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di Mario Lombardo
L’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Democratico, il senatore “democratico-socialista” Bernie Sanders, ha introdotto questa settimana al Congresso una proposta di legge per creare un sistema sanitario pubblico universale, grosso modo sul modello di quello esistente in molti paesi europei.
Ipotesi di questo genere hanno talvolta fluttuato ai margini del panorama politico americano in passato, ma la novità dell’iniziativa dell’ex rivale di Hillary Clinton nelle primarie del 2016 risiede nel fatto che essa abbia ricevuto l’appoggio ufficiale di altri 15 senatori democratici. L’ultima volta che lo stesso Sanders aveva presentato una proposta simile non era stato invece in grado di trovare un solo collega disposto a sostenerla.
Il relativo successo incontrato in questa occasione dal disegno di legge Sanders non gli dà in ogni caso maggiori possibilità di essere approvato. Anzi, il nuovo pacchetto su un eventuale sistema sanitario pubblico universale, definito “single-payer” negli USA, con ogni probabilità non verrà nemmeno discusso né tantomeno votato in aula.
L’aspetto interessante della vicenda è legato piuttosto alle intenzioni dei senatori che lo hanno sponsorizzato assieme a Sanders, visto che un partito che difende in sostanza gli interessi dei grandi poteri economici e finanziari americani, come quello Democratico, non si è evidentemente trasformato in un baluardo del progressismo da un giorno all’altro.
Se alcuni senatori che hanno promosso la legge, a cominciare da Sanders, sono probabilmente favorevoli per principio all’introduzione di un’opzione pubblica nel sistema sanitario americano, le ragioni dell’iniziativa sono in primo luogo elettorali e, più in generale, legate alla necessità di dare a quello democratico una certa patina di partito di “sinistra”.
Necessità, quest’ultima, derivante dalla progressiva radicalizzazione dell’elettorato di riferimento del partito, dovuta a sua volta all’aggravamento della crisi sociale negli Stati Uniti, al costante spostamento verso destra dei democratici e all’approdo di Donald Trump alla Casa Bianca.
Per giudicare la serietà dell’iniziativa è sufficiente scorrere i nomi dei senatori che hanno appoggiato Sanders. Alcuni di essi, come Cory Booker (New Jersey) o Kirsten Gillibrand (New York), sono i beneficiari di sostanziosi contributi di istituzioni finanziarie e corporation, incluse quelle farmaceutiche e assicurative, che non vedono esattamente con favore il potenziale smantellamento dell’attuale sistema sanitario, basato in larga misura sul settore privato.
Indicativo è anche il fatto che i leader democratici al Congresso – Nancy Pelosi (Camera) e Charles Schumer (Senato) – abbiano preso le distanze dalla proposta di Sanders, lasciando appunto intendere che non è prevista nessuna battaglia o mobilitazione del partito per un sistema sanitario pubblico universale.Ben sapendo che la proposta di legge non ha possibilità di essere approvata e, quindi, senza inquietare potenziali donatori nel business privato, una manciata di senatori democratici ha deciso così di appoggiare una misura che incontra ampi favori tra lavoratori e classe media. Nel partito e negli ambienti che ruotano attorno a esso, d’altra parte, in molti hanno ricavato una lezione precisa dalle presidenziali del 2016, cioè che i democratici possono tornare a vincere solo proponendo un’agenda esteriormente progressista, sull’esempio appunto di Bernie Sanders.
Tra gli sponsor della legislazione sul sistema sanitario pubblico figurano d’altra parte alcuni senatori che la stampa USA indica come possibili candidati alla Casa Bianca nel 2020. Oltre allo stesso Sanders, questi ultimi sarebbero in particolare Kamala Harris (California), Elizabeth Warren (Massachusetts) e il già ricordato Cory Booker.
In questa prospettiva va inquadrata anche l’accoglienza quasi del tutto positiva riservata alla proposta di Sanders dai media ufficiali che appoggiano più o meno apertamente il Partito Democratico.
Per la cronaca, la proposta di Sanders prevede il progressivo allargamento a tutta la popolazione americana della copertura sanitaria oggi garantita solo agli over 65 e ai portatori di disabilità dal programma pubblico Medicare. Esso espanderebbe inoltre la gamma dei servizi offerti in maniera virtualmente gratuita, mentre gli ingentissimi finanziamenti necessari a mettere in atto il piano potrebbero derivare da svariate fonti, tra cui l’applicazione di una nuova tassa sulle grandi ricchezze.
