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La nuova orrenda strage di massa avvenuta negli Stati Uniti nella notte tra domenica e lunedì ha lasciato per l’ennesima volta in questi anni i media ufficiali e i leader politici americani virtualmente a corto di spiegazioni in grado di dare un senso a una tragica routine che sembra andare ben al di là del disagio mentale e della facilità con cui è possibile reperire armi in questo paese.
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La risposta del governo di Madrid al referendum di domenica per l’indipendenza della Catalogna ha suscitato l’orrore tra l’opinione pubblica internazionale, aggravando nel contempo una crisi politica e costituzionale in Spagna che sarà ora difficile da risolvere in maniera pacifica e condivisa.
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Riduzione drastica del personale diplomatico, blocco dell’erogazione dei visti e delle altre operazioni consolari, invito ai cittadini statunitensi a non recarsi a Cuba. L’improvviso innalzamento della tensione tra Washington e L’Avana si deve a Donald Trump, che ha ritenuto di dover reagire a quella che i diplomatici statunitensi a Cuba hanno definito “una provocazione cubana”. Quale sarebbe questa provocazione?
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di Mario Lombardo
In un’elezione primaria apparentemente irrilevante nello stato americano dell’Alabama, si è consumato martedì un nuovo delicatissimo strappo tra l’establishment del Partito Repubblicano e la frangia di estrema destra populista che continua a gravitare attorno al presidente Trump. Nel voto ha prevalso il candidato promosso come “anti-sistema”, l’ex giudice fondamentalista cristiano Roy Moore, e il risultato ha gettato probabilmente le basi per una campagna ultra-reazionaria contro i vertici del partito a poco più di un anno dalle elezioni di medio termine.
Le primarie di martedì sono servite a scegliere il candidato repubblicano nell’elezione speciale di dicembre per il seggio al Senato di Washington lasciato vacante dall’attuale ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Il governatore dell’Alabama aveva nominato a inizio anno come senatore ad interim l’ex procuratore generale dello stato, Luther Strange, il quale aveva incassato l’appoggio praticamente unanime dei pezzi grossi del partito in vista del voto di conferma del suo nuovo incarico.
Approfittando di una serie di circostanze favorevoli, la destra repubblicana aveva però puntato sull’ex giudice Moore, in grado di prevalere sui rivali di partito, tra cui spiccava appunto Strange, nel primo turno delle primarie nel mese di agosto. Con l’approssimarsi della data del ballottaggio, gli esponenti più noti a livello nazionale dell’estrema destra repubblicana hanno raddoppiato gli sforzi a favore di Moore, finendo col trionfare grazie anche all’insofferenza diffusa, soprattutto negli stati più arretrati degli USA meridionali, nei confronti dei politici di Washington.
La sconfitta di Luther Strange è stata descritta dalla stampa americana come un fallimento sia per il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, sia per lo stesso Trump. Il primo, in particolare, si era impegnato a fondo per sostenere il proprio candidato, visto che una sua sconfitta per mano della destra del partito avrebbe aperto la strada ad altre battaglie interne per alcuni dei seggi al Senato che saranno in palio il prossimo anno.
McConnell aveva così guidato un assalto al giudice Moore finanziato da circa dieci milioni di dollari, mentre Trump era stato convinto ad appoggiare ufficialmente Strange e a presenziare ad alcuni eventi elettorali a favore di quest’ultimo.
In realtà, la posizione del presidente era apparsa da subito ambigua, tanto che almeno in un’occasione aveva affermato pubblicamente di non essere certo di fare la cosa giusta nel sostenere Strange. I suoi “tweet” più recenti per promuovere la candidatura del senatore ad interim sono poi improvvisamente spariti dall’account presidenziale dopo il risultato delle primarie di martedì, mentre Trump si è affrettato a esprimere le congratulazioni al vincitore.
L’atteggiamento di Trump è forse la chiave per comprendere l’importanza del voto di martedì in Alabama. La versione ufficiale è che il presidente sarebbe chiaramente tra i perdenti del voto, ma la sua posizione è in realtà molto più sfumata e l’appoggio esplicito che ha garantito al senatore ad interim Luther Strange è apparso come il tentativo di mediare tra le due anime del partito, quella che fa riferimento all’establishment e quella di estrema destra.
