di Michele Paris

La crisi interna agli Stati Uniti prodotta dal cosiddetto “Russiagate” rischia di fondersi pericolosamente con le tensioni crescenti tra Washington e l’Unione Europea, già aggravate dall’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump. Il Congresso americano è infatti a un passo dall’approvazione definitiva di nuove sanzioni contro Mosca che minacciano gli interessi di svariate compagnie europee in rapporti d’affari con aziende russe.

Il pacchetto di misure punitive dirette contro la Russia, ma anche contro l’Iran e la Corea del Nord, è stato approvato martedì a larghissima maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti di Washington e dovrebbe essere ratificato in maniera definitiva dal voto del Senato forse già nei prossimi giorni.

Com’è noto, Trump è contrario all’adozione di nuove sanzioni dirette contro il Cremlino, tanto più che il testo della legge in discussione lega di fatto le mani al presidente sulla loro implementazione o su un eventuale allentamento. Le possibilità che la Casa Bianca ricorra al veto dopo la più che probabile approvazione del Senato sono però scarse, visto che esso sarebbe facilmente annullato da un voto del Congresso, dove le sanzioni godono di un ampio sostegno bipartisan.

Ancora prima che entrino in vigore, le nuove sanzioni contro la Russia sembrano rappresentare un punto di svolta nell’evoluzione dei rapporti transatlantici. Il dato più rilevante è probabilmente l’allineamento su posizioni anti-europee di entrambe le fazioni della classe dirigente americana che si stanno scontrando sul fronte interno attorno alla presunta e mai dimostrata interferenza di Mosca nel processo elettorale degli Stati Uniti.

Fino ad ora, le tensioni tra USA e UE avevano coinvolto quasi esclusivamente un’amministrazione Trump impegnata a promuovere un’agenda protezionista e ultra-nazionalista, nonché a impedire il ben avviato processo di integrazione economica euro-asiatica. Ora, invece, le ire di Bruxelles e dei singoli governi di molti paesi sono dirette anche agli oppositori del presidente americano, a cominciare da quelli all’interno del Partito Democratico.

L’intensificazione dello scontro transatlantico è dunque il sintomo, finalmente esploso pubblicamente, dell’esistenza di fattori oggettivi di natura economica e strategica che lo stanno alimentando e che vanno ben al di là della disposizione di qualche leader politico.

Le nuove sanzioni minacciano di colpire al cuore gli interessi dell’Europa, andando a mettere in pericolo sia la propria sicurezza energetica sia le attività delle compagnie che operano in questo settore. Che una delle ragioni principali dell’iniziativa americana sia proprio questa è confermato anche dal fatto che, secondo la maggior parte di analisti e osservatori, queste ultime misure non rappresenterebbero un particolare aggravamento della situazione attuale per Mosca.

Che il Congresso americano non abbia mai mostrato la minima intenzione di fare un passo indietro, nonostante le proteste europee, è la dimostrazione di come gli interessi fondamentali degli alleati sulle due sponde dell’Atlantico appaiano sempre più divergenti dietro la spinta della crisi del capitalismo internazionale e della posizione declinante di quello statunitense.

Il fatto che lo scontro tra Washington e Bruxelles sia ormai combattuto retoricamente a livello pubblico è poi un altro segnale del deteriorarsi della situazione. Politici e commentatori europei non mostrano ormai praticamente nessuno scrupolo nel denunciare le intenzioni USA di promuovere ad esempio le forniture di gas naturale liquefatto (LNG) americano e di ridurre quelle del gas proveniente dalla Russia.

Inoltre, gli interessi di colossi come la tedesca Wintershall, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, la francese Engie (ex GDF Suez) o l’austriaca OMV, tutte coinvolte nella costruzione del progetto “Nord Stream 2”, sono apertamente difesi dai leader europei in contrapposizione alle manovre provenienti da Washington con la giustificazione di colpire la Russia.

Ancora, malgrado i malumori, i precedenti round di sanzioni punitive contro Mosca per il presunto ruolo nella crisi ucraina erano sempre stati appoggiati ufficialmente dai governi europei. Ciò era accaduto perché le misure erano state concordate con Washington e avevano causato danni relativamente minori alle economie del vecchio continente.

