di Michele Paris

La politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina ha fatto registrare una chiara evoluzione negli ultimi giorni, segnati da una serie di iniziative dell’amministrazione Trump che indicano un’accelerazione su questioni estremamente delicate come la Corea del Nord e le contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

Nel fine settimana, una nave da guerra americana, il cacciatorpediniere lanciamissili “USS Stethem”, ha varcato il limite territoriale delle dodici miglia nautiche dell’isola di Triton, nell’arcipelago delle Paracel, sotto il controllo cinese dal 1974 ma rivendicato anche da Vietnam e Taiwan. Questo limite è riconosciuto dal diritto internazionale per quanto riguarda le acque al largo di un determinato territorio, anche se la sovranità cinese sulle isole Paracel rimane contesa.

Per gli ambienti militari e il governo USA, l’operazione di domenica servirebbe ad affermare la “libertà di navigazione” nelle acque del sud-est asiatico e allo stesso tempo a respingere le pretese cinesi sulle isole in questione. Simili blitz della marina militare americana erano stati relativamente frequenti durante l’amministrazione Obama e la stessa isola di Triton era stata visitata dalla nave “USS Curtis Wilbur” nel gennaio del 2016.

Con l’avvicendamento alla Casa Bianca, Trump si era inizialmente rifiutato di autorizzare operazioni di questo genere, così da evitare segnali negativi verso Pechino in un momento nel quale stava cercando di dare l’impressione di voler promuovere un qualche dialogo con la Cina, principalmente attorno al programma nucleare nordcoreano.

Già meno di sei settimane fa, Trump aveva però dato il via libera alla prima incursione della sua presidenza all’interno dei limiti territoriali di isole contese e sottoposte all’autorità cinese. In quell’occasione, la “USS Dewey” si era avvicinata a un atollo artificiale facente parte delle isole Spratly, localizzate anch’esse nel Mar Cinese Meridionale e reclamate, oltre che da Pechino, da Filippine, Malaysia, Vietnam e Taiwan.

L’operazione era stata seguita da una dichiarazione minacciosa del segretario alla Difesa americano, generale James Mattis, il quale aveva avvertito che Washington non avrebbe accettato la militarizzazione da parte cinese di isole artificiali contese né “minacce unilaterali allo status quo”.

Il governo cinese risponde tradizionalmente in maniera molto dura alle provocazioni americane, avendo più volte chiarito di non essere disposto a rinunciare al controllo di territori e tratti di mare non solo potenzialmente ricchi di risorse energetiche, ma dai quali passano rotte commerciali di importanza fondamentale.

Dopo i fatti del fine settimana, un portavoce del ministero della Difesa cinese ha così chiesto agli USA di “mettere immediatamente fine a operazioni provocatorie che violano la sovranità e minacciano la sicurezza della Cina”. Pechino, inoltre, ha assicurato che “continuerà ad adottare tutte le misure necessarie per difendere la propria sovranità e sicurezza”.

La dichiarazione cinese ha anche fatto riferimento a quello che in molti hanno definito come un cambiamento di attitudine in Asia sud-orientale sulle contese territoriali, soprattutto nelle Filippine, definendo in sostanza l’azione americana come destabilizzante e “contraria al desiderio di stabilità” espresso dagli altri paesi della regione.

L’irritazione di Pechino è dovuta anche all’annuncio di settimana scorsa dell’approvazione da parte dell’amministrazione Trump di una fornitura di armi per 1,4 miliardi di dollari a Taiwan. Una notizia che aveva spinto il ministero degli Esteri cinese a sollecitare gli USA al rispetto della cosiddetta politica di “una sola Cina”, abbracciata ufficialmente da Washington fin dagli anni Settanta del secolo scorso.

Anche il presidente, Xi Jinping, avrebbe chiesto e, secondo la stampa cinese, ottenuto garanzie su questo punto nel corso di un colloquio telefonico con Trump proprio poche ore dopo l’operazione navale nelle isole Paracel.

Che questi sviluppi rientrino in un quadro generale caratterizzato da un possibile cambio di marcia americano nei confronti di Pechino è confermato anche dalla recente decisione di applicare sanzioni a banche cinesi che operano con la Corea del Nord, così come dall’inclusione della Repubblica Popolare in un rapporto del dipartimento di Stato che condanna i paesi meno impegnati nella lotta al traffico di esseri umani.

L’irrigidimento dei rapporti con la Cina e il ritorno di Trump ai toni che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale rispecchierebbero la frustrazione della Casa Bianca per i mancati risultati sulla crisi in Corea del Nord. Dopo il faccia a faccia ad aprile tra Xi e Trump, quest’ultimo aveva affermato di attendersi in fretta azioni concrete da parte cinese per richiamare all’ordine l’alleato nordcoreano.

Se pure Pechino ha preso iniziative in linea con le sanzioni americane e internazionali contro Pyongyang, tra cui lo stop alle importazioni di carbone nordcoreano, la propria influenza sul regime di Kim Jong-un è limitata e, soprattutto, la strategia americana era fin dall’inizio soltanto una manovra per giustificare un aumento delle pressioni, se non addirittura un’azione militare.

