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di Michele Paris
La caccia alle streghe in corso negli Stati Uniti sui rapporti tra il presidente Trump ed esponenti del governo russo e sulle presunte interferenze di quest’ultimo nelle elezioni americane dello scorso novembre ha registrato un ulteriore capitolo in questo inizio di settimana che sembra prefigurare il precoce arenarsi dei progetti distensivi con Mosca della nuova amministrazione Repubblicana.
Un nuovo fronte di polemiche è subito scoppiato in seguito alla notizia di un’iniziativa piuttosto insolita presa recentemente dal presidente della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, Devin Nunes. Il deputato Repubblicano della California aveva cioè incontrato alla Casa Bianca fonti presumibilmente dell’intelligence americana che gli avevano fornito documenti attestanti l’intercettazione dello stesso Trump e di membri del suo staff da parte dell’apparato della sicurezza nazionale.
L’incontro segreto nella sede della presidenza degli Stati Uniti era avvenuto il giorno prima di un’altra visita alla Casa Bianca di Nunes. In questa seconda occasione, però, il numero uno della commissione Servizi Segreti della Camera aveva dato egli stesso notizia del suo incontro con Trump, al quale aveva appunto comunicato l’esistenza di un piano di sorveglianza nei suoi confronti.
Quest’ultima notizia faceva seguito al “tweet” del presidente del 4 marzo in cui sosteneva che Obama aveva dato ordine di mettere sotto controllo i telefoni e i dispostivi elettronici della Trump Tower a New York. In un’audizione proprio alla commissione Servizi Segreti della Camera la settimana scorsa, il direttore dell’FBI, James Comey, aveva però affermato di non avere informazioni sulla possibile sorveglianza del quartier generale di Trump.
Nunes, da parte sua, aveva informato Trump dell’esistenza di intercettazioni “casuali”, cioè le comunicazioni dell’allora presidente eletto e di membri del suo staff erano finite “accidentalmente” nella rete della NSA o dell’FBI nel corso delle normali attività di sorveglianza che riguardano cittadini stranieri.
Il caos attorno a Nunes è poi aumentato nella giornata di martedì, quando è circolata la notizia che la sua visita segreta alla Casa Bianca rientrava in un piano, appoggiato dall’amministrazione Trump, per impedire all’ex ministro della Giustizia pro tempore nominata da Obama, Sally Yates, di testimoniare contro il presidente davanti alla commissione Servizi Segreti della Camera.
La questione delle intercettazioni ai danni di Trump avrebbe cioè permesso a Nunes di rimandare l’audizione della Yates, licenziata a fine gennaio per essersi rifiutata di sostenere in tribunale il bando anti-musulmani del nuovo presidente e già protagonista dell’indagine del dipartimento di Giustizia contro l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn. Quest’ultimo era stato costretto a dimettersi poco dopo la sua nomina a causa di una serie di incontri con l’ambasciatore russo a Washington nei quali avrebbe discusso della possibile cancellazione delle sanzioni contro Mosca all’insaputa della Casa Bianca.
La questione centrale che ha ad ogni modo scatenato un polverone sullo stesso Nunes in questi giorni è legata al fatto che il deputato della California avrebbe compromesso l’imparzialità dell’indagine che la commissione da lui guidata sta conducendo sul “Russiagate”. Il suo incontro con Trump per discutere delle intercettazioni all’insaputa dei membri della commissione e, ora, il precedente blitz alla Casa Bianca hanno spinto i leader Democratici a chiedere che Nunes si chiami fuori dall’indagine o presenti le proprie dimissioni.
Nunes è visto da tempo con sospetto dai protagonisti della crociata anti-russa al Congresso di Washington, poiché viene considerato un fedelissimo di Trump, con il quale aveva tra l’altro collaborato nella transizione che lo avrebbe portato alla Casa Bianca.
L’esclusione di Nunes dall’indagine della commissione Servizi Segreti della Camera favorirebbe così le inclinazioni anti-russe di molti suoi membri, non solo Democratici. Oppure, se anche l’attuale presidente della commissione dovesse rimanere al suo posto, l’indagine della Camera risulterebbe comunque screditata dopo gli eventi delle ultime ore.
Ciò non significherebbe un passo indietro nella campagna contro Trump e Mosca, visto che altre due indagini sono tuttora in corso, una condotta dall’FBI e l’altra dalla commissione Servizi Segreti del Senato, la quale inaugurerà le proprie audizioni nella giornata di giovedì.
Al di là delle motivazioni di carattere reazionario degli oppositori di Trump, la doppia visita di Devin Nunes alla Casa Bianca indica l’esistenza di una probabile azione coordinata con la nuova amministrazione per contrastare l’offensiva di coloro che a Washington intendono ostacolare la relativa distensione con la Russia voluta dal presidente Repubblicano.
Le perplessità sulla condotta di Nunes sono poi favorite dalla quasi incredibile affermazione del portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, sul fatto che lo staff del presidente non era al corrente della prima visita del deputato della California. Nunes, inoltre, si è rifiutato categoricamente di rivelare quali siano le sue fonti delle informazioni sulla sorveglianza ai danni di Trump, alimentando gli interrogativi sul conflitto in corso all’interno dei vari organi dello stato.