L’aperta e quasi unanime condanna delle nuove sanzioni unilaterali è al contrario un’assoluta novità, accompagnata oltretutto dalla minaccia di possibili contro-misure che potrebbero essere applicate a entità americane. Il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, le aveva già ipotizzate settimana scorsa e ha ribadito questa possibilità dopo il voto della Camera del Congresso USA.

Gli ambienti politici e del business tedesco sono stati quelli più accesi nel denunciare la mossa americana e nel chiedere provvedimenti. Il ministro dell’Economia di Berlino, Brigitte Zypries, in un’intervista al canale ARD ha messo in guardia da una “guerra commerciale molto negativa” tra USA e UE, lasciando intendere il possibile ricorso a contro-sanzioni attraverso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

Il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha a sua volta accusato gli Stati Uniti di voler creare posti di lavoro americani a discapito della sicurezza energetica europea. Identica linea ha seguito anche il governo francese a meno di due settimane dall’incontro tra Trump e il presidente Macron. Parigi ha tra l’altro emesso un comunicato nel quale prospetta un “aggiustamento delle leggi francesi ed europee” come protezione dagli “effetti extraterritoriali della legislazione americana”.

La crisi nei rapporti transatlantici che sembra sul punto di esplodere a causa della nuova legge americana sulle sanzioni contro Mosca si inserisce ad ogni modo in un processo in atto da alcuni anni. I segnali del peggioramento della situazione si erano avuti ad esempio con le multe per svariati miliardi di dollari imposte dalle autorità USA ad alcune banche europee, come la francese BNP Paribas, accusata di avere violato le restrizioni a cui era sottoposto l’Iran. Più recentemente, l’UE ha invece preso di mira Apple con una multa da record per evasione fiscale.

In generale, le scintille di questi giorni tra Washington e i governi europei sono, come già ricordato, la conseguenza dell’irrigidimento di un governo americano, dominato da militari e da elementi ultra-nazionalisti, sempre più allarmato per i processi in atto su scala globale.

Processi che indicano una costante marginalizzazione degli Stati Uniti, anche se per certi versi ancora molto relativa, di fronte alle tendenze multipolari in atto nel pianeta e alla formazione di blocchi economico-strategici alternativi al sistema uscito dal secondo conflitto mondiale.

Il consolidamento delle relazioni in ambito commerciale ed energetico tra Germania e Russia nonostante le sanzioni e le scosse della crisi ucraina, l’integrazione dell’Europa con i progetti di crescita cinese, il ritorno dei capitali europei in Iran e lo stesso impulso alla militarizzazione di Berlino, nel quadro della promozione di una politica estera europea più indipendente, sono alcune delle dinamiche che stanno influenzando in senso negativo i rapporti tra Washington e Bruxelles.

Quel che resta da verificare è se i conflitti in atto potranno essere contenuti nel prossimo futuro o se le divergenze sempre più evidenti rischiano invece di precipitare e sfociare in una pericolosa guerra commerciale, spesso anticipatrice, come dimostrano i precedenti storici, di confronti militari nemmeno lontanamente immaginabili fino a pochissimi anni fa.

di Mario Lombardo

Le varie anime di un Partito Democratico americano in crisi si sono riunite in Virginia a inizio settimana per cercare di gettare le basi di un nuovo programma politico che dovrebbe costituire la piattaforma da cui lanciare le prossime campagne elettorali dopo il clamoroso tracollo del novembre 2016.

Le prime proposte presentate dai leader democratici sono all’insegna di un molto cauto riformismo progressista, in un evidente tentativo di dare qualche risposta alle fortissime pressioni provenienti da un elettorato di riferimento spostato sempre più a sinistra, senza però alterare in maniera significativa l’orientamento neo-liberista del partito.

La proposta del Partito Democratico è stata battezzata “A Better Deal” e, in questa fase, si articola attorno a tre questioni principali. La prima riguarda il rafforzamento delle leggi anti-trust, a fronte della tendenza alla concentrazione delle grandi corporation americane, mentre le altre dovrebbero portare a una riduzione del costo dei medicinali e all’aumento dei posti di lavoro e delle retribuzioni.

