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di Michele Paris
Nell’arco di poche ore, questa settimana l’amministrazione Trump ha preso due provvedimenti diametralmente opposti in merito all’Iran che mostrano tutte le contraddizioni del governo americano sull’approccio da tenere nei confronti di questo paese e dell’intera regione mediorientale.
Lunedì, la Casa Bianca aveva dovuto certificare nuovamente il rispetto dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) da parte di Teheran. La decisione sarebbe stata presa in maniera riluttante dal presidente USA, il quale fin dalla campagna elettorale dello scorso anno si era impegnato a uscire dall’accordo di Vienna.
Secondo le ricostruzioni fatte dalla stampa americana, Trump avrebbe cercato di passare da subito alla linea dura, ma alcuni esponenti di spicco della sua amministrazione – dal segretario di Stato, Rex Tillerson, a quello alla Difesa, James Mattis, dal consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster, al capo di Stato Maggiore, Joseph Dunford – lo hanno convinto a confermare almeno momentaneamente la validità dell’accordo.
Con la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni Unite che continua a garantire il comportamento conforme all’accordo dell’Iran e gli altri cinque paesi coinvolti nelle trattative (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) intenzionati a proseguire sulla strada della distensione, alla fine Trump non ha potuto che adeguarsi.
Il Congresso americano stabilisce che la Casa Bianca debba notificare ogni 90 giorni la conformità dell’Iran alle condizioni del JCPOA. Quella di questa settimana è la seconda certificazione fatta da Trump e anche la prima volta la sua decisione in senso positivo era arrivata con una serie di recriminazioni e riserve.
Che la Casa Bianca abbia agito in questo senso solo perché costretta dalle circostanze è apparso chiaro quando, martedì, il dipartimento di Stato, assieme a quelli di Giustizia e del Tesoro, ha annunciato nuove sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica.
L’azione è tecnicamente svincolata dall’accordo sul nucleare ma, come risulta evidente, nelle intenzioni dell’amministrazione Trump serve a incrinare ancora di più le relazioni bilaterali e a preparare il terreno per un’accelerazione dell’offensiva contro Teheran.
Le nuove misure punitive colpiscono 18 tra “entità” e individui iraniani che Washington ritiene coinvolti in attività quali lo sviluppo del programma missilistico, l’acquisto di armi e il furto di software. Non solo, a essere colpite dalle sanzioni sono anche una compagnia turca e una cinese che il Tesoro americano sostiene abbiano fornito materiale alle forze armate iraniane.
In realtà, tutte le attività considerate illegali dagli USA appaiono interamente legittime. La vera ragione della persistente ostilità americana nei confronti dell’Iran si può leggere tra le righe del comunicato ufficiale che ha accompagnato le sanzioni. Per il governo americano, cioè, le misure scaturiscono dalle “gravi preoccupazioni che suscitano le attività maligne della Repubblica Islamica in Medio Oriente” che “minacciano la stabilità, la sicurezza e la prosperità della regione”.
Al di là del fatto che questa descrizione si adatta alla perfezione alle attività destabilizzanti proprio degli Stati Uniti nel vicino Oriente, essa spiega chiaramente le ragioni dell’ostilità di Washington verso l’Iran. Nonostante l’accordo sul nucleare, Teheran continua in sostanza a rappresentare il principale ostacolo agli interessi degli USA e dei loro alleati in Medio Oriente.
Il riferimento dello stesso Trump alla violazione da parte iraniana dello “spirito”, se non della lettera, del JCPOA rivela come una parte della classe dirigente americana, quella contraria fin dall’inizio al negoziato con Teheran, abbia accettato a denti stretti l’intesa sul nucleare a condizione di utilizzarla come strumento di pressione per far desistere la Repubblica Islamica dalle proprie ambizioni da potenza regionale.
Il problema per Washington è che l’accordo ha innescato un processo di integrazione economica, sia pure alle primissime battute, dell’Iran con molti alleati degli Stati Uniti, per non parlare del consolidamento dei legami che già manteneva con paesi come Russia, Cina, India o Turchia.
Soprattutto l’Europa appare sempre meno disposta a rivedere i termini del JCPOA, visto che numerose aziende di svariati paesi stanno già facendo a gara per entrare nel mercato iraniano, da cui invece quelle americane restano in larga misura escluse. Proprio alcuni giorni fa, ad esempio, il colosso francese dell’energia Total ha sottoscritto un accordo da quasi 5 miliardi di dollari con la cinese CNP e l’iraniana Petropars per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale South Pars.
Se l’amministrazione Trump, con il sostegno pressoché unanime del Congresso, intenderà proseguire sulla strada del confronto con Teheran, risulta evidente che quello che si prospetta è l’apertura a tutti gli effetti di un nuovo fronte nello scontro tra alleati in Occidente. Negli ultimi mesi sono state d’altronde sempre più numerose le voci dei leader europei che hanno celebrato l’accordo con l’Iran e condannato apertamente le posizioni americane.
