di Mario Lombardo

Dopo gli scontri tra polizia e manifestanti nel corso del G20 di settimana scorsa ad Amburgo, la classe politica tedesca ha promesso di intensificare gli sforzi per criminalizzare e mettere a tacere quello che ha definito come “estremismo di sinistra” con la scusa di limitare gli episodi di violenza nel corso degli eventi internazionali.

Il coro di denunce nei confronti di quanti hanno partecipato alle proteste – in larghissima misura pacifiche – ha visto protagonisti i politici di quasi tutti i partiti tedeschi, impegnati in una vera e propria offensiva contro il dissenso, perfettamente in linea con il rilancio del militarismo e delle ambizioni da grande potenza della Germania in atto ormai da alcuni anni a questa parte.

Come accade in pratica in occasione di qualsiasi vertice internazionale di alto livello, anche ad Amburgo la repressione delle forze di sicurezza è arrivata puntuale in seguito, da un lato, alla militarizzazione della città e alla drastica riduzione dei diritti di movimento e di espressione e, dall’altro, a provocazioni attentamente studiate.

Il primo confronto tra polizia e manifestanti si era verificato già giovedì scorso alla vigilia dell’apertura dei lavori, anche se gli stessi giornali ufficiali avevano dovuto riconoscere il clima del tutto pacifico che prevaleva tra i gruppi intenzionati a protestare contro i leader dei venti paesi più industrializzati del pianeta.

La presenza di qualche manifestante mascherato e l’azione di individui isolati, come al solito riconducibili a gruppi anarchici o ai “black blocs”, notoriamente infiltrati in maniera pesante dalla polizia, hanno fornito l’occasione per procedere con l’assalto ai dimostranti, risoltosi nelle consuete scene di guerriglia urbana e in un numero imprecisato di feriti e arrestati.

Singolarmente, i vertici della polizia di Amburgo avevano avvertito prima della marcia di protesta che anche soltanto nascondere il viso sarebbe stato considerato un atto di violenza, così da rendere inapplicabile il diritto di espressione e di “libera assemblea” garantito dalla costituzione tedesca.

Ciò che è seguito ai primi scontri di giovedì è stata un’escalation di violenze e interventi delle forze di sicurezza, la cui responsabilità è stata attribuita a gruppi antagonisti di “estrema sinistra”, bersaglio appunto degli sfoghi dei politici tedeschi.

All’interno del governo di coalizione di Berlino, le voci più dure sono state probabilmente quelle degli esponenti del Partito Socialdemocratico (SPD). Ciò è dovuto in parte anche al tentativo da parte di questo partito di recuperare terreno a destra con proposte politiche reazionarie dopo il crollo nei sondaggi a poco più di due mesi dalle elezioni federali.

Il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha parlato di “danno d’immagine” per la Germania a causa di una vera e propria “orgia di violenza” fine a se stessa, contro la quale “uno stato… deve sapersi difendere”. Il compagno di partito di Gabriel, il ministro della Giustizia Heiko Maas, ha invece chiesto una risposta collettiva europea all’esplosione dell’estremismo di sinistra, cominciando con la creazione di una sorta di lista nera a livello continentale.

Il carattere strumentale delle dichiarazioni dell’esponente del governo Merkel è confermato dal fatto che un archivio di questo genere esiste già a livello europeo ed è servito nei giorni precedenti il G20 di Amburgo a bloccare alle frontiere tedesche centinaia di attivisti di sinistra, oltretutto monitorati negli spostamenti dalle loro città di provenienza.

Sul fronte opposto, ma sempre nel governo Merkel, il ministro dell’Interno della CDU, Thomas de Maizière, ha spiegato che “gli eventi del G20 devono rappresentare un punto di svolta nel nostro modo di considerare la propensione alla violenza dei gruppi di sinistra”.

Il “punto di svolta” auspicato da de Maizière, figlio di un alto ufficiale della “Wehrmacht” nazista, consiste nell’adozione di misure permanenti destinate a combattere “l’estremismo di sinistra”, non essendo più sufficiente la sola repressione violenta nel corso di manifestazioni o proteste occasionali. Lo stesso ministro ha d’altra parte paragonato la presunta minaccia che sarebbe esplosa ad Amburgo a quella “islamista” e “neo-nazista”.

In concreto, come ha spiegato Christian Lindner, leader del Partito Democratico Libero (FDP), al governo fino al 2013 nel secondo gabinetto Merkel, ciò dovrebbe ad esempio consistere nel “monitoraggio più attento” degli estremisti di sinistra da parte dell’intelligence domestica.

