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di Mario Lombardo
L’ingresso dell’ex generale dei Marines, John Kelly, nello staff della Casa Bianca rappresenta un nuovo segnale del persistente caos che attraversa l’amministrazione Trump e, allo stesso tempo, consolida l’influenza su quest’ultima di militari ed ex militari. Kelly ha il compito di provare a riportare un certo ordine nel governo americano, come conferma il licenziamento immediato del capo della comunicazione del presidente, Anthony Scaramucci, diventato un pericoloso elemento destabilizzante nonostante fosse stato scelto da Trump poco meno di due settimane fa.
A nemmeno sette mesi dall’insediamento dell’amministrazione repubblicana, il ritmo del ricambio di personale registrato alla Casa Bianca appare decisamente insolito. Ciò testimonia delle enormi difficoltà che sta attraversando la stessa amministrazione, sotto assedio per i presunti legami con la Russia e in affanno nel tener dietro alle numerose crisi internazionali.
L’ex generale Kelly ricoprirà l’incarico di capo di gabinetto ed era fino a pochi giorni fa il titolare del dipartimento della Sicurezza Interna. Il compito che sarà chiamato a svolgere sarà reso complicato in primo luogo dalle continue rivalità che agitano l’amministrazione del presidente Trump.
Le ragioni del caos che sta caratterizzando il mandato di quest’ultimo sono molteplici e le principali hanno a che vedere, oltre che con la natura stessa del presidente, con la coesistenza alla Casa Bianca di rappresentanti di forze con interessi talvolta contrastanti, dai membri della famiglia Trump ai militari, dai consiglieri collegati ad ambienti neo-fascisti a esponenti dell’establishment del Partito Repubblicano e dell’industria finanziaria.
Il già ricordato Scaramucci, ex speculatore di Wall Street e in passato sostenitore delle campagne elettorali di candidati democratici, subito dopo essere stato promosso da Trump aveva sollevato un polverone alla Casa Bianca, tirandosi addosso l’ira di praticamente tutti i principali membri dell’entourage del presidente.
In una conversazione con un giornalista del New Yorker, poi pubblicata, Scaramucci aveva insultato pesantemente, tra gli altri, l’ex capo di gabinetto, Reince Priebus, e lo “stratega capo” della Casa Bianca, Stephen Bannon, nel quadro di una strategia che avrebbe dovuto fare del proprio ufficio l’elemento di coordinamento dei vari centri di potere dell’amministrazione.
Lo stesso Priebus, rappresentante dei vertici del Partito Repubblicano nell’amministrazione, era stato licenziato da Scaramucci, mentre il capo ufficio stampa della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva rassegnato le proprie dimissioni in polemica col nuovo capo della comunicazione.
Il comportamento di Scaramucci non ha fatto che alimentare le divisioni alla Casa Bianca e i consiglieri di Trump, per i quali avrebbe dovuto fungere da punto di riferimento nei rapporti con il presidente, hanno verosimilmente chiesto a loro volta la sua testa.
Lo scenario che si troverà di fronte Kelly alla Casa Bianca non appare dunque dei più semplici, tanto che alcuni commentatori americani si sono mostrati sorpresi che l’ex generale abbia dato la propria disponibilità a diventare il nuovo capo di gabinetto del presidente.La necessità da parte di Trump di provare a innestare nella sua amministrazione con un ruolo chiave una personalità forte come quella di John Kelly, al quale tutti i membri dello staff presidenziale dovranno fare riferimento, è dettata in particolare dalle urgenti questioni di politica interna e internazionale che gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare.
In sostanza, sulla Casa Bianca ci sono enormi pressioni che richiedono ordine e una certa disciplina nel processo decisionale. L’amministrazione Trump si trova infatti nel pieno della crisi nordcoreana, di quella siriana e dello scontro con la Russia.
Sul fronte domestico, invece, il presidente sta ancora facendo i conti con le conseguenze del fallito tentativo di far approvare la revoca della riforma sanitaria di Obama, mentre da più parti gli si chiede di procedere con i punti cruciali del suo programma elettorale, come la nuova riduzione delle tasse per i redditi più alti e il lancio del piano di costruzione e ammodernamento delle infrastrutture del paese.
Le difficoltà che il Congresso a maggioranza repubblicana ha incontrato finora nell’implementare l’agenda di Trump hanno già convinto molti nel partito a guardare verso l’opposizione democratica per mandare in porto qualche successo legislativo.