Gli Stati Uniti, d’altra parte, hanno respinto nelle scorse settimane le proposte cinesi per aprire un dialogo con la Corea del Nord, restando fermi invece sulla richiesta – impossibile da accettare – che quest’ultimo paese rinunci preliminarmente al suo programma di armi nucleari.

Mentre sembrano dunque stringersi gli spazi della diplomazia e con le relazioni Washington-Pechino nuovamente in fase calante, sempre nel fine settimana Trump ha dato segnali significativi delle sue intenzioni di rafforzare l’asse dell’alleanza con Giappone e Corea del Sud.

Il presidente americano ha ricevuto venerdì alla Casa Bianca il neo-presidente sudcoreano, Moon Jae-in, mentre lunedì ha discusso telefonicamente con il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. Il vertice di Washington ha dato quanto meno segnali di un maggiore allineamento di Moon alle posizioni USA sulla Corea del Nord dopo le preoccupazioni dovute a un’attitudine considerata più conciliante verso Pyongyang rispetto ai suoi due predecessori.

Abe, a sua volta, avrebbe assicurato l’impegno di Tokyo a garantire l’unità degli alleati per spingere il regime nordcoreano “a cambiare il proprio pericoloso atteggiamento”. Trump sarebbe riuscito anche a convincere i leader di Giappone e Corea del Sud a partecipare a un incontro trilaterale sulla Corea del Nord a margine del G20 di Amburgo che prenderà il via venerdì prossimo.

La collaborazione e il dialogo tra Seoul e Tokyo risultano fondamentali per la strategia cinese e nordcoreana degli USA, visto che negli ultimi anni i due alleati americani si erano scontrati su varie questioni legate al periodo coloniale e bellico, con il risultato di permettere alla Cina di intensificare i legami diplomatici ed economici soprattutto con la Corea del Sud.

I segnali delle ultime settimane suggeriscono quindi che all’interno dell’amministrazione Trump sia in atto una revisione delle relazioni con Pechino. L’ostentata collaborazione sulla Corea del Nord o la presunta alchimia personale tra Trump e Xi sono sempre state peraltro il tentativo della nuova amministrazione americana di confondere le acque nel quadro di un’agenda internazionale con al centro il contenimento della Cina, anche attraverso il confronto militare.

Il passaggio a politiche più apertamente aggressive nei confronti di Pechino, in primo luogo tramite l’escalation delle pressioni su Pyongyang, comporta inevitabilmente un aumento dei rischi di uno scontro diretto tra le due potenze nucleari, sia su questioni di primaria importanza, come appunto la crisi nella penisola di Corea, sia apparentemente minori, come dimostra la recente provocazione americana nel Mar Cinese Meridionale.

di Mario Lombardo

La visita di questa settimana alla Casa Bianca del primo ministro indiano, Narendra Modi, è stata giudicata quasi universalmente un successo nonostante le persistenti frizioni tra Washington e Delhi su alcune questioni economiche e commerciali. L’obiettivo principale di Trump e del suo ospite era in sostanza quello di rafforzare la “partnership globale strategica” indo-americana, promossa dalle due precedenti amministrazioni USA per integrare la più popolosa democrazia del pianeta nei piani di Washington nel continente asiatico.

Tra le élites indiane vi era un certo nervosismo alla vigilia della trasferta di Modi a Washington e ciò era dovuto alla natura imprevedibile di Trump e a una sua possibile inversione di rotta o, quanto meno, a una frenata nel processo di consolidamento dei rapporti bilaterali.

I principali media indiani hanno però alla fine tirato un sospiro di sollievo dopo avere constatato non solo il clima relativamente amichevole del faccia a faccia alla Casa Bianca, ma anche e soprattutto le parole pronunciate dai due leader nella conferenza stampa seguita al vertice e il contenuto della dichiarazione congiunta.

Trump ha frequentemente insistito sull’ottimo stato di salute e sull’importanza delle relazioni con l’India. La dimensione militare della partnership tra i due paesi è stata particolarmente sottolineata dal presidente americano, il quale ha ricordato in maniera significativa sia la cooperazione bilaterale in questo ambito sia l’imminente esercitazione militare nell’Oceano Indiano che vedrà anche la partecipazione del Giappone.

L’enfasi di Trump su questa esercitazione, condotta fino a un paio di anni fa solo dalle marine militari di USA e India, è servita a sottolineare l’importanza della presenza navale degli Stati Uniti e dei loro alleati in una via d’acqua che rappresenta un corridoio fondamentale per le esportazioni e le importazioni cinesi.

Il contenimento della crescita costante dell’influenza della Cina nel continente asiatico e non solo è ovviamente al centro della partnership indo-americana. Il contrasto a questa evoluzione del ruolo di Pechino spiega dunque il peso del fattore militare nei rapporti tra Washington e Delhi.

Gli Stati Uniti intendono utilizzare le installazioni militari e le attività dell’intelligence indiana in funzione anti-cinese e, parallelamente, per lo stesso scopo spingono per assegnare a Delhi un ruolo sempre maggiore in Asia sud-orientale.