Che l’intenzione dell’establishment tedesco sia nulla di meno che il restringimento degli spazi del dissenso, in particolare quello orientato all’anti-capitalismo, è chiaro anche dalle dichiarazioni di svariati politici – dal segretario generale della CDU, Peter Tauber, al deputato della CSU, Stephan Mayer, al capo di gabinetto della cancelleria federale, Peter Altmaier – sulla necessità di chiudere gli spazi urbani “occupati” da gruppi di sinistra.

Nel mirino ci sarebbero in particolare le occupazioni della “Rigaer Strasse” a Berlino o del teatro “Rote Flora” di Amburgo, già oggetto di tentativi violenti di sgombero da parte delle forze di polizia nel recente passato.

L’ossessione sui disordini e le violenze che avrebbero provocato i manifestanti di sinistra ad Amburgo sono in primo luogo il riflesso di una crescente irritazione tra le classi dirigenti di qualsiasi paese nei confronti di movimenti popolari di opposizione alle politiche anti-sociali e anti-democratiche dilagate dopo l’esplosione della crisi del capitalismo internazionale tra il 2008 e il 2009.

Sia il puntuale soffocamento con metodi violenti delle proteste da parte delle forze di polizia sia le iniziative proposte dai politici tedeschi nei giorni scorsi sono perciò il tentativo di soffocare ogni forma di protesta e di resistenza provenienti da sinistra.

Inoltre, la criminalizzazione di quella che viene dipinta come una frangia estremista alimenta l’illusione che esista un ampio consenso popolare sulle attuali forme di governo “democratiche”, mentre è al contrario sempre più forte e diffusa l’opposizione alle politiche ufficiali, caratterizzate ovunque da disuguaglianze sociali esplosive, militarismo e restringimento degli spazi democratici.

di Michele Paris

Il primo faccia a faccia in assoluto tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuto venerdì a margine del G20 di Amburgo, ha rinvigorito negli Stati Uniti la campagna anti-russa condotta dai principali media e da esponenti politici democratici e repubblicani. L’incontro tra i due presidenti è stato infatti seguito da una lunga serie di dichiarazioni tra il preoccupato e il minaccioso, ma tutte riconducibili allo sforzo di una parte significativa della classe dirigente d’oltreoceano per bloccare sul nascere la possibile collaborazione tra Mosca e Washington su alcuni dei più delicati scenari di crisi internazionale.

Con un tempismo attentamente studiato, nel fine settimana il New York Times ha ricordato i guai di Trump sul fronte delle relazioni con la Russia, proponendo una nuova escalation delle pressioni sulla Casa Bianca. Il giornale, in prima linea assieme al Washington Post nella battaglia contro l’amministrazione repubblicana, ha pubblicato una rivelazione che, secondo gli autori, aggiungerebbe elementi concreti all’accusa di collusione tra il clan del presidente e ambienti governativi russi.

In realtà, il contenuto della più recente “esclusiva” del Times non mantiene come al solito nulla di quanto promesso dai titoli sensazionalistici o dalle osservazioni degli autori. La presunta importanza dell’articolo consisterebbe nell’individuazione per la prima volta di una qualche prova della disponibilità che avevano manifestato uomini vicini a Trump di ricevere “aiuto” dalla Russia per influenzare l’esito delle elezioni presidenziali del novembre 2016.

Il figlio dell’attuale presidente, Donald Trump jr., nel giugno dello scorso anno aveva cioè incontrato in un ufficio della Trump Tower a New York l’avvocato russo Natalia Veselnitskaya dopo che quest’ultima aveva fatto intendere di avere informazioni su possibili legami finanziari tra Hillary Clinton e oligarchi russi, utili presumibilmente a danneggiare politicamente la candidata democratica alla Casa Bianca.

All’incontro avevano partecipato anche il cognato e ora consigliere di Trump, Jared Kushner, e l’allora numero uno della sua campagna elettorale, Paul Manafort. Entrambi, però, sembra avessero abbandonato dopo appena dieci minuti la stanza dove era in corso la riunione visto lo scarso interesse delle informazioni riferite dall’avvocato russo.

Tra i clienti di Natalia Veselnitskaya ci sarebbero aziende pubbliche russe e, secondo il New York Times, anche “il figlio di un membro del governo” di Mosca. La sua reale intenzione sarebbe stata quella di presentare alla possibile prossima amministrazione americana il suo disappunto, e quello delle persone da lei rappresentate, per la cosiddetta legge Magnitsky, approvata nel 2012 dopo la morte in carcere dell’avvocato russo con lo stesso nome che aveva accusato di corruzione alcuni politici e uomini d’affari del suo paese.