Un altro aspetto rivelatore dell’iniziativa è che essa è stata presentata proprio mentre i leader democratici sono impegnati nel primo sforzo bipartisan con l’amministrazione repubblicana a partire dall’insediamento di Trump alla presidenza.
Mentre cioè da un lato una parte del Partito Democratico si allinea all’iniziativa apparentemente più a “sinistra” della sua storia recente, dall’altro i suoi vertici aprono le trattative su varie questioni con l’amministrazione probabilmente più reazionaria del dopoguerra.
Mercoledì, ad esempio, Pelosi e Schumer hanno cenato con Trump alla Casa Bianca e al termine dell’incontro hanno annunciato di avere raggiunto un nuovo possibile accordo con il presidente, dopo quello già siglato settimana scorsa sull’innalzamento provvisorio del tetto del debito pubblico americano.
In base all’intesa, peraltro non confermata dalla Casa Bianca, verrebbe salvato un programma, adottato da Obama e che Trump sembrava intenzionato a smantellare, per evitare la deportazione di circa 700 mila immigrati “irregolari” giunti negli USA da bambini. In cambio, però, il Partito Democratico si impegna a collaborare con i repubblicani a un pacchetto di legge che rafforzi ulteriormente la “sicurezza” ai confini americani, sia pure escludendo la costruzione del muro voluto da Trump.Anche in altri ambiti i democratici appaiono disposti a lavorare con Trump e i repubblicani per favorire un’agenda comunque reazionaria. Il taglio alle tasse per le corporation è ad esempio uno dei temi su cui i due partiti potrebbero convergere, assieme proprio alle modifiche alla legge sul sistema sanitario in vigore (“Obamacare”).
Su quest’ultimo punto, un eventuale sforzo bipartisan, derivante dal probabile definitivo fallimento repubblicano di cancellare “Obamacare”, potrebbe portare a variazioni importanti alla legge del 2010, rafforzando il ruolo delle compagnie di assicurazione private e in senso diametralmente opposto all’iniziativa di Sanders per un sistema sanitario pubblico.
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di Michele Paris
Il progressivo allontanamento della Turchia dal blocco occidentale e dalla NATO ha trovato una nuova conferma questa settimana dopo che il presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato la sostanziale ratifica del contratto di acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400. La notizia era nota già da qualche tempo, ma le parole di Erdogan hanno confermato che un primo pagamento è effettivamente avvenuto a favore di Mosca per un equipaggiamento che rischia di incrinare ancor più i rapporti tra Ankara e i suoi tradizionali alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.
Il tempismo dell’annuncio del presidente turco non è per nulla casuale, inserendosi in un momento segnato dalle tensioni con Washington sulla crisi siriana e, proprio nei giorni scorsi, da una nuova polemica con la Germania, da dove alcuni membri del governo avevano fatto sapere di voler congelare la vendita di armamenti alla Turchia.
Le relazioni sempre più complicate con gli USA sono da collegare alle contraddizioni non solo delle politiche americane nei confronti della Siria, ma anche di quelle della stessa Turchia, passata dalla guerra al regime di Assad alla sostanziale accettazione della permanenza al potere di quest’ultimo. La questione più grave che ha accentuato lo scontro tra Ankara e Washington è quella dell’appoggio degli Stati Uniti alle forze curde siriane, viste dalla Turchia come organizzazioni terroristiche legate ai ribelli curdi attivi all’interno dei propri confini.
Per quanto riguarda la Germania, lunedì da Berlino il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, aveva annunciato lo stop alle esportazioni di armi verso la Turchia, ufficialmente a causa del deterioramento dei diritti umani in questo paese. La decisione è sembrata essere tanto più grave alla luce dell’obbligo teorico di fornire armi a un alleato NATO, nel caso quest’ultimo ne faccia richiesta.
Da Ankara le reazioni sono state tutt’altro che positive, visto anche che le parole di Gabriel hanno seguito una serie di dispute tra i due paesi e la presa di posizione della cancelliera Merkel a inizio settembre nel corso di un dibattito elettorale, nel quale si era detta favorevole alla chiusura dei negoziati per l’accesso della Turchia all’Unione Europea.