Il peso dell’India nelle scelte strategiche degli USA in quest’area del pianeta è chiarito dalla decisione di Trump di autorizzare, proprio alla vigilia della visita di Modi, la vendita a questo paese di 22 droni con funzioni di sorveglianza marittima. Come ha spiegato il New York Times, questi velivoli sono stati finora forniti solo a membri della NATO e saranno utili, tra l’altro, per consentire all’India di sorvegliare tratti di mare nei pressi dello Stretto di Malacca, tra i più vulnerabili per il flusso dei commerci cinesi in caso di conflitto.

Dal punto di vista indiano, la visita di Modi a Washington ha confermato come il governo di estrema destra al potere a Delhi, e le sezioni della classe dirigente indigena che a esso fanno riferimento, intenda continuare a puntare sugli Stati Uniti per soddisfare le crescenti ambizioni da grande potenza.

Ciò malgrado le divisioni interne e il persistere di un’evidente diversificazione della politica estera indiana, confermata ad esempio dalla partecipazione attiva ai lavori del gruppo “BRICS”, dal recentissimo ingresso a pieno titolo nella Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) a guida russo-cinese e dalla conservazione dei buoni rapporti con Mosca risalenti al periodo sovietico.

Proprio mentre Modi incontrava Trump negli Stati Uniti, d’altra parte, il ministro del Gas e del Petrolio indiano riceveva il vice-ministro dell’Energia russo e una delegazione del gigante Gazprom per discutere la costruzione di un gasdotto per la fornitura di gas russo all’India.

I legami con gli USA restano in ogni caso il fulcro della politica estera indiana. Due questioni affrontate nel corso del vertice di Washington spiegano a sufficienza l’attitudine di entrambi i paesi. Da un lato, l’amministrazione Trump ha acconsentito a includere nel comunicato finale un riferimento al Pakistan per chiedere a questo paese – formalmente alleato degli Stati Uniti – di garantire che “il suo territorio non sia usato per lanciare attacchi terroristici verso altri paesi”.

Prima dell’incontro tra Modi e Trump, inoltre, il dipartimento di Stato americano aveva aggiunto all’elenco dei “terroristi globali” Syed Salahuddin, leader dei separatisti filo-pakistani del Kashmir Hizbul Mujahideen, rispondendo così a una richiesta fatta tempo fa da Delhi.

La presa di posizione contro Islamabad di Washington appare decisamente insolita, anche se si inserisce in un continuo deterioramento dei rapporti bilaterali, e dimostra come il governo americano non abbia troppi scrupoli nel mettere a repentaglio un’alleanza fino a poco tempo fa ritenuta cruciale per la lotta al terrorismo per rafforzare i legami strategici con l’India.

Il governo di Delhi, invece, si è allineato alle posizioni USA sulla crisi nella penisola di Corea, condannando il regime nordcoreano per le “continue provocazioni” degli ultimi tempi e impegnandosi a lavorare con Washington per fermare “il programma di armi di distruzione di massa” di Pyongyang. L’India ha anche recentemente sospeso gli scambi di merci con la Corea del Nord, a parte cibo e medicinali, nonostante di questo paese sia il secondo partner commerciale dopo la Cina.

In un quadro di questo genere, sono passate relativamente in secondo piano le divergenze tra USA e India, prevalentemente in ambito economico, ma anche per quanto riguarda la stretta sui visti di ingresso negli Stati Uniti di cittadini indiani. Trump ha ribadito le preoccupazioni per il deficit commerciale degli Stati Uniti negli scambi con l’India, mentre ha insistito con Modi per sollecitare una maggiore apertura del mercato del suo paese al capitale e alle merci americane.

La questione è in realtà tutt’altro che secondaria, come conferma l’insistenza di Trump su di essa e l’ampio spazio trovato dai temi economico-commerciali nel comunicato congiunto dei due leader. L’impressione ricavata dal vertice, tuttavia, è che le due parti, e soprattutto il governo indiano, intendano continuare a rafforzare la loro partnership strategica e militare in chiave anti-cinese, confidando che essa favorisca il dialogo e la risoluzione dei problemi su tutti gli altri fronti.

di Mario Lombardo

La legge sul sistema sanitario americano, voluta da Donald Trump per rimpiazzare la “riforma” del settore approvata da Obama nel 2010, martedì ha fatto segnare un nuovo passo falso che ne ha messo in dubbio ancora una volta la definitiva approvazione. La proposta ultra-reazionaria dei leader repubblicani al Congresso continua infatti a mancare della maggioranza necessaria dei consensi all’interno dello stesso partito di governo, soprattutto dopo la pubblicazione di uno studio indipendente sull’impatto devastante che essa avrebbe su decine di milioni di americani.

Dopo il voto positivo della Camera dei Rappresentanti ai primi di maggio su un testo denominato “American Health Care Act” (AHCA), il Senato aveva iniziato la stesura di una propria versione, questa volta chiamata “Better Care Reconcilitation Act”. I lavori avevano proceduto a porte chiuse e, quando la settimana scorsa il numero uno dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ne ha rivelato i contorni si è capito facilmente la ragione della segretezza.

