediatamente moltiplicato i livelli di isteria dei media americani, pronti a giurare che la decisione dell’ex generale sarebbe il segnale della sua prossima intenzione di coinvolgere l’inquilino della Casa Bianca nello “scandalo” delle presunte collusioni con il governo di Mosca.

Il negoziato su Brexit rischia di riaccendere il conflitto in Irlanda dopo 20 anni di pace. La questione è (ed è sempre stata) economica. La premier Theresa May ha giurato che la Gran Bretagna uscirà sia dal mercato unico sia dall’unione doganale europea; di conseguenza, l’Irlanda del Nord (parte dell’UK) e la Repubblica d’Irlanda (membro dell’Ue dal 1973) torneranno a essere divise da una frontiera vecchio stile. Con tanto di controlli doganali, passaporti e camion in coda. Poco importa che al referendum sulla Brexit il 56% dei nordirlandesi abbia votato per rimanere in Europa.

Nelle elezioni tenutesi lo scorso 26 Novembre in Honduras, paese centroamericano noto soprattutto per trovarsi alla testa degli indici delittivi planetari e per ospitare una delle basi militari statunitensi più grandi del mondo, il Presidente uscente, Juan Horlando Hernandez, si è autonominato vincitore delle elezioni.

Quella approvata nella mattinata di sabato dal Senato di Washington può difficilmente essere considerata soltanto come una semplice riforma del sistema fiscale americano. Il pacchetto da 1.500 miliardi di dollari di tagli alle tasse per i più ricchi, fortemente voluto dal presidente Trump, rappresenta piuttosto un nuovo riassestamento dei rapporti di classe negli Stati Uniti che avrà conseguenze pesantissime sulle casse federali e sulle vite di decine di milioni di americani.

 

La legge è il risultato di intense trattative, in larga misura segrete, all’interno del Partito Repubblicano, resesi necessarie per raggiungere i voti sufficienti all’approvazione in aula al Senato di fronte alle resistenze manifestate dalle varie ali del partito. Il numero uno repubblicano, Mitch McConnell, poteva infatti perdere solo due voti della propria delegazione al Senato per riuscire a mandare in porto la “riforma”.


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