La morte di quattro soldati americani nello stato africano del Niger il 4 ottobre scorso ha aperto l’ennesimo fronte di crisi che sta scuotendo l’amministrazione Trump in questi giorni. Al centro del polverone sollevato dai media negli Stati Uniti c’è soprattutto la diatriba tra l’inquilino della Casa Bianca e la moglie di uno dei militari uccisi in Niger, il 25enne sergente LaDavid Johnson.



La donna, incinta di sei mesi, ha attaccato il presidente in un’intervista alla rete ABC, durante la quale ha smentito la versione di quest’ultimo sulla telefonata di condoglianze ricevuta dopo la morte del marito. Secondo la moglie del sergente della Florida, il 17 ottobre Trump avrebbe usato toni e maniere estremamente bruschi, dicendole ad esempio che il marito “sapeva a cosa andava incontro” quando si era arruolato nelle forze speciali americane.

Il presidente non era poi stato nemmeno in grado di pronunciare correttamente il nome del marito, nonostante avesse il rapporto dell’esercito sulla sua morte davanti agli occhi. La moglie del sergente Johnson ha in definitiva confermato la ricostruzione della telefonata fatta settimana scorsa dalla deputata democratica, Frederica Wilson, la quale era in compagnia della donna al momento della chiamata di Trump. Per questa presa di posizione, la Wilson era stata essa stessa attaccata pubblicamente dal presidente.

La moglie del soldato ucciso in Africa occidentale ha anche denunciato il comportamento del Pentagono, i cui vertici non le avrebbero spiegato le circostanze della morte del marito né permesso di vedere il cadavere.

All’intervista trasmessa dalla ABC, Trump ha risposto con una nuova serie di “tweet” per smentire questa versione dei fatti, se possibile aggravando ulteriormente la posizione della Casa Bianca nella vicenda. Per cercare di limitare i danni, il capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, ha allora indetto una conferenza stampa nella giornata di lunedì, anche se le sue parole hanno finito per sollevare maggiori interrogativi sia sulla morte dei quattro soldati americani sia, più in generale, sulla presenza militare USA in Niger e in Africa occidentale.

Le dichiarazioni di Dunford hanno cercato di fugare i dubbi circolati con la diffusione di alcuni dettagli dell’episodio del 4 ottobre. Tra i particolari non chiari vi sono il ritardo sia nella richiesta del supporto aereo francese per contrastare l’imboscata dei guerriglieri fondamentalisti sia nell’individuare la posizione del sergente LaDavid Johnson, recuperato solo due giorni dopo e, quindi, forse ancora in vita nelle ore successive all’incidente.

Per la versione ufficiale del Pentagono, il 4 ottobre era in corso una ricognizione considerata di routine a cui partecipavano dodici uomini delle forze speciali dell’esercito americano e una trentina di soldati nigerini. A un certo punto, mentre stava tornando alla base, la pattuglia è stata attaccata da un gruppo di 50 militanti islamisti e lo scontro si è risolto con la morte di quattro americani e quattro nigerini, in aggiunta a otto feriti.

Le circostanze di quanto accaduto in Niger a inizio ottobre e la gestione della tragedia che ha colpito i famigliari dei defunti soldati americani hanno contribuito a mostrare, da un lato, i molti lati oscuri dell’impiego della macchina militare USA all’estero e, dall’altro, l’attitudine dei vertici politici e militari di Washington nei confronti degli uomini mandati a morire per gli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce.

Per quanto riguarda la prima questione, l’incidente in Niger ha finito per rivelare la presenza di ben 800 soldati americani in questo paese, ufficialmente impegnati nella difesa di una base da cui partono velivoli senza pilota (droni) e nell’addestramento di soldati locali, con cui inoltre quelli statunitensi conducono operazioni di “ricognizione”. Il generale Dunford, nella sua conferenza stampa di lunedì, ha ammesso che i militari americani sono permanentemente in Niger dal 2013 grazie all’iniziativa dell’amministrazione Obama. La base USA serve appunto come riferimento per le attività americane nell’area del Sahara e del Sahel.