Lo stesso governo della Repubblica Islamica ha fatto i propri calcoli in considerazione dei mutati equilibri internazionali, tanto che questa settimana il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, non ha avuto scrupoli a criticare l’amministrazione Trump, oltretutto nel corso di una visita negli Stati Uniti.
Zarif ha affrontato in varie occasioni la questione delle sanzioni e del JCPOA durante discorsi tenuti presso istituti e “think tank” americani o nel corso di interviste ai media d’oltreoceano, rimandando le accuse al mittente e giungendo egli stesso a minacciare una comunque improbabile uscita di Teheran dall’accordo.
La partita del nucleare iraniano non è ad ogni modo una questione isolata, ma si inserisce nel quadro più generale del sovrapporsi degli interessi di Washington e Teheran in Medio Oriente. La sorte del JCPOA, anche se non dipende unicamente dagli Stati Uniti, sarà infatti da collegare alle prossime mosse dell’amministrazione Trump nella regione.
Lo scontro tra gli USA e i loro alleati contro l’Iran e l’asse sciita, dal quale derivano in sostanza le tensioni sulla vicenda del nucleare di Teheran, continuerà così a giocarsi su tutti gli scenari più caldi, dalla guerra in Siria a quella nello Yemen, dalla sfida per garantirsi l’influenza sull’Iraq alla crisi che sta lacerando il gruppo delle monarchie sunnite del Golfo Persico.
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di Mario Lombardo
L’evoluzione della crisi nella penisola di Corea sta progressivamente portando alla luce le potenziali differenze di approccio alla “minaccia” del regime di Pyongyang tra il governo americano e quello di Seoul. La distanza tra i due alleati è dovuta a questioni di natura economica e strategica e questa settimana è emersa in maniera chiara forse per la prima volta dall’ascesa al potere del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, quando quest’ultimo ha proposto apertamente alla Corea del Nord la ripresa di colloqui diretti tra rappresentanti delle rispettive forze armate.
La proposta fatta al regime di Kim Jong-un prevede un incontro presso la località di Panmunjom, al confine demilitarizzato tra le due Coree, già per venerdì prossimo. Il primo di agosto, invece, la Croce Rossa sudcoreana vorrebbe rilanciare anche le riunioni tra le famiglie divise tra i due paesi dalla guerra del 1950-1953.
Gli ultimi colloqui diretti a livello militare tra i due paesi si erano tenuti nell’ottobre del 2014, mentre le riunioni famigliari erano state abbandonate un anno più tardi. Seoul non ha comunque specificato i termini delle discussioni proposte ma, secondo la stampa locale e internazionale, potrebbero essere affrontate questioni preliminari per favorire la ripresa del dialogo, come la cessazione del lancio di volantini di propaganda nel territorio della Corea del Nord e lo stop ai voli dei droni rudimentali di Pyongyang oltre il confine meridionale.
La proposta dell’amministrazione Moon deve essere stata accolta con poco entusiasmo a Washington. A pochi può sfuggire infatti il tempismo dell’iniziativa sudcoreana, con il nuovo presidente di centro-sinistra impegnato a tendere in qualche modo la mano a Kim Jong-un mentre gli Stati Uniti sono nel pieno di un’escalation militare nella penisola di Corea e stanno cercando di adottare nuove sanzioni punitive contro lo stesso regime e le compagnie cinesi che con esso fanno affari.
Fin dal suo insediamento, Moon ha in realtà cercato in tutti i modi di sminuire le diverse posizioni sulla questione coreana tra il suo governo e quello dell’alleato americano. Durante il vertice tra Moon e Trump alla Casa Bianca nel mese di giugno, entrambi avevano provato a dare un’immagine di unità nell’affrontare la crisi, anche se appariva già allora evidente la crescente divergenza dei rispettivi approcci.
Moon, d’altra parte, in un discorso tenuto a Berlino il 6 luglio alla vigilia del G20 di Amburgo aveva anticipato un piano per la ripresa del dialogo con la Corea del Nord. Significativamente, il suo intervento era arrivato pochi giorni dopo il test missilistico intercontinentale del regime di Kim che aveva generato un’ondata di accuse e minacce, con gli USA in prima linea nel cercare l’appoggio degli alleati per aumentare ulteriormente le pressioni su Pyongyang.
Poco sorprendente è stata perciò la reazione della Casa Bianca alla notizia della proposta di dialogo lanciata lunedì da Seoul. Il portavoce del presidente, Sean Spicer, ha concesso che il suo paese contempla in maniera teorica l’ipotesi di un negoziato pacifico con la Corea del Nord, ma ha aggiunto che le condizioni richieste da Washington affinché ciò avvenga sono “molto lontane” dall’essersi realizzate.