Malgrado il relativo ottimismo ostentato dai repubblicani, la mancanza di voti per l’approvazione ha spinto martedì la leadership al Senato di Washington a rinviare il voto sulla legge del sistema sanitario. Per il momento, a poco sono serviti gli incontri organizzati tra il presidente e il suo vice, Mike Pence, con i senatori del loro partito.

Il carattere fortemente regressivo della “riforma” sostenuta da Trump era stato chiarito a sufficienza dal rapporto di lunedì dell’Ufficio per il Budget del Congresso, l’ente “non-partisan” deputato alla valutazione dell’impatto delle leggi federali negli Stati Uniti.

La versione del Senato, se implementata, provocherà la perdita di qualsiasi copertura sanitaria per 15 milioni di persone già entro il prossimo anno. Il numero di americani senza assicurazione aumenterà poi di 22 milioni nel 2026, contro i 23 milioni stimati per la legge già approvata dalla Camera.

I meccanismi principali della legge in discussione sono l’assalto frontale a Medicaid, il programma federale di assistenza sanitaria dedicato agli appartenenti alle classi più povere e ai portatori di disabilità, e l’impennata fino a livelli insostenibili dei premi assicurativi di determinate categorie di americani che ricevono la copertura dalle compagnie private.

Medicaid copre attualmente circa 75 milioni di persone negli USA e la proposta dei repubblicani al Senato priverebbe questo programma di 772 miliardi di dollari in dieci anni, con un taglio di spesa pari al 26% nel 2026. Il risparmio deriverebbe da una trasformazione radicale del programma, sostituendo servizi garantiti e adeguatamente finanziati con stanziamenti fissi e limitati da erogare ai singoli stati, i quali a loro volta dovranno ridurre il numero dei beneficiari, tagliare le prestazioni o aumentare il contributo richiesto a coloro che continueranno a essere coperti.

Di fronte a questa realtà e a questi numeri, confermati dall’Ufficio per il Budget del Congresso, Trump e i suoi consiglieri ancora nei giorni scorsi sono stati in grado di affermare sui media che Medicaid non subirà tagli di spesa con l’approvazione della nuova “riforma”.

A partire soprattutto dal 2020, poi, i premi assicurativi diventeranno per molti così “onerosi che pochissimi americani a basso reddito sceglieranno di acquistare una polizza” sanitaria privata. I più anziani saranno particolarmente penalizzati. Un 64enne con un reddito annuo di 26.500 dollari, ad esempio, dovrà sborsare 6.500 dollari all’anno – sussidi federali inclusi – per avere una polizza che garantisca una discreta copertura.

Secondo quanto previsto attualmente da “Obamacare”, invece, un americano in questa situazione pagherebbe 1.700 dollari e la polizza coprirebbe un numero maggiore di servizi sanitari. Con l’aumento del reddito il costo delle polizze salirebbe vertiginosamente, tanto che sempre un 64enne con entrate pari a 56.800 dollari sarebbe gravato ogni anno di una spesa non inferiore a 20.500 dollari.

La bozza di legge del Senato è in sostanza costruita interamente per ridurre i livelli di spesa destinati al settore sanitario e per favorire i profitti delle compagnie assicurative private. Questi due stessi principi erano alla base anche della “riforma” di Obama, da cui appunto Trump e i repubblicani sono partiti per rafforzarne gli elementi pro-business.

Dal momento che il diritto universale a ricevere cure mediche adeguate ed economiche, per non dire gratuite, non viene nemmeno lontanamente considerato dalla classe politica americana, ogni genere di norma che metta a rischio la salute dei pazienti è di fatto contemplata nel testo allo studio.

Un esempio è la facoltà garantita ai singoli stati di richiedere e ottenere dal governo federale l’autorizzazione a escludere determinati servizi sanitari essenziali dai piani assicurativi offerti dalle compagnie private ai cittadini. Secondo l’Ufficio per il Budget del Congresso, ciò farebbe in modo che quasi la metà degli americani rischi di perdere l’accesso a prestazioni fondamentali, come l’assistenza di maternità, cure mentali, servizi di riabilitazione e rimborsi per medicinali molto costosi.

Gli effetti della legge repubblicana hanno spinto alcuni senatori del partito di Trump a dichiarare la loro indisponibilità a votare a favore. Il timore per le ripercussioni elettorali che avrebbero la perdita della copertura sanitaria e l’aumento dei costi per moltissimi americani sta pesando sulle intenzioni di voto di una manciata di senatori “moderati”.

A essi si aggiungono alcuni colleghi di estrema destra, o “libertari”, che si sono dichiarati contrari alla legge perché non abbastanza incisiva nello smantellamento di “Obamacare”. Come già accaduto per la versione licenziata qualche settimana fa dalla Camera, qualsiasi modifica al testo per raggiungere un compromesso accettabile a tutti nelle prossime settimane dovrà essere fatta in maniera molto cauta, visto che le preoccupazioni dei repubblicani “centristi” non coincidono con quelle degli ultra-conservatori.