La stessa Merkel martedì ha comunque attenuato in parte le dichiarazioni del suo ministro degli Esteri, riconoscendo alla Turchia lo status di alleato nella guerra allo Stato Islamico (ISIS) e precisando che le vendite di armi saranno valutate in base alle singole richieste. La disputa con Berlino è comunque emblematica della parabola discendente dei rapporti tra la Turchia di Erdogan e l’Occidente nel corso degli ultimi due anni.L’intesa con la Russia per il sistema S-400 era stata data come raggiunta già lo scorso mese di luglio, anche se in molti avevano da allora ipotizzato che l’acquisto sarebbe stato sospeso a causa delle pressioni occidentali.
Ankara necessita da tempo di un sistema anti-missile di lunga distanza, poiché al momento può contare soltanto su batterie di alcuni paesi NATO. Oltretutto, missili americani, tedeschi e olandesi erano stati rimossi dal territorio turco lo scorso anno, convincendo ancor più Erdogan della necessità di ricorrere a soluzioni alternative.
Già nel 2013, il governo turco aveva siglato un accordo di fornitura per un sistema anti-aereo cinese, ma due anni più tardi era stato cancellato su insistenza americana. Proprio dall’autunno del 2015, però, era iniziata la svolta strategica di Erdogan che ha portato il suo paese a riavvicinarsi a Mosca dopo il rischio concreto di un conflitto armato a causa dell’abbattimento di un jet russo da parte dell’aviazione turca nel mese di novembre.
L’acquisto del sistema S-400 russo è un autentico schiaffo agli alleati NATO della Turchia. Innanzitutto, esso dà un impulso significativo alla partnership russo-turco, rafforzata in questi giorni anche dalla notizia della creazione di una “joint venture” in ambito energetico tra Gazprom e la turca Botas per la costruzione della porzione “onshore” del gasdotto Turk Stream che trasporterà verso occidente il gas naturale russo.
L’S-400, poi, non è integrabile con i sistemi NATO e l’alleanza non era stata nemmeno informata dal governo turco sui dettagli della fornitura. In definitiva, il completamento delle batterie russe potrebbe teoricamente consentire alla Turchia di chiudere il proprio spazio aereo ai velivoli degli alleati NATO.
Sulla decisione di Erdogan e sul suo avvicinamento alla Russia ha influito con ogni probabilità anche il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti nel fallito golpe contro il presidente turco nel luglio del 2016. Se la mano di Washington era o meno dietro ai cospiratori non è ancor del tutto chiaro, ma è comunque evidente che Erdogan deve sentirsi in qualche modo al centro delle trame occidentali visto il progressivo divergere delle strategie di Turchia e USA in Siria e in Medio Oriente.Da parte sua, il presidente turco ha dissimulato a malapena le ragioni del riorientamento strategico della Turchia. Nello spiegare la decisione di guardare a Mosca per il rafforzamento della difesa anti-aerea turca, Erdogan ha citato i costi eccessivi degli equipaggiamenti forniti dall’Occidente, ma ha aggiunto anche che i presunti alleati di Ankara “consegnano carri armati, cannoni e veicoli blindati a organizzazioni terroristiche [curde]” per poi lasciare sprovvista la Turchia del materiale necessario.
In un’intervista al giornale turco Hurriyet, lo stesso Erdogan ha infine confermato il sostanziale allineamento con la Russia anche in relazione alla situazione interna alla Siria, nonostante le persistenti divergenze su alcuni aspetti della crisi. In particolare, Erdogan ha salutato l’imminente negoziato di Astana e garantito la piena intesa con Mosca e Teheran sulle operazioni in fase di pianificazione per la località di Idlib, dove dovrebbe essere condotto un assalto per espellere le rimanenti forze legate ad al-Qaeda.
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di Mario Lombardo
L’allontanamento dalla Casa Bianca di molti tra i fedelissimi della prima ora di Trump, assimilabili alla fazione “populista” di estrema destra della galassia repubblicana, non ha risolto il conflitto interno al partito di governo negli Stati Uniti, ma ne ha se possibile aggravato la crisi fino a portarlo potenzialmente sull’orlo di una clamorosa scissione.
Il rimescolamento del team presidenziale negli ultimi mesi ha visto in sostanza affidare le questioni di politica estera a una sorta di giunta militare, guidata dagli influenti James Mattis (segretario alla Difesa), John Kelly (capo di gabinetto) e H. R. McMaster (consigliere per la Sicurezza Nazionale), mentre sul fronte interno l’agenda politica continua a essere in buona parte influenzata dalle tendenze “populiste”, sia pure senza significativi risultati concreti.