Le rivelazioni dei vertici del Pentagono hanno evidenziato il ruolo ormai fuori controllo dell’apparato militare e della sicurezza nazionale americana, così come l’illusoria supervisione del potere legislativo negli Stati Uniti su quello esecutivo. Alcuni importanti membri del Congresso di Washington hanno infatti ammesso nei giorni scorsi di non essere al corrente dell’imponente dispiegamento di militari americani in Niger.

Nei tradizionali “talk show” della domenica mattina negli USA, sia l’influente senatore repubblicano Lindsey Graham, membro della commissione Forze Armate, sia il leader di minoranza al Senato, il democratico Charles Schumer, si sono detti sorpresi della presenza di quasi un migliaio di soldati americani nel paese africano. Entrambi, però, hanno cercato di minimizzare la notizia, giustificando in definitiva le iniziative semi-clandestine dei militari con le necessità della guerra al terrorismo.

La ragione per cui gli Stati Uniti si stanno impegnando in maniera così consistente in un paese e in un’area a malapena o per nulla conosciuti dalla grande maggioranza degli americani è in ogni caso da collegare alla crescente importanza strategica dell’Africa occidentale e del continente in genere.

Questa regione è innanzitutto ricchissima di risorse minerarie, a cominciare dall’uranio, estratto da tempo dalle multinazionali francesi. Oro, diamanti, petrolio e gas naturale sono altre ricchezze abbondantemente presenti e il posizionamento di basi militari americani – permanenti o “temporanee” – serve al preciso scopo di proteggere questi giacimenti o di gettare le basi per il loro sfruttamento.

Strettamente legato a questo aspetto è quello della competizione con la Cina. Pechino è presente da tempo in Africa, dove continua a offrire una fonte di investimento alternativa ai paesi occidentali senza le condizioni politiche ed economiche quasi sempre imposte da questi ultimi. Proprio in Africa occidentale, la Cina è particolarmente attiva da qualche anno, avendo siglato importanti accordi in ambito energetico e per la costruzione di infrastrutture in vari paesi, tra cui lo stesso Niger.

Le rivalità innescate dalla nuova corsa verso l’Africa non sono soltanto tra gli Stati Uniti e paesi come Cina o Russia, ma anche tra alleati ufficiali. Francia e Germania, in particolare, sono quelle più attive in Niger, mentre della missione multinazionale delle Nazioni Unite nel vicino Mali fanno parte vari contingenti militari europei, incluso quello italiano. Se oggi vi è una certa collaborazione tra Washington, Parigi e Berlino, tutti i governi stanno già cercando di conquistarsi posizioni di privilegio in Africa occidentale, anche a discapito dei partner attuali.

Dietro all’interventismo degli USA e degli altri paesi europei nel continente c’è sempre la giustificazione della guerra al terrore, dal momento che il fondamentalismo islamista in varie forme negli ultimi anni ha fatto segnare una presenza sempre più preoccupante nei paesi del Sahara e del Sahel.

Il terrorismo, in Africa come in Medio Oriente, è tuttavia il consueto schermo che nasconde interessi strategici ed economici ben precisi. Tanto più che, singolarmente, il caos venutosi a creare in Africa occidentale e che ha ufficialmente spinto gli Stati Uniti e i loro alleati a intensificare l’impegno e la presenza militare in questa porzione del continente è la diretta conseguenza del rovesciamento del regime libico di Gheddafi attraverso un’operazione studiata a tavolino in Occidente nel 2011.

Gli effetti destabilizzanti del conflitto in Libia sono oggi visibili in Niger, in Mali e in altri paesi della regione, dove le formazioni integraliste hanno potuto armarsi ed espandere le operazioni in primo luogo grazie all’anarchia che regna a Tripoli e all’appoggio ottenuto dai governi occidentali o dai regimi arabi proprio in cambio del loro impegno contro Gheddafi.

Come ha dimostrato l’incidente in Niger del 4 ottobre scorso, gli scenari prodotti in larga misura dalle manovre americane rischiano nel prossimo futuro di far aumentare le probabilità di scontri e conflitti armati, assieme al numero di vittime tra militari e popolazione civile, coinvolti in guerre condotte sempre più in forma clandestina.

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