La leadership repubblicana al Senato può permettersi al massimo due defezioni per mandare in porto la legge, considerando che tutti i democratici voteranno contro. Il partito repubblicano ha una maggioranza di 52 a 48 al Senato e, in caso di pareggio, il vicepresidente, Mike Pence, diventerebbe l’ago della bilancia.

Con la Casa Bianca disperatamente alla ricerca di una qualche vittoria legislativa da mostrare agli elettori dopo oltre cinque mesi di governo, la leadership del Senato intendeva approvare il proprio testo entro il 4 luglio, data in cui il Congresso sospenderà i lavori per la festa dell’Indipendenza americana.

I giornali negli Stati Uniti danno però già lunedì la legge sull’orlo del naufragio, visti i crescenti malumori in casa repubblicana. Le pressioni sui repubblicani dissidenti continueranno comunque a essere molto forti da parte della leadership al Senato e degli ambienti presidenziali. Un gruppo di pressione vicino a Trump ha ad esempio già iniziato una campagna intimidatoria nei confronti di uno dei senatori che ha manifestato la propria contrarietà alla legge, cioè Dean Heller del Nevada, atteso da una delicata rielezione nel 2018.

La testata on-line Politico.com ha invece raccontato che la Casa Bianca e i leader repubblicani cercheranno di far cambiare idea ai senatori orientati a votare contro la legge offrendo stanziamenti di fondi federali destinati a progetti promossi da questi ultimi o a beneficio dei loro stati di origine.

A disposizione per queste trattative ci sarebbero quasi 200 miliardi di dollari, derivanti dal risparmio di spesa generato dalla stessa “riforma” sanitaria la cui sorte appare però sempre più in bilico.

di Michele Paris

Una nuova indagine del veterano giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha confermato nel fine settimana come i presupposti del bombardamento americano del 6 aprile scorso contro una base aerea siriana fossero basati su informazioni totalmente false. Il primo attacco deliberato degli Stati Uniti contro forze del regime di Assad, autorizzato dal presidente Trump, era stata la risposta a un raid in una località controllata dai “ribelli” condotto dall’aviazione siriana con armi chimiche, la cui esistenza, secondo la ricostruzione di Hersh, era stata però smentita anche dai servizi di intelligence americani.

L’80enne giornalista basa come di consueto la sua analisi su informazioni ricavate da fonti anonime all’interno del governo USA. Significativamente, il lungo articolo non è stato pubblicato da una testata americana, ma dalla tedesca Die Welt. Lo stesso giornale tedesco ha rivelato che Hersh aveva proposto la sua indagine alla London Review of Books, che già aveva dato spazio ad alcune delle ultime fatiche del giornalista, ma si era alla fine rifiutata di pubblicarla per le critiche che avrebbe potuto subire dando spazio a posizioni troppo vicine a quelle dei governi di Russia e Siria.

La ricerca di Hersh spiega come l’incursione dell’aviazione siriana del 4 aprile scorso nella città di Khan Sheikhoun fosse stata meticolosamente preparata grazie al lavoro dell’intelligence russa. In maniera insolita, Mosca aveva anche fornito a Damasco una “bomba guidata” con cui portare a termine l’operazione, a conferma dell’importanza dell’obiettivo da colpire.

Infatti, i russi avevano informazioni che confermavano come nell’edificio di Khan Sheikhoun si sarebbe tenuta una riunione tra membri di alto livello delle formazioni armate integraliste Ahrar al-Sham e Jabhat al-Nusra, quest’ultima formalmente affiliata ad al-Qaeda. I due gruppi avevano unito le loro forze per tenere sotto controllo la città del governatorato di Idlib, nella Siria nord-occidentale. L’edificio individuato dall’intelligence russa serviva da centro di comando e nel piano interrato ospitava una sorta di magazzino, nel quale si trovavano beni di prima necessità ma anche armi, munizioni e missili, così come medicinali e decontaminanti a base di cloro.

Ciò che risulta decisivo nella ricostruzione proposta da Hersh è che i russi avevano avvertito in anticipo i militari e i servizi segreti americani dell’operazione che sarebbe stata condotta a Khan Sheikhoun all’alba del 4 aprile. Mosca sapeva benissimo che la CIA poteva avere propri uomini o informatori all’interno dei gruppi dell’opposizione anti-Assad che si stavano per riunire, così che la condivisione dell’informazione avrebbe permesso a questi ultimi di evitare di presentarsi all’incontro il giorno stabilito per l’attacco siriano.

Le fonti di Hersh spiegano che la decisione russa di anticipare i dettagli dell’operazione agli americani era dovuta anche al fatto che nelle settimane precedenti l’aria a Washington sembrava essere cambiata in merito alla guerra in Siria. Il segretario di Stato, Rex Tillerson, e l’ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, avevano ad esempio lasciato intendere che Assad sarebbe rimasto a lungo alla guida del suo paese.

L’informazione, ad ogni modo, era stata accolta in maniera molto seria dalla comunità dell’intelligence USA e, quindi, ritenuta del tutto credibile. Dopo il bombardamento dell’edificio occupato dai “ribelli”, la CIA e i vertici militari americani avrebbero continuato a confermare l’assenza di prove dell’utilizzo di un agente chimico da parte dell’aviazione siriana, anche se il presidente Trump sarebbe rimasto dell’opinione che ciò era esattamente quanto accaduto a Khan Sheikhoun.

