di Mario Lombardo

Le elezioni per il rinnovo del parlamento federale tedesco nel fine settimana hanno assegnato come previsto il quarto mandato alla guida del governo alla cancelliera, Angela Merkel. Questo esito è stato però l’unico a rappresentare una prova della presunta stabilità del sistema-Germania, dove l’ondata populista ha finito per investire una classe politica evidentemente ritenuta responsabile non tanto della “crisi” dei migranti, quanto soprattutto di quella sociale che continua a crescere dietro un’apparente solidità economica.

I risultati definitivi del voto hanno registrato le prestazioni peggiori degli ultimi 60 anni dei due partiti che hanno dominato la scena politica tedesca nel dopoguerra. L’Unione Cristiano Democratica (CDU) della Merkel e l’alleato dell’Unione Cristiano Sociale bavarese (CSU) hanno perso complessivamente 65 seggi, fermandosi ad appena il 33% dei consensi, contro il 41,5% del 2013.

Ancora peggiore è stata la batosta incassata dal Partito Social Democratico (SPD), fermo al 20,5% dopo che a inizio anno il lancio del candidato alla cancelleria, Martin Schulz, era sembrato prospettare per un breve periodo addirittura un avvicendamento alla guida del paese. Gli otto anni nella “grande coalizione” con la Merkel sono stati dunque pagati molto cari da un partito che, nel suo elettorato di riferimento, continua a essere visto correttamente come responsabile di avere inaugurato, ormai oltre un decennio fa, l’assalto al welfare a favore del business tedesco.

Proprio l’assenza dal governo di Berlino ha invece beneficiato i liberali dell’FDP (Partito Democratico Libero), ex partner di coalizione della Merkel che nella precedente tornata elettorale non erano stati nemmeno in grado di superare la soglia di sbarramento del 5%. Questo partito ha superato abbondantemente il 10%, con un risultato che gli garantirà un’ottantina di deputati.

All’FDP guarderà ora principalmente la cancelliera per mettere assieme la prossima coalizione di governo. Per far nascere l’esecutivo saranno però necessari altri seggi e nel mirino della Merkel sembrano esserci soltanto i Verdi, in leggera salita rispetto al 2013, visto che i leader socialdemocratici hanno comprensibilmente fatto sapere di volere posizionarsi all’opposizione nei prossimi quattro anni.

I vertici dei Verdi hanno per ora mandato segnali contrastanti sulla possibilità di entrare in un governo di centro-destra, vista la diversità di vedute, soprattutto con FDP e CSU, su varie questioni come quella fiscale e dei migranti. Le alternative sembrano comunque improbabili, dal governo di minoranza a nuove elezioni, così che le differenze tra i partiti di una nuova potenziale coalizione “giamaicana” – dai colori della bandiera del paese caraibico che corrispondono a quelli delle formazioni che dovrebbero farne parte – potrebbero essere superate nelle prossime settimane.

Quasi tutti gli osservatori prevedono un nuovo gabinetto insolitamente fragile e instabile a Berlino, con il conseguente probabile tramonto precoce del progetto franco-tedesco di riforma dell’Unione Europea all’insegna di una maggiore integrazione tra i suoi membri.

Il dato più importante del voto di domenica in Germania è stato comunque il risultato dell’estrema destra dell’AfD (Alternativa per la Germania). Per la prima volta dopo la fine del nazismo, un partito apertamente xenofobo e razzista avrà dei propri rappresentanti nel parlamento federale tedesco.

Non solo, politicamente l’AfD avrà un peso ben superiore rispetto alla sua effettiva popolarità tra la popolazione. A riprova di ciò, sono avvenute già nella serata di domenica manifestazioni spontanee di protesta contro l’AfD in molte città della Germania, tra cui a Berlino dove il partito di estrema destra stava celebrando la sua performance elettorale.

Il 13% dei voti e i 94 deputati ottenuti da questo movimento sono stati possibili pressoché interamente grazie al costante spostamento a destra degli equilibri politici tedeschi. I partiti tradizionali si sono cioè in larga misura adeguati ai toni della destra estrema, promuovendo in maniera più o meno esplicita politiche contro i migranti e il rafforzamento dei poteri repressivi e di sorveglianza dello stato.

Al contrario di quanto sostengono in molti, l’emorragia di voti sofferta da CDU e CSU non sembra essere dovuta alle presunte posizioni troppo accomodanti nei confronti degli immigrati della cancelliera, se non per una frangia di elettori di estrema destra. Il colpo assestato all’establishment politico tradizionale e alla stessa Merkel, tradottosi in parte nel successo dell’AfD, è piuttosto il risultato del tentativo di alimentare i sentimenti più reazionari nella popolazione tedesca da parte di media e partiti “mainstream”.