La legge impone sanzioni su cittadini russi sospettati di avere violato i diritti umani e si era concretizzata in uno stop alle adozioni di bambini russi negli Stati Uniti. Sulla Clinton, in definitiva, non vi era nulla di cui discutere tra Natalia Veselnitskaya e gli uomini dell’entourage di Trump, ma la sola rivelazione dell’incontro di tredici mesi fa è stata sufficiente ad alzare l’ennesimo polverone sui legami tra la Casa Bianca e il Cremlino poche ore dopo il faccia a faccia tra il presidente americano e Vladimir Putin.

La nuova offensiva del New York Times conferma dunque il sospetto che vi sia un piano studiato a tavolino, secondo il quale ogni mossa della Casa Bianca per intraprendere un percorso di distensione con Mosca viene accolta con una “rivelazione” che dimostrerebbe le collusioni tra Trump e il governo russo o l’intervento di quest’ultimo nel processo elettorale americano.

Dietro a queste manovre ci sono sezioni dell’apparato governativo, militare e dell’intelligence, intenzionate in tutti i modi a impedire qualsiasi deviazione strategica dalla linea ferocemente anti-russa tenuta dall’amministrazione Obama. A conferma di ciò vi è il fatto che, come di consueto, la storia pubblicata dal New York Times non è frutto di un’indagine dei suoi reporter, ma scaturisce da un’imbeccata di fonti anonime all’interno del governo e propagandata come verità assoluta.

Nello specifico, la notizia è giunta al giornale newyorchese da non meglio identificati individui che hanno avuto accesso ai documenti messi a disposizione da Jared Kushner nell’ambito della sua nomina a consigliere della Casa Bianca e nei quali elencava appunto i suoi incontri con cittadini stranieri.

Com’è accaduto puntualmente a partire da domenica, la notizia pubblicata dal Times ha fornito l’occasione ai rivali di Trump per andare di nuovo all’attacco sul fronte dei rapporti della nuova amministrazione con Mosca. L’asprezza dei commenti e degli avvertimenti è stata ancora più evidente a causa del clima amichevole che ha caratterizzato il vertice tra Putin e Trump ad Amburgo.

I “tweet” del presidente e i resoconti del faccia a faccia proposti dal segretario di Stato Rex Tillerson, anch’egli presente all’incontro, e di quello del Tesoro Steven Mnuchin, sono stati accolti da molti a Washington con reazioni al limite dell’isteria. Tutto ciò nonostante lo stesso Trump avesse cercato di venire incontro ai suoi critici esprimendosi in toni relativamente anti-russi nel discorso dai toni fascistoidi tenuto il giorno prima a Varsavia e assicurando di avere fatto pressioni su Putin in relazione alle interferenze nelle elezioni dell’anno scorso.

Gli attacchi a Trump hanno preso di mira in particolare l’annuncio del raggiunto accordo con Mosca per un cessate il fuoco in alcune aree della Siria e la proposta, presentata a Putin, di creare un’unità congiunta russo-americana nell’ambito della cybersicurezza. Su quest’ultima ipotesi, lo stesso Trump ha fatto subito marcia indietro, vista la derisione che essa ha suscitato tra molti esponenti democratici e repubblicani che continuano ad accusare Mosca di utilizzare i propri hacker per interferire nelle vicende interne americane.

In generale, ciò che ha ridato impulso alle pulsioni “neo-maccartiste” della classe dirigente USA sono state le conclusioni tratte da Trump dopo il vertice con Putin e, in sostanza, la decisione di mettere da parte gli scontri e i disaccordi del recente passato per provare a instaurare finalmente un rapporto “costruttivo” con Mosca.

Malgrado le aspettative di quanti sperano in un allentamento delle tensioni internazionali, a cominciare da una de-escalation della guerra in Siria, in seguito al clima positivo che ha segnato il primo incontro di persona tra Putin e Trump, tutte le indicazioni emerse solo poche ore più tardi fanno intravedere piuttosto un inasprimento del conflitto interno all’establishment di Washington che non potrà non riflettersi negativamente sui rapporti russo-americani.

Le forze che stanno dietro alla campagna anti-russa, che cerca di far desistere in tutti i modi l’amministrazione Trump dai suoi propositi di distensione con Mosca, non saranno infatti disposte ad accettare passivamente un riallineamento strategico che escluda il confronto con la Russia, considerata l’ostacolo principale al dispiegamento degli interessi USA in alcune aree cruciali del pianeta.