Una dichiarazione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano ha in seguito ribadito sostanzialmente lo stesso concetto. Per Washington, la possibilità di ristabilire un qualche dialogo con Kim dipende dalla disponibilità di quest’ultimo ad abbandonare preliminarmente il proprio programma nucleare e missilistico. Una condizione, cioè, di fatto impossibile da accettare per il regime nordcoreano, il quale ritiene, non senza ragioni, che il possesso di armi in grado di provocare gravissime perdite agli USA o alla Corea del Sud sia l’unica garanzia di sopravvivenza di fronte alla minaccia americana.
Se il governo di Seoul è ben cosciente delle differenze tra la propria attitudine verso Pyongyang e quella dell’amministrazione Trump, nelle dichiarazioni ufficiali continua tuttavia a prevalere il tentativo di mostrare un’unità di vedute poco meno che perfetta. Martedì, ad esempio, in risposta alle perplessità manifestate dalla Casa Bianca dopo la proposta di Moon, il ministero dell’Unificazione sudcoreano ha assicurato che non esiste alcun divario “nel valutare le condizioni per la ripresa del dialogo sulla denuclearizzazione della Corea del Nord”. Questo stesso ministero e quello degli Esteri hanno poi garantito che gli Stati Uniti e “le altre principali potenze” erano state avvertite preliminarmente dell’iniziativa di Moon.
Da parte del regime di Kim non c’è stata ancora risposta all’offerta di dialogo proveniente da Seoul. Nei giorni scorsi, la stampa ufficiale nordcoreana aveva però mostrato aperture molto caute a un possibile processo di distensione. La priorità della Corea del Nord rimane ad ogni modo un accordo con gli Stati Uniti, dai quali ritiene comprensibilmente derivi la minaccia principale nei suoi confronti.
Il governo di Washington ha però già fatto sapere in più di un’occasione di non essere disposto nemmeno a considerare concessioni preliminari in cambio di un congelamento del programma militare nordcoreano. Dapprima la Cina, riportando quasi certamente una proposta di Pyongyang, e in seguito Pechino e Mosca in forma congiunta avevano di recente chiesto agli USA di sospendere le esercitazioni militari con le forze armate sudcoreane in un gesto che potesse favorire la ripresa del dialogo, ma l’amministrazione Trump ha entrambe le volte escluso questa possibilità.
Proprio nella richiesta di concessioni preliminari da parte nordcoreana risiede dunque la differenza principale tra i punti di vista di Washington e Seoul, con quest’ultimo governo che, nella sostanza, sembra spesso maggiormente allineato alle posizioni cinesi o russe rispetto a quelle americane, malgrado i tentativi di dare l’impressione del contrario.
Mentre la classe dirigente della Corea del Sud continua com’è ovvio a considerare l’alleanza con gli Stati Uniti il perno della sicurezza del paese, le dinamiche internazionali degli ultimi anni, accelerate dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, hanno spinto Seoul a guardare altrove per la promozione dei propri interessi strategici ed economici.
Soprattutto il centro-sinistra sudcoreano, a cui appartiene appunto l’attuale presidente Moon, rappresenta una fazione dell’apparato di potere che vede con particolare favore il rafforzamento delle relazioni commerciali con Pechino. Da qui deriva anche la migliore disposizione, rispetto ai conservatori sudcoreani, verso la Corea del Nord, considerata inoltre come potenziale bacino in grado di fornire manodopera a bassissimo costo per le imprese di Seoul.
Nel calcolo di Moon rientra anche la predisposizione della maggioranza della popolazione del suo paese, decisamente ostile a un’escalation con la Nordcorea che potrebbe sfociare in un conflitto armato dalle conseguenze incalcolabili. Moon e il suo Partito Democratico (DPK) erano d’altra parte riusciti a riconquistare la presidenza proprio grazie a un programma incentrato sulla distensione con Pyongyang.
Da considerare con attenzione è poi l’interesse del governo sudcoreano nel partecipare al progetto di integrazione economica e infrastrutturale eurasiatica lanciato dalla Cina e noto alternativamente come “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI). Un’aspirazione, quella della classe dirigente sudcoreana, che non può prescindere dal mantenimento di relazioni cordiali con la Cina, così come dalla distensione con Pyongyang, se non altro per garantirsi un collegamento territoriale verso occidente.
Seoul si trova d’altronde nella stessa situazione di molti altri paesi asiatici e non solo, più o meno vincolati da un’alleanza strategica e militare con gli Stati Uniti ma attratti sempre più nell’orbita economica e commerciale della Cina.
Il perseguimento di questi obiettivi di sviluppo è così la ragione principale del potenziale conflitto tra la Corea del Sud e gli Stati Uniti, con questi ultimi impegnati non solo a mettere in un angolo il regime di Kim e ad aumentare le pressioni su Pechino, ma anche, secondo l’agenda ultra-nazionalistica di Trump, a rimettere in discussione i termini delle alleanze e delle relazioni commerciali con i propri partner.
La difficile, se non impossibile, scommessa di Seoul, rilanciata dalla recente proposta di distensione con il regime di Kim, sarà dunque quella di riuscire a intraprendere un percorso indipendente sulla Cina e la Corea del Nord, evitando una clamorosa rottura con gli Stati Uniti che potrebbe avere conseguenze disastrose sia sul piano domestico che internazionale.