L’altra vicenda emersa questa settimana riguarda invece il genero di Trump, Jared Kushner, nominato consigliere presidenziale dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Il marito della figlia primogenita di Trump, Ivanka, è finito nella disputa in corso a Washington per avere incontrato lo scorso anno alti dirigenti della banca pubblica russa VEB, sottoposta alle sanzioni americane.
Kushner ha già acconsentito a rispondere alle domande della commissione Servizi Segreti del Senato sulla questione, anche se gli stessi media americani che stanno propagandando la campagna anti-russa hanno dovuto ammettere che incontri tra esponenti del governo USA e manager stranieri sottoposti a sanzioni non sono insoliti né illegali.
Kushner, oltretutto, avrebbe discusso con il numero uno di VEB, Sergey Gorkov, non in qualità di futuro consigliere del presidente ma come proprietario dell’omonima compagnia di famiglia che opera nel settore della speculazione immobiliare.
La rivelazione è stata immediatamente sfruttata dalla stampa ufficiale per mantenere alta la pressione su Trump in relazione ai rapporti con la Russia. Tutt’al più, però, gli incontri di Kushner dimostrano l’inclinazione del clan Trump a utilizzare i pubblici uffici per promuovere i propri interessi privati, anche se questo aspetto della nuova amministrazione ha ricevuto decisamente meno attenzione dei presunti legami con il governo di Mosca.
Nonostante le prove dell’eventuale ingerenza del Cremlino nelle dinamiche elettorali e politiche americane continuino a essere di fatto inesistenti, la campagna orchestrata dalle sezioni dello stato che considerano la Russia come il principale ostacolo al dispiegamento degli interessi USA nel mondo sembra dare i primi frutti. Da qualche tempo, la retorica dell’amministrazione Trump ha assunto infatti toni difficilmente conciliabili con la promessa del presidente di ristabilire relazioni cordiali con Mosca.
Significativa è stata la dichiarazione con cui il capo ufficio stampa della Casa Bianca ha aperto lunedì il suo briefing quotidiano. Spicer ha espresso la “ferma condanna” del presidente americano degli arresti di centinaia di manifestanti anti-governativi in Russia nel fine settimana, tra cui figura Alexei Navalny, oppositore di Putin tra i più glorificati in Occidente.
Alcuni giornali americani hanno fatto notare come il presidente russo sia particolarmente sensibile alle critiche dirette contro la situazione politica interna, così da rendere difficile pensare a un gesto non studiato con attenzione dalla Casa Bianca.
Il sito web Politico, sia pure in maniera tutt’altro che disinteressata, è giunto a ipotizzare la “fine della luna di miele tra Putin e Trump”, anche se ha ricordato che la politica ufficiale della nuova amministrazione nei confronti di Mosca sarà formulata in maniera compiuta solo dopo la ratifica delle nomine ancora sospese dei diplomatici addetti agli uffici che si occupano della Russia al Pentagono e al dipartimento di Stato.
Un altro segnale del possibile ripiegamento di Trump sulle relazioni con Mosca potrebbe essere il recente invito fatto dal presidente alla commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti ad aprire un’indagine anche sugli interessi della famiglia Clinton in Russia.
Questo argomento sta rimbalzando su vari giornali e siti web conservatori, come ad esempio la National Review, che ha equiparato gli affari con la Russia del clan Trump a quelli della Fondazione Clinton nello stesso paese. Anche Trump e i suoi sostenitori, insomma, sembrano essere intenzionati a dare credito alla tesi che rapporti o legami economico-finanziari con entità russe siano illegittimi e degni di una qualche indagine ufficiale.
Anche da Mosca sembra trapelare peraltro una certa impazienza nei confronti degli Stati Uniti. Sabato scorso, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha criticato duramente le sanzioni da poco adottate da Washington contro compagnie che fanno affari con la Corea del Nord, tra le quali se ne contano otto con sede in Russia.
Il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, ha poi condannato apertamente le recenti stragi di civili causate dai bombardamenti americani a Mosul nel corso dell’offensiva per liberare la città irachena dallo Stato Islamico (ISIS).
In definitiva, il relativo ottimismo per una possibile distensione tra Mosca e Washington con l’approdo di Trump alla Casa Bianca, dopo le tensioni alimentate dall’amministrazione Obama, sta rapidamente sfumando. Se molte delle questioni in sospeso tra le due potenze nucleari restano ancora da sciogliere, la caccia alle streghe in atto a Washington sembra tuttavia avere raggiunto almeno parzialmente il proprio scopo, quello cioè di avvelenare i rapporti bilaterali, complicando i piani strategici moderatamente filo-russi della nuova amministrazione.
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di Michele Paris
A due anni esatti dall’inizio dell’aggressione militare saudita contro lo Yemen, il governo americano di Donald Trump starebbe valutando la concreta possibilità di aumentare il proprio impegno a fianco degli alleati del Golfo Persico in un conflitto che ha già ridotto al disastro il paese più povero del mondo arabo.
La stampa americana ha infatti rivelato l’esistenza di un piano allo studio del Pentagono per cancellare le restrizioni stabilite dall’amministrazione Obama all’uso della forza militare in Yemen a sostegno dello sforzo bellico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.
La precedente amministrazione Democratica aveva comunque avallato un’impresa criminale condotta principalmente dai propri alleati, partecipando al conflitto tramite la fornitura di armi alle forze armate saudite e degli Emirati. Allo stesso tempo, Washington ha assicurato a queste ultime informazioni di intelligence per facilitare l’individuazione di obiettivi da colpire durante incursioni aeree che interessano frequentemente edifici e strutture civili.