A scanso di equivoci, nessuna delle ricette offerte dai democratici americani si ispira a principi autenticamente progressisti, per non dire socialisti. Per stessa ammissione della senatrice Elizabeth Warren, icona dei “liberal” d’oltreoceano, le modifiche alla piattaforma democratica presentate lunedì sono da considerare “pro-market” e quindi, anche se implementate, farebbero poco o nulla per cambiare la situazione economica e sociale odierna.

Lo spirito con cui i vertici democratici hanno dato vita all’iniziativa di questa settimana è chiaro dal ruolo svolto in essa dalla personalità più importante del partito, il leader di minoranza al Senato, Charles Schumer.

Il senatore dello stato di New York aveva anticipato l’evento di lunedì in Virginia con un commento pubblicato sul New York Times, nel quale lamentava di come il sistema americano sia stato “truccato” dai grandi interessi economici, a cui “è stato permesso di riscrivere le regole in loro favore”.

Per questa ragione, spiegava Schumer, viene ormai disatteso il principio condiviso della società americana, per cui chiunque “lavori duramente e rispetti le regole” può permettersi di “possedere una casa e un’auto, mandare i figli al college e garantirsi una pensione dignitosa”.

La disonestà di Schumer, così come del nuovo programma del Partito Democratico, consiste nel fatto che il primo è uno dei principali beneficiari delle donazioni elettorali delle grandi banche di Wall Street, mentre il secondo, per limitarsi agli ultimi due decenni, ha presieduto a governi che hanno promosso la deregulation economico-finanziaria, responsabile delle esplosive differenze di reddito attuali, e favorito il trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale. In altre parole, lo stesso Partito Democratico è pienamente responsabile della manomissione del sistema che i suoi leader pretendono di denunciare.

Non essendosi verificato alcun ricambio all’interno del partito, l’operazione scaturita dalla batosta elettorale dello scorso anno risulta quindi puramente di facciata. Attraverso di essa, i democratici cercano di intercettare con slogan vuoti il consenso di quella stessa fetta di elettorato maggiormente colpita dai cambiamenti economici di questi anni e che aveva in parte premiato il populismo di Trump anche come protesta nei confronti dei democratici stessi.

La sola natura del Partito Democratico come organizzazione ultra-screditata al servizio di una fazione dei grandi interessi economici americani renderebbe quasi superflua la lettura e l’analisi delle proposte contenute nel cosiddetto “Better Deal”.

Alcune delle misure avanzate, ad ogni modo, sono tutt’altro che nuove e, significativamente, si richiamano talvolta a proposte già contenute nel programma di Trump, tra cui il piano per la costruzione e il rinnovamento delle infrastrutture del paese, studiato dall’attuale inquilino della Casa Bianca come una sorta di regalo alle imprese private.

Sul fronte del lavoro, poi, non si va oltre i soliti crediti fiscali per le aziende disposte ad assumere o ai programmi di formazione rivolti ai disoccupati. La stessa proposta di alzare a 15 dollari l’ora la paga minima è ispirata dalle battaglie di alcune organizzazioni vicine al Partito Democratico, sfociate negli ultimi anni in qualche modesta vittoria. Anche se adottato, in molti stati e città americane questo livello minimo di retribuzione non garantirebbe oggi l’uscita dalla povertà, per non parlare del fatto che, oltretutto, esso sarebbe raggiunto solo in maniera graduale.

Per quanto riguarda la lotta ai monopoli promessa dai democratici, invece, quello di cui si parla nel nuovo programma è poco più di un vago rafforzamento del controllo federale sulle fusioni, assieme alla creazione di un organo che garantisca la concorrenza e segnali eventuali situazioni problematiche agli enti governativi addetti alla vigilanza in questo ambito.

Il lancio della piattaforma democratica ha trovato poco spazio sui media americani, interessati più che altro agli sviluppi del “Russiagate”, cioè una campagna reazionaria alimentata in larga misura proprio dal partito di opposizione a Washington.

Molti commenti dedicati all’evento hanno comunque evidenziato il carattere opportunistico dell’operazione, anche tra le testate più vicine al Partito Democratico. Il Washington Post ha scritto ad esempio che il “Better Deal” democratico sembra servire a “tenere calma, almeno per il momento, una sinistra irrequieta”.