A ricordare il grado di ostilità che continuerà a incontrare l’atteggiamento anche solo moderatamente filo-russo di Trump è stato, tra gli altri, sempre il New York Times. Poco dopo l’apertura di un pezzo dedicato all’incontro con Putin, il principale giornale “liberal” americano ha smontato le speranze del presidente per un possibile allentamento della campagna nei suoi confronti, invitandolo a fare i conti con una realtà nella quale le iniziative come quella di venerdì ad Amburgo finiscono per “sollevare più dubbi di quanti ne possano fugare”.

Ancora più esplicito è stato infine un compagno di partito del presidente, l’influente senatore della South Carolina, Lindsey Graham. In un’intervista alla NBC, quest’ultimo ha definito “disastroso” il faccia a faccia con Putin, per poi attaccare il comportamento di Trump che, a suo dire, “sconfessa la comunità dell’intelligence” e solleva Putin dalle sue responsabilità.

Secondo Graham, se Trump dovesse continuare in questo modo, ci potrebbero essere conseguenze per la sua amministrazione. Se cioè la Casa Bianca non dimostrerà di voler cambiare rotta e riallinearsi alle priorità strategiche anti-russe, la campagna di discredito contro l’attuale presidenza non potrà che intensificarsi nel prossimo futuro.

di Mario Lombardo

Le due tappe della trasferta europea del presidente cinese, Xi Jinping, che hanno preceduto il vertice del G20 ad Amburgo hanno evidenziato ancora una volta il processo di consolidamento di blocchi strategici ed economici a livello globale sempre più svincolati dall’influenza degli Stati Uniti e dagli equilibri che avevano presieduto allo sviluppo del capitalismo internazionale nel secondo dopoguerra.

Il presidente cinese ha dapprima incontrato per l’ennesima volta Vladimir Putin a Mosca, dove i toni di entrambi i leader sono stati molto ben calibrati per dare estremo rilievo alla solidità delle relazioni bilaterali. I due hanno dato particolare enfasi al potenziale in termini di stabilità internazionale della partnership sino-russa, in contrapposizione alla portata destabilizzante della condotta americana, ancora più evidente dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.

Molti osservatori hanno individuato nella dichiarazione congiunta di Xi e Putin sulla crisi nordcoreana un momento importante nella formazione di un’alleanza strategica in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti. Soprattutto, la proposta di Mosca e Pechino intende gettare le basi per un negoziato che porti a una soluzione pacifica dello scontro nella penisola di Corea, mentre la condotta di Washington rischia di spingere sempre più i protagonisti del conflitto verso una rovinosa soluzione militare.

Il costante avvicinamento tra Cina e Russia in questi anni è il risultato proprio dell’evolversi della politica estera statunitense. Le minacce crescenti alla posizione internazionale degli USA hanno portato cioè la prima potenza del pianeta a esercitare pressioni sempre più forti su Mosca e Pechino, cercando di compensare militarmente una declinante influenza economica nel pianeta.

L’allargamento della NATO verso i confini russi, la promozione di un golpe neo-fascista in Ucraina, l’offensiva contro il regime di Assad in Siria tramite l’appoggio a forze fondamentaliste, assieme all’escalation di minacce alla Corea del Nord e alla militarizzazione dell’Asia sud-orientale, sono alcuni degli sviluppi che hanno contribuito in questi anni a favorire la convergenza di interessi tra Cina e Russia.

Se le posizioni tra questi due paesi restano distanti su alcune questioni tutt’altro che trascurabili, come il sovrapporsi dei rispettivi interessi in Asia centrale, i gravi contrasti che avevano segnato il periodo della Guerra Fredda sembrano tuttavia lontani, così come la possibilità per gli Stati Uniti di trarre beneficio dalle divisioni che ne avevano caratterizzato i rapporti.

A rinsaldare la partnership sino-russa vi sono ormai componenti economiche, militari ed energetiche di grandissima importanza e che vanno dagli investimenti miliardari cinesi in Russia alle sempre più frequenti esercitazioni militari congiunte, fino ai contratti colossali già siglati per forniture di gas e di armamenti a Pechino.

Più in generale, e in maniera forse ancora più preoccupante per Washington, il rafforzamento dei legami tra Mosca e Pechino si inserisce in un processo di integrazione euro-asiatica che tende ugualmente a emarginare un’America ripiegata su stessa e impegnata a tenere in vita il miraggio di un “eccezionalismo” sempre più logoro e senza senso.

Su questa dinamica ha fornito materiale di discussione la seconda tappa del viaggio del presidente cinese, ricevuto con tutti gli onori del caso a Berlino alla vigilia del G20. L’arrivo di Xi in Germania è stato preceduto da un suo commento apparso sulla stampa tedesca, nel quale ha invitato i due paesi a svolgere un ruolo costruttivo sulle questioni internazionali, chiedendo nel contempo, con un chiaro anche se indiretto riferimento a Washington, il mantenimento di un commercio e un’economia mondiale aperti come fondamento della crescita collettiva.