Ciò che intende fare ora l’amministrazione Trump è andare oltre le iniziative di Obama, assegnando maggiore libertà ai militari americani nella conduzione di un conflitto nel quale fino a pochi mesi fa il governo USA aveva cercato di limitare il proprio impegno, visto il potenziale destabilizzante per la regione e il continuo ripetersi di episodi cruenti facilmente identificabili come crimini di guerra.
Oltre a garantire il sostegno logistico e di intelligence ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, gli Stati Uniti erano intervenuti finora in Yemen anche nel quadro delle operazioni “anti-terrorismo”, colpendo prevalentemente con i droni presunti membri dell’organizzazione fondamentalista “Al-Qaeda nella Penisola Arabica “ (AQAP).
Anche su questo fronte, peraltro, l’accelerazione imposta dall’amministrazione Trump ha già lasciato il segno, come conferma un’operazione condotta alla fine di gennaio dalle forze speciali USA che aveva provocato una trentina di morti, tra cui un numero imprecisato di donne e bambini.
Il maggiore coinvolgimento americano nella guerra in Yemen rientrerebbe nel processo di revisione della strategia USA in questo paese e che sarà ultimato solo nelle prossime settimane. La notizia di questi giorni riguarda per il momento una proposta che il segretario alla Difesa, generale James Mattis, avrebbe presentato alla Casa Bianca per dare il via libera alla partecipazione dei militari statunitensi a un’operazione guidata dagli Emirati Arabi e destinata alla conquista della città portuale di Hodeida, attualmente controllata dai ribelli sciiti Houthi.
Questa località si affaccia sul Mar Rosso ed è il principale punto d’ingresso nel paese sia degli aiuti umanitari sia delle forniture destinate agli Houthi. Hodeida è da tempo al centro delle mire degli Emirati, poiché soprattutto da qui gli Houthi metterebbero in pericolo la “libertà di navigazione” nella via d’acqua che separa la penisola arabica dal continente africano.
Già lo scorso mese di ottobre, gli Stati Uniti erano stati protagonisti di una rara operazione militare direttamente contro gli Houthi. Questi ultimi erano stati accusati di avere lanciato missili contro la nave da guerra americana “Mason”, di cui almeno uno proveniente proprio da Hodeida.
Il fatto che il primo passo verso un possibile allargamento dell’impegno militare USA abbia come teatro quest’area dello Yemen testimonia dell’importanza strategica del tratto di mare che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e quest’ultimo con l’Oceano Indiano. Da qui transita infatti una quota consistente dei traffici mondiali, in particolare quelli relativi ai prodotti petroliferi.
L’interesse delle potenze regionali e di Washington per un paese impoverito come Yemen dipende in generale proprio da questo fatto e ciò si intreccia con il ruolo che viene attribuito all’Iran nel sostenere la ribellione degli Houthi.
Gli Stati Uniti e le monarchie assolute del Golfo continuano a puntare il dito contro la Repubblica Islamica, responsabile di volere estendere la propria influenza sullo Yemen, alimentando parallelamente il sentimento anti-sunnita. Con ogni probabilità, il ruolo di Teheran in Yemen descritto da Riyadh è però decisamente esagerato, ma l’amministrazione Trump ha da subito sposato la versione saudita, nel quadro della promessa di annullare i timidi passi fatti dall’amministrazione Obama verso una relativa distensione dei rapporti tra USA e Iran.
Gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita avevano più volte chiesto un maggiore impegno agli Stati Uniti nell’aggressione contro lo Yemen, ma Obama aveva sempre limitato il contributo del proprio paese. Le motivazioni dell’ex presidente non erano dovute a scrupoli umanitari, viste anche le numerose stragi commesse negli ultimi due anni e mai condannate da Washington, ma al tentativo di limitare al minimo il coinvolgimento americano in un conflitto visto con orrore dall’opinione pubblica internazionale, malgrado il sostanziale disinteresse dei media.
Questi timori, e la possibilità sia pure remota di un’imputazione per crimini di guerra, sembrano dividere anche l’amministrazione Trump, nonostante l’allentamento delle restrizioni ai militari americani in Yemen sarebbe coerente con iniziative simili già prese dalla Casa Bianca in altri teatri di guerra internazionali. Fonti governative citate dal Washington Post sostengono infatti che all’interno dell’amministrazione Repubblicana ci sia “certamente un ampio disaccordo” sulla nuova strategia yemenita.
Il conflitto in Yemen era stato scatenato nel marzo del 2015 dall’Arabia Saudita per fermare l’avanzata dei ribelli Houthi che nel settembre precedente avevano preso possesso della capitale, Sana’a, costringendo alla fuga il presidente, Abd Rabbuh Mansour Hadi. Gli Houthi denunciavano da tempo la loro esclusione dal quadro politico del paese, creato grazie a un accordo negoziato da Washington e Riyadh per mettere fine all’instabilità seguita alle proteste popolari di massa del 2011.
Alle questioni settarie, evidenti dalle rivendicazioni degli Houthi, si sono poi sovrapposte le lotte di potere all’interno della classe politica indigena. La rivolta degli Houthi aveva costretto alla fuga in Arabia Saudita il presidente Hadi e il suo gabinetto, mentre a fianco dei nuovi padroni dello Yemen si era schierato il deposto presidente, Ali Abdullah Saleh, anch’egli ex burattino di Washington e Riyadh.