Una fonte di Hersh riassume le conclusioni che qualsiasi osservatore poteva trarre dopo i fatti del 4 aprile, cioè che un’eventuale decisione da parte di Damasco di ricorrere a un attacco con armi chimiche contro “ribelli” e civili sarebbe stato un autentico suicidio, visto soprattutto che le sorti della guerra erano diventate ormai favorevoli al regime. La Russia, poi, sarebbe stata furiosa nei confronti di Assad perché un’iniziativa di questo genere avrebbe screditato la sua posizione e messo in discussione la stessa guerra allo Stato Islamico (ISIS) che Mosca, oltretutto, intendeva coordinare con Washington.

Quello che segue è il resoconto della reazione di Trump, il quale sarebbe stato accecato dalle immagini che trapelarono da subito da Khan Sheikhoun grazie alla propaganda di enti e individui vicini all’opposizione siriana. Filmati e istantanee che documentavano la distruzione e gli effetti provocati dal presunto attacco con armi chimiche fecero in fretta il giro del mondo e, assieme alla propaganda della stampa “mainstream” occidentale, contribuirono a creare una versione indiscussa dei fatti sposata dal presidente, cioè che il regime di Assad aveva deliberatamente colpito con armi chimiche civili innocenti in Siria provocando decine o centinaia di vittime.

I governi di Russia e Siria, da parte loro, avevano affermato che nell’edificio colpito si trovava un deposito di sostanze tossiche, diffuse in seguito all’impatto della bomba sganciata dal jet siriano. La testimonianza di membri dell’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere, che aveva trattato alcune vittime dell’esplosione, sembrava supportare questa versione, dal momento che i sintomi indicavano l’azione di più sostanze chimiche. Ciò sarebbe stato impossibile se, come affermarono esponenti dell’opposizione, il regime avesse utilizzato una bomba equipaggiata con il sarin.

Trump, comunque, dopo avere visto le immagini e le notizie dei principali network americani provenienti dalla Siria, aveva insistito con i vertici militari per organizzare una risposta all’attacco. La CIA e i servizi segreti militari rimasero invece fermi nel loro giudizio che l’attacco del jet siriano era stato condotto con un’arma convenzionale, mentre le analisi proposte ai vertici politici di Washington insistevano sull’assurdità della decisione di Assad di ricorrere ad armi chimiche.

Hersh e le sue fonti rivelano che non ci fu modo di convincere il presidente a desistere e, alla fine, in un vertice tenuto il 6 aprile nella residenza di Mar-a-Lago, in Florida, furono offerte a Trump quattro opzioni. La prima consisteva nel non fare nulla. La seconda nel procedere con una ritorsione sostanzialmente simbolica che permettesse agli USA di salvare la faccia. La terza era un piano di bombardamenti massicci contro le postazioni militari siriane, come già era stato proposto a Obama nel 2013, e la quarta addirittura un intervento per decapitare i vertici dello stato siriano.

La prima e la quarta opzione vennero subito scartate da Trump, il quale decise di dare ampia discrezionalità ai militari per organizzare una risposta all’inesistente attacco con armi chimiche. Ciò che seguì, com’è noto, fu un attacco con decine di missili Tomahawk lanciati da due navi da guerra USA nel Mediterraneo contro la base aerea siriana di Shayrat, vicina alla città di Homs sotto il controllo governativo.

Per i militari americani, l’operazione fu un successo in quanto provocò danni minimi alle forze armate siriane. Ben 24 missili mancarono il bersaglio, i nove aerei distrutti non erano operativi e, alla fine, le strutture danneggiate sarebbero state ricostruite in pochi giorni. Gli informatori di Hersh definiscono l’operazione come “poco più di una costosa esibizione di fuochi d’artificio” e “uno show alla Trump dall’inizio alla fine”. Alcuni dei consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente sentivano il dovere di “minimizzare una pessima decisione del presidente” che, tuttavia, avevano l’obbligo di portare a termine.

Il pregio principale dell’indagine di Seymour Hersh è senza dubbio quello di dimostrare come il 6 aprile scorso non ci fu alcun attacco con armi chimiche da parte delle forze armate del regime di Damasco. Il tentativo di innescare un’escalation della guerra in Siria da parte americana era peraltro già stato fatto con modalità simili in precedenza, soprattutto nell’estate del 2013, quando Obama sospese un attacco militare contro Assad solo di fronte all’opposizione popolare, del Congresso di Washington e di svariati alleati occidentali. Anche su questa vicenda sarebbe stato Hersh a smentire la versione ufficiale americana con un’indagine pubblicata nel dicembre dello stesso anno.

Se è comprensibile che Hersh si attenga alle conclusioni suggerite dalle proprie fonti e dalle informazioni che ha ottenuto, non del tutto convincente appare però il tentativo di attribuire al solo Trump e alla sua impulsività o ostinazione nel respingere le conclusioni dell’intelligence la responsabilità dell’attacco ordinato contro la base aerea siriana.