Una tendenza già evidente in molti altri paesi europei e negli Stati Uniti e che in sostanza dovrebbe servire alle classi dirigenti per contenere e orientare le tensioni sociali, prodotte dalla crisi economica, dalla precarietà del lavoro e dalla costante crescita delle disuguaglianze di reddito, in direzioni nazionalistiche e xenofobe, in modo da dividere le classi più colpite e neutralizzarne il potenziale di rivolta.

Vari sondaggi hanno d’altra parte indicato come la netta maggioranza degli elettori dell’AfD non sia sostenitrice di questo partito, e non sia interessata paradossalmente nemmeno al messaggio anti-migranti, ma lo ha votato in segno di protesta verso il sistema politico tradizionale. Come altrove, questa dinamica è stata favorita anche in Germania dal vuoto politico della sinistra e non solo quello che dovrebbe occupare la SPD. Anche la sinistra di opposizione di Die Linke, pur avendo incrementato di poco la propria quota di voti, ha ad esempio ceduto il passo quasi ovunque nella ex Germania Est all’AfD, dopo che qui aveva a lungo fatto segnare risultati importanti.

I vertici dell’AfD hanno subito promesso di voler condurre una battaglia aggressiva contro il prossimo governo Merkel, garantendo quindi un ulteriore spostamento a destra del centro politico tedesco. Dopo l’affermazione di domenica dell’estrema destra, infatti, la CDU/CSU e i suoi alleati risponderanno con ogni probabilità allineandosi ancora di più alle tendenze reazionarie promosse dall’AfD.

In questo senso vanno lette le dichiarazioni del numero uno della CSU, Horst Seehofer, il quale domenica ha affermato che il suo partito e quello della Merkel si sono visti sottrarre voti dall’AfD perché hanno “lasciato aperto il loro fianco destro”, ma che in futuro sarà necessario rimediare prendendo “una chiara posizione” in proposito, ovvero facendo proprie molte delle politiche dell’estrema destra.

Al di là della composizione del prossimo governo tedesco, della sua solidità o della stessa sorte della Merkel, la cui leadership della maggioranza di centro-destra potrebbe per qualcuno essere messa in discussione nel prossimo futuro, gli indirizzi generali del nuovo esecutivo sembrano essere ben definiti, anche se i contenuti di essi sono rimasti in larga misura fuori dal dibattito elettorale.

Sul fronte interno, come ha subito invitato a fare il presidente della Federazione dell’Industria tedesca (BDI), Dieter Kampf, dovrà essere mantenuta la competitività del business tedesco. Su quello esterno, invece, anche il nuovo gabinetto proseguirà nello sforzo per la promozione in maniera sempre più aggressiva delle ambizioni della classe dirigente della Germania, in un quadro caratterizzato dalle crescenti rivalità internazionali, a cominciare da quelle già apparse più che evidenti nei mesi scorsi tra Berlino e gli Stati Uniti di Donald Trump.

di Michele Paris

Dopo l’attacco frontale di Donald Trump all’Iran e all’accordo sul suo programma nucleare durante l’intervento di martedì alle Nazioni Unite, il governo americano sembra essere sul punto di accelerare le manovre per far saltare l’intesa siglata a Vienna nel 2015. Da tempo si attende dall’amministrazione repubblicana un’inversione di rotta sulla Repubblica Islamica, ma fino ad ora l’approccio di Trump è stato relativamente cauto, retorica a parte, per il timore di aggravare le tensioni con gli alleati europei che continuano ad appoggiare senza riserve l’accordo sul nucleare iraniano.

I media americani hanno anticipato questa settimana la decisione che il presidente potrebbe prendere con l’avvicinarsi della prossima scadenza contemplata dalla legge USA. Ogni 90 giorni, cioè, la Casa Bianca è tenuta a certificare al Congresso la conformità del comportamento iraniano alle condizioni dell’intesa di Vienna. La prossima scadenza è prevista per il 15 ottobre.

Trump sarebbe intenzionato a “de-certificare” l’Iran con una mossa che, se pure per molti non implica necessariamente il boicottaggio dell’accordo sul nucleare, rischierebbe probabilmente di farlo naufragare. In questo caso, la palla passerebbe al Congresso, il quale avrebbe 60 giorni di tempo per decidere se reimporre contro Teheran le sanzioni che erano state cancellate nel 2015.

Tra i parlamentari di entrambi gli schieramenti a Washington c’è una prevalenza, anche se non assoluta, di falchi sulla questione iraniana e un possibile ritorno al regime delle sanzioni spingerebbe Teheran ad abbandonare l’accordo. Anche senza azioni del Congresso, comunque, la mancata certificazione di Trump del rispetto del dettato dell’intesa da parte dell’Iran verrebbe prevedibilmente vista da questo paese come una nuova seria minaccia alla propria sicurezza.