Il New York Times ha a sua volta ammesso che il progetto democratico è stato studiato per “soddisfare quante più fazioni possibili – populisti ‘liberal’, moderati suburbani, attivisti per la giustizia sociale – fissando nel contempo alcuni principi economici generici a cui vincolare formalmente il partito”.

In sostanza, i leader democratici stanno cercando di superare le divisioni tra l’ala centrista e quella “liberal”, mettendo assieme un programma elettorale che dia spazio ad alcune istanze moderatamente progressiste, non tanto perché esista una reale volontà di metterle in pratica ma per provare a invertire il declino di un partito considerato, a ragione, sempre più lontano da lavoratori e classe media.

Una strategia, quella del Partito Democratico, che non ha dunque nulla di progressista e che potrà tutt’al più raccogliere qualche successo nei prossimi appuntamenti elettorali solo grazie all’impopolarità delle politiche ultra-reazionarie dell’amministrazione Trump e della maggioranza repubblicana al Congresso.

La conferma del vicolo cieco che offre il Partito Democratico americano l’ha data lo stesso Schumer nel discutere la nuova piattaforma. Il senatore di New York ha fatto riferimento più volte alla strategia elettorale di Trump, da lui più o meno apertamente celebrato per essere riuscito a offrire un progetto politico “populista” in grado di far presa sulla “working-class” americana.

La pretesa dei democratici di rappresentare una vera forza di opposizione contro l’agenda anti-sociale dei repubblicani è smentita infine anche dalla disponibilità di Schumer a trovare un compromesso e a lanciare una collaborazione con la Casa Bianca e la maggioranza al Congresso su alcune delle questioni all’ordine del giorno, come la “riforma” sanitaria voluta da Trump o l’intensificazione di pericolose misure protezionistiche in ambito commerciale.

Mentre il consigliere/genero del presidente Trump, Jared Kushner, è apparso per la prima volta lunedì di fronte a una delle due commissioni del Congresso incaricate di indagare sui presunti legami tra l’amministrazione repubblicana e la Russia, lo scontro interno alla classe politica americana ha fatto segnare un altro aggravamento in seguito all’accordo bipartisan sull’approvazione di nuove sanzioni contro Mosca di cui la Casa Bianca avrebbe fatto volentieri a meno.

Il pacchetto che contiene ulteriori misure punitive nei confronti di entità russe era stato approvato quasi all’unanimità nel mese di giugno dal Senato di Washington. Alla Camera si era però arenato, ufficialmente per questioni tecniche ma in realtà a causa delle perplessità di alcuni deputati repubblicani poco inclini a votare una misura che avrebbe potuto mettere in imbarazzo l’amministrazione Trump.

L’appartenenza al partito non ha comunque impedito la ormai molto probabile risoluzione del percorso parlamentare delle nuove sanzioni. Anzi, come previsto, la legge è stata scritta in modo da rappresentare precisamente una sfida alla Casa Bianca sulla questione del cosiddetto “Russiagate”.

Nel pacchetto di sanzioni, che dovrebbe approdare in aula alla Camera dei Rappresentanti già martedì, sono incluse misure punitive anche contro l’Iran e, al contrario della versione iniziale licenziata dal Senato, la Corea del Nord. Ciò mette decisamente alle strette Trump, il cui eventuale veto finirebbe per bloccare sanzioni contro Teheran e Pyongyang che egli stesso aveva richiesto e auspicato.

Non solo, il ricorso al veto presidenziale risulterebbe virtualmente inutile, visto che i leader del Congresso hanno assicurato che esiste una larga maggioranza in grado di annullarlo, e ad ogni modo non farebbe che accentuare il conflitto in corso tra i poteri dello stato.

Ancora peggio per la Casa Bianca, la legge impedisce di fatto al presidente di agire in maniera autonoma nell’applicazione delle sanzioni. Se Trump, cioè, giudicasse necessario un allentamento delle misure contro Mosca dovrebbe sottoporre una proposta al Congresso, senza la cui approvazione non potrebbero essere apportati cambiamenti allo status quo.

Gli scenari per la Casa Bianca sembrano essere dunque sempre più cupi, come confermano le prese di posizione pubbliche nei giorni scorsi di alcuni leader repubblicani, evidentemente intenzionati ad avvertire il presidente a non insistere sulla strategia russa perseguita finora.