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di Michele Paris
Il voto finale del Congresso americano sulla nuova legge del sistema sanitario, che dovrebbe rimpiazzare la riforma approvata durante la presidenza Obama nel 2010 (“Obamacare”), dopo gli sviluppi dei giorni scorsi continua a sembrare una vera e propria corsa a ostacoli. Con la leadership del Partito Repubblicano già in grave difficoltà nel mettere assieme i 50 voti necessari al Senato per licenziare il pacchetto approvato dalla Camera dei Rappresentanti ai primi di maggio, l’improvviso forfait per motivi di salute del senatore dell’Arizona, John McCain, ha determinato un nuovo ritardo di un iter legislativo sempre più complicato.
Al momento, due senatori repubblicani hanno manifestato apertamente l’intenzione di votare contro la legge voluta dal presidente Trump: la “centrista” Susan Collins e il “libertario” di estrema destra, Rand Paul.
La prima teme conseguenze disastrose per la propria carriera politica a causa degli attacchi senza precedenti contenuti nella nuova legge al programma di assistenza pubblico “Medicaid”, destinato ai redditi più bassi. Il secondo, al contrario, reputa la cosiddetta “Better Care Reconciliation Act” troppo poco incisiva nell’eliminare i cambiamenti introdotti nel settore sanitario da “Obamacare”.
Due sono esattamente i voti che i repubblicani al Senato possono permettersi di perdere per riuscire a mandare in porto la legge. Come ha spiegato la stessa senatrice Collins, però, sarebbero almeno altri dieci i senatori del suo partito indecisi o con forti riserve sulla misura, così che, con o senza la presenza a Washington di McCain, il rinvio del voto in aula sarebbe stato comunque inevitabile questa settimana.
Un altro colpo mortale alla legislazione sanitaria potrebbe arrivare nei prossimi giorni con la nuova analisi dell’Ufficio per il Budget del Congresso, vale a dire l’organo indipendente che valuta l’impatto delle leggi americane in discussione. Questo ufficio si era già espresso sulla legge, spiegando che essa provocherebbe la perdita di qualsiasi copertura sanitaria per 22 milioni di americani nel prossimo decennio, ma è stato sollecitato a dare un altro parere dopo la recente introduzione di alcuni emendamenti nel tentativo di convincere qualche senatore indeciso.
La modifica principale è stata presentata dal senatore del Texas, Ted Cruz, anch’egli vicino alle tendenze “libertarie” nel Partito Repubblicano. Il cuore della sua proposta prevede la creazione di piani sanitari economici e virtualmente senza nessuno dei servizi fondamentali offerti ai sottoscrittori delle polizze, come previsto invece da “Obamacare”, teoricamente per evitare che la prevista impennata del costo delle assicurazioni sanitarie provochi un crollo nel numero degli americani con qualche copertura.
La nuova analisi della legge da parte dell’Ufficio per il Budget del Congresso non dovrebbe scostarsi di molto da quella offerta per la versione precedente del Senato e potrebbe dunque complicare ancor più gli equilibri in casa repubblicana.
Il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, aveva già dovuto rimandare il voto in aula sulla legge sanitaria nel mese di giugno e ancora ai primi di luglio per la mancanza dei voti necessari all’approvazione. Nel corso delle settimane successive la situazione non è cambiata di molto, con l’ala moderata del partito preoccupata soprattutto per gli effetti devastanti dei tagli a Medicaid e gli esponenti dell’estrema destra che chiedono in sostanza di consegnare totalmente il sistema sanitario americano agli interessi privati.
Nei prossimi giorni proseguiranno le trattative nella maggioranza repubblicana per trovare un difficile compromesso e consegnare almeno un successo legislativo a un’amministrazione Trump in gravissimo affanno sul fronte interno. Già alcuni membri del Congresso repubblicani sembrano vedere tuttavia come inevitabile un negoziato con l’opposizione democratica per giungere a un qualche risultato nell’ambito della riforma sanitaria.
Il Partito Democratico ha finora opposto un’opposizione compatta alle varie versioni della legge circolate al Congresso, ma la sua leadership al Congresso non ha escluso trattative con i repubblicani, quanto meno per apportare modifiche a “Obamacare”. I principi tutt’altro che progressisti che hanno ispirato quest’ultima legge – riduzione dei costi sanitari e sistema di copertura incentrato sulle compagnie private – sono d’altra parte il punto di partenza di quella promossa dall’amministrazione Trump. Qualsiasi accordo “bipartisan” non farebbe perciò che peggiorare la legge del 2010 attualmente in vigore.
La determinazione con cui i repubblicani e la Casa Bianca continuano a cercare di mandare in porto una legge che ha già fatto registrare una serie di umiliazioni per il partito e sembra un autentico rompicapo quasi impossibile da sciogliere è motivata da vari fattori.