Lo stesso Trump ha comunicato alla stampa di avere già “deciso” il da farsi sull’Iran, ma ha evitato di anticipare le sue conclusioni. Altri membri della sua amministrazione hanno delineato con sufficiente chiarezza le intenzioni della Casa Bianca, come il segretario di Stato, Rex Tillerson, impegnato mercoledì in una riunione con i rappresentati dei paesi che avevano negoziato l’accordo di Vienna, a cui ha partecipato anche il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif.

Dalle dichiarazioni di Tillerson è emerso come non vi siano ragioni tecniche per denunciare l’accordo, visto che all’Iran viene riconosciuto universalmente, compreso dagli stessi Stati Uniti, il rispetto delle condizioni imposte a Vienna. Vista dunque l’unità di vedute a livello internazionale sull’efficacia dell’intesa, l’amministrazione Trump ha alla fine abbandonato anche la finzione che le riserve sull’Iran siano legate al suo programma nucleare.

Nell’affermare che Teheran non sta rispettando lo “spirito” dell’accordo di Vienna e che in questi due anni la “minaccia” iraniana sulla regione mediorientale non è venuta meno, Tillerson rivela così molto più di quelle che sono le sue intenzioni.

L’Iran, in altre parole, ha fatto tutto ciò che gli era richiesto di fare nel quadro dell’accordo, tranne quello a cui gli Stati Uniti miravano realmente acconsentendo ai negoziati, vale a dire piegarsi agli interessi di Washington in Medio Oriente, rompere l’asse della resistenza anti-americana e quanto meno rallentare la formazione di un blocco economico-strategico euro-asiatico con Cina e Russia.

Queste sono precisamente le ragioni del nuovo attacco degli USA all’Iran ed erano in effetti anche gli obiettivi dell’amministrazione Obama nel promuovere il dialogo con Teheran. Le sezioni della classe dirigente USA tuttora favorevoli all’accordo ritengono che, attraverso un mix di pressioni e incentivi, sia possibile attrarre nell’orbita americana l’Iran, puntando soprattutto sugli esponenti moderati del regime sciita, rappresentati da Zarif e dal presidente Rouhani. Trump e i falchi “neo-con”, al contrario, sostengono una linea decisamente più aggressiva, allineata in sostanza alle posizioni di Israele e Arabia Saudita, che mira ad annichilire l’Iran, se necessario attraverso un’aggressione militare o il cambio di regime.

Il piano della Casa Bianca per cancellare i progressi fatti sui rapporti con l’Iran dopo Vienna sta già incontrando comunque la prevista opposizione di Francia, Gran Bretagna e Germania, per non parlare di Russia e Cina, tutti paesi che hanno ristabilito contatti in ambito commerciale ed energetico con la Repubblica Islamica. Le posizioni divergenti sono emerse al termine del già ricordato incontro di mercoledì a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU.

La parole più dure nei confronti degli USA sono sembrate quelle di Federica Mogherini, rappresentante UE per gli affari esteri, la quale ha affermato che “la comunità internazionale non può permettersi di smantellare un accordo che funziona e sta dando risultati”. L’ex ministro degli Esteri italiano ha poi respinto anche la proposta che il governo americano sembra essere intenzionato ad avanzare per superare le resistenze dei partner europei, cioè una possibile rinegoziazione del trattato di Vienna.

Washington spera infatti di potere introdurre una serie di nuove condizioni da dettare a Teheran a margine dell’accordo firmato nel 2015. Una manovra di questo genere vincolerebbe l’Iran ancora di più al volere delle potenze internazionali, aggiungendo nuove e più invasive ispezioni delle proprie strutture militari, ulteriori restrizioni al programma nucleare civile e, soprattutto, lo stop allo sviluppo dei missili balistici.

La questione dei missili balistici iraniani è al centro delle accuse degli Stati Uniti e sarebbe una ragione del presunto mancato rispetto dello “spirito” dell’accordo di Vienna, anche se in esso non sono contemplate restrizioni in questo ambito.

Anche considerando in buona fede l’amministrazione Trump, la proposta di riaprire i negoziati con l’Iran, così da giungere a un’estensione del trattato già sottoscritto e funzionante, è destinata a fallire e, infatti, è già stata rispedita al mittente dalla Repubblica Islamica. Una nuova trattativa implicherebbe la necessità da parte americana di fare qualche concessione per convincere l’Iran ad accettare una serie di nuove condizioni.

Con un’amministrazione Trump che già denuncia come eccessive quelle ottenute dalla Repubblica Islamica a Vienna, però, non è chiaro cosa potrebbe ricevere in cambio quest’ultima per abbandonare, ad esempio, il proprio programma di missili balistici. Essendo le forze armate USA dispiegate di fatto ai confini dell’Iran, oltretutto, rinunciarvi corrisponderebbe a una sorta di suicidio.