Questa evoluzione dell’amministrazione Trump è stata accolta pressoché unanimemente come una rivincita dell’establishment di Washington sull’ala libertaria-populista-neofascista che aveva avuto un ruolo determinante nella vittoria delle elezioni del novembre 2016.
L’uscita di scena di individui come l’ormai ex “stratega capo” della Casa Bianca, Stephen Bannon, era vista invece come necessaria per rimettere in carreggiata un’amministrazione lacerata e in profonda crisi a causa anche di iniziative e prese di posizioni considerate troppo estreme di fronte alla crescente ostilità degli americani.
Le scosse registrate a Washington hanno però fatto poco o nulla per sanare le divisioni nel Partito Repubblicano e tutti i segnali indicano come siano ancora in atto manovre per orientare quest’ultimo sempre più verso la destra estrema. Addirittura, in molti parlano di un possibile nuovo movimento – di fatto neo-fascista – che faccia capo al presidente Trump e agli uomini a lui più vicini, anche se ormai quasi tutti allontanati dalla Casa Bianca.
A spiegare queste dinamiche c’è la fortissima sfiducia degli americani nei confronti della classe politica di Washington. Una frustrazione che l’estrema destra intende sfruttare e orientare nella direzione di un nazionalismo spinto, in primo luogo attraverso un’accesa retorica contro l’Islam e l’immigrazione, così da ostacolare il formarsi di un movimento indipendente di matrice progressista.
Questi temi, assieme alla guerra contro il “sistema”, a cominciare proprio da quello controllato dai vertici repubblicani, sono così al centro degli sforzi della destra al di fuori del Congresso di Washington e che continua a guardare a Trump come il propulsore di un nuovo blocco politico ultra-reazionario.
Nei giorni scorsi, una serie di apparizioni pubbliche di Stephen Bannon ha fatto salire il livello di apprensione tra i leader repubblicani, dopo che l’ex consigliere di Trump ha prospettato senza mezzi termini una vera e propria “guerra civile” nel partito in vista delle elezioni di “medio termine” dell’autunno 2018.A inizio settimana, la testata on-line Politico ha dedicato un lungo articolo alle iniziative che Bannon sta mettendo in campo per cercare di impedire tra poco più di un anno la rielezione di deputati e senatori repubblicani identificati con l’establishment. Questa possibile battaglia interna ai candidati repubblicani ha scatenato il panico nel partito, con i leader di maggioranza preoccupati che una serie di primarie roventi e dispendiose possa consumare il partito e favorire i democratici.
Il numero uno repubblicano al Senato, Mitch McConnell, avrebbe già fatto pressioni sulla Casa Bianca per contenere le trame di Bannon, presumibilmente approvate dal presidente Trump. Ciò non ha però impedito allo stesso Bannon di muoversi per promuovere la candidatura di possibili rivali di senatori in carica che dovranno difendere i loro seggi nel 2018.
Nel mirino ci sarebbe in primo luogo il senatore Dean Heller del Nevada, già considerato tra i repubblicani più vulnerabili nel voto del prossimo anno perché il suo stato figura tra quelli vinti da Hillary Clinton nelle presidenziali del 2016. Heller è l’identikit del candidato che la destra repubblicana intende colpire nei prossimi mesi, dal momento che ha spesso criticato il presidente Trump, così come si era rifiutato di appoggiarlo durante la campagna per la Casa Bianca.
Secondo Politico, Bannon starebbe valutando sfide per le primarie anche contro altri senatori poco entusiasti di Trump o finiti recentemente ai ferri corti con il presidente. Tra di essi figurerebbero Jeff Flake (Arizona), Roger Wicker (Mississippi) e Bob Corker (Tennessee). Quest’ultimo qualche giorno fa ha fatto sapere di non essere certo di volersi ricandidare nel 2018, convincendo molti che il suo possibile ritiro sia legato alla guerra che potrebbe essere costretto a combattere nelle primarie con la destra del suo partito.
Bannon ha comunque già attivato vari consulenti e uomini di fiducia impegnati in alcuni gruppi conservatori operanti nelle campagne elettorali per reclutare candidati con curriculum di estrema destra che siano in grado di opporsi a quelli appoggiati dall’establishment repubblicano.