Il primo è già stato ricordato in precedenza e ha a che fare con la necessità di Trump di offrire un primo risultato ai propri sostenitori con l’adozione di un provvedimento promesso in campagna elettorale. Ciò appare ancora più urgente alla luce di due dinamiche, cioè l’addensarsi di nuvole sempre più minacciose sulla presidenza a causa del cosiddetto “Russiagate” e la crescente impopolarità della stessa legge sanitaria man mano che gli americani ne conoscono i contorni.
L’altro elemento che spiega l’ansia dei repubblicani e dell’amministrazione Trump di mettere mano nuovamente al settore sanitario americano è lo smantellamento di Medicaid. Nella legge allo studio sono annunciati tagli per poco meno di 800 miliardi di dollari a questo programma popolare da qui al 2026, ovvero più di un quarto del finanziamento totale, da ottenere in primo luogo cancellando l’espansione della copertura attraverso di esso prevista da “Obamacare”.
“Trumpcare” trasformerebbe inoltre un programma pubblico che copre oggi 75 milioni di americani poveri e disabili in base alle necessità in un piano con stanziamenti fissi e limitati da erogare ai singoli stati. Il risultato sarebbe inevitabilmente una riduzione del numero dei beneficiari, assieme al taglio delle prestazioni offerte e al probabile aumento dei contributi richiesti a coloro che continueranno a ricevere assistenza.
Il drastico ridimensionamento di Medicaid in quanto voce di spesa tra le più consistenti del bilancio federale è – in un modo o nell’altro – nel mirino da tempo della classe politica americana, soprattutto della destra repubblicana. L’approvazione della legge sanitaria voluta da Trump rappresenterebbe perciò il primo assalto di vasta portata a questo programma pubblico e aprirebbe la strada a ulteriori attacchi allo stesso Medicaid, ma anche ad altri creati negli anni Sessanta e durante il “New Deal” rooseveltiano, come Medicare e Social Security.
Le difficoltà nel superare le divisioni interne al Partito Repubblicano e giungere all’approvazione della legge sanitaria dipendono proprio dal carattere ultra-reazionario di quest’ultima e dalla vastissima opposizione popolare che essa incontra.
In questo quadro, perciò, neanche le menzogne spudorate dei repubblicani sul contenuto della legge, a cominciare da quelle del presidente Trump, riusciranno con ogni probabilità a limitare i danni politici a cui andranno incontro i promotori della nuova contro-rivoluzione sanitaria, sempre che essa, alla fine, riesca a superare ostacoli che appaiono oggi quasi insormontabili.
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di Fabrizio Casari
MANAGUA. Nove anni e mezzo di carcere e interdizione per 18 dai pubblici uffici. Questa la sentenza pronunciata dal giudice Sergio Mora nei confronti di Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, fondatore del Partito dei Lavoratori ed ex Presidente della Repubblica per due mandati consecutivi. Le accuse? Sarebbe stato il destinatario di una tangente consistente in un appartamento. Accuse provate? No, si basano su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’è nemmeno un’accusa provata.
A sostegno della Procura c’è solo un contratto di acquisto o cessione di un appartamento che si dice sia della società OAS, ma è un contratto senza intestazione di nessuna società e senza nessuna firma, meno che mai quella di Lula o di suoi familiari. E allora?
E allora Lula è stato giudicato colpevole di corruzione e riciclaggio di denaro sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. La famosa “Lava Jato”, la Tangentopoli in formato carioca, concepita con un obiettivo chiaro e nemmeno troppo nascosto: sovvertire il quadro politico progressista scelto dagli elettori e sostituirlo con uno gradito a Washington e ai poteri forti locali. Per questo si doveva procedere su tre fronti contemporaneamente: abbattere il governo di Dijlma Roussef, colpire a fondo il PT e, in particolare, mettere Lula in condizioni di non nuocere per un bel pezzo.
Perché Lula? Perché oltre ad essere il leader naturale del suo partito (il primo partito del paese) e il politico di maggior rilievo della scena brasiliana, Lula è, a distanza di anni dalla sua uscita dal Planalto, l’uomo verso il quale la stragrande maggioranza dei brasiliani ripone la maggior fiducia. Proprio la dichiarata intenzione di Lula di ricandidarsi alla guida del Brasile ha fatto scattare l’allarme per chi ha intenzione di ricondurre il gigante carioca alle dipendenze di Washington e nuovo terreno di conquista di mano d’opera a basso costo e risorse naturali in regalo.
Si obietterà che un giudice si limita solo a prendere atto di prove inoppugnabili e che non ha interessi politici diretti. Ma è proprio così? In generale non è detto e nel caso specifico, secondo quanto rivelato da Wikileaks, i dubbi aumentano.
Il giudice Mora, infatti, fa parte di un gruppo di procuratori e giudici formati dagli Stati Uniti allo scopo di combattere la corruzione in America Latina. Frequentano corsi denominati “I ponti” impartiti direttamente dal Dipartimento di Stato USA, ed è con il sostegno statunitense che vengono poi insediati nelle diverse sedi operative dei rispettivi paesi del subcontinente.