L’interrogativo su un possibile nuovo negoziato è ad ogni modo superfluo. Le manovre americane non sono in nessun modo rivolte a cercare una soluzione pacifica o a contenere una minaccia iraniana peraltro inesistente, ma servono unicamente a esercitare nuove pressioni su Teheran e a imporre richieste impossibili da accettare per demolire il processo diplomatico e mettere in ginocchio un paese nemico degli interessi USA in Medio Oriente.

Il disaccordo tra Washington e l’Europa sull’approccio alla questione iraniana rende ad ogni modo complicato il progetto delineato dall’amministrazione Trump. L’attitudine del governo americano, dominato dai militari e permeato da una tossica ideologia ultra-nazionalista, suggerisce tuttavia di non escludere iniziative unilaterali che, è facile prevedere, rischierebbero di aggravare seriamente le tensioni sia con l’Iran e i suoi alleati a Mosca e a Pechino sia con gli stessi governi europei.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Da qualche anno a questa parte o forse più, ogni fine settimana in qualche paese o città della Germania compaiono i neonazisti che marciano con i loro tatuaggi, con i loro scarponi chiodati, con i loro irritanti striscioni, con le loro bandiere. Ancora sopravvive  il ricordo dei semila partecipanti al  Neonazi-Festival “Rock für Identität” di due mesi fa a Themar, una cittadina  della Turingia.

Durante quella manifestazione, che si era svolta con il benestare del tribunale, erano state vendute centinaia di t-shirt con la scritta “HTLR” che sta per  “Patria-Tradizione-Lealtà-Rispetto”, non a caso al prezzo di 8,80 euro, perché 8 è la lettera H dell’alfabeto e 88 è il codice che “collega” i nostalgici all' “Heil Hitler!”, e al  “1933”, l’anno in cui i nazisti conquistarono il potere.

Naturalmente, gli scarponi chiodati non sono d'obbligo per poter partecipare alle sfilate. Da due anni, ogni lunedì a Dresda i militanti marciano indossando le scarpe di tutti i giorni in sintonia con il loro abbigliamento curato, da media borghesia insomma. Si dichiarano i difensori della “cultura tedesca dalle invasioni degli immigrati islamici”, e marciano con slogan, canti, e qualche fiaccolata. Sono i Pegida (in tedesco Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, che tradotto significa: Patrioti europei contro l'islamizzazione dell'Occidente), i quali si battono per delle misure più restrittive in materia di immigrazione.

Sicuramente il 24 settembre essi voteranno l'Afd, Alternative für Deutschland, il partito di opposizione che predica un estremismo di chiaro stampo xenofobo e che fa leva anche sullo scoramento dei tedeschi moderati che, da qualche tempo a questa parte stanno chiedendo un cambio di rotta sulla gestione dei flussi migratori.

Naturalmente, come prevede Roberto Giardina, corrispondente di lungo corso da Berlino, «il risultato delle elezioni di domenica 24 settembre è già scontato. Per la quarta volta vincerà Angela, con qualche voto in meno rispetto al 2013. L’unico dubbio è se ci sarà una nuova Grosse Koalition, oppure un’alleanza tra cristianodemocratici e liberali». Ma, avverte Giardina, «per la prima volta, entrerà al Bundestag l'AfD, Alternative für Deutschland, che raccoglierà i voti dei neonazisti, e anche di molti degli appartenenti alla classe media e alla borghesia benestante. Sicché per molti versi si infrangerà un tabù».

L'Afd dovrebbe incassare – così i sondaggi – il dieci per cento dei voti e forse più. E' un risultato epocale perché il populismo dirompente nella Germania del welfare è un fenomeno su cui si appuntano gli occhi dell'Europa intera. La Germania del benessere - dal 2013 anno di nascita dell'AfD - è diventata una sorta di laboratorio per studiare il fossato che si allarga a dismisura in ogni parte d'Europa, tra la gente comune e la piccola e media borghesia da un lato e dall'altro lato l'immigrazione, favorita dai circoli affaristici ed economici in nome della libera circolazione delle persone e dei capitali.

Una immigrazione incontrollata, massiccia e incalzante, tale da generare nuove guerre fra poveri già aggravate dal sistema economico capitalista e dai fenomeni di terrorismo islamico che rendono la situazione ancora più disperante. Così la rabbia dei tedeschi entrerà con l'AfD nel Bundestag e i Podemos in Spagna, il Front National e France Insoumise in Francia, il Movimento Cinque Stelle in Italia avranno un alleato in più. Un alleato molto speciale con tutti i requisiti per diventare il leader indiscusso del populismo europeo.