Lo sforzo è sostenuto dal punto di vista mediatico dal sito BreitbartNews, diretto dallo stesso Bannon, ed economicamente da vari finanziatori ultra-miliardari, a cominciare dal manager di “hedge fund”, Robert Mercer, e dall’imprenditore della Silicon Valley, Peter Thiel. I legami dell’estrema destra americana e di Bannon, egli stesso ex banchiere d’affari, con alcuni grandi donatori repubblicani smentisce chiaramente il carattere “popolare” del movimento in fase di aggregazione attorno a Trump.
Il primo test dei rapporti di forza in casa repubblicana sarà il prossimo 26 settembre, quando si terranno le primarie per il seggio del Senato in Alabama lasciato libero dopo la nomina a ministro della Giustizia di Jeff Sessions. In questo stato si scontreranno l’attuale senatore, Luther Strange, nominato temporaneamente al posto di Sessions e sostenuto dai vertici del partito, e l’ex giudice Roy Moore, candidato di Bannon e della destra del partito.
Per molti commentatori negli Stati Uniti, lo scontro tra i repubblicani potrebbe non rimanere confinato all’interno del partito. Il New York Times, citando varie personalità vicine ai repubblicani, lunedì ha scritto che mai come in questo frangente storico sembra esistere il potenziale per la nascita di un terzo partito con reali ambizioni di governo.A contribuire a questo scenario è in primo luogo proprio Donald Trump, “incapace o non interessato a tenere assieme il partito”, visto come impedimento o come fattore che aggrava l’impopolarità del presidente. I primi mesi della sua amministrazione sono stati segnati d’altra parte da svariati attacchi ai leader repubblicani al Congresso, spesso accusati di non essere in grado di far approvare l’agenda politica della Casa Bianca.
Se i tempi siano maturi per la nascita di un nuovo soggetto politico negli Stati Uniti è però tutto da verificare. Quel che è certo è che l’evolversi del panorama americano verso un possibile “terzo partito” attorno alla figura di Trump rappresenta uno sviluppo totalmente reazionario che minaccia di spostare gli equilibri politici a Washington ancora più a destra rispetto anche a quelli attuali.
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di Michele Paris
L’aggravarsi della crisi nella penisola di Corea e il crescente rischio di un conflitto nucleare sembrano avere approfondito le divisioni tra gli Stati Uniti di Donald Trump e i governi europei. Mentre Washington si apprestava a preparare una durissima proposta di risoluzione alle Nazioni Unite contro la Corea del Nord, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha lanciato infatti un’ipotesi di negoziato sull’esempio di quello che nel 2015 portò allo sblocco dello stallo sul programma nucleare dell’Iran.
La Merkel ha avanzato l’idea nel corso di un’intervista pubblicata nel fine settimana dal Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, elaborando una posizione decisamente più moderata rispetto a quella americana che già aveva esposto a inizio mese durante l’unico dibattito elettorale in diretta televisiva con il leader socialdemocratico, Martin Schulz.
Il formato delle trattative di Vienna sull’Iran, secondo la Merkel, potrebbe essere adottato anche “per risolvere il conflitto nordcoreano”. A esso, “l’Europa e soprattutto la Germania dovrebbero essere pronte a prendervi parte in maniera attiva”, ha spiegato il capo del governo tedesco.
Il modello suggerito dalla Merkel prevedeva negoziati tra i rappresentanti della Repubblica Islamica da una parte e dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) più quelli della Germania dall’altra. L’intesa definitiva, raggiunta a Vienna nel luglio del 2015, è stata descritta dalla Merkel come “un momento importante per la diplomazia”, tanto da essere potenzialmente replicato per la Corea del Nord.
Le parole della cancelliera ribadiscono la volontà del governo di Berlino di proporre sempre più la Germania come potenza in grado di intervenire attivamente nelle questioni internazionali e, come già ricordato, indicano ancora una volta i tracciati divergenti con l’amministrazione Trump, già evidenti fin dall’ingresso alla Casa Bianca del presidente repubblicano.
Gli Stati Uniti devono avere accolto con un certo fastidio l’intervento della Merkel sulla Corea del Nord. L’intervista è arrivata d’altra parte alla vigilia della convocazione del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro, nel quale la risoluzione americana ha dovuto fare già i conti con la ferma opposizione di Russia e Cina a implementare quello che sarebbe un blocco commerciale ed energetico totale nei confronti del regime di Kim Jong-un.
Non solo, il riferimento della Merkel all’accordo sul nucleare iraniano è doppiamente