Certo, è a suo modo una innovazione: fino a pochi anni orsono i corsi statunitensi erano destinati ai militari latinoamericani, cui veniva insegnata l’arte dell’obbedienza a Washigton, le procedure per i colpi di stato e le tecniche di tortura e scomparsa dei prigionieri (vedi Scuola delle Americhe a Panama o Fort Branning in Carolina del Nord), ora, che i mezzi d’ingerenza esterna si sono fatti più sofisticati, s’insegna a sovvertire e destabilizzare al riparo di ruoli civili. Ma questa inchiesta somiglia straordinariamente ad una riedizione del Plan Condor di triste memoria.
L’inchiesta “Lava Jato”, che per comodità potremmo definire la Tangentopoli brasiliana, poggia su un livello impressionante di incriminazioni, avvenute solo a seguito di dichiarazioni “spontanee” delle aziende corruttrici, che ad oggi coinvolgono 409 dirigenti del PT, 287 del Partito Democrático del Centro Brasiliano e altri 152 del Partito della Social Democrazia che sono stati condannati per episodi di corruzione. Beneficiari di questa sarebbero state diverse società, tra le quali la Odebrecht S.S., la OAS, la Embraer, la Petrobras, e la JBS.
Sembrerebbe, apparentemente, una buona notizia quella che vede la disarticolazione di un sistema di relazioni perniciose ed illegali che alterano il mercato interno brasiliano, ma se gli elementi probatori nel caso di Lula latitano, le conseguenze di questa operazione presentano invece un quadro certo: il ritorno d’interessi straordinari per i soliti noti.
Il sostanziale blocco operativo della Petrobras, ad esempio, permette ora alla Chevron di rientrare in gioco nel mercato brasiliano della estrazione e distribuzione del greggio (uno dei maggiori al mondo). Il blocco ventennale della spesa pubblica permette alla JP Morgan di rimettere le unghie nella privatizzazione delle pensioni voluta dal Presidente Temer. Temer infatti (tra i personaggi più corrotti del paese) ex alleato di governo di Dijlma Roussef, organizzò il golpe parlamentare che la depose e che ha dato il via - in alcuni casi senza nemmeno la legittimità parlamentare - ad alcune “riforme” ispirate dalle multinazionali statunitensi.
Tra queste quella del lavoro, che prevede, tanto per dire, la durata della giornata lavorativa portata da 8 a 12 ore! Allo stesso tempo, con la scusa della stabilità dei conti, viene stabilito il blocco della spesa pubblica per venti anni su sanità, istruzione, assistenza sociale e piani di sviluppo. Perché queste perle abbiano seguito si deve però spodestare il PT dal governo; impedire che la politica mantenga il controllo sulla gestione del paese è decisivo per il progetto delle multinazionali USA di invadere il Brasile con fondi speculativi multinazionali, destinati a depredare le sue immense risorse naturali e, attraverso la privatizzazione dei servizi, a realizzare quella liquidità di cui le multinazionali statunitensi hanno bisogno in un quadro internazionale recessivo.
Lula, e con lui il PT, rappresentano un ostacolo insormontabile ai progetti di conquista del Brasile ed è per questo che, pur senza prove, si tenta d’inibire il vecchio sindacalista e dirigente politico dalla ricandidatura. In questo senso la scelta di non procedere con l’esecuzione della sentenza, sospesa in attesa del secondo grado, è anche un modo per tenere sotto scacco l’ex presidente, che però gode dell’appoggio del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana.
Proprio ieri, anticipando di fatto la risoluzione del Foro di Sao Paulo (l’organismo che tiene insieme tutta la sinistra latinoamericana si troverà a Managua dal 16 al 19 luglio), il FSLN del Nicaragua, guidato dal Presidente Daniel Ortega, ha dichiarato ogni appoggio al leader del PT. Lula ha deciso di non restare a guardare e, con il sostegno del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana ha assicurato l’intenzione di dare battaglia per rovesciare il tavolo e riproporre la sua candidatura.
La quale, stando ai sondaggi indipendenti, vede il suo governo rimpianto da circa il 73% dell’elettorato brasiliano. Molti di più di quelli che metterebbero le mani sul fuoco sulla correttezza del giudice Moro.
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di Michele Paris
Gli attacchi contro l’amministrazione Trump nell’ambito del cosiddetto “Russiagate” sono aumentati sensibilmente negli ultimi giorni con l’evolversi della nuova “rivelazione” del New York Times su un incontro, avvenuto nel giugno del 2016, tra il figlio maggiore del presidente americano – Donald jr. – e un avvocato russo con presunti legami con il governo di Mosca. L’escalation contro la Casa Bianca sarebbe giustificata dalla pubblicazione di alcune e-mail scambiate tra lo stesso Donald Trump jr. e l’intermediario di nazionalità britannica che aveva favorito la riunione avvenuta alla Trump Tower tredici mesi fa.