Sebbene, dagli inizi del secolo fino ad oggi la povertà in Europa si è via via urbanizzata, si è “ringiovanita” perché i giovani sono più poveri delle generazioni precedenti, in  Germania non ha mai raggiunto i picchi di disperazione dell'Italia, della Spagna, della Francia per non parlare della Grecia. Nel paese della Cancelliera il tasso di disoccupazione in agosto girava intorno al cinque per cento e, sempre un mese fa, il numero di disoccupati è diminuito di 5 mila unità. Eppure, benché la situazione sia di gran lunga migliore rispetto all'Italia, alla Spagna, alla Francia, il populismo tedesco è un fenomeno in crescendo, non episodico e nemmeno elettorale.

Certamente la campagna elettorale è servita come pretesto. Frau Merkel è stata accolta da un lancio di pomodori durante un comizio a Heidelberg, nota città universitaria, nel Baden-Württemberg sulle rive del fiume Neckar. Uguale sorte la Cancelliera ha subito a Vacha, cittadina di tremila e cinquecento abitanti della Turingia e a Annaberg-Buchholz in Sassonia. Persino a Bitterfeld che ai tempi della Ddr era considerata la città più “sporca” d'Europa per via dell'alta concentrazione sul territorio dell'industria chimica, e che oggi è un esempio di come si deve bonficare, Angela è stata accolta con i fischi.

“Mutti Coraggio”, “Madre Coraggio”, così il settimanale Der Spiegel aveva titolato la cronaca di quella giornata, durante la quale gli apprezzamenti della Cancelliera sull'opera svolta e su quel che resta da fare erano stati accolti da una valanga di fischi, di urla, di invocazioni del tipo “più lavoro, salari più alti, più prospettive di carriera”. Che poi è quel che va predicando Alternative für Deutschland, da quando è iniziata la campagna elettorale.

Nell'ex Germania comunista, l'AfD pesca molto tra coloro che oggi hanno più di cinquant’anni e ricordano la Ddr con nostalgia, non certo per il sistema oligarchico che vi governava, ma perché vi era l’illusione che le aspirazioni del popolo fossero in cima alle priorità. Beninteso, questa nostalgia diffusa è storia recente che rischia di diventare contagiosa da quando la parola “gente” - qui come altrove in Europa - ha preso il posto della parola popolo. Lo scambio è avvenuto sull’onda della crisi economica che ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell’economia.

Infatti, dapprima la sensazione è che la società che consuma  appaia più "libera" e venga percepita come la più "democratica" e la più "prospera". Poi, quando se ne diventa parte, ci si accorge che benché sia il trionfo dell'individualismo moderno di matrice liberale e progressista, essa  finisca con l' opprimere i popoli, ovvero i loro intrinseci bisogni di socialità, solidarietà, stabilità, comunità e dunque di autentica libertà. In Germania questi “bisogni” sono avvertiti nell'ex Ddr più che in Baviera, e l'avanzata dell'AfD è un chiaro segnale che la voglia di cambiamento non soltanto esiste, ma si sta estendendo.

Il fatto che avviene anche nella patria della Cancelliera fa notizia, come usa dire. Perché la Germania è in Europa un fulgido esempio di quella"governance" - molto di moda nell'ultimo decennio - che obbliga i governi ad attuare scelte tecniche in linea con le esigenze del mercato e della finanza. La "governance" è infatti il trionfo degli interessi dei pochi privilegiati che governano i destini del mondo, ogni qualvolta  riesce a plasmare la società sul modello del mercato. Il quale non va affatto d'accordo con la democrazia, ma tende a subordinarla alle sue regole esigendo, di volta in volta la soppressione delle frontiere, la liberalizzazione dell'economia, degli stili di vita, della precarizzazione dei rapporti umani e affettivi, dello sradicamento identitario e via dicendo. Insomma, i mercati asservendo i governi ai propri interessi gestiscono di fatto il potere con una tale determinazione, come mai era accaduto da sessant’anni a questa parte.

Il merito della Cancelliera è di aver saputo gestire questa realtà senza  arrecare traumi eccessivi, anzi migliorando il welfare del suo popolo, il quale gliene è molto grato, come confermano i sondaggi della vigilia elettorale. Tutto questo è stato possibile alla Cancelliera perché nel suo team ci sono personaggi come il ministro delle finanze, Schaeuble, che continua a spremere i paesi più poveri dell’Europa meridionale; o come il ministro della difesa, Ursula von der Leyen, che sollecita altri miliardi per la difesa e manda i soldati nel deserto del Mali, sulle montagne dell’Afghanistan. E infine come il ministro dei trasporti Alexander Dobrindt che sorvola di molto sugli inquinamenti prodotti dell’industria automobilistica tedesca.

Sono questi alcuni esempi - tra i tanti - su come in Germania si può migliorare il welfare senza fare tanto chiasso. Dopotutto questo è il paese dove la politica non si sorregge sulla rissa, non ricorre alle sbracamento totale per raccogliere i consensi. Sono comportamenti che non rientrano nella cultura dei tedeschi, per i quali - per capirci - gli strilli della Lorenzin, gli insulti di Di Maio, sono puro folklore.