Il compito di stabilire contatti con il Partito Democratico per gettare le basi di qualche compromesso al Congresso potrebbe così spettare proprio al nuovo capo di gabinetto. I giornali americani hanno scritto di contatti già avvenuti tra Kelly e i leader democratici di Camera e Senato, rispettivamente Nancy Pelosi e Charles Schumer.
La deputata della California, d’altra parte, nei giorni scorsi aveva espresso la propria soddisfazione per la scelta da parte di Trump dell’ex generale, malgrado le sue responsabilità nell’implementare le durissime direttive anti-immigrati del presidente alla guida del dipartimento della Sicurezza Interna.
La scelta di Kelly è comunque un altro segnale del progressivo deterioramento del quadro democratico negli Stati Uniti. Il neo-capo di gabinetto, come già ricordato, è l’ennesimo militare a ricoprire un ruolo di spicco nell’amministrazione Trump. Questa realtà è tanto più grave alla luce di un processo che negli ultimi decenni ha visto le forze armate e l’apparato dell’intelligence espandere enormemente la propria influenza sulle istituzioni civili americane.
La tendenza di Trump è precisamente quella di affidarsi al consiglio dei generali, sia per una naturale predisposizione per l’autoritarismo sia, soprattutto, per cercare di legittimare agli occhi dei militari un’amministrazione dimostratasi finora molto fragile e profondamente impopolare.
Che John Kelly sia in grado di rimettere ordine alla Casa Bianca è tuttavia molto dubbio. L’ex segretario alla Sicurezza Interna, malgrado il coro di elogi raccolti in questi giorni, sembra già avere i propri rivali all’interno dell’amministrazione. Il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, e la sua consorte, Ivanka, avrebbero ad esempio accettato a denti stretti la nomina dell’ex generale dopo avere inutilmente caldeggiato la candidatura della numero due del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Dina Powell.Lo stesso Kelly non è tra i sostenitori della prima ora del presidente e, in un’amministrazione che considera e gratifica spesso la fedeltà, ciò potrebbe rappresentare un problema. Quasi ad anticipare i possibili ostacoli del prossimo futuro, subito dopo l’assunzione formale del nuovo incarico, la CNN ha pubblicato una rivelazione che ha creato qualche imbarazzo a Kelly.
L’ex generale, cioè, in seguito al licenziamento da parte di Trump nel mese di maggio del direttore dell’FBI, James Comey, aveva valutato l’ipotesi di dimettersi da segretario alla Sicurezza Interna come segno di protesta contro la decisione del presidente con cui dovrà invece d’ora in poi lavorare a strettissimo contatto.
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di Michele Paris
L’annuncio da parte di Vladimir Putin del provvedimento relativo al taglio del personale diplomatico americano in Russia è stata la conferma nei giorni scorsi dell’ulteriore deterioramento in atto delle relazioni tra Mosca e Washington. La mossa del Cremlino è la diretta conseguenza del recente voto del Congresso USA sul nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia ed è stata con ogni probabilità attentamente calibrata per mandare un chiaro messaggio oltreoceano sull’esaurirsi della pazienza di Mosca in relazione a un possibile allentamento delle tensioni che aveva fatto intravedere l’amministrazione Trump.
La riduzione di 755 unità tra gli addetti alle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in territorio russo è stata definita senza precedenti dalla stampa americana, anche in confronto con episodi simili registrati durante la Guerra Fredda. Il fatto poi che lo stesso Putin abbia spiegato l’iniziativa nel corso di un’intervista alla televisione russa la dice lunga sull’importanza del gesto per il governo di Mosca.
Putin, va ricordato, si era astenuto dall’adottare ritorsioni sul finire del 2016, quando l’amministrazione uscente del presidente americano Obama aveva espulso dagli USA decine di diplomatici russi a causa delle presunte interferenze di Mosca nelle presidenziali di novembre. In quell’occasione, il presidente russo aveva optato per un atteggiamento prudente e di attesa, confidando in un cambio di rotta almeno parziale dell’amministrazione repubblicana entrante.
Se, vista la situazione attuale, Putin abbia sbagliato i propri calcoli o semplicemente non aveva alternative all’attesa di circostanze migliori per evitare un’escalation del conflitto con Washington ha ormai poca importanza. Il precipitare della situazione a cui si sta assistendo dipende infatti interamente dalle dinamiche interne a una classe dirigente americana in piena crisi e lacerata come forse mai in passato attorno alle scelte strategiche considerate necessarie per cercare di far fronte al declino internazionale degli Stati Uniti.