La ferocia con cui le pressioni sulla Casa Bianca stanno aumentando non sono in nessun modo giustificate dal contenuto delle e-mail, ma si spiegano soltanto con la determinazione della stampa ufficiale e di buona parte della classe politica di Washington di far naufragare sul nascere l’intesa tra Washington e Mosca prospettata dal vertice di settimana scorsa ad Amburgo tra Putin e Trump.
Il passaggio cruciale dello scambio di messaggi tra Trump jr. e l’intermediario, ovvero il promotore musicale Rob Goldstone, consisterebbe in una frase scritta dal figlio del presidente in risposta a una dubbia offerta di materiale “ufficiale” che poteva screditare la candidata democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton, nel quadro “dell’appoggio del governo russo” a Donald Trump.
Trump jr. scriveva cioè che, se effettivamente esistevano documenti di questo genere, sarebbe stato interessato ad averli ed essi sarebbero tornati utili “soprattutto alla fine dell’estate”, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali.
La disponibilità di Trump jr. a valutare l’aiuto della Russia proposto in questi termini sarebbe per la stampa “mainstream” americana la prova dell’intenzione che aveva manifestato lo staff del presidente di collaborare con Mosca per ostacolare la campagna di Hillary Clinton.
La vicenda presenta però svariati aspetti tutt’altro che chiari. Per cominciare, l’avvocato russo che avrebbe poi effettivamente incontrato Trump jr., Natalia Veselnitskaya, non era in possesso di nessuna informazione relativa alla Clinton, tanto che il figlio del futuro presidente degli Stati Uniti l’avrebbe messa alla porta dopo pochi minuti.
Lo stesso Trump jr. ha rilasciato una dichiarazione al New York Times per spiegare la sua versione dei fatti. L’avvocato russo, facendo seguito alle promesse contenute nell’e-mail di Goldstone, aveva effettivamente sostenuto di avere informazioni relative a finanziamenti destinati a Hillary provenienti da cittadini russi, ma le sue affermazioni apparivano “vaghe, ambigue e senza senso”. Natalia Veselnitskaya, secondo Trump jr., sarebbe poi passata in fretta ad altri argomenti che sembravano essere il vero motivo della sua visita.
All’incontro erano presenti anche il genero di Trump e ora consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, e l’allora direttore della campagna elettorale, Paul Manfort, ma entrambi avevano abbandonato quasi subito la riunione, evidentemente non interessati a quanto l’avvocato russo aveva da riferire.
Il governo russo ha negato inoltre di avere legami con Natalia Veselnitskaya, la quale intendeva in realtà sollevare la questione della cosiddetta “legge Magnitsky” del 2012 che, approvata per penalizzare cittadini russi sospettati di avere violato i diritti umani, creava più di un ostacolo al business di alcuni suoi clienti a Mosca.
Non essendoci prove del fatto che l’incontro sia andato diversamente da questa ricostruzione, è innanzitutto impossibile affermare che, al di là delle loro intenzioni, Trump jr. o gli altri partecipanti all’incontro del giugno 2016 abbiano complottato o semplicemente discusso con emissari del Cremlino per gettare fango sulla candidata alla presidenza del Partito Democratico.
Già questo sarebbe sufficiente a liquidare come insignificante la presunta “bomba” pubblicata a inizio settimana dal New York Times. Per quanto riguarda poi la frase di Rob Goldstone citata in precedenza sull’appoggio russo alla campagna di Trump, va ricordato che essa è stata espressa da un cittadino britannico che non rappresentava né pretendeva di rappresentare il governo di Mosca.
Goldstone era in contatto con Trump jr. in qualità di agente della pop star russa Emin Agalarov, il cui padre era in rapporti d’affari con il futuro presidente americano, mentre la sua impresa di costruzioni aveva ottenuto importanti appalti dal governo di Mosca.
In ogni caso, continuano a non esserci prove che la predilezione del Cremlino per il candidato repubblicano alla Casa Bianca si sia concretizzata in qualsiasi modo, se non in commenti e prese di posizione che, comprensibilmente, lasciavano intendere vantaggi politici e strategici per Mosca in caso di successo di Trump.
Nell’analizzare la storia proposta dal New York Times è indispensabile sottolineare anche come non ci sia alcun riferimento al cuore dell’accusa rivolta a Mosca di avere interferito nelle elezioni del novembre scorso, vale a dire la violazione dei sistemi informatici del Comitato Nazionale Democratico e del computer del numero uno della campagna di Hillary, John Podesta.
Se pure la proposta sottoposta da Rob Goldstone a Trump jr. si fosse materializzata nei termini promessi, è bene ricordare che Natalia Veselnitskaya avrebbe messo a disposizione, come spiegava appunto l’agente inglese, documenti “ufficiali” provenienti dal Cremlino che rivelavano azioni illegali della candidata democratica.