E tuttavia, nel Paese esiste questo malessere diffuso che l'Alternative für Deutschland con il suo pacchetto di voti ben rappresenta. I neonazisti sono diventati minoranza perché oramai, «il tipico elettore AfD è di età media, con un’istruzione media, e un reddito medio», come informa Der Spiegel. E dunque, nel movimento i neonazisti debbono lasciar spazio alle  genti della middle class alle quali sta particolarmente a cuore il destino della Germania-Nazione, punto di riferimento per tutti i paesi d' Europa.

Insomma, il media mainstream ha già approntato il ritratto: a Berlino l' AfD sarà il tarlo del Bundestag. Quanto basta per riaprire  un discorso serio sull'equità sociale, prima che se ne stravolgano il valore e il significato. Le ultime cronache tedesche ne evidenziano l'urgenza, per  Francia, Spagna e Italia soprattutto.













di Mario Lombardo

Il governo centrale spagnolo ha messo in chiaro nella giornata di mercoledì di non avere alcuna intenzione di allentare la presa sugli organizzatori del referendum per l’indipendenza della Catalogna, previsto per il prossimo primo di ottobre. Dopo le iniziative e le minacce dei giorni scorsi, mercoledì sono state messe in atto nuove misure repressive che, da un lato, confermano la volontà di Madrid di ricorrere a qualsiasi metodo per fermare il voto e, dall’altro, rischiano di consolidare il sostegno della maggioranza dei catalani per una clamorosa separazione dalla Spagna.

La polizia spagnola ha effettuato 14 arresti di esponenti del governo regionale dopo un blitz che ha riguardato gli uffici di Barcellona della presidenza della Catalogna, del dipartimento dell’Economia, degli Esteri, del Lavoro e degli Affari Sociali.

La personalità più importante in stato di fermo è il segretario generale del ministero regionale dell’Economia e braccio destro del vice-presidente della regione, Josep Maria Jové. L’arresto di quest’ultimo sarebbe collegato alla sua attività nel lancio di siti internet che promuovono il referendum.

Le operazioni del governo di Madrid per impedire il voto potrebbero tuttavia non fermarsi qui. Qualche giorno fa, il procuratore generale spagnolo, José Manuel Maza, si era rifiutato di escludere il possibile arresto dello stesso presidente del governo regionale, Carles Puigdemont.

Martedì, poi, erano stati requisiti documenti relativi al referendum nella sede di una compagnia di spedizioni nella città di Terrassa, a nord-ovest di Barcellona. Il sequestro, portato a termine tra l’opposizione di decine di sostenitori dell’indipendenza, era seguito a quello di oltre 1,5 milioni di volantini e altro materiale propagandistico. Ancora, più di 700 sindaci catalani erano stati incriminati per avere preso parte ai preparativi del referendum.

Sempre mercoledì, si è saputo del sequestro anche di 10 milioni di schede referendarie in un magazzino nei pressi Barcellona, mentre il ministero dell’Interno del governo conservatore del premier Rajoy ha cancellato tutti i permessi dei membri dei reparti della “Guardia Civil” e della polizia nazionale incaricati di contrastare l’organizzazione del voto. La mobilitazione o la disponibilità degli agenti interessati è stata decisa fino al 5 ottobre, anche se, ha assicurato il ministero, potrebbe essere prolungata in caso di necessità.

Le prime manette ai polsi di esponenti politici indipendentisti segnalano una pericolosa escalation nella crisi che sta attraversando il paese iberico, aggravatasi a partire dal via libera formale al referendum da parte del parlamento regionale catalano ai primi di settembre. Le autorità politiche di Barcellona favorevoli all’indipendenza si sono trovate da allora a fare i conti con il fronte compatto del governo centrale e della magistratura, entrambi determinati a impedire un procedimento bollato senza mezzi termini come illegale.

Gli arresti e le perquisizioni di mercoledì hanno subito scatenato nuove proteste di piazza. Secondo i resoconti della stampa, centinaia di manifestanti si sono riuniti di fronte all’ufficio di Josep Maria Jové nel centro di Barcellona, chiedendone la scarcerazione e inneggiando all’indipendenza della Catalogna. Altre proteste sono state segnalate nel capoluogo catalano, spesso segnate da scontri con le forze di polizia.

Il presidente della regione, da parte sua, ha fatto ben poco per calmare gli animi. Puigdemont si è scagliato contro le autorità di Madrid, accusate di avere messo in atto “un’aggressione coordinata” e di avere “un’attitudine totalitaria”. Il leader del Partito Democratico Europeo Catalano (PDeCAT) ha poi sostenuto che il governo Rajoy ha “oltrepassato i confini” democratici e assicurato che il referendum si terrà nonostante gli abusi subiti dai suoi sostenitori.

