Mentre in Canada si consumava la clamorosa rottura tra gli Stati Uniti e gli altri membri del G7, nella località cinese di Qingdao è andato in scena un evento che ha illustrato il processo di consolidamento in atto della partnership tra Mosca e Pechino, così come la crescente integrazione economico-strategica-infrastrutturale nel continente asiatico all’insegna del multipolarismo.

 

Il vertice annuale dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) ha spiccato in questa occasione proprio per l’armonia e l’accordo, almeno apparenti, che hanno caratterizzato gli incontri tra i vari leader presenti. Le parole d’ordine del summit sono state esse stesse un messaggio diretto alle potenze occidentali e in particolare agli USA, mostrando il chiaro intento di combattere le tendenze “unilaterali” e “protezionistiche” per promuovere, al contrario, la libertà dei commerci e la creazione di economie “aperte”.

Tutte le prese di posizione e gli impegni, promessi dall’Europa per mantenere in vita l’accordo sul nucleare iraniano e resistere al tentativo di tornare al confronto con Teheran da parte dell’amministrazione Trump, sono molto probabilmente svaniti questa settimana in seguito a un’iniziativa che rappresenta la presa d’atto della sostanziale impotenza di Bruxelles davanti all’arroganza del governo americano nella promozione dei propri interessi strategici.

 

Subito dopo l’annuncio di Trump del 4 maggio scorso sul ritiro di Washington dall’intesa di Vienna del 2015 (JCPOA), i governi europei coinvolti nei negoziati avevano condannato la decisione e prospettato una serie di iniziative volte a salvare sia l’accordo sia i crescenti legami commerciali stabiliti dalle aziende private con la Repubblica Islamica.

Un durissimo rapporto pubblicato questa settimana da Amnesty International ha confermato le responsabilità del governo americano nella distruzione della città siriana di Raqqa e nell’uccisione di centinaia di civili nel corso della “liberazione” di quella che era considerata come la capitale dello Stato Islamico (ISIS).

 

L’indagine è passata sostanzialmente sotto silenzio sulla stampa USA, ma la stessa organizzazione per i diritti civili ha rilevato fatti di una gravità tale da giustificare l’apertura di un procedimento per crimini di guerra, così come il ricorso, da parte del Pentagono, a una forza di fuoco con pochi precedenti nel secondo dopoguerra.

Nemmeno la OEA ha voluto prestarsi al tentativo di colpo di stato della destra in Nicaragua. Lo stesso Segretario Generale, Almagro, aveva del resto già avvertito come il dialogo tra le forze politiche fosse l’unica via per disegnare un profilo di riforme istituzionali, compresa quella elettorale, e che solo attraverso elezioni si può conquistare il governo del Paese.

 

Almagro aveva anche ricordato che il governo sandinista non è certo etichettabile come una dittatura, mentre al contrario la menzogne offerte dall’opposizione ne dimostrano l’inaffidabilità. Eppure, insieme alla violenza, le menzogne sono il tratto distintivo del tentativo di colpo di stato di una destra che prova a mangiarsi il paese. Il racconto dei media internazionali è indecente, in Italia si segnalano Repubblica, Corriere e Manifesto nella corsa al falso.

 

Il Nicaragua è ormai simbolo dell’iperbole, regno del surreale, laboratorio della manipolazione, dell’offesa alla logica, dell’ignoranza che vuole imporsi sul buon senso. Dal 18 Aprile la verità viene schiacciata dalla propaganda della casta padronale che utilizza armi e tastiere per imporre la sua agenda. Sebbene si applichi il piano previsto da Gene Sharp, lì conosciuto come golpe suave e qui come “primavere” o “rivoluzioni colorate”, la variante nicaraguense si caratterizza per un aspetto più crudele nella violenza perpetrata e, soprattutto, per l’uso massiccio, più che in ogni altro contesto, di menzogne senza limiti ed immagini stereotipate basate sul rovesciamento dei fatti. 

Le manifestazioni di protesta che stanno scuotendo in questi giorni il regno di Giordania sono le più imponenti dal 2011, quando il paese mediorientale fu poco più che sfiorato dalla cosiddetta “Primavera Araba”. Alla base delle richieste della popolazione scesa nelle piazze ci sono sempre e in primo luogo questioni di natura economica, ma nello specifico le agitazioni sociali in corso sono causate da una serie di misure di austerity adottate dal governo in cambio di un prestito del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

 


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