Lo sblocco dell’impasse sul pacchetto di sanzioni ha così messo in imbarazzo una Casa Bianca già in pieno caos. Dall’amministrazione sono giunti segnali contraddittori nel fine settimana, anche se si è intravista una certa disponibilità a prendere atto della situazione e ad accettare di malavoglia l’iniziativa del Congresso.

La vice-capo ufficio stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, aveva prima affermato alla ABC che Trump era in sostanza d’accordo con l’ultima versione del pacchetto di sanzioni, mentre in seguito il nuovo numero uno delle comunicazioni del presidente, Anthony Scaramucci, era apparso più cauto, avvertendo che una decisione in merito non era stata ancora presa.

La più che probabile approvazione definitiva delle nuove sanzioni contro la Russia sarà quindi prevedibilmente un’altra arma che gli oppositori di Trump utilizzeranno per aumentare le pressioni sulla sua amministrazione, così da convincerlo a cambiare rotta sugli indirizzi strategici americani.

Lo stesso accadrà quasi certamente anche dopo le testimonianze di questa settimana di Jared Kushner, sentito lunedì a porte chiuse dalla commissione Servizi Segreti del Senato e atteso invece martedì da un’audizione pubblica di fronte a quella della Camera.

Soprattutto, il tono delle risposte di Kushner alle domande di deputati e senatori sui suoi legami con la Russia potrebbe alimentare la caccia alle streghe in atto. Il Washington Post aveva pubblicato già nella mattinata di lunedì il contenuto delle dichiarazioni predisposte dallo stesso consigliere di Trump in preparazione alle due audizioni. In esse, Kushner mostrava appunto di voler continuare a negare contatti “impropri” o qualsiasi collusione con esponenti del governo di Mosca.

A poco più di sei mesi dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, il governo americano sta precipitando in una crisi quasi senza precedenti su una questione alimentata ad arte da una parte della classe dirigente e dai media ufficiali, nonostante non vi siano prove concrete delle “collusioni” con la Russia per orientare le elezioni e la politica estera degli Stati Uniti.

Un’ulteriore idea del livello di scontro interno al governo USA ha contribuito a darla nel fine settimana l’intervento in un forum dell’Aspen Institute di due uomini fino a pochi mesi fa ai vertici dell’intelligence americana. L’ex direttore della CIA, John Brennan, e l’ex direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI), James Clapper, hanno di fatto invitato all’insubordinazione gli esponenti del governo incaricati di mettere in atto le decisioni del presidente Trump.

Il riferimento è andato in particolare al possibile licenziamento da parte di Trump del “consigliere speciale” dell’FBI, l’ex direttore Robert Mueller, impegnato a guidare l’indagine del “Russiagate”. Se ciò dovesse accadere, ha spiegato Brennan, si dovrebbe resistere a un ordine che risulterebbe “contrario ai valori di questo paese”, così che non solo il Congresso ma anche i funzionari governativi sarebbero chiamati a opporsi clamorosamente a una decisione che risulta peraltro tra le prerogative del presidente.

La disponibilità di una parte della classe politica e dell’apparato militare e dell’intelligence USA a violare le stesse norme democratiche consolidate dà a sufficienza la misura dell’importanza delle questioni che sono alla base del violento scontro che sta attraversando le istituzioni americane.

Per coloro che combattono contro l’amministrazione Trump, continuare a tenere alta la pressione sulla Russia è infatti una componente cruciale di un disegno strategico volto a frenare il declino dell’influenza degli Stati Uniti a livello globale.

Per quanto riguarda le sanzioni contro Mosca, l’iniziativa del Congresso rischia comunque di peggiorare non solo lo scontro interno agli USA ma anche con gli alleati europei. Con una tempestività che dimostra ancora una volta le crescenti tensioni intercontinentali, Bruxelles ha subito messo in guardia Washington dall’adottare misure punitive contro la Russia che non siano coordinate a livello di G7. Anzi, una dichiarazione della Commissione Europea ha addirittura prospettato ritorsioni se Trump dovesse firmare la legge in fase di approvazione al Congresso.