Ancor più che a Mosca, l’accento della visita di Xi a Berlino è stato proprio sulle questioni economiche e, in particolare, l’abbraccio da parte della cancelliera Merkel della “Nuova Via della Seta” (“One Belt One Road” o, più recentemente, “Belt and Road Initiative”), cioè il megaprogetto cinese per la costruzione di infrastrutture che dovrebbero favorire i collegamenti e la cooperazione tra i paesi eurasiatici, ha confermato l’importanza fondamentale di Pechino nello sviluppo del vecchio continente.

Anche la retorica dei leader politici tedeschi nei giorni scorsi ha chiarito le profonde divisioni che stanno emergendo tra le potenze occidentali. La Merkel ha in sostanza ribadito la necessità della Germania di non contare più sulla sola protezione dell’alleato americano, mentre nel campo socialdemocratico sono stati frequenti gli inviti espliciti a isolare l’amministrazione Trump anche nel corso del G20.

Le frizioni transatlantiche non sono peraltro cosa nuova e, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, erano già emerse drammaticamente nelle fasi che avevano portato all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. L’agenda ultra-nazionalista del nuovo governo USA ha però ora fatto esplodere tutte le tensioni accumulate negli ultimi anni e alimentate dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2009.

Le crescenti rivalità internazionali e il coagularsi di intese al di fuori delle alleanze tradizionali sono in sostanza il prodotto di una competizione sempre più aspra tra i grandi interessi economici dei vari paesi per l’accaparramento di nuovi mercati e fonti energetiche.

Non a caso, infatti, l’ostilità crescente nei confronti di Trump a livello internazionale è in questi mesi scaturita dalle ripetute critiche del presidente allo stato delle relazioni economiche e commerciali tra gli USA e alcuni paesi nominalmente alleati, ritenuto responsabile del declino americano. Gli strali di Trump si sono ad esempio abbattuti sui trattati di libero scambio, a suo dire svantaggiosi per Washington, con paesi come Messico o Corea del Sud, mentre proprio le aziende automobilistiche tedesche sono state accusate di “invadere” in maniera scorretta il mercato americano.

Lo stravolgimento, probabilmente ancora in fase iniziale, degli equilibri internazionali rischia di evolversi in qualche pericoloso confronto armato nel medio o lungo periodo, come conferma la tendenza alla militarizzazione tra le principali potenze del pianeta. Per il momento, le divisioni continueranno a manifestarsi soprattutto negli appuntamenti come quello del G20 del fine settimana, sempre più teatro di tensioni e rivalità che non organo collegiale per la risoluzione pacifica e condivisa dei conflitti internazionali.

di Michele Paris

Nella logica dell’escalation del confronto promossa dagli Stati Uniti come unica soluzione alla crisi nella penisola di Corea, mercoledì le forze armate americane hanno condotto una nuova esercitazione con i militari sudcoreani in risposta al forse cruciale test missilistico condotto dal regime di Pyongyang in concomitanza con i festeggiamenti del 4 luglio a Washington.

L’operazione congiunta dei due alleati ha visto il lancio di missili balistici dalla costa orientale della Corea del Sud, accompagnato da dichiarazioni particolarmente minacciose da parte di entrambi i governi. Il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha spiegato che Seoul e Washington dovevano mostrare le proprie capacità “difensive con le azioni e non solo con le parole”.

I vertici delle forze USA di stanza in Corea del Sud sono stati ancora più espliciti, avvertendo che mercoledì si è avuta la dimostrazione delle capacità dell’alleanza di colpire con precisione “qualsiasi obiettivo in qualsiasi condizione atmosferica”.

La reazione americana al test missilistico nordcoreano di martedì era stata proporzionata a quello che il governo di Washington e la maggior parte dei media ufficiali hanno definito un evento destinato a cambiare gli equilibri dello scontro nella penisola di Corea.

Il missile nordcoreano Hwasong-14 aveva seguito una traiettoria prevalentemente in altezza prima di precipitare nel Mare del Giappone ma, se proiettata verso un bersaglio reale, avrebbe consentito all’ordigno di raggiungere una distanza superiore ai 6.500 km, entro la quale si collocano l’Alaska e le Hawaii, anche se non gli Stati Uniti continentali.

L’ostentazione da parte di Pyongyang del presunto ottenimento delle capacità tecniche per armare con una testata atomica un missile intercontinentale in grado di colpire ovunque nel mondo e per consentire a quest’ultimo il rientro in atmosfera hanno poi fatto il resto nel creare un clima di isteria e le condizioni per un possibile attacco militare americano.