Dopo due anni di guerra segnati da disparità apparentemente enormi tra le parti in conflitto, gli Houthi continuano a conservare il controllo di ampie parti del paese arabo. Non solo, l’aggressione saudita e i numerosi massacri di civili che sono seguiti hanno consentito ai ribelli sciiti di raccogliere consensi in fasce più ampie della popolazione yemenita.
Proprio in coincidenza con il secondo anniversario dell’inizio delle operazioni militari, domenica centinaia di migliaia di manifestanti anti-sauditi si sono riversati nelle strade della capitale per chiedere la fine dei bombardamenti. A conferma poi che il processo di pace promosso dalle Nazioni Unite è ormai in uno stato comatoso, un tribunale istituito dai ribelli Houthi ha decretato la condanna a morte in absentia per alto tradimento del presidente Hadi in esilio e di altri sei membri del suo governo.
La guerra in Yemen continua anche a suscitare l’allarme di numerose organizzazioni umanitarie, sia per i crimini commessi da entrambe le parti sia per le condizioni di una popolazione allo stremo. Senza dubbio, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i loro alleati che partecipano alle operazioni militari hanno le responsabilità maggiori delle stragi registrate in questi due anni e della situazione interna di crisi assoluta. Washington, soprattutto, fornendo sostegno alle monarchie del Golfo impedisce di fatto l’avvio di un serio negoziato di pace, così come una qualche de-escalation delle violenze e l’accesso nel paese di quantità adeguate di cibo, medicinali e aiuti umanitari.
Le Nazioni Unite hanno definito l’emergenza in Yemen come la più grave tra quelle odierne nel mondo, con milioni di persone senza accesso a beni di prima necessità. Per l’organizzazione umanitaria Oxfam, una carestia di massa è più che probabile nei prossimi mesi, dovuta soprattutto al blocco navale imposto dall’Arabia Saudita, ufficialmente per impedire che forniture di equipaggiamenti militari giungano agli Houthi.
Un recente rapporto di UNICEF ha evidenziato infine come già oggi 2,2 milioni di bambini soffrano di “malnutrizione acuta” in Yemen e abbiano perciò bisogno di urgente assistenza, mentre il numero di minori uccisi nel conflitto è aumentato del 70% nell’ultimo anno. I dati ufficiali parlano di oltre 1.500 bambini uccisi a causa della guerra, cui vanno aggiunti 2.450 feriti o mutilati, 235 vittime di rapimento e più di 1.570 reclutati come combattenti.
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di Michele Paris
La progressiva implementazione delle decisioni sulla Siria della nuova amministrazione Trump sembra avere impresso una svolta a un conflitto entrato ormai nel settimo anno. Gli effetti delle iniziative già più o meno adottate e di quelle che si prospettano nel prossimo futuro si sono tradotti in un’impennata delle vittime civili in Medio Oriente, proprio mentre i colloqui di pace stanno per riaprirsi quasi senza aspettative a Ginevra e la cosiddetta coalizione anti-ISIS si è riunita a Washington senza i rappresentanti delle forze che i fondamentalisti islamici stanno realmente combattendo sul campo.
Il summit nella capitale americana ha avuto un qualche rilievo soprattutto per le dichiarazioni del segretario di Stato, Rex Tillerson. L’ex amministratore delegato di ExxonMobil ha chiarito come gli Stati Uniti non intendano abbandonare il proprio ruolo in Medio Oriente e, con buona pace di coloro che si attendevano una de-escalation della guerra in Siria dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, come siano allo studio manovre che rischiano seriamente di aggravare il conflitto in corso.
Tillerson è tornato a ipotizzare la creazione di “zone di sicurezza” in territorio siriano, controllate dai militari americani o dalle milizie armate che si battono contro il regime di Damasco, ufficialmente per facilitare il ritorno dei rifugiati nelle loro abitazioni.
Questa misura circola da tempo tra gli ambienti USA che da più di sei anni cercano di rovesciare il governo di Assad. La fazione del governo americano che faceva capo all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva promosso negli anni scorsi l’istituzione di aree off-limits alle forze del regime o all’ISIS, così come il presidente turco Erdogan aveva a lungo cercato di ottenere il via libera dall’amministrazione Obama per questo stesso progetto.
Tillerson, riprendendo una promessa che lo stesso Trump aveva fatto subito dopo il suo insediamento, è ora tornato sull’argomento, tralasciando di far notare come una misura simile sia del tutto illegale e rischi di innescare un confronto militare diretto con le forze russe o di Damasco, dal momento che, come minimo, sarebbe necessario creare e far rispettare una “no-fly zone” nei cieli siriani.
Nel comunicato finale seguito al vertice della coalizione anti-ISIS non è stata comunque citata la possibile creazione di queste “zone di sicurezza”. Tuttavia, a Washington se ne continua a discutere seriamente. In queste aree, dopo avere cancellato la presenza dell’ISIS, le forze “ribelli” – curde o sunnite – potrebbero riorganizzarsi grazie ai propri sponsor internazionali e lanciarsi una nuova fase della guerra, diretta esclusivamente contro il regime di Assad.