La decisione di Putin di rispondere in maniera relativamente dura all’offensiva americana è anche la presa d’atto di una vittoria, almeno per il momento, del fronte anti-russo a Washington e della marginalizzazione della Casa Bianca nel tracciare gli indirizzi della politica estera USA.
L’aspetto più significativo delle sanzioni approvate definitivamente settimana scorsa dal Congresso è d’altra parte quello che restringe fino quasi ad annullare gli spazi di manovra del presidente nell’implementazione o nella sospensione delle misure punitive.
Come ha scritto un paio di giorni fa sulla testata on-line Asia Times il commentatore ed ex diplomatico indiano, M. K. Bhadrakumar, l’iniziativa sulla gestione dei rapporti con Mosca è ormai sostanzialmente passata al Congresso americano ed essendo essa basata sul tentativo di “strangolamento” della Russia, per il Cremlino non resta che “considerare gli Stati Uniti come una minaccia chiave alla propria sicurezza” e agire di conseguenza.
Ciò non era esattamente quanto Putin e lo stesso Trump si erano augurati dopo il loro primo faccia a faccia solo qualche settimana fa a margine del G20 di Amburgo. L’incontro aveva prodotto, tra l’altro, un accordo sul cessate il fuoco in alcune zone della Siria e proprio il paese mediorientale in guerra è uno dei fronti che potrebbero risentire nel prossimo futuro del nuovo peggioramento degli scenari internazionali dopo le decisioni prese al Congresso americano e al Cremlino.La condotta abitualmente cauta del presidente russo spiega ad ogni modo il permanere di uno spiraglio per il dialogo con Washington, anche se, visti gli scenari, ciò appare più un’ipotesi teorica che effettiva. Singolarmente, a far notare come l’iniziativa annunciata da Putin non chiuda del tutto la possibilità di continuare a lavorare per una qualche intesa con l’amministrazione Trump sono stati proprio quei giornali americani che hanno fino ad ora amplificato maggiormente le posizioni anti-russe dell’establishment USA.
Il New York Times, ad esempio, ha insistito sul fatto che il taglio del personale delle rappresentanze diplomatiche degli Stati Uniti riguardi più che altro cittadini di nazionalità russa e non tanto diplomatici americani. Inoltre, il tempismo della mossa di Putin non sarebbe casuale, visto che avviene dopo il voto di Camera e Senato sulle sanzioni ma prima della ratifica del presidente, così che la decisione non deve essere intesa come una ritorsione diretta contro Trump, bensì contro i suoi oppositori interni.
Dietro a precisazioni di questo genere sembra scorgersi un certo nervosismo da parte di coloro che negli USA stanno orchestrando la caccia alle streghe nei confronti di Mosca e dell’amministrazione Trump. La ragione principale delle apprensioni risiede negli effetti indesiderati per Washington delle politiche di confronto con la Russia, emersi in tutta la loro evidenza con l’approvazione dell’ultimo round di sanzioni.
Ironicamente, il delirio anti-russo di determinati ambienti della classe politica e dei media ufficiali americani rischia infatti di accelerare quei processi economici e strategici che essi stessi vorrebbero impedire attraverso la campagna in atto.
Il riconoscimento da parte russa dell’impossibilità di costruire una qualche intesa con gli Stati Uniti non può cioè che risolversi in un ulteriore impulso all’integrazione economica, commerciale, ma anche energetica e militare, da un lato tra Russia e Cina e dall’altro tra la Russia e i paesi europei, a cominciare dalla Germania.
Come è noto, d’altra parte, le recenti sanzioni approvate dal Congresso USA minacciano seriamente di colpire anche le compagnie energetiche europee impegnate in progetti di sviluppo con quelle russe, andando perciò al cuore degli interessi della classe dirigente del vecchio continente. Un risvolto, quest’ultimo, che ha già soffiato sul fuoco delle tensioni più o meno latenti tra Europa e Stati Uniti, con esponenti di spicco dei vertici dell’Unione e, in particolare, del governo tedesco, impegnati a chiedere contro-sanzioni da applicare all’alleato americano.Il motore di queste dinamiche, apparentemente irrazionali, che vedono protagonisti gli Stati Uniti è in fin dei conti ancora una volta il progressivo venir meno dell’influenza di quest’ultimo paese su scala globale e la guerra che sta cercando di combattere contro la tendenza al multipolarismo, all’integrazione euro-asiatica e all’emergere di nuove potenze in grado attrarre vaste regioni del pianeta nelle rispettive orbite.