La durissima presa di posizione europea è dovuta soprattutto al contenuto delle ultime sanzioni anti-russe che, se implementate, metterebbero a rischio gli investimenti e la partecipazione a progetti nel settore energetico con Mosca di molte compagnie europee. Questo aspetto chiave non era stato toccato dalle precedenti sanzioni, decise dagli USA contro la Russia in collaborazione con l’Europa, mentre ora viene unilateralmente minacciato dall’azione del Congresso americano.

Un’azione, quella proveniente da Washington, che rischia perciò di distruggere quello che resta dell’apparente unità d’intenti con gli alleati europei nel penalizzare la Russia dopo l’esplosione della crisi in Ucraina, aggiungendo un nuovo fattore destabilizzante alle sempre più precarie relazioni transatlantiche nell’era Trump.

di Carlo Musilli

La Polonia cammina sul crinale fra democrazia e regime, ma per il momento lo Stato di diritto resiste. Il governo di Varsavia – dal 2015 guidato dal partito di estrema destra euroscettica Diritto e Giustizia (Pis) – aveva fatto passare in Parlamento un pacchetto di riforme che cancellavano l’autonomia del potere giudiziario. Ma a sorpresa il presidente Andrzej Duda ha annunciato che metterà il veto su due dei tre provvedimenti: "Ho deciso che rimanderò alla camera bassa la legge riguardante la Corte suprema e quella sul consiglio nazionale della magistratura", ha detto Duda dopo tre giorni di manifestazioni di protesta che hanno attraversato tutto il Paese.  

La prima riforma dava al governo il potere di controllare la nomina dei giudici della Corte suprema, consentendogli anche di sostituire quelli attualmente in carica. La seconda invece riguardava il Consiglio nazionale della magistratura, che svolge una funzione decisiva nelle scelta dei magistrati: in questo caso la nuova legge prevedeva che la maggioranza delle nomine (15 su 25) fosse in mano al Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, in cui il Pis detiene la maggioranza. Inoltre, il testo permetteva al ministro della Giustizia di deciedere quando i membri del Consiglio dovessero andare in pensione e di nominare in autonomia i presidenti dei tribunali regionali e delle corti d'appello.

Purtroppo però le leggi bloccate da Duda non sono gli unici attacchi al diritto andati in scena in Polonia. In precedenza il governo aveva già unificato le funzioni della Procura generale con quelle del ministero della Giustizia, affidando il doppio ruolo al super-ministro Zbigniew Ziobro. A quest’ultimo sarà consentito anche di condurre una caccia alle streghe tra i membri dell’avvocatura polacca attraverso un nuovo consiglio disciplinare con un ampio raggio d’azione.

Il disegno che sta dietro a tutte queste riforme è di accentrare il potere giudiziario nelle mani di Jaroslaw Kaczynski, vero uomo forte della Polonia di oggi. In teoria si tratta un semplice deputato, ma di fatto governo e maggioranza obbediscono a lui. Già primo ministro fra il 2006 e il 2007, Jaroslaw è cofondatore e presidente del Pis, nonché fratello gemello di Lech Kaczynski, ex presidente della Repubblica morto in un incidente aereo nel 2010. Un caso su cui è stato costruito un romanzo di spionaggio funzionale all’ascesa del partito: l’incidente sarebbe stato un attentato organizzato dai russi e coperto dalle élite liberali polacche, compreso l’odiato ex premier Donald Tusk (oggi presidente del Consiglio europeo malgrado la feroce opposizione proprio del governo polacco).

Ma Bruxelles stavolta non è rimasta a guardare. “L’Ue è sempre più vicina a invocare l’Articolo 7”, aveva minacciato Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, prima del veto posto da Duda. Il provvedimento, previsto del Trattato di Lisbona, avrebbe portato alla sospensione del diritto di voto della Polonia nel Consiglio Ue. Una punizione senza precedenti, anche se con ogni probabilità Varsavia avrebbe potuto contare sull'aiuto di Victor Orban: “In questo momento – aveva detto premier ungherese – il principale obiettivo dell'inquisizione, l'esempio di governo nazionale da indebolire, smantellare e spezzare è la Polonia”.