Al di là delle forme che prenderà a breve il rilancio dell’impegno degli USA nel conflitto in Siria, il segretario di Stato di Trump ha assicurato che la presenza militare americana in questo paese e in Iraq, ma anche ovunque il “califfato” dovesse radicarsi, resterà una realtà non solo fino alla sconfitta di quest’ultimo ma anche in seguito per contribuire ai processi di “ricostruzione” che si renderanno necessari.
Delle conseguenze della nuova attitudine della Casa Bianca si è avuta un’anticipazione proprio mentre andava in scena la riunione di Washington. La stampa americana ha raccontato di come gli USA abbiano avviato a partire da martedì un’operazione militare che non ha precedenti in Siria, inviando uomini dei reparti speciali a sostegno delle Forze Democratiche della Siria, all’interno delle quali prevalgono le milizie curde, “al di là delle linee dell’ISIS”.
L’operazione rientra nel quadro del progettato assalto alla capitale dell’ISIS in Siria, Raqqa, e si sta concentrando in questa fase iniziale su una diga sul fiume Eufrate nelle mani degli uomini del “califfato”, allo scopo di aprire una via di penetrazione da occidente verso la città. L’attacco sembra essere condotto con un imponente dispiegamento di forze, tanto che gli stessi vertici militari hanno faticato a ribadire la solita versione ufficiale, cioè che i soldati americani impegnati sul campo hanno un semplice ruolo di “consiglieri” in appoggio delle milizie curde e sunnite.
Il New York Times ha spiegato che la strategia USA in Siria assomiglia sempre più a quella in Iraq, dove da mesi è in corso una durissima battaglia per la liberazione della città di Mosul dalle forze dell’ISIS. Anche in Siria, cioè, gli Stati Uniti stanno sempre più facendo ricorso a forze convenzionali con incarichi di combattimento a fianco delle milizie locali che, almeno ufficialmente, dovrebbero condurre la gran parte delle operazioni.
Il dibattito sull’intensificazione dell’impegno americano in Siria continua in ogni caso a evitare il punto più importante della questione, vale a dire la totale illegalità delle operazioni militari in corso. L’amministrazione Trump sta in sostanza accelerando un’offensiva iniziata da Obama e che già non aveva alcuna base legale legittima, se non quella creata appositamente dallo stesso governo americano.
È importante inoltre sottolineare come il rinnovato sforzo militare USA sia già drammaticamente visibile nonostante Trump non abbia ancora formulato in modo ufficiale la nuova politica relativa al conflitto in Siria. Gli sviluppi di questi giorni sarebbero infatti solo la conseguenza dell’allentamento delle regole a cui devono sottostare i militari nel condurre le operazioni sul campo.
La Casa Bianca ha cioè cancellato le limitazioni decise da Obama e che intendevano limitare le vittime civili, anche se spesso in maniera del tutto inefficace. Il Pentagono ha ora la facoltà di agire senza ricevere l’autorizzazione dell’autorità civile e senza la necessità di adoperarsi affinché le operazioni non si risolvano in stragi di innocenti.
Il bilancio dei civili massacrati in Siria dalle bombe americane nelle ultime settimane è perciò salito vertiginosamente. L’episodio più recente è stato registrato martedì, quando i jet americani hanno distrutto una scuola nell’area della città di Raqqa che ospitava un centinaio di rifugiati. Le prime notizie davano più di 30 morti, ma il numero delle vittime potrebbe essere in realtà molto più alto.
Solo qualche giorno prima, un’altra incursione nella provincia di Idlib aveva ucciso più di 40 civili dopo che era stata colpita una moschea. I militari americani avevano sostenuto che il bombardamento aveva interessato un edificio vicino, dove si trovavano miliziani qaedisti, ma le testimonianze dei residenti e delle organizzazioni umanitarie hanno smentito questa versione, costringendo il Pentagono ad aprire un’indagine sull’accaduto.
Oltre alle conseguenze per la popolazione civile, il maggiore coinvolgimento americano in Siria, destinato a crescere ulteriormente nelle prossime settimane, rischia anche di allargare un conflitto già complicatissimo. La nuova strategia di Trump dovrà fare i conti ad esempio con le resistenze della Turchia ad accettare come legittime le forze curde, a cui gli Stati Uniti sembrano essere intenzionati ad assegnare un ruolo ancora più importante nel conflitto.
Soprattutto, però, la maggiore presenza e intraprendenza americana in Siria minaccia di scontrarsi con le operazioni militari della Russia in difesa del regime di Assad. Nonostante Trump avesse prospettato una qualche collaborazione con Mosca nella lotta all’ISIS anche in Siria, finora su questo fronte non sembrano esserci stati particolari progressi.
Anzi, gli sviluppi degli ultimi due mesi indicano piuttosto l’aggravamento del rischio di un confronto militare diretto tra le due principali potenze coinvolte in una guerra che continua a martoriare il paese mediorientale.
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di Mario Lombardo
Il misero spettacolo offerto questa settimana dal Congresso americano, nel corso delle prime audizioni pubbliche sul “caso” della presunta interferenza russa nelle elezioni presidenziali del novembre 2016, ha confermato come negli Stati Uniti sia in atto un’autentica caccia alle streghe, basata sul nulla, per spingere la nuova amministrazione Trump verso lo scontro aperto con il Cremlino.