Tutti processi, questi ultimi, che minacciano la supremazia americana e contro cui, in definitiva, Washington cerca di opporsi con mezzi che implicano direttamente il ricorso alla forza militare o che, nel medio o lungo periodo, rischiano di risolversi comunque in un rovinoso conflitto armato.
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di Michele Paris
La crisi interna agli Stati Uniti prodotta dal cosiddetto “Russiagate” rischia di fondersi pericolosamente con le tensioni crescenti tra Washington e l’Unione Europea, già aggravate dall’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump. Il Congresso americano è infatti a un passo dall’approvazione definitiva di nuove sanzioni contro Mosca che minacciano gli interessi di svariate compagnie europee in rapporti d’affari con aziende russe.
Il pacchetto di misure punitive dirette contro la Russia, ma anche contro l’Iran e la Corea del Nord, è stato approvato martedì a larghissima maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti di Washington e dovrebbe essere ratificato in maniera definitiva dal voto del Senato forse già nei prossimi giorni.
Com’è noto, Trump è contrario all’adozione di nuove sanzioni dirette contro il Cremlino, tanto più che il testo della legge in discussione lega di fatto le mani al presidente sulla loro implementazione o su un eventuale allentamento. Le possibilità che la Casa Bianca ricorra al veto dopo la più che probabile approvazione del Senato sono però scarse, visto che esso sarebbe facilmente annullato da un voto del Congresso, dove le sanzioni godono di un ampio sostegno bipartisan.
Ancora prima che entrino in vigore, le nuove sanzioni contro la Russia sembrano rappresentare un punto di svolta nell’evoluzione dei rapporti transatlantici. Il dato più rilevante è probabilmente l’allineamento su posizioni anti-europee di entrambe le fazioni della classe dirigente americana che si stanno scontrando sul fronte interno attorno alla presunta e mai dimostrata interferenza di Mosca nel processo elettorale degli Stati Uniti.
Fino ad ora, le tensioni tra USA e UE avevano coinvolto quasi esclusivamente un’amministrazione Trump impegnata a promuovere un’agenda protezionista e ultra-nazionalista, nonché a impedire il ben avviato processo di integrazione economica euro-asiatica. Ora, invece, le ire di Bruxelles e dei singoli governi di molti paesi sono dirette anche agli oppositori del presidente americano, a cominciare da quelli all’interno del Partito Democratico.
L’intensificazione dello scontro transatlantico è dunque il sintomo, finalmente esploso pubblicamente, dell’esistenza di fattori oggettivi di natura economica e strategica che lo stanno alimentando e che vanno ben al di là della disposizione di qualche leader politico.
Le nuove sanzioni minacciano di colpire al cuore gli interessi dell’Europa, andando a mettere in pericolo sia la propria sicurezza energetica sia le attività delle compagnie che operano in questo settore. Che una delle ragioni principali dell’iniziativa americana sia proprio questa è confermato anche dal fatto che, secondo la maggior parte di analisti e osservatori, queste ultime misure non rappresenterebbero un particolare aggravamento della situazione attuale per Mosca.
Che il Congresso americano non abbia mai mostrato la minima intenzione di fare un passo indietro, nonostante le proteste europee, è la dimostrazione di come gli interessi fondamentali degli alleati sulle due sponde dell’Atlantico appaiano sempre più divergenti dietro la spinta della crisi del capitalismo internazionale e della posizione declinante di quello statunitense.
Il fatto che lo scontro tra Washington e Bruxelles sia ormai combattuto retoricamente a livello pubblico è poi un altro segnale del deteriorarsi della situazione. Politici e commentatori europei non mostrano ormai praticamente nessuno scrupolo nel denunciare le intenzioni USA di promuovere ad esempio le forniture di gas naturale liquefatto (LNG) americano e di ridurre quelle del gas proveniente dalla Russia.Inoltre, gli interessi di colossi come la tedesca Wintershall, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, la francese Engie (ex GDF Suez) o l’austriaca OMV, tutte coinvolte nella costruzione del progetto “Nord Stream 2”, sono apertamente difesi dai leader europei in contrapposizione alle manovre provenienti da Washington con la giustificazione di colpire la Russia.