L’impegno nelle primarie dell’Alabama ha visto infatti Trump fare ricorso alla solita retorica ultra-nazionalista, xenofoba e, a tratti, razzista. Questo atteggiamento è sembrato essere perciò un segnale all’elettorato a cui puntavano l’ex giudice Roy Moore e i suoi sostenitori, piuttosto che a quello relativamente moderato di Strange e dei vertici del partito.
Il voto di martedì e la campagna che l’ha preceduto sono stati d’altra parte al centro delle manovre dell’ex consigliere di Trump, il neo-fascista Stephen Bannon, impegnato da tempo a costruire un movimento di estrema destra, svincolato dai due principali partiti americani, che serva da base per un governo sempre più autoritario.
In questo progetto, l’attuale inquilino della Casa Bianca continua a essere un punto di riferimento, nonostante l’apparato militare o il cosiddetto “stato profondo”, bersaglio della retorica dell’estrema destra repubblicana, abbia ormai preso quasi del tutto il controllo delle decisioni più importanti che spettano in teoria al presidente.
Proprio Bannon ha dunque guidato l’offensiva a favore del candidato Roy Moore nelle primarie dell’Alabama e la sua strategia ha rivelato perfettamente i punti di riferimento e gli obiettivi della galassia neo-fascista americana rinvigorita dall’ascesa di Trump.
Bannon ha ad esempio dirottato verso il giudice Moore i finanziamenti dei ricchi donatori americani impegnati nelle cause ultra-conservatrici. Inoltre, il sito web da lui diretto, Breitbartnews, ha fatto da vera e propria cassa di risonanza per la campagna di Moore.
In maniera ancora più critica, Bannon ha anche favorito il coagularsi di una base elettorale a favore di Moore e del proprio progetto ultra-reazionario, manovrando negli ambienti evangelici e del fondamentalismo cristiano che nel sud degli Stati Uniti rappresentano un bacino consistente.
Il giudice Roy Moore proviene d’altra parte da questo stesso ambiente, come conferma il suo curriculum. Nella sua carriera politico-giuridica ha frequentemente tuonato contro l’omosessualità e l’aborto. Moore, poi, nel 2003 e ancora nel 2016 era stato rimosso dal proprio incarico di giudice capo della Corte Suprema dell’Alabama per avere palesemente confuso i confini tra stato e religione.
Nel primo caso aveva fatto erigere un monumento ai Dieci Comandamenti di fronte al palazzo della Corte Suprema statale, rifiutandosi poi di rimuoverlo su ordine di un tribunale federale. Lo scorso anno, invece, Moore aveva ordinato alle autorità del suo stato di respingere le richieste per le licenze di matrimoni gay. Durante la festa per il successo di martedì, inoltre, il neo-candidato repubblicano al Senato ha a un certo punto sventolato la sua pistola di fronte ai sostenitori.
L’obiettivo di spostare a destra il Partito Repubblicano, attribuito generalmente a Bannon dalla stampa ufficiale americana, è ad ogni modo secondario o quanto meno accessorio a quello già ricordato in precedenza, cioè di superare il bipartitismo sostanziale del sistema politico degli Stati Uniti innestandovi una terza forza di orientamento più o meno apertamente fascista.
Questo progetto si scontra con l’ostilità della gran parte degli americani nei confronti dell’agenda reazionaria di Bannon e dello stesso Trump. Tuttavia, questo disegno sta trovando terreno fertile grazie in primo luogo al discredito della classe politica tradizionale, ma anche all’allargamento delle disuguaglianze sociali, alla distanza siderale tra le élites politiche, culturali ed economiche e le classi più disagiate, alla costante promozione di tendenze reazionarie nella popolazione e allo spostamento a destra del Partito Democratico.
Il progetto di Bannon e degli ambienti attorno ai quali gravita l’ex “stratega capo” della Casa Bianca non è quindi sostanzialmente differente da quello di Trump. Malgrado il loro appoggio a candidati diversi nelle primarie dell’Alabama, Bannon non ha mai spinto fino in fondo le critiche al presidente, ma ha attribuito piuttosto la ragione di determinate scelte non sufficientemente conservatrici al predominio dei rappresentanti dell’establishment di Washington nella sua amministrazione.