Se è innegabile, come in molti avevano subito avuto l’impressione, che l’iniziativa contro il regime siriano era stata messa in atto al preciso di scopo di causare il minimo danno possibile, è altrettanto chiaro che almeno alcune sezioni dell’apparato dello stato americano, e non il solo presidente, intendevano mandare un segnale esplicito a Damasco e, soprattutto, a Mosca e a Teheran. Il risultato può essere stato perciò un qualche compromesso tra posizioni contrastanti.

Come peraltro spiega lo stesso giornalista, la mobilitazione della propaganda di politici e media ufficiali fu decisamente massiccia dopo i fatti del 4 aprile, nonostante non vi fosse alcuna prova della responsabilità siriana. Ciò testimonia, tra l’altro, dell’esistenza di un’ampia “coalizione” favorevole alla guerra diretta contro Assad negli Stati Uniti e, se effettivamente disaccordo ci fu, forse per i timori di un pericoloso allargamento del conflitto, esso rimase per lo più dietro le quinte.

L’indagine di Hersh è accompagnata dalla pubblicazione su Die Welt di una conversazione tra un anonimo consigliere della Casa Bianca e un non meglio precisato militare americano operativo in Medio Oriente. La discussione riprende i temi dell’indagine, ma un passaggio dà un contributo ulteriore che aiuta a comprendere meglio il quadro generale in cui sono avvenuti i fatti raccontati.

A un certo punto, cioè, il “consigliere” parla di “un’agenda nascosta” dietro a quanto è accaduto tra il 4 e il 6 aprile e il tutto avrebbe a che fare con il tentativo “in fin dei conti di colpire l’Iran”, ovvero il principale alleato di Damasco. La precisazione è fondamentale e conferma ancora una volta come l’intero conflitto in Siria e il coinvolgimento americano si spieghino con gli sforzi degli Stati Uniti e dei loro alleati di colpire e possibilmente rovesciare i governi che rappresentano un ostacolo al loro dominio nella regione mediorientale.

Il fatto che quanto accaduto quasi tre mesi fa non sia sfociato in una guerra più ampia, secondo Hersh grazie alla relativa moderazione dei militari e dell’intelligence USA, non significa che ciò non possa accadere nel prossimo futuro. Anzi, quelle vicende sono state una prova generale e le stesse forze che si sono mosse per limitare i danni derivanti dalla decisione di Trump non esiterebbero ad agire contro Damasco e Mosca se le condizioni dovessero permetterlo.

L’ultima indagine di Hersh è stata prevedibilmente ignorata negli Stati Uniti e, quei pochi media che l’hanno citata lo hanno fatto per lo più per screditare il suo lavoro. La solita accusa rivolta a Hersh è quella di basare le sue ricerche su fonti anonime che fornirebbero informazioni non provate.

Ferma restando la necessità di proteggere le proprie fonti, l’autorevolezza e la credibilità di Hersh sono dimostrate da decenni di impeccabile lavoro investigativo, a cominciare dalla rivelazione del massacro dei militari americani a My Lai, in Vietnam, nel 1969. Quelle stesse fonti anonime giudicate inattendibili nelle indagini di Hersh, inoltre, non sono mai messe in discussione dagli ambienti giornalistici ufficiali quando servono a propagandare le posizioni dell’apparato di potere USA attraverso imbeccate a giornali come New York Times o Washington Post.

di Mario Lombardo

Con una manovra politica insolita, questa settimana la coalizione di maggioranza nel parlamento romeno ha approvato una mozione di sfiducia contro il proprio governo, sbloccando una situazione che aveva messo uno contro l’altro il primo ministro, Sorin Grindeanu, e il suo compagno di partito, il leader dei Social Democratici (PSD), Liviu Dragnea.

L’evoluzione della nuova crisi politica in Romania era stata per molti inaspettata. La rottura tra Grindeanu e Dragnea si era consumata la scorsa settimana dopo che 25 dei 26 ministri del governo di Bucarest avevano rassegnato le dimissioni per costringere il primo ministro ad abbandonare il proprio incarico. Parallelamente, i vertici del PSD avevano anche espulso Grindeanu dal partito.

Quest’ultimo aveva però puntato i piedi e denunciato il golpe ai suoi danni orchestrato dalla leadership del partito, così che mercoledì è stato necessario un imbarazzante voto formale in parlamento per ratificare il cambio alla guida dell’esecutivo romeno.

La presentazione di una mozione di sfiducia da parte della stessa maggioranza di governo è una novità assoluta per la Romania e riflette il durissimo scontro in atto all’interno del PSD. Mercoledì in parlamento, i due leader socialdemocratici hanno spiegato le proprie ragioni prima del voto. Il primo ministro ha ricordato come fino a pochi mesi fa i suoi rapporti con Dragnea fossero buoni e il numero uno del partito avesse approvato in pieno sia la composizione dell’esecutivo sia il programma di governo.