Ancora, malgrado i malumori, i precedenti round di sanzioni punitive contro Mosca per il presunto ruolo nella crisi ucraina erano sempre stati appoggiati ufficialmente dai governi europei. Ciò era accaduto perché le misure erano state concordate con Washington e avevano causato danni relativamente minori alle economie del vecchio continente.
L’aperta e quasi unanime condanna delle nuove sanzioni unilaterali è al contrario un’assoluta novità, accompagnata oltretutto dalla minaccia di possibili contro-misure che potrebbero essere applicate a entità americane. Il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, le aveva già ipotizzate settimana scorsa e ha ribadito questa possibilità dopo il voto della Camera del Congresso USA.
Gli ambienti politici e del business tedesco sono stati quelli più accesi nel denunciare la mossa americana e nel chiedere provvedimenti. Il ministro dell’Economia di Berlino, Brigitte Zypries, in un’intervista al canale ARD ha messo in guardia da una “guerra commerciale molto negativa” tra USA e UE, lasciando intendere il possibile ricorso a contro-sanzioni attraverso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha a sua volta accusato gli Stati Uniti di voler creare posti di lavoro americani a discapito della sicurezza energetica europea. Identica linea ha seguito anche il governo francese a meno di due settimane dall’incontro tra Trump e il presidente Macron. Parigi ha tra l’altro emesso un comunicato nel quale prospetta un “aggiustamento delle leggi francesi ed europee” come protezione dagli “effetti extraterritoriali della legislazione americana”.
La crisi nei rapporti transatlantici che sembra sul punto di esplodere a causa della nuova legge americana sulle sanzioni contro Mosca si inserisce ad ogni modo in un processo in atto da alcuni anni. I segnali del peggioramento della situazione si erano avuti ad esempio con le multe per svariati miliardi di dollari imposte dalle autorità USA ad alcune banche europee, come la francese BNP Paribas, accusata di avere violato le restrizioni a cui era sottoposto l’Iran. Più recentemente, l’UE ha invece preso di mira Apple con una multa da record per evasione fiscale.
In generale, le scintille di questi giorni tra Washington e i governi europei sono, come già ricordato, la conseguenza dell’irrigidimento di un governo americano, dominato da militari e da elementi ultra-nazionalisti, sempre più allarmato per i processi in atto su scala globale.
Processi che indicano una costante marginalizzazione degli Stati Uniti, anche se per certi versi ancora molto relativa, di fronte alle tendenze multipolari in atto nel pianeta e alla formazione di blocchi economico-strategici alternativi al sistema uscito dal secondo conflitto mondiale.Il consolidamento delle relazioni in ambito commerciale ed energetico tra Germania e Russia nonostante le sanzioni e le scosse della crisi ucraina, l’integrazione dell’Europa con i progetti di crescita cinese, il ritorno dei capitali europei in Iran e lo stesso impulso alla militarizzazione di Berlino, nel quadro della promozione di una politica estera europea più indipendente, sono alcune delle dinamiche che stanno influenzando in senso negativo i rapporti tra Washington e Bruxelles.
Quel che resta da verificare è se i conflitti in atto potranno essere contenuti nel prossimo futuro o se le divergenze sempre più evidenti rischiano invece di precipitare e sfociare in una pericolosa guerra commerciale, spesso anticipatrice, come dimostrano i precedenti storici, di confronti militari nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochissimi anni fa.
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di Mario Lombardo
Le varie anime di un Partito Democratico americano in crisi si sono riunite in Virginia a inizio settimana per cercare di gettare le basi di un nuovo programma politico che dovrebbe costituire la piattaforma da cui lanciare le prossime campagne elettorali dopo il clamoroso tracollo del novembre 2016.
Le prime proposte presentate dai leader democratici sono all’insegna di un molto cauto riformismo progressista, in un evidente tentativo di dare qualche risposta alle fortissime pressioni provenienti da un elettorato di riferimento spostato sempre più a sinistra, senza però alterare in maniera significativa l’orientamento neo-liberista del partito.
La proposta del Partito Democratico è stata battezzata “A Better Deal” e, in questa fase, si articola attorno a tre questioni principali. La prima riguarda il rafforzamento delle leggi anti-trust, a fronte della tendenza alla concentrazione delle grandi corporation americane, mentre le altre dovrebbero portare a una riduzione del costo dei medicinali e all’aumento dei posti di lavoro e delle retribuzioni.