Questi processi e la battaglia interna a un Partito Repubblicano sempre più in crisi si intensificheranno con ogni probabilità nei prossimi mesi. Il successo dell’estrema destra in Alabama, che potrebbe essere amplificato dalla probabile vittoria di Roy Moore sul candidato democratico a dicembre, ha infatti già scatenato l’assalto ai senatori repubblicani uscenti che metteranno in palio i propri seggi nel novembre 2018.
Bannon e i finanziatori che appoggiano il suo sforzo hanno già preso contatto con svariati candidati ultra-conservatori in vista delle primarie che porteranno alle elezioni di “midterm”. L’ondata neo-fascista, infine, spingerà quasi certamente anche alcuni senatori in carica a rinunciare alla difesa del loro seggio per timore di finire coinvolti in campagne dispendiose o umiliati da sfidanti di estrema destra.
Già martedì, ad esempio, uno dei più autorevoli esponenti repubblicani al Congresso, il senatore del Tennessee Bob Corker, presidente della commissione Esteri del Senato, ha annunciato il ritiro al termine del suo attuale mandato, lasciando intendere che i motivi della decisione sono legati precisamente al nuovo ambiente tossico venutosi ormai a creare all’interno del suo partito.
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di Michele Paris
Con il mutare delle sorti della guerra in Siria, il rischio di un confronto militare diretto tra le forze russe e americane impegnate su fronti opposti nel paese mediorientale è cresciuto pericolosamente nelle ultime settimane. Soprattutto nella provincia orientale di Deir Ezzor è sempre più chiaro il tentativo degli Stati Uniti di ostacolare, tramite i gruppi armati che essi appoggiano più o meno apertamente, l’avanzata delle forze governative siriane sostenute da Russia, Iran e Hezbollah.
Gli sviluppi dei giorni scorsi sono sembrati particolarmente preoccupanti, con Mosca che ha denunciato più di un attacco contro le proprie postazioni e quelle dell’esercito di Damasco, puntando il dito direttamente contro le forze speciali americane presenti illegalmente sul territorio siriano. Lunedì, poi, il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha accusato la “politica ambigua” degli USA in Siria per la morte del generale Valery Asapov e di due colonnelli in un attacco contro il quartier generale dell’esercito siriano nella città di Deir Ezzor.
Asapov è l’ufficiale russo più alto in grado a essere ucciso in Siria dall’inizio del conflitto e, secondo molti osservatori, la sua morte corrisponde a una sorta di dichiarazione di guerra non ufficiale di Washington contro Mosca. L’attacco è stato materialmente attribuito allo Stato Islamico (ISIS), ma la reazione della Russia implica che i militanti fondamentalisti hanno ricevuto appoggio, per condurre l’operazione, dalle forze speciali e dell’intelligence americane.
In precedenza, infatti, il ministero della Difesa russo aveva indirizzato un’altra pesantissima accusa agli Stati Uniti e che è poi apparsa come un’anticipazione dell’incursione costata la vita ai tre alti ufficiali. Mosca aveva cioè reso pubbliche alcune immagini aeree che indicavano come un contingente di forze speciali USA fosse posizionato presso un accampamento precedentemente dell’ISIS a nord di Deir Ezzor.
Secondo i vertici militari russi, ciò sarebbe avvenuto senza che vi fossero tracce di battaglie nella stessa località né della costruzione di un perimetro difensivo da parte americana, facendo presumere che i soldati attualmente accampati in questa postazione vi erano giunti senza difficoltà ed erano certi di non finire sotto attacco da parte dell’ISIS, con i quali avevano evidentemente stipulato un qualche accordo.
Alle accuse russe sono poi seguite quelle degli Stati Uniti, secondo i quali sempre lunedì le forze di Mosca avrebbero bombardato gruppi armati sostenuti da Washington in tre località distinte nella provincia di Deir Ezzor. L’operazione sarebbe avvenuta in risposta alla conquista da parte delle milizie curde di un importante giacimento di gas naturale.
In sostanza, l’aggravamento della situazione sul campo in Siria orientale è la diretta conseguenza del successo delle operazioni militari a sostegno del regime di Damasco e della sconfitta sempre più vicina dei “ribelli” appoggiati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Di fronte a questo scenario, gli USA hanno deciso di intensificare la collaborazione con le formazioni armate anti-regime e di indirizzare gli attacchi di queste ultime contro le forze russe.