Grindeanu era stato la seconda scelta di Dragnea dopo che il presidente conservatore romeno, Klaus Iohannis, a fine dicembre aveva respinto la prima candidata del PSD, Sevil Shaidehh, con ogni probabilità a causa delle simpatie espresse dal marito di origine siriana per il regime di Assad.

Sia la Shaidehh che Grindeanu erano dati per fedelissimi di Dragnea, tanto da essere considerati entrambi dei fantocci nelle mani del leader socialdemocratico, impossibilitato ad assumere in prima persona l’incarico di primo ministro per via di una condanna per frode elettorale.

Dopo il successo piuttosto netto del PSD nelle elezioni del dicembre scorso, il governo di coalizione con l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici (ALDE) di centro-destra aveva subito incontrato un pesante ostacolo nei primi mesi del nuovo anno. A febbraio, l’esecutivo era sopravvissuto a una mozione di sfiducia dell’opposizione, scaturita dalle massicce proteste di piazza contro un decreto di emergenza che, tra l’altro, garantiva un’amnistia di fatto ai politici corrotti del paese balcanico.

Del provvedimento, successivamente ritirato, avrebbe beneficiato anche lo stesso Dragnea per tornare a ricoprire incarichi di governo, ma si era alla fine risolto in un fallimento, vista soprattutto l’attitudine della popolazione romena nei confronti di una classe politica considerata in gran parte corrotta e al servizio delle classi privilegiate.

Lo stop all’amnistia deve avere dunque provocato un deterioramento nei rapporti tra il premier Grindeanu e Dragnea, così da spingere il leader del PSD a tramare per un avvicendamento alla guida del governo in modo da disporre di un sostituto più facilmente controllabile.

Ufficialmente, Dragnea ha spiegato che le ragioni della sua iniziativa hanno a che fare con l’incapacità del gabinetto di implementare le “riforme” previste dal programma del partito. Mercoledì in aula, Dragnea ha definito “piuttosto buona” la performance del governo Grindeanu, aggiungendo che, tuttavia, ciò “non è abbastanza”.

La stampa romena ha fatto notare come appena un mese fa Dragnea avesse espresso la propria soddisfazione per l’operato del governo. Un parere positivo, quello del leader socialdemocratico, dovuto anche ai dati economici diffusi nel mese di maggio che indicavano la crescita della Romania nel primo trimestre dell’anno (5,6%) come la più sostenuta di tutta l’Unione Europea.

Dietro a questi numeri vi è però una realtà economica e sociale ben diversa e il sostanziale malcontento diffuso tra la maggioranza della popolazione romena, esploso solo pochi mesi fa contro il governo Grindeanu, può avere convinto Dragnea a muoversi contro il primo ministro.

La vita dei governi romeni di qualsiasi orientamento è stata d’altra parte breve negli ultimi anni, caratterizzati da numerose manifestazioni di piazza. Già nel corso del 2015 il governo socialdemocratico dell’allora premier Victor Ponta era stato costretto alle dimissioni, dopo che le accuse di corruzione si erano saldate alla rabbia popolare dovuta a un incendio scoppiato in una discoteca di Bucarest, nel quale erano morte 64 persone.

Messo da parte Ponta, il presidente Iohannis aveva nominato a capo di un governo tecnico l’ex commissario europeo Dacian Ciolos, ma, dopo appena un anno, le dure politiche di austerity implementate da quest’ultimo avevano riconsegnato la maggioranza parlamentare al PSD.

Dietro alle vicende di questi giorni c’è comunque un’accesa lotta di potere tra le fazioni del Partito Social Democratico romeno. La mozione di sfiducia di mercoledì è stata approvata con 241 voti a favore e appena 7 contrari, con le opposizioni che si sono astenute, ma per molti osservatori gli equilibri nel partito potrebbero non essere così netti.

Grindeanu era stato appoggiato ad esempio dall’ex primo ministro Ponta, tra i più accesi oppositori di Dragnea, ed entrambi sembravano poter essere in grado di raccogliere un certo numero di consensi nel partito tra i colleghi più a disagio per i metodi autoritari dell’attuale leader.

Il tentativo di salvare il governo è invece evidentemente fallito, anche se la maggior parte di coloro che hanno votato la sfiducia in aula può averlo fatto per evitare una spaccatura nel PSD. La situazione precaria nel paese e l’aggravarsi delle rivalità internazionali, che si riflettono in maniera particolare sull’area balcanica, non lasciano comunque intravedere un percorso sereno per il prossimo governo, così che la resa dei conti interna al partito di maggioranza potrebbe essere soltanto rimandata.

Alcuni, addirittura, prevedono un difficile percorso parlamentare per il prossimo governo, con la maggioranza che ha sostenuto finora Grindeanu in forte dubbio a causa di possibili defezioni.

Intanto, il presidente Iohannis ha fissato per lunedì prossimo l’inizio delle consultazioni con i rappresentanti dei partiti romeni. Dragnea, da parte sua, ha fatto sapere di avere già selezionato quattro possibili candidati alla carica di primo ministro, tra cui, secondo la stampa locale, ci sarebbero il vice-governatore della banca centrale, Florin Georgescu, e l’ex ministro dell’Interno, Carmen Dan.


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