A scanso di equivoci, nessuna delle ricette offerte dai democratici americani si ispira a principi autenticamente progressisti, per non dire socialisti. Per stessa ammissione della senatrice Elizabeth Warren, icona dei “liberal” d’oltreoceano, le modifiche alla piattaforma democratica presentate lunedì sono da considerare “pro-market” e quindi, anche se implementate, farebbero poco o nulla per cambiare la situazione economica e sociale odierna.
Lo spirito con cui i vertici democratici hanno dato vita all’iniziativa di questa settimana è chiaro dal ruolo svolto in essa dalla personalità più importante del partito, il leader di minoranza al Senato, Charles Schumer.
Il senatore dello stato di New York aveva anticipato l’evento di lunedì in Virginia con un commento pubblicato sul New York Times, nel quale lamentava di come il sistema americano sia stato “truccato” dai grandi interessi economici, a cui “è stato permesso di riscrivere le regole in loro favore”.
Per questa ragione, spiegava Schumer, viene ormai disatteso il principio condiviso della società americana, per cui chiunque “lavori duramente e rispetti le regole” può permettersi di “possedere una casa e un’auto, mandare i figli al college e garantirsi una pensione dignitosa”.
La disonestà di Schumer, così come del nuovo programma del Partito Democratico, consiste nel fatto che il primo è uno dei principali beneficiari delle donazioni elettorali delle grandi banche di Wall Street, mentre il secondo, per limitarsi agli ultimi due decenni, ha presieduto a governi che hanno promosso la deregulation economico-finanziaria, responsabile delle esplosive differenze di reddito attuali, e favorito il trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale. In altre parole, lo stesso Partito Democratico è pienamente responsabile della manomissione del sistema che i suoi leader pretendono di denunciare.
Non essendosi verificato alcun ricambio all’interno del partito, l’operazione scaturita dalla batosta elettorale dello scorso anno risulta quindi puramente di facciata. Attraverso di essa, i democratici cercano di intercettare con slogan vuoti il consenso di quella stessa fetta di elettorato maggiormente colpita dai cambiamenti economici di questi anni e che aveva in parte premiato il populismo di Trump anche come protesta nei confronti dei democratici stessi.La sola natura del Partito Democratico come organizzazione ultra-screditata al servizio di una fazione dei grandi interessi economici americani renderebbe quasi superflua la lettura e l’analisi delle proposte contenute nel cosiddetto “Better Deal”.
Alcune delle misure avanzate, ad ogni modo, sono tutt’altro che nuove e, significativamente, si richiamano talvolta a proposte già contenute nel programma di Trump, tra cui il piano per la costruzione e il rinnovamento delle infrastrutture del paese, studiato dall’attuale inquilino della Casa Bianca come una sorta di regalo alle imprese private.
Sul fronte del lavoro, poi, non si va oltre i soliti crediti fiscali per le aziende disposte ad assumere o ai programmi di formazione rivolti ai disoccupati. La stessa proposta di alzare a 15 dollari l’ora la paga minima è ispirata dalle battaglie di alcune organizzazioni vicine al Partito Democratico, sfociate negli ultimi anni in qualche modesta vittoria. Anche se adottato, in molti stati e città americane questo livello minimo di retribuzione non garantirebbe oggi l’uscita dalla povertà, per non parlare del fatto che, oltretutto, esso sarebbe raggiunto solo in maniera graduale.
Per quanto riguarda la lotta ai monopoli promessa dai democratici, invece, quello di cui si parla nel nuovo programma è poco più di un vago rafforzamento del controllo federale sulle fusioni, assieme alla creazione di un organo che garantisca la concorrenza e segnali eventuali situazioni problematiche agli enti governativi addetti alla vigilanza in questo ambito.
Il lancio della piattaforma democratica ha trovato poco spazio sui media americani, interessati più che altro agli sviluppi del “Russiagate”, cioè una campagna reazionaria alimentata in larga misura proprio dal partito di opposizione a Washington.
Molti commenti dedicati all’evento hanno comunque evidenziato il carattere opportunistico dell’operazione, anche tra le testate più vicine al Partito Democratico. Il Washington Post ha scritto ad esempio che il “Better Deal” democratico sembra servire a “tenere calma, almeno per il momento, una sinistra irrequieta”.
Il New York Times ha a sua volta ammesso che il progetto democratico è stato studiato per “soddisfare quante più fazioni possibili – populisti ‘liberal’, moderati suburbani, attivisti per la giustizia sociale – fissando nel contempo alcuni principi economici generici a cui vincolare formalmente il partito”.