I sospetti russi in questo senso erano stati alimentati anche dalla notizia, diffusa dalla CNN, che le forze USA in Siria avevano rafforzato il controllo e la sorveglianza del posizionamento delle truppe di Mosca. Da qui, comprensibilmente, il timore che gli americani abbiano deciso di passare queste informazioni ai gruppi armati attivi nel paese, incluso lo Stato Islamico.
Il risentimento americano nel veder andare in fumo il proprio progetto di cambio di regime o di balcanizzazione della Siria è indubbiamente un fattore importante in questi sviluppi. Il fatto però che il confronto tra USA e Russia stia avendo luogo nella provincia di Deir Ezzor ha anche significativi risvolti strategici.
Deir Ezzor si trova in una posizione strategica in direzione del confine iracheno e qui sono localizzati i principali giacimenti petroliferi e di gas naturale della Siria. A lungo, l’ISIS aveva occupato la provincia, da cui ricavava i finanziamenti per le proprie attività, e assediato la città omonima, controllata dal regime, prima dell’intervento decisivo a inizio settembre delle forze governative.
Quest’ultimo evento aveva fatto giungere nella provincia un numero consistente di altri gruppi “ribelli” appoggiati dagli USA, tra cui quelli inquadrati nelle cosiddette “Forze Democratiche della Siria” a maggioranza curda. Secondo alcuni, gli americani avrebbero poi stretto accordi anche con formazioni jihadiste o tribali già affiliate all’ISIS per combattere l’avanzata russo-siriana. D’altra parte, la strategia di Washington in Siria si è basata fin dall’inizio sull’appoggio clandestino di gruppi estremisti per rovesciare il regime di Damasco.
Le varie forze coinvolte nell’area di Deir Ezzor hanno fatto comunque segnare recentemente alterni successi, provocando spesso le ritorsioni dei rispettivi rivali, e il rischio concreto è che lo scontro possa sfociare in un confronto diretto e di vasta portata tra gli USA e la Russia.
La corsa al controllo di Deir Ezzor è importante per una serie di motivi, tanto che potrebbe decidere l’esito stesso della guerra in Siria. Nel sovrapporsi di interessi disparati e convergenti, senza dubbio Washington intende tenere in vita almeno il piano di dividere e indebolire la Siria, assegnando un territorio ricco di risorse energetiche nell’est del paese a una forza, quella curda, sotto il proprio controllo.
I curdi, da parte loro, cercano di occupare il più ampio territorio possibile per negoziare da una posizione di forza con il regime una possibile autonomia da Damasco in vista della fine della guerra. Il governo di Assad, con l’aiuto russo, necessita invece di tornare a controllare le risorse e l’industria energetica di Deir Ezzor nel quadro della futura ricostruzione del paese.
Le residue velleità degli USA, infine, prevedono la creazione di un ostacolo territoriale al corridoio che collega l’Iran al Libano attraverso l’Iraq e la Siria, in modo da impedire l’allargamento dell’influenza di Teheran nella regione attraverso il consolidamento dei legami con il regime di Assad e con Hezbollah.
La situazione in Siria appare dunque sempre più infuocata e il sostanziale isolamento delle forze americane sul terreno a sostegno delle milizie anti-regime non esclude una possibile escalation dello scontro. Washington ha d’altra parte investito ingentissime risorse per abbattere il regime di Damasco, ritenuto un obiettivo chiave per promuovere i propri interessi strategici in Medio Oriente. Il fallimento del proprio progetto non può perciò comportare un disimpegno improvviso dalla Siria, ma piuttosto un ricorso a un qualche piano alternativo per ricavare il massimo dalle nuove circostanze.
Le tensioni e gli scontri in atto nella parte orientale della Siria si incrociano oltretutto alle altre dispute che stanno infiammando pericolosamente la regione, dalla rinnovata offensiva degli USA contro l’Iran alle minacce della Turchia contro le spinte indipendentiste curde, facendo aumentare in maniera sensibile il rischio di una conflagrazione generale nella quale sarebbero sempre più coinvolte le principali potenze del pianeta.