Quella di oggi potrebbe essere la volta buona per Andrès Manuel Lopez Obrador, per tutti AMLO. Sessantacinque anni, nato nello Stato di Tabasco, ex sindacalista e nel 2000 eletto sindaco della capitale, AMLO è il candidato di Morena, il partito di sinistra da lui creato con una scissione del PRD (che ha subito identica metamorfosi del PD italiano divenendo un partito di centro ndr).

 

Coalizzatosi con la formazione laburista del PT ed un altro partito di orientamento moderato e cattolico, il PES, è fortemente in testa in tutti i sondaggi. Ci sono infatti tra lui e il primo dei suoi avversari almeno 23 punti - Josè Antonio Meade, oscuro quanto furbo e rapace funzionario della casta messicana del PRI - e ancor maggiore - circa 30 punti - è la distanza con Ricardo Anaya, candidato del PAN.

 

In ogni paese del mondo una distanza così importate nei sondaggi concentrerebbe l’attenzione sulla misura della vittoria e sui futuri equilibri parlamentari, ma in Messico non è mai bene dare per scontato nulla, meno che mai in termini di alterazione del procedimento democratico elettorale. Prova ne siano non solo i due giganteschi brogli (2006 e ancor più nel 2012) organizzati proprio ai danni di AMLO e che consentirono a Enrique Pena Nieto (prodotto di Tele Visa, che è una delle gambe del tavolo su cui si poggia il sistema dominante) di riportare il PRI al governo del paese.

Il momento del ritiro del giudice della Corte Suprema americana, Anthony Kennedy, è sempre stato visto come un avvenimento cruciale per gli equilibri giuridici e costituzionali degli Stati Uniti, visto il suo presunto ruolo di ago della bilancia tra i membri conservatori e quelli “liberal” all’interno del tribunale. Questo momento è alla fine giunto nella giornata di mercoledì e, come previsto, la notizia ha subito monopolizzato l’attenzione di praticamente tutti i media americani.

 

Se il centrismo di Kennedy è quanto meno discutibile, soprattutto in merito a determinate questioni, la sua uscita di scena a poche settimane dall’82esimo compleanno permetterà indiscutibilmente al presidente Trump di nominare un nuovo giudice reazionario che sposterà drammaticamente a destra il baricentro di una Corte già da tempo impegnata a smantellare l’edificio democratico americano.

Tra le primarie tenute martedì negli USA, in vista delle elezioni per il Congresso di novembre, ha fatto notizia la clamorosa sconfitta di uno dei più potenti deputati del Partito Democratico, superato in maniera netta da una giovanissima candidata di origine portoricana appartenente a un movimento autodefinitosi “socialista”.

 

La 28enne Alexandria Ocasio-Cortez ha ricevuto più del 57% dei voti nelle elezioni primarie democratiche del 14esimo distretto dello stato di New York, un’area con una forte minoranza ispanica e che include i “boroughs” di Queens e Bronx della principale città degli Stati Uniti.

 

Se l’etnia di appartenenza e il programma della neo-candidata a un seggio del Congresso di Washington sembravano del tutto appropriati per l’elettorato del distretto, il peso del suo sfidante, il 56enne Joe Crowley, indicava piuttosto un nuovo facile successo di quest’ultimo. Dopo le elezioni del 2004, Crowley aveva in pratica corso come candidato unico nelle primarie democratiche. In questa occasione, come in passato, godeva poi del supporto di tutto l’apparato del partito e la sua campagna aveva a disposizione fondi pari a 1,5 milioni di dollari, contro i poco più di 300 mila raccolti dalla Ocasio-Cortez.

Le divisioni interne all’amministrazione Trump e l’ondata di repulsione suscitata dalla detenzione di minori separati dai loro genitori, entrati “clandestinamente” negli USA, stanno provocando una confusione totale nell’implementazione delle politiche migratorie da parte della Casa Bianca.

 

Il caos è alla base di decisioni e prese di posizione contraddittorie, le quali a loro volta si intrecciano ai calcoli e alle manovre della classe politica americana in previsione delle elezioni di “metà mandato” in programma nel mese di novembre.

 

I risultati delle elezioni presidenziali e parlamentari di domenica in Turchia hanno premiato ancora una volta il presidente Erdogan e la sua scommessa politica, sia pure disegnando un quadro generale complesso e, almeno in previsione futura, non troppo incoraggiante per il partito di governo (AKP). Tra accuse di brogli e incidenti vari segnalati in alcuni seggi, Erdogan è apparso ancora il leader politico più popolare del paese euro-asiatico, sul quale sarà ora in grado di governare con mano ancora più ferma grazie all’entrata in vigore delle riforme costituzionali approvate a maggioranza risicata nel referendum dello scorso anno.

 


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