Il drammatico aumento delle tensioni sulla Corea del Nord si inserisce inoltre in un clima già inasprito dalle recenti iniziative dell’amministrazione Trump, dirette soprattutto contro la Cina. Nell’ultima settimana la Casa Bianca aveva autorizzato una fornitura di armi a Taiwan, una “visita” di una nave da guerra americana all’interno del limite territoriale di un’isola controllata da Pechino nel Mar Cinese Meridionale e sanzioni punitive contro alcune banche cinesi che fanno affari con Pyongyang.

In previsione di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, richiesta da Washington per mercoledì, il segretario di Stato USA, Rex Tillerson, ha chiesto poi una “azione globale” contro la Corea del Nord, mentre ha minacciato qualsiasi paese fornisca aiuti di ogni genere al regime di Kim Jong-un o si rifiuti di implementare le risoluzioni ONU.

Al Palazzo di Vetro, l’ambasciatrice americana Nikki Haley ha detto che il suo paese è pronto a usare la forza per fermare la minaccia nordcoreana, anche se rimane preferibile la strada della diplomazia. Gli Stati Uniti proporranno nuove sanzioni contro Pyongyang già nei prossimi giorni.

Quella militare resta un’opzione che gli Stati Uniti intendono considerare contro la Corea del Nord. All’interno del governo di Washington, nonostante i preparativi bellici ben avanzati, vi sono però disaccordi su una decisione che rischierebbe di scatenare un conflitto violentissimo, nel quale potrebbero molto probabilmente essere coinvolte anche Cina e Russia.

Un articolo pubblicato martedì dal New York Times a firma del giornalista con legami nell’apparato della sicurezza nazionale americana, David Sanger, ha elencato le scelte che il presidente Trump ha a disposizione per risolvere la crisi in atto. La più percorribile, per l’autore dell’analisi, sarebbe quella del negoziato, a testimonianza che una parte della classe dirigente USA ritiene inaccettabile in questo momento una guerra nella penisola di Corea, sia per le conseguenze che essa comporterebbe sia per l’opposizione ancora molto diffusa tra l’opinione pubblica internazionale.

Allo stesso tempo, però, l’attitudine dell’amministrazione Trump ha messo gli Stati Uniti in un vicolo cieco dal quale appare difficile uscire. Per cominciare, la collaborazione tra Washington e Pechino per neutralizzare la minaccia nordcoreana, lanciata con clamore dallo stesso Trump nel mese di aprile dopo la visita in Florida del presidente cinese Xi Jinping, non ha portato alcun frutto.

Senza concessioni da parte americana, perciò, sembra di fatto impossibile aprire un percorso diplomatico con la Corea del Nord. Sia la Cina che la Russia sono tornate infatti a chiedere un passo indietro a Washington per favorire il dialogo. Durante un vertice a Mosca tra Putin e Xi, i due paesi hanno condannato l’ultimo test missilistico del regime di Kim, per poi chiedere a quest’ultimo di congelare il proprio programma nucleare in cambio di uno stop alle esercitazioni militari tra Stati Uniti e Corea del Sud.

Questa proposta era già stata avanzata qualche settimana fa dal governo cinese, ma era stata seccamente respinta dalla Casa Bianca, le cui condizioni per un ritorno al tavolo delle trattative continuano a prevedere non solo la fine del programma nucleare e missilistico nordcoreano, ma anche lo smantellamento delle testate atomiche di cui Pyongyang sarebbe già in possesso.

Significativamente, Cina e Russia hanno incluso nel già ricordato comunicato anche la richiesta di rimuovere il sistema anti-missilistico americano THAAD dal territorio della Corea del Sud. Questa struttura è stata recentemente installata dalle forze armate USA ed è considerata una seria minaccia al deterrente militare cinese e russo, anche se ufficialmente destinata a intercettare eventuali missili lanciati dalla Nordcorea.

Il riferimento al THAAD di Cina e Russia è il riconoscimento ufficiale da parte dei rispettivi governi del fatto che l’escalation diplomatico-militare promossa dagli Stati Uniti è diretta principalmente proprio contro questi due paesi e non tanto contro un regime isolato e impoverito come quello di Kim.

Ad ogni modo, le condizioni dettate da Washington risultano inaccettabili per la Corea del Nord, il cui comportamento è solo apparentemente irrazionale e provocatorio. Come dimostrano i molti precedenti storici di paesi che hanno rappresentato un ostacolo agli interessi strategici americani, il regime di Kim, per quanto odioso, ha tutte le ragioni per sentirsi minacciato dalla massiccia presenza degli Stati Uniti attorno ai propri confini.

