La crisi politica del Partito Repubblicano negli Stati Uniti si è acuita questa settimana con l’annuncio relativamente a sorpresa dell’intenzione di non ricandidarsi alle prossime elezioni di metà termine dello “speaker” della Camera dei Rappresentanti di Washington, Paul Ryan.

 

Il 48enne deputato del Wisconsin ricopre la terza carica istituzionale più prestigiosa negli USA e, presiedendo un’assemblea dove il suo partito detiene una netta maggioranza, dispone di ampi poteri sia in termini legislativi sia per quanto riguarda gli equilibri nelle file dei repubblicani.

Il governo degli Stati Uniti è sempre più sul punto di lanciare un attacco militare contro il governo siriano di Bashar al-Assad con il pretesto del presunto attacco con armi chimiche che settimana scorsa avrebbe preso di mira la popolazione civile di Douma, alla periferia di Damasco. La nuova aggressione in Medio Oriente porterebbe a un livello senza precedenti la criminalità della classe dirigente americana, rischiando seriamente di innescare un conflitto su vasta scala con la Russia di Putin.

Le esili speranze dell’opposizione ungherese, per una possibile flessione dei consensi raccolti dal partito di governo Fidesz nelle elezioni di domenica scorsa, sono state frustrate dal terzo nettissimo successo consecutivo del primo ministro di estrema destra, Viktor Orbán. Quest’ultimo potrà contare nuovamente su una supermaggioranza in parlamento, che gli consentirà potenzialmente di cambiare la costituzione a piacimento e di proseguire nella costruzione di un sistema sempre più autoritario dai toni marcatamente xenofobi.

In un altro frangente forse cruciale per le sorti della guerra in Siria, gli Stati Uniti e l’Occidente hanno di nuovo rispolverato le accuse contro il regime di Assad di avere colpito la popolazione civile del suo paese con ordigni chimici. Come negli ormai numerosi casi precedenti, anche in quello presumibilmente accaduto sabato nella località di Douma, a pochi chilometri da Damasco, le responsabilità non sono nemmeno vicine a essere accertate, ma una campagna di disinformazione ben rodata è subito partita con l’intento di rilanciare le moribonde ambizioni occidentali nel paese mediorientale.

Con la sua entrata in carcere è giunto ad uno snodo fondamentale il complotto contro Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, ex operaio metallurgico e sindacalista, fondatore del Partito dei Lavoratori (PT) e presidente del Brasile per due mandati consecutivi. Lula è stato giudicato colpevole di corruzione sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. Le accuse? Sarebbe stato destinatario di una tangente consistente in un appartamento. Accuse provate? No, basate su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’è nemmeno un’accusa provata.


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