Ciò avrebbe reso improbabile eventuali manovre segrete per penalizzare Hillary, visto anche che la pubblicazione dei fantomatici documenti sulla ex first lady ne avrebbe necessariamente mostrata l’origine. Soprattutto, qualunque sia il giudizio sull’entourage di Trump, appare giustificabile che il figlio di quest’ultimo fosse interessato a mettere le mani su del materiale, oltretutto sanzionato ufficialmente da un governo, che poteva mostrare operazioni illegali della rivale per la presidenza.
Nel mese di giugno e ancora fino a ridosso del voto, Trump appariva infatti in grave ritardo nei sondaggi e, visto anche il clima tossico della campagna, non è difficile credere che membri del suo staff vedessero con favore l’ipotesi di reperire, non necessariamente in maniera illegale, informazioni screditanti su Hillary.
L’inconsistenza delle accuse a Trump jr. che, secondo molti negli Stati Uniti, rappresenterebbero una qualche svolta nel “Russiagate”, risulta evidente proprio quando viene fatto notare come il comportamento del primogenito del presidente sia stato di dubbia legalità.
Un’editoriale del New York Times al limite del delirante sostiene ad esempio che Trump jr. potrebbe finire in guai legali poiché, a causa della corrispondenza con Rob Goldstone e forse dell’incontro con Natalia Veselnitskaya, avrebbe violato le leggi elettorali federali che proibiscono a membri delle campagne dei candidati di “sollecitare” qualsiasi “cosa di valore” a cittadini stranieri, incluse informazioni dannose.
Per quanto faziosa – o fantasiosa – possa essere l’interpretazione degli ultimi sviluppi del “Russiagate”, è estremamente difficile leggere nel comportamento di Trump jr. una qualche richiesta di materiale utilizzabile contro Hillary Clinton. Di ciò non vi è certo traccia nelle e-mail scambiate con Rob Goldstone né, quanto meno, esiste finora traccia che questo sia stato l’argomento di discussione durante il breve incontro con l’avvocato russo alla Trump Tower.
La questione da approfondire sarebbe piuttosto relativa alla discrepanza tra le promesse di Goldstone e quanto riferito effettivamente da Natalia Veselnitskaya a New York. La spiegazione più semplice è che il primo fosse stato convinto dalla seconda a ingigantire l’importanza delle informazioni da esporre a Trump jr. nella speranza di ottenere un incontro.
Oppure, come ha ipotizzato qualche commentatore filo-russo, l’intermediario inglese avrebbe potuto essere assoldato da qualcuno interessato a colpire Trump lanciando un’esca al figlio di quest’ultimo per convincerlo a incontrare un avvocato legato al governo di Mosca. A supporto di questa tesi, come a quella persecutoria degli accusatori del presidente, non vi sono tuttavia prove, ma è pur vero che già nel mese di giugno dello scorso anno stavano circolando voci sui presunti contatti tra Trump e la Russia.
Ad ogni modo, in questa come nelle precedenti “rivelazioni” sui rapporti tra Trump o uomini a lui vicini e il governo di Mosca, sempre favorite da fughe di notizie all’interno del governo, il tentativo degli oppositori del presidente è in sostanza quello di criminalizzare in quanto tali incontri con esponenti collegati in qualche modo al Cremlino o semplicemente di nazionalità russa.
Con una tattica riconducibile al maccartismo, ogni contatto o legame dell’amministrazione o della famiglia Trump con la Russia viene dunque amplificato come un atto che deve necessariamente nascondere qualche trama illegale, riconducibile in primo luogo all’interferenza (mai provata) di Mosca nelle elezioni americane del 2016.
Su basi decisamente più solide si fondano invece alcune notizie, poco o per nulla approfondite, emerse nei mesi scorsi sulla collusione proprio di Hillary Clinton o di organizzazioni a lei vicine con enti o individui stranieri per screditare Trump. Già a gennaio, la testata on-line Politico.com aveva rivelato come “esponenti del governo ucraino” avessero cercato di aiutare Hillary e di penalizzare Trump, “mettendo in dubbio pubblicamente la sua idoneità a diventare presidente”.
Inoltre, individui legati al governo golpista di estrema destra di Kiev avevano “divulgato documenti che accusavano di corruzione un consigliere di Trump”, salvo poi fare marcia indietro dopo le elezioni, e altri ancora avevano collaborato con “alleati della Clinton nel reperire informazioni che potevano danneggiare” il candidato repubblicano.
Organizzazioni vicine all’ex segretario di Stato avevano infine ingaggiato un ex agente segreto britannico per produrre un dossier che gettasse fango su Trump, descrivendo particolari morbosi della sua condotta nel corso di trasferte in Russia e i suoi legami compromettenti con gli ambienti del Cremlino.
Il rapporto era stato pubblicato integralmente senza scrupoli dalla stampa americana e, pur essendo giudicato universalmente falso, come gli altri “contributi” esteri alla campagna di Hillary non aveva sollevato alcuna obiezione tra coloro che oggi, per ragioni legate agli orientamenti strategici degli Stati Uniti, conducono la loro campagna contro Donald Trump per le sue presunte collusioni con il governo di Mosca.