La reazione a uno stato d’assedio che risulta tutt’altro che immaginario non può che essere, dal punto di vista di Pyongyang, una corsa alla militarizzazione e all’ottenimento di armi nucleari efficaci per difendersi da un nemico potentissimo che, innegabilmente, da oltre mezzo secolo cerca di rovesciare il regime ed estendere il proprio controllo su tutta la penisola di Corea.

Per questa ragione, l’unica via d’uscita alla crisi e, probabilmente, a una guerra rovinosa, non può che includere una riduzione dell’impegno militare degli USA in Asia nord-orientale e la prospettiva di una pace vera e duratura. Il regime nordcoreano, d’altra parte, per la propria sopravvivenza ha più volte lasciato intendere di essere disposto a raggiungere un accordo con Washington.

Proprio martedì, ad esempio, la testata nordcoreana con sede a Tokyo, Chosun Sinbo, ha scritto che “lo scontro tra Pyongyang e Washington è entrato nella sua fase finale” e che, “per evitare un conflitto armato”, la comunità internazionale deve adoperarsi per promuovere “un negoziato diplomatico”.

Lo stesso giornale ha ribadito poi che “non è la Corea del Nord a dover cambiare, bensì gli Stati Uniti”, mentre poco prima il leader nordcoreano Kim aveva affermato che il suo paese non abbandonerà mai le proprie armi nucleari e i propri missili balistici, a meno che gli USA “cessino la loro politica ostile e mettano fine alla minaccia nucleare”.

Un’iniziativa per stemperare le tensioni da parte americana non è però all’ordine del giorno e ciò non perché la Corea del Nord e il suo programma militare rappresentino un reale pericolo per gli Stati Uniti o i loro alleati. L’ex numero uno del Pentagono, William Perry, in questi giorni ha spiegato infatti che i timori “non riguardano un lancio preventivo di missili contro la costa occidentale americana”, che equivarrebbe a un suicidio da parte del regime nordcoreano, quanto le “capacità di rispondere” a un attacco da parte degli USA.

In altre parole, Washington intende annientare la minaccia della Corea del Nord per evitare eventuali danni collaterali prodotti dalla ritorsione di quest’ultimo paese in caso il governo americano, per ragioni strategiche con ogni probabilità legate alla rivalità con la Cina, decidesse di intervenire militarmente in Asia nord-orientale.

Essendo la posta in gioco ben più alta della pace con il regime di Kim, dunque, è estremamente improbabile che le prossime iniziative americane portino nel breve periodo a una de-escalation del sempre più pericoloso scontro in atto nella penisola di Corea.

di Mario Lombardo

L’inizio del vertice del G20 di Amburgo nel prossimo fine settimana sarà preceduto da una visita-lampo del presidente americano Trump in Polonia che potrebbe rappresentare una sgradita anticipazione delle crescenti divisioni tra i paesi europei e tra alcuni di questi ultimi e gli Stati Uniti della nuova amministrazione repubblicana.

La probabile calda accoglienza che Trump riceverà a Varsavia non sarà solo un breve conforto per un presidente in grave difficoltà sul fronte interno e osteggiato dalla gran parte dell’opinione pubblica internazionale. L’intesa già preannunciata con i leader del governo di estrema destra polacco servirà soprattutto a rafforzare l’asse tra Washington e alcuni paesi dell’Europea orientale, più o meno in rotta con Bruxelles, e con ogni probabilità ad alimentare le frizioni tra i blocchi in fase di formazione in un vecchio continente che sta attraversando un momento di gravissima crisi politica.

A livello formale, l’intesa dell’amministrazione Trump con il governo polacco della premier, Beata Szydlo, la quale peraltro non incontrerà il presidente USA, e soprattutto del vero leader del partito di governo (PiS), Jaroslaw Kaczyński, si fonda su una sostanziale convergenza di vedute su questioni come quelle della lotta all’immigrazione, dell’impulso al militarismo e della promozione del nazionalismo.

Lungo queste linee sono emerse anche le critiche del governo di Varsavia e dello stesso Trump ad alcuni governi europei, a cominciare da quello tedesco, impegnato nella costruzione di un’alleanza con la Francia del neo-presidente Macron in netto contrasto con l’alleato americano.

Lo scontro tra Bruxelles e Varsavia si è manifestato finora principalmente in relazione alla trasformazione in senso anti-democratico del sistema politico e della società polacca fin dal ritorno al potere del PiS di Kaczyński nell’autunno del 2015. Il successo di questo partito di estrema destra nelle elezioni aveva rimesso all’opposizione in Polonia i moderati europeisti di Piattaforma Civica (PO), a cui appartiene l’ex primo ministro e attuale presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk.