In sostanza, i leader democratici stanno cercando di superare le divisioni tra l’ala centrista e quella “liberal”, mettendo assieme un programma elettorale che dia spazio ad alcune istanze moderatamente progressiste, non tanto perché esista una reale volontà di metterle in pratica ma per provare a invertire il declino di un partito considerato, a ragione, sempre più lontano da lavoratori e classe media.
Una strategia, quella del Partito Democratico, che non ha dunque nulla di progressista e che potrà tutt’al più raccogliere qualche successo nei prossimi appuntamenti elettorali solo grazie all’impopolarità delle politiche ultra-reazionarie dell’amministrazione Trump e della maggioranza repubblicana al Congresso.La conferma del vicolo cieco che offre il Partito Democratico americano l’ha data lo stesso Schumer nel discutere la nuova piattaforma. Il senatore di New York ha fatto riferimento più volte alla strategia elettorale di Trump, da lui più o meno apertamente celebrato per essere riuscito a offrire un progetto politico “populista” in grado di far presa sulla “working-class” americana.
La pretesa dei democratici di rappresentare una vera forza di opposizione contro l’agenda anti-sociale dei repubblicani è smentita infine anche dalla disponibilità di Schumer a trovare un compromesso e a lanciare una collaborazione con la Casa Bianca e la maggioranza al Congresso su alcune delle questioni all’ordine del giorno, come la “riforma” sanitaria voluta da Trump o l’intensificazione di pericolose misure protezionistiche in ambito commerciale.
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Mentre il consigliere/genero del presidente Trump, Jared Kushner, è apparso per la prima volta lunedì di fronte a una delle due commissioni del Congresso incaricate di indagare sui presunti legami tra l’amministrazione repubblicana e la Russia, lo scontro interno alla classe politica americana ha fatto segnare un altro aggravamento in seguito all’accordo bipartisan sull’approvazione di nuove sanzioni contro Mosca di cui la Casa Bianca avrebbe fatto volentieri a meno.
Il pacchetto che contiene ulteriori misure punitive nei confronti di entità russe era stato approvato quasi all’unanimità nel mese di giugno dal Senato di Washington. Alla Camera si era però arenato, ufficialmente per questioni tecniche ma in realtà a causa delle perplessità di alcuni deputati repubblicani poco inclini a votare una misura che avrebbe potuto mettere in imbarazzo l’amministrazione Trump.
L’appartenenza al partito non ha comunque impedito la ormai molto probabile risoluzione del percorso parlamentare delle nuove sanzioni. Anzi, come previsto, la legge è stata scritta in modo da rappresentare precisamente una sfida alla Casa Bianca sulla questione del cosiddetto “Russiagate”.
Nel pacchetto di sanzioni, che dovrebbe approdare in aula alla Camera dei Rappresentanti già martedì, sono incluse misure punitive anche contro l’Iran e, al contrario della versione iniziale licenziata dal Senato, la Corea del Nord. Ciò mette decisamente alle strette Trump, il cui eventuale veto finirebbe per bloccare sanzioni contro Teheran e Pyongyang che egli stesso aveva richiesto e auspicato.
Non solo, il ricorso al veto presidenziale risulterebbe virtualmente inutile, visto che i leader del Congresso hanno assicurato che esiste una larga maggioranza in grado di annullarlo, e ad ogni modo non farebbe che accentuare il conflitto in corso tra i poteri dello stato.
Ancora peggio per la Casa Bianca, la legge impedisce di fatto al presidente di agire in maniera autonoma nell’applicazione delle sanzioni. Se Trump, cioè, giudicasse necessario un allentamento delle misure contro Mosca dovrebbe sottoporre una proposta al Congresso, senza la cui approvazione non potrebbero essere apportati cambiamenti allo status quo.
Gli scenari per la Casa Bianca sembrano essere dunque sempre più cupi, come confermano le prese di posizione pubbliche nei giorni scorsi di alcuni leader repubblicani, evidentemente intenzionati ad avvertire il presidente a non insistere sulla strategia russa perseguita finora.
Lo sblocco dell’impasse sul pacchetto di sanzioni ha così messo in imbarazzo una Casa Bianca già in pieno caos. Dall’amministrazione sono giunti segnali contraddittori nel fine settimana, anche se si è intravista una certa disponibilità a prendere atto della situazione e ad accettare di malavoglia l’iniziativa del Congresso.