Ma come si è arrivati a mettere in discussione addirittura la divisione dei poteri? Quello che sta accadendo a Varsavia dimostra come le istituzioni democratiche e i principi stessi dello Stato di diritto possano essere minacciati senza che nessuno imbracci un fucile. La crisi di rappresentanza e di credibilità che in mezzo mondo sta travolgendo i partiti tradizionali può aprire la strada a chiunque sia in grado d’intercettare una quota significativa di rabbia sociale.

Esempio. Nel 2013, quando al governo c’era Tusk, il ministero degli Esteri polacco acquistò 28 sedie alla cifra astronomica 300mila zloty per "mantenere un design uniforme". Fu uno scandalo che finì sui giornali. Al contrario, una delle principali promesse (poi mantenuta) con cui Diritto e Giustizia ha vinto le ultime elezioni era quella di concedere a ogni famiglia polacca, indipendentemente dallo status economico, un bonus di 500 zloty al mese (circa 115 euro) per ogni figlio dal secondo in poi, dalla nascita fino al 18esimo compleanno. Sono tanti soldi, considerato che la metà dei lavoratori polacchi guadagna meno di 2.500 zloty al mese (600 euro) e che i prezzi continuano a salire ben più rapidamente degli stipendi.

di Mario Lombardo

La decisione del governo americano di chiudere entro i prossimi mesi il programma clandestino della CIA di addestramento e fornitura di armi ai “ribelli” anti-Assad è un altro segnale del parziale cambiamento di rotta dell’amministrazione Trump sul conflitto in Siria. Lo stop al piano lanciato da Obama nel 2013 giunge infatti in parallelo alla tregua concordata con la Russia lungo il confine meridionale con la Giordania, anche se quasi certamente non determinerà un significativo disimpegno americano dal paese mediorientale in guerra.

A riportare la notizia della decisione della Casa Bianca è stato per primo e con una certa insofferenza uno dei giornali maggiormente impegnati nella campagna contro Trump per i suoi presunti legami con Mosca, il Washington Post. Trump si sarebbe convinto a cancellare il programma della CIA quasi un mese fa, in seguito a una riunione con il direttore dell’agenzia di Langley, Mike Pompeo, e con il consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster.

La consultazione era avvenuta poco prima del faccia a faccia di Trump con Putin del 7 luglio scorso durante il G20 di Amburgo, al termine del quale sarebbe stata appunto annunciata l’entrata in vigore di un cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale.

Per il governo USA, le due iniziative non sono comunque collegate, né la fine delle operazioni gestite dalla CIA a favore dei “ribelli” in Siria sarebbe stata chiesta dal Cremlino come condizione per il raggiungimento di un accordo. Se ciò è effettivamente possibile, vi sono tuttavia pochi dubbi sul fatto che la recente decisione di Trump da un lato favorisca quanto meno il regime di Damasco e, dall’altro, si inserisca nel quadro della nascente collaborazione tra Mosca e Washington sulla crisi siriana.

A ben vedere, la mossa di Trump è anche una presa d’atto dell’inefficacia di un programma dispendioso che avrebbe dovuto servire fin dall’inizio a mettere in pratica i propositi di cambio di regime in Siria di una parte dell’apparato militare e dell’intelligence americano, sia pure dietro l’apparenza della guerra al terrorismo.

Le armi destinate a gruppi di opposizione considerati come “moderati” erano in realtà finite spesso nelle mani delle formazioni jihadiste. L’addestramento, invece, non ha mai nemmeno lontanamente prodotto le migliaia di combattenti ben selezionati che erano previste inizialmente. Al contrario, per stessa ammissione di molti nel governo e tra i vertici militari USA, gli uomini pronti alla battaglia usciti dal programma della CIA erano stati al massimo poche decine.

Tra i “falchi” dell’interventismo in Siria ci saranno in ogni caso reazioni molto negative alla decisione di Trump, soprattutto perché essa non può che apparire come un favore fatto a Vladimir Putin.

In effetti, ciò che segnala il provvedimento preso questa settimana dalla Casa Bianca è probabilmente la rinuncia, almeno per il momento, a perseguire i sogni di cambio di regime in Siria, non tanto per scrupoli o ripensamenti dopo oltre sei anni di guerra e un paese letteralmente distrutto, quanto per l’impossibilità materiale di realizzare questo obiettivo dopo l’intervento militare di Mosca.