Le testimonianze rilasciate alla commissione servizi segreti della Camera dei Rappresentanti dai direttori di FBI e NSA, James Comey e Michael Rogers, hanno generato un interesse enorme nella stampa ufficiale americana. Le parole di entrambi sono state però sfruttate quasi soltanto per alimentare un’operazione propagandistica in atto da tempo e che non ha finora trovato alcun reale riscontro nella realtà dei fatti né, peraltro, nelle stesse audizioni di lunedì.
Il punto centrale delle deposizioni raccolte dai deputati americani è stato senza dubbio la rivelazione da parte del numero uno dell’FBI dell’esistenza di un’indagine ufficiale sulle possibili “collusioni” tra Donald Trump, o membri del suo staff, e agenti del governo russo al fine di influenzare l’esito del voto per la Casa Bianca.
Questa vicenda ha prevedibilmente occupato quasi per intero un’audizione durata più di cinque ore. Al contrario, l’altra questione all’ordine del giorno, l’accusa di Trump di essere stato intercettato in campagna elettorale in seguito a un ordine diretto dell’ex presidente Obama, si è risolta in pochi minuti dopo che lo stesso Comey ha assicurato di non avere elementi per confermare quanto sostenuto per la prima volta lo scorso 4 di marzo in un “tweet” scritto dal miliardario newyorchese.
Le modalità con cui le due vicende sono state trattate lunedì in un’aula del Congresso di Washington riflettono l’attitudine dei media “mainstream” in queste settimane. L’accusa di Trump è stata cioè scartata rapidamente come una delle solite uscite bizzarre del neo-presidente, mentre le presunte operazioni di hackeraggio russe negli USA sarebbero del tutto reali e rappresenterebbero una seria minaccia alla democrazia americana.
In realtà, per entrambe le accuse non esiste una sola prova concreta presentata pubblicamente che ne attesti l’attendibilità. Lo stesso Comey ha ricalcato in sostanza il copione della stampa nel suo intervento, limitandosi a interpretare in maniera ridicola il pensiero e le azioni del presidente russo Putin per spiegare l’intervento del suo governo nelle elezioni, così da favorire Trump o, più precisamente, per danneggiare la candidatura di Hillary Clinton.
Il tono surreale dell’audizione di lunedì è stato dato dal discorso di apertura del numero uno dell’opposizione nella commissione servizi segreti, il deputato Democratico della California Adam Schiff. Quest’ultimo ha riassunto in pochi minuti le teorie cospirazioniste fatte proprie dal suo partito per offrire un resoconto dell’interferenza russa nel processo elettorale americano basato su una serie di “fake news”, ampiamente screditate o smentite da analisi indipendenti, o su rivelazioni e rapporti provenienti da non meglio definite fonti all’interno dell’intelligence USA.
La natura artificiosa e del tutto politica del circo messo in piedi in particolare dal Partito Democratico contro Trump è provata anche dal fatto che, come hanno spiegato i giornali americani, l’FBI è solito rivelare l’esistenza di indagini in corso solo “in rare circostanze”.
Per il suo direttore, quello relativo ai legami tra gli uomini di Trump ed esponenti del governo di Mosca sarebbe un caso di “pubblico interesse” che giustifica la rivelazione delle indagini. Piuttosto, l’iniziativa di Comey è motivata dal fatto che le accuse rivolte a Trump e al Cremlino, non avendo alcun fondamento nella realtà, necessitano di un’ampia risonanza pubblica attraverso l’azione coordinata dei media, dei politici e, ora, dei vertici della sicurezza nazionale, la cui indipendenza e imparzialità viene data per scontata.
L’FBI, così come la NSA o la CIA, è invece tutt’altro che estraneo alle lotte politiche all’interno della classe dirigente d’oltreoceano. L’attuale direttore Comey, d’altra parte, proprio alla vigilia delle presidenziali di novembre era stato protagonista di un’uscita pubblica, giudicata universalmente inopportuna e contraria al tacito impegno dell’FBI di non influenzare il processo elettorale.
Singolarmente e a conferma dell’esistenza di uno scontro durissimo nel cuore dei poteri dello stato, in quell’occasione l’intervento di Comey aveva con ogni probabilità penalizzato Hillary Clinton, a carico della quale aveva annunciato l’esistenza di un’indagine per l’uso di un server di posta elettronica non governativo durante il mandato della ex first lady alla guida del dipartimento di Stato.
Lunedì, il direttore dell’FBI non ha in effetti aggiunto nulla di concreto alle teorie anti-russe che circolano a Washington, ma ha anzi ammesso in sostanza che eventuali responsabilità di Mosca e dello stesso Trump o dei suoi fedelissimi sono tutte da indagare. Quali siano i fatti o gli indizi che giustifichino un’iniziativa in questo senso a carico del presidente degli Stati Uniti continuano però a non essere spiegati.
Comey, oltretutto, ha ammesso che non esistono prove del fatto che eventuali cyber-operazioni russe abbiano contribuito a modificare l’esito del voto che ha portato Trump alla Casa Bianca. Questa affermazione, assieme agli altri elementi della vicenda, solleva ancor più l’interrogativo su quale sia esattamente il contenuto delle accuse rivolte alla Russia.
A ben vedere, le accuse di interferenza nelle elezioni sembrano essere tutt’al più scaturite da normali operazioni di intelligence debitamente ingigantite e che senza dubbio Mosca conduce ai danni degli Stati Uniti, così come però questi ultimi fanno, con ogni probabilità in maniera più aggressiva, nei confronti della Russia e di altri paesi.