Il governo Rajoy continua a essere al centro di forti critiche, soprattutto dall’estero, per i metodi repressivi adottati nel tentativo di fermare il referendum. Se la classe dirigente europea è quasi del tutto schierata contro l’indipendenza della Catalogna, sono in molti a ritenere che il ricorso a metodi palesemente anti-democratici non faccia che rafforzare la causa dei separatisti. Un comportamento rischioso, quello del primo ministro, soprattutto alla luce del fatto che i sondaggi sembrano indicare una leggera prevalenza dei contrari all’autodeterminazione della Catalogna.

In un clima di forti tensioni sociali e con un’economia che è lontanissima dal ritorno ai livelli pre-crisi, a Madrid si è però deciso di mettere in campo ogni mezzo per bloccare l’iniziativa referendaria. La consultazione del primo ottobre potrebbe in effetti risolversi a favore della permanenza della Catalogna nel quadro statale spagnolo o, comunque, anche un esito favorevole ai separatisti potrebbe non portare a breve all’indipendenza della regione, aprendo la strada piuttosto a un qualche negoziato.

Il timore è tuttavia quello che un cedimento da parte del governo centrale possa innescare un movimento centrifugo che la classe politica di Madrid riuscirebbe difficilmente a controllare. Oltre a ciò, influisce anche l’effetto rovinoso che il distacco da Madrid avrebbe sull’economia sia del futuro nuovo stato catalano sia della Spagna, a cui la regione nord-orientale contribuisce oggi per circa un quinto del PIL. Da qui deriva dunque la determinazione di Rajoy nel soffocare le spinte separatiste.

Se i partiti politici nazionali spagnoli all’opposizione si erano finora mostrati in parte più cauti nell’affrontare la crisi catalana, pur rimanendo contrari al referendum e ancora di più all’indipendenza, con l’avvicinarsi della data del voto e dopo avere preso atto dell’ostinazione di Barcellona, sembra essere in corso un certo compattamento attorno alle posizioni del governo.

A segnalare questa evoluzione è stato ad esempio un recentissimo editoriale del quotidiano filo-socialista El País. L’articolo ha parlato di “minaccia all’unità” della Spagna e, significativamente, “all’armonia sociale”, per poi accusare i separatisti di “agire in maniera irresponsabile, togliendo legittimità alle istituzioni, abusando della buona fede di chi sostiene la democrazia e approfittando delle garanzie offerte da uno stato di diritto”.

Per il giornale, quindi, il governo centrale “ha l’obbligo di agire fermamente e di usare tutti i mezzi legali per difendere la Costituzione” spagnola. Il procedimento in atto in Catalogna sarebbe del tutto illegale per El País, come ha stabilito la stessa Corte Costituzione spagnola, la quale subito dopo il voto del parlamento regionale sul referendum aveva imposto la sospensione dei preparativi per il voto.

Lo stesso Partito Socialista (PSOE) sembra avere lasciato intendere in questi giorni di essere disposto a valutare l’imposizione di una sorta di “opzione nucleare” nei confronti del governo regionale catalano, vale a dire il ricorso all’articolo 155 della Costituzione spagnola.

Questo articolo, di cui si sta discutendo sulla stampa e nella classe politica spagnola, permetterebbe al governo centrale di sospendere di fatto l’autonomia della Catalogna, con il trasferimento appunto dei relativi poteri a Madrid. L’implementazione dell’articolo 155 non è mai stata registrata in Spagna a partire dal 1978 e anche la sola ipotesi di un’azione di questo genere chiarisce a sufficienza la gravità della situazione attuale nel paese iberico.

Ancora durante l’estate, i leader del PSOE si erano detti contrari all’applicazione dell’articolo 155, mai esclusa invece dal governo e dai vertici del Partito Popolare (PP). Sempre il quotidiano El País, citando un portavoce del direttivo socialista, ha scritto invece martedì che il partito è ora “aperto a ogni scenario”, anche se l’articolo 155 resta un’opzione “non auspicabile”.

Il parziale cambiamento di rotta del PSOE, se confermato, potrebbe così rafforzare la posizione del governo Rajoy, il quale, nel caso dovesse decidere alla fine di procedere con la sospensione dell’autonomia della Catalogna, avrebbe evidentemente bisogno del più ampio appoggio politico possibile.

Il presidente della regione catalana Puigdemont ha peraltro già accusato Madrid di avere sospeso “di fatto” l’autonomia catalana e di avere imposto uno stato di emergenza con le ultime iniziative. A segnalare un’evoluzione in questo senso è d’altra parte la conferma del ministro delle Finanze spagnolo, Cristóbal Montoro, dell’assunzione del controllo delle finanze catalane da parte di Madrid, come aveva già stabilito nel fine settimana il governo Rajoy.

di Michele Paris

Per la prima volta in 72 anni, martedì un capo di stato intervenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha minacciato apertamente di distruggere un intero paese e i suoi abitanti. Il primo discorso del presidente americano Trump al Palazzo di Vetro è stato infatti segnato da un delirio di militarismo e aggressività, diretto contro i soliti presunti nemici degli Stati Uniti, a cominciare dal regime nordcoreano di Kim Jong-un.