La vice-capo ufficio stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, aveva prima affermato alla ABC che Trump era in sostanza d’accordo con l’ultima versione del pacchetto di sanzioni, mentre in seguito il nuovo numero uno delle comunicazioni del presidente, Anthony Scaramucci, era apparso più cauto, avvertendo che una decisione in merito non era stata ancora presa.
La più che probabile approvazione definitiva delle nuove sanzioni contro la Russia sarà quindi prevedibilmente un’altra arma che gli oppositori di Trump utilizzeranno per aumentare le pressioni sulla sua amministrazione, così da convincerlo a cambiare rotta sugli indirizzi strategici americani.Lo stesso accadrà quasi certamente anche dopo le testimonianze di questa settimana di Jared Kushner, sentito lunedì a porte chiuse dalla commissione Servizi Segreti del Senato e atteso invece martedì da un’audizione pubblica di fronte a quella della Camera.
Soprattutto, il tono delle risposte di Kushner alle domande di deputati e senatori sui suoi legami con la Russia potrebbe alimentare la caccia alle streghe in atto. Il Washington Post aveva pubblicato già nella mattinata di lunedì il contenuto delle dichiarazioni predisposte dallo stesso consigliere di Trump in preparazione alle due audizioni. In esse, Kushner mostrava appunto di voler continuare a negare contatti “impropri” o qualsiasi collusione con esponenti del governo di Mosca.
A poco più di sei mesi dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, il governo americano sta precipitando in una crisi quasi senza precedenti su una questione alimentata ad arte da una parte della classe dirigente e dai media ufficiali, nonostante non vi siano prove concrete delle “collusioni” con la Russia per orientare le elezioni e la politica estera degli Stati Uniti.
Un’ulteriore idea del livello di scontro interno al governo USA ha contribuito a darla nel fine settimana l’intervento in un forum dell’Aspen Institute di due uomini fino a pochi mesi fa ai vertici dell’intelligence americana. L’ex direttore della CIA, John Brennan, e l’ex direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI), James Clapper, hanno di fatto invitato all’insubordinazione gli esponenti del governo incaricati di mettere in atto le decisioni del presidente Trump.
Il riferimento è andato in particolare al possibile licenziamento da parte di Trump del “consigliere speciale” dell’FBI, l’ex direttore Robert Mueller, impegnato a guidare l’indagine del “Russiagate”. Se ciò dovesse accadere, ha spiegato Brennan, si dovrebbe resistere a un ordine che risulterebbe “contrario ai valori di questo paese”, così che non solo il Congresso ma anche i funzionari governativi sarebbero chiamati a opporsi clamorosamente a una decisione che risulta peraltro tra le prerogative del presidente.
La disponibilità di una parte della classe politica e dell’apparato militare e dell’intelligence USA a violare le stesse norme democratiche consolidate dà a sufficienza la misura dell’importanza delle questioni che sono alla base del violento scontro che sta attraversando le istituzioni americane.
Per coloro che combattono contro l’amministrazione Trump, continuare a tenere alta la pressione sulla Russia è infatti una componente cruciale di un disegno strategico volto a frenare il declino dell’influenza degli Stati Uniti a livello globale.
Per quanto riguarda le sanzioni contro Mosca, l’iniziativa del Congresso rischia comunque di peggiorare non solo lo scontro interno agli USA ma anche con gli alleati europei. Con una tempestività che dimostra ancora una volta le crescenti tensioni intercontinentali, Bruxelles ha subito messo in guardia Washington dall’adottare misure punitive contro la Russia che non siano coordinate a livello di G7. Anzi, una dichiarazione della Commissione Europea ha addirittura prospettato ritorsioni se Trump dovesse firmare la legge in fase di approvazione al Congresso.La durissima presa di posizione europea è dovuta soprattutto al contenuto delle ultime sanzioni anti-russe che, se implementate, metterebbero a rischio gli investimenti e la partecipazione a progetti nel settore energetico con Mosca di molte compagnie europee. Questo aspetto chiave non era stato toccato dalle precedenti sanzioni, decise dagli USA contro la Russia in collaborazione con l’Europa, mentre ora viene unilateralmente minacciato dall’azione del Congresso americano.
Un’azione, quella proveniente da Washington, che rischia perciò di distruggere quello che resta dell’apparente unità d’intenti con gli alleati europei nel penalizzare la Russia dopo l’esplosione della crisi in Ucraina, aggiungendo un nuovo fattore destabilizzante alle sempre più precarie relazioni transatlantiche nell’era Trump.