L’intera operazione montata contro l’amministrazione Trump serve a impedire qualsiasi forma di disgelo tra Washington e Mosca, in modo da garantire che gli orientamenti strategici anti-russi promossi dall’apparato militare e della sicurezza nazionale americano, rappresentato dal Partito Democratico e da una parte di quello Repubblicano, continuino a essere al centro della politica estera americana, così come lo sono stati negli otto anni di presidenza Obama.
Il clima da maccartismo, alimentato da iniziative come quella inaugurata lunedì dalla commissione servizi segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha inoltre l’obiettivo di ostacolare il coagularsi di un’opposizione popolare progressista contro l’agenda ultra-reazionaria dell’amministrazione Trump, in modo da indirizzarla verso una campagna anti-russa ugualmente reazionaria e guerrafondaia.
La testimonianza del direttore dell’FBI segna così l’inizio di un processo politico che vedrà pendere sulla nuova amministrazione la perpetua minaccia di un’incriminazione per i presunti rapporti del presidente con il governo russo. Come ha spiegato il direttore dell’FBI, infatti, l’indagine in corso non è di natura “criminale”, bensì “contro-spionistica”, caratterizzata cioè da tempi lunghissimi, da accuse vaghe molto difficilmente dimostrabili e, soprattutto, dalla scarsa probabilità di sfociare in una qualche incriminazione formale.
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di Michele Paris
Il mancato accordo tra i membri del G-20 sull’inserimento del consueto appello a “resistere a ogni forma di protezionismo” commerciale nel comunicato finale, seguito al vertice dello scorso fine settimana in Germania, ha segnato probabilmente uno snodo cruciale nell’evoluzione sia dei rapporti tra le principali potenze economiche del pianeta sia della crisi del sistema di regole costruito dopo il secondo conflitto mondiale.
I ministri delle Finanze riuniti a Baden Baden sono riusciti a concordare una blanda dichiarazione che ha semplicemente affermato l’impegno a “rafforzare il contributo del commercio” alle economie dei rispettivi paesi. Il rappresentante del governo americano, Steven Mnuchin, ha inoltre chiesto e ottenuto un riferimento alla necessità di “ridurre gli squilibri globali”, ovvero di porre rimedio al deficit della bilancia commerciale che gli Stati Uniti fanno segnare con molti paesi.
Secondo le ricostruzioni della stampa, a favore degli USA si sarebbe schierato solo il Giappone, anche se in maniera tiepida e per un preciso calcolo politico-strategico, mentre praticamente tutti gli altri paesi membri si sono mostrati contrari alla mancata condanna ufficiale delle pratiche protezioniste.
La distanza tra le prese di posizione ufficiali dei G-20 nel recente passato e quelle dell’ultimo summit dipende in primo luogo dall’agenda ultra-nazionalista dell’amministrazione Trump. Mnuchin ha cioè bloccato un comunicato che avrebbe contraddetto apertamente le iniziative e le promesse fatte dalla Casa Bianca in ambito commerciale.
Nelle scorse settimane, così come in campagna elettorale, Trump e il suo staff hanno prospettato, tra l’altro, l’imposizione di dazi doganali sulle merci in ingresso negli Stati Uniti e misure punitive nei confronti di paesi esportatori, come Germania e Cina, fino a minacciare di ignorare le decisioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) se esse dovessero risultare contrarie agli interessi americani.
Al G-20, vista l’esplosività della questione e l’inopportunità di aprire uno scontro aperto con un’amministrazione americana appena insediatasi, ha prevalso la mediazione tra le posizioni di Washington e quelle degli altri paesi. Tuttavia, la volontà di evitare una rottura e il probabile naufragio del G-20 stesso ha soltanto rinviato l’esplosione a tutti gli effetti di una crisi della governance globale che il “fenomeno” Trump ha accelerato nel tentativo di salvare il capitalismo americano a spese del resto del mondo.
Il possibile riemergere di guerre doganali e delle tendenze protezioniste, che già contribuirono in maniera decisiva allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, risponde a una logica distruttiva, secondo la quale gli Stati Uniti devono adottare provvedimenti di questo genere per invertire il proprio declino economico, attribuito in primo luogo al deficit commerciale registrato nei confronti di Berlino o Pechino.
Com’è puntualmente successo in passato, l’applicazione di dazi e tasse sulle importazioni da parte di un determinato paese spinge quelli colpiti a mettere in atto ritorsioni simili, provocando un’escalation che rischia di spostarsi facilmente dall’ambito commerciale a quello militare.
Dopo il vertice di Baden Baden, alcuni leader dei G-20 hanno cercato di fare buon viso a cattivo gioco e di minimizzare il conflitto con Washington. L’ospite del summit, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto riferimento alla necessaria prudenza di un’amministrazione che, come quella americana, ha assunto pieni poteri solo da un paio di mesi.
L’esito del G-20 e le posizioni americane hanno però smentito del tutto lo stesso Schäuble, il quale solo qualche giorno prima del summit aveva lanciato un appello per un sistema commerciale globale “multilaterale, basato su un sistema di regole condiviso, trasparente, non discriminatorio, aperto e inclusivo”.