Nel passaggio più agghiacciante del suo intervento, Trump ha affermato che gli USA, “se costretti a difendere se stessi e i propri alleati”, non avranno altra scelta che “distruggere completamente” la Corea del Nord” e, inevitabilmente, i suoi 25 milioni di abitanti.

La ragione delle minacce sarebbe dovuta al fatto che “nessuna nazione sulla terra ha interesse a vedere questa banda di criminali dotarsi di armi e missili nucleari”. Trump ha poi ripreso la definizione di “Rocket Man” – “uomo dei missili” – per definire Kim, come già aveva fatto qualche giorno fa in un tweet, definendo le sue “provocazioni” come una “missione suicida”.

I toni pesantissimi del presidente americano nei confronti della Corea del Nord erano ampiamente previsti, ma la minaccia diretta di spazzare via un interno paese ha alzato decisamente il livello di criminalità del governo e dell’apparato militare degli Stati Uniti. Se la gestione della politica estera e le scelte sulla sicurezza nazionale americana sono ormai nelle mani dei vertici militari, e questi ultimi sono considerati relativamente più moderati nell’approccio alla crisi nordcoreana, la continua escalation di minacce rischia di innescare una dinamica difficilmente arrestabile o risolvibile con la diplomazia.

Secondo indiscrezioni trapelate dal Palazzo di Vetro, il discorso di Trump ha suscitato l’orrore di molti diplomatici presenti e non solo tra i nemici o presunti tali degli Stati Uniti. La visione proposta dal presidente americano riporta d’altra parte ai tempi dell’amministrazione Bush, con la riproposizione di una sorta di “asse del male” che, come allora, include l’Iran e a cui si aggiungono il Venezuela e la Siria.

Singolarmente, come di consueto, molte delle accuse sollevate da Trump martedì all’ONU hanno poco o nessun fondamento e, anzi, potrebbero essere facilmente rivolte agli stessi Stati Uniti. Per quanto riguarda ad esempio la Siria, il presidente americano ha ribadito la tesi, mai provata e addirittura smentita da svariate indagini indipendenti, che il regime di Assad ha fatto ricorso ad armi chimiche contro il proprio popolo.

In merito all’Iran ha invece affermato che le principali esportazioni del paese sciita sono “violenza e sangue”, nonostante le accuse arrivino dal leader di un paese che solo nell’ultimo decennio ha letteralmente distrutto interi paesi e provocato direttamente o indirettamente milioni di morti. L’offensiva contro la Repubblica Islamica, appoggiata e alimentata dal premier israeliano Netanyahu, fa parte delle manovre di Washington per cercare di far saltare l’intesa sul nucleare, siglata a Vienna nel 2015, a fronte delle resistenze degli alleati americani in Europa e degli altri paesi che parteciparono al negoziato.

In definitiva, il raccapricciante intervento di Trump alle Nazioni Unite è servito a chiarire che gli Stati Uniti, per invertire la crisi avanzata della propria posizione a livello internazionale, non intendono in nessun modo recedere dall’aggressività che li ha contraddistinti negli ultimi due decenni, a costo di scatenare altre guerre preventive che, sempre più, rischiano di sfociare in conflitti nucleari.

Anche riguardo al Venezuela, Trump ha chiarito che Washington proseguirà nel tentativo di forzare il cambio di regime a Caracas, attraverso il sostegno all’opposizione di destra al governo del presidente Maduro. Alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea Generale, Trump aveva incontrato alcuni leader latino-americani, con i quali aveva verosimilmente concordato la strategia venezuelana. Anche in quell’occasione, come nel discorso di martedì, aveva parlato assurdamente di voler “ristabilire la democrazia in Venezuela”, di fatto tramite un golpe guidato dagli ambienti filo-americani del paese sudamericano.

L’atteggiamento del presidente americano non rappresenta comunque un segnale della forza del suo paese, ma è al contrario il sintomo della debolezza degli Stati Uniti, incapaci di conciliarsi con le tendenze multipolari ormai più che evidenti a livello globale e costretti perciò a combatterle con il ricorso alla forza.

Quel che resta da verificare sarà l’effettiva convergenza delle sezioni della classe dirigente americana, quanto meno nel breve periodo, sull’agenda ultra-nazionalista e guerrafondaia presentata da Trump nella giornata di martedì a New York. I vari centri di potere negli USA rimangono infatti divisi sulle priorità strategiche del loro paese, mentre lo stesso Trump, come già ricordato, sembra avere già perso il controllo sulle decisioni legate alle più importanti questioni di politica estera.


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