Dietro alla retorica dei diritti democratici vi sono tuttavia fattori economici e strategici che contribuiscono all’aggravamento delle tensioni nell’Europa centro-orientale, primo fra tutti l’ostilità nei confronti di Germania e Russia del partito che governa a Varsavia, il quale auspica da sempre il rafforzamento dell’alleanza della Polonia con Washington senza l’intermediazione di Bruxelles o Berlino.

Una recente analisi dell’imminente visita di Trump a Varsavia del britannico Guardian ha quanto meno sfiorato la questione, in particolare nella citazione di un’intervista al ministro della Difesa, Antoni Macierewicz, nella quale quest’ultimo spiega con entusiasmo come l’arrivo nel suo paese del presidente americano servirà a mostrare “quanto è cambiata la posizione nella geopolitica mondiale della Polonia”.

Speculare a questa dichiarazione è stata quella del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale H. R. McMaster, che ha anticipato come Trump dovrebbe esporre “una visione non solo dei futuri rapporti degli USA con l’Europa, ma del futuro stesso dell’alleanza transatlantica”.

Anche la scelta del luogo in cui Trump terrà giovedì il suo discorso nella capitale polacca appare simbolico dell’evoluzione del quadro strategico europeo e americano. Il presidente USA parlerà infatti di fronte a un monumento eretto a ricordo della fallita insurrezione di Varsavia nel 1944 contro l’occupazione della Germania nazista.

Le ragioni del crescente conflitto tra Washington e Berlino, inaspritosi a partire dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, sono d’altra parte per molti versi simili a quelle che hanno messo di fronte negli ultimi anni il governo polacco a quello tedesco e ai vertici UE. Varsavia ha cioè spesso criticato aspramente la presunta politica delle “frontiere aperte” promossa da Bruxelles e Berlino o la distruzione delle “radici cristiane” dell’Europa come elemento alla base del dilagare della minaccia terroristica.

Ancora più significativo è lo scontro in atto sulla costruzione del gasdotto “Nordstream 2”, l’infrastruttura che raddoppierà la quantità di gas naturale russo trasportato verso la Germania attraverso il mar Batltico e da qui al mercato dell’Europea centrale e occidentale bypassando l’Ucraina.

Il progetto da quasi dieci miliardi di euro è nelle mire di Washington, così come di Varsavia, dal momento che finirebbe per consolidare la posizione della Russia sul mercato energetico europeo. Allo stesso modo, il “Nordstream 2” si scontra con gli sforzi dell’amministrazione Trump di vendere il gas naturale americano da questa parte dell’Atlantico. Un tema, quest’ultimo, che dovrebbe essere al centro dei colloqui di giovedì tra Trump e i leader polacchi.

Le preoccupazioni americane sono più che evidenti dal contenuto del nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca recentemente approvato quasi all’unanimità dal Senato di Washington. In esso è previsto che la Casa Bianca possa imporre misure punitive alle aziende russe coinvolte nella costruzione di oleodotti o gasdotti. Non solo, il provvedimento in discussione negli USA collega esplicitamente le sanzioni alla promozione dell’export energetico americano.

Il riferimento al “Nordstream 2” nell’iniziativa del Congresso, anche se non esplicito, è stato riconosciuto quasi universalmente e ha provocato una risposta insolitamente dura nei confronti degli Stati Uniti da parte dei ministri degli Esteri di Germania e Austria. Nella costruzione del “Nordstream 2” sono coinvolte cinque compagnie europee, oltre al gigante russo Gazprom, di cui due tedesche e una austriaca.

Le divisioni transatlantiche che rischiano di esplodere nel G20 di Amburgo, sotto la spinta delle crescenti rivalità generate dalla crisi del capitalismo internazionale, troveranno dunque un’anticipazione nella breve trasferta polacca di Trump.

Una trasferta che, dopo i colloqui con i leader del governo di Varsavia, sarà chiusa dall’incontro con i rappresentanti della cosiddetta “conferenza dei Tre Mari”, promossa da Polonia e Croazia e di cui fanno parte dodici paesi situati tra il Baltico, l’Adriatico e il Mar Nero.

Come hanno spiegato in questi giorni vari giornali occidentali, per gli stessi ideatori la “conferenza” dovrebbe rappresentare, evidentemente con il consenso e l’appoggio di Washington, un contrappeso centro-europeo all’asse franco-tedesco che domina indiscutibilmente le politiche del continente.


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