Questo modello è stato da subito messo in discussione dall’amministrazione Trump e le scintille anche con paesi formalmente alleati degli Stati Uniti, come appunto la Germania, non erano mancate nelle scorse settimane. Alla minaccia del presidente USA di applicare un dazio del 35% sulle automobili tedesche importante in America, il ministro dell’Economia di Berlino, Brigitte Zypries, aveva ad esempio minacciato un ricorso al WTO, alludendo sarcasticamente a una possibile nuova sconfitta di Trump nei tribunali dopo quelle collezionate con i due bandi anti-migranti firmati di recente dal presidente.
L’epilogo del G-20 di Baden Baden segna dunque anche formalmente l’allontanamento dalle modalità consensuali con cui le principali potenze economiche del pianeta si erano impegnate a risolvere le conseguenze della crisi finanziaria del 2008-2009.
In realtà, le tendenze protezionistiche non sono state inaugurate dall’amministrazione Trump, né sono limitate agli Stati Uniti, dal momento che rappresentano la manifestazione di contraddizioni oggettive del sistema capitalistico.
Come ha ricordato un commento apparso in questi giorni sul sito web della testata tedesca Deutsche Welle, il protezionismo è tornato a ripresentarsi da qualche tempo, malgrado i governi di tutto il mondo negli ultimi anni abbiano “sempre promesso gli uni agli altri di promuovere il libero commercio e di ridurre le barriere doganali”. A partire dal 2008, infatti, il WTO ha registrato, tra i paesi che ne fanno parte, l’implementazione di più di duemila provvedimenti restrittivi del libero commercio.
Queste tendenze erano però state sempre smentite a livello ufficiale, in particolare nel corso delle riunioni dei G-20, mentre i negoziati per trattati di libero scambio tra gli USA e l’Europa (TTIP) e tra gli USA e una manciata di paesi asiatici e del continente americano (TPP) indicavano l’esistenza di uno sforzo, guidato da Washington, per rafforzare un sistema di regole condiviso per il commercio globale, sia pure nell’interesse primario del capitalismo americano.
Solo lo scorso mese di luglio, poi, il G-20 di Chengdu, in Cina, aveva concluso i lavori emettendo un comunicato ufficiale nel quale vi erano numerosi riferimenti al “libero commercio” e l’impegno a combattere “ogni forma di protezionismo”.
L’ingresso di Trump alla Casa Bianca ha invece segnato una rottura anche formale in questo senso. Il nuovo presidente ha subito fermato il processo di approvazione del TPP, così come ha promesso una revisione del trattato di libero scambio NAFTA con Canada e Messico.
L’inversione di rotta rispetto all’amministrazione Obama consiste nell’abbandonare il multilateralismo e i metodi apparentemente cooperativi nella promozione degli interessi delle corporation americane, privilegiando un’attitudine più aggressiva nella ricerca di accordi, preferibilmente bilaterali, che risultino apertamente favorevoli agli Stati Uniti.
Visti gli equilibri commerciali tra questi ultimi e paesi come Cina o Germania, nonché alla luce della spietata competizione per l’accaparramento di nuovi mercati a livello internazionale, è evidente che l’accelerazione protezionistica di Washington rischia di fare esplodere gravissimi conflitti nel prossimo futuro.
Berlino, ad esempio, basa la propria potenza economica e la propria stabilità interna sull’export, così da rendere straordinariamente delicata qualsiasi alterazione a proprio sfavore della situazione attuale. Secondo i dati del governo americano, le compagnie tedesche nel solo 2016 hanno esportato negli USA beni per oltre 114 miliardi di dollari e il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Germania nello stesso anno è stato di quasi 65 miliardi di dollari.
Come già accennato, i precedenti storici ricordano che l’escalation del protezionismo raramente ha conseguenze limitate al solo ambito economico-commerciale. Un commento al vertice di Baden Baden del Wall Street Journal ha spiegato come l’adozione di nuovi dazi e barriere doganali, oltre a minacciare la crescita economica globale, “potrebbe inasprire le tensioni geopolitiche”.
La situazione più calda in questo senso è quella della penisola di Corea, dove lo scontro tra Washington e Seoul da una parte e il regime di Pyongyang dall’altra si intreccia con le manovre americane per contenere l’espansione della Cina, non a casa bersaglio principale, assieme alla Germania, della polemica sugli “squilibri” commerciali globali.
Gli scenari descritti stanno determinando infine un rimescolamento delle relazioni internazionali. Oltre a provocare frizioni con i propri alleati europei, le inclinazioni dell’amministrazione Trump spingono questi ultimi a occupare gli spazi lasciati liberi dagli USA, quanto meno in ambito commerciale.
Subito dopo la chiusura del G-20, la cancelliera tedesca Merkel ha incontrato il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, con il quale ha preso apertamente le distanze dalle tendenze protezionistiche del nuovo governo americano. Il faccia a faccia ha preceduto l’incontro di martedì tra lo stesso premier nipponico e il presidente della Commissione europea Juncker con al centro la conclusione dei negoziati per un trattato di libero scambio tra Tokyo e Bruxelles, avviati formalmente già nel 2013.
In precedenza, il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, aveva messo in chiaro la strategia dell’Unione, interessata ad accordi simili anche con Messico, Filippine e Indonesia, in quella che apparirebbe come una vera e propria interferenza, difficilmente ignorabile dall’amministrazione Trump, con gli interessi degli Stati Uniti.