I piani dell’amministrazione Trump per la Siria non sono ad ogni modo pacifici, bensì rivolti a trarre il massimo risultato possibile alla luce della realtà sul campo. Gli sviluppi degli ultimi mesi indicano cioè un ripiegamento su una soluzione che porti a una sorta di balcanizzazione della Siria.

Se questo progetto lascerebbe Assad al suo posto sotto la protezione di Russia e Iran, nondimeno creerebbe in Siria uno spazio occupato dagli Stati Uniti e dalle forze loro alleate, come le milizie curde nel nord del paese, e impedirebbe la ricostituzione di uno stato unitario sotto l’influenza di potenze ostili a Washington.

Com’è evidente, questa strada può essere percorsa oggi in Siria solo attraverso la collaborazione con Mosca. Trump, infatti, ha già fatto sapere che è allo studio la possibilità di estendere la tregua concordata con Putin ad Amburgo ad altre aree della Siria.

Le incognite tutt’altro che trascurabili per la Casa Bianca sono però molteplici. In primo luogo, non ci sono indicazioni che la Turchia e le monarchie sunnite del Golfo Persico abbiano intenzione di interrompere a loro volta il sostegno ai vari gruppi fondamentalisti che combattono il regime di Damasco, anche se almeno il Qatar sembra essersi deciso in questo senso.

Inoltre, le forze contrarie a qualsiasi accomodamento con Mosca all’interno del governo, delle forze armate e dell’intelligence degli Stati Uniti potrebbero muoversi per far saltare l’intesa sul cessate il fuoco in Siria, come è già accaduto nel recente passato.

Da non trascurare è infine anche la variabile israeliana. Il premier Netanyahu, come ha scritto mercoledì la testata on-line Al-Monitor, avrebbe già “messo Trump sull’avviso”, manifestando la propria contrarietà alla tregua in vigore e l’intenzione di agire militarmente se l’accordo dovesse portare a una presenza permanente in Siria di Iran e Hezbollah.

L’impegno americano in Siria proseguirà comunque attraverso la campagna di bombardamenti contro le rimanenti postazioni dello Stato Islamico (ISIS), le attività delle centinaia di uomini delle forze speciali presenti nel paese, il mantenimento di un numero imprecisato di basi militari e l’appoggio alle milizie curde nell’ambito delle cosiddette “Forze Democratiche Siriane”.

Non solo, lo sforzo americano per finanziare, armare e addestrare gruppi “ribelli” siriani non verrà meno del tutto. La decisione presa questa settimana da Trump non toccherà un altro programma simile a quello della CIA, ma al contrario di quest’ultimo riconosciuto ufficialmente e condotto dal dipartimento della Difesa.

Tutti questi fronti che continueranno ad assicurare il coinvolgimento diretto degli USA in Siria dovrebbero consentire al governo di Washington sia di trattare condizioni favorevoli nel quadro di un accordo con Mosca sia di riattivare le operazioni volte al cambio di regime nel caso gli scenari attuali dovessero mutare.

Gli sviluppi di questi ultimi giorni della crisi siriana ratificano infine una tendenza in atto praticamente fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti, cioè, sembrano intenzionati a concentrare il proprio impegno in Siria sulle forze curde, sganciandosi invece dai gruppi sunniti, tra i quali hanno peraltro sempre prevalso elementi fondamentalisti.

Questa strategia rischia però di complicare ulteriormente il quadro in Siria, mettendo a rischio anche la precaria stabilità che potrebbe realizzare un eventuale allargamento del cessate il fuoco nel paese. Il ruolo centrale delle milizie curde nel conflitto sta infatti sempre più allarmando la Turchia, il cui governo, già impegnato direttamente oltre il confine meridionale, continua a mostrare nei confronti di Washington segnali di impazienza che potrebbero facilmente degenerare.

Anzi, lo scontro tra i due alleati NATO ha fatto segnare un netto aggravamento proprio nei giorni scorsi, quando gli Stati Uniti hanno protestato fermamente con Ankara dopo che l’agenzia di stampa governativa turca, Anadolu, ha deciso di pubblicare informazioni dettagliate sulla posizione delle basi militari americane nella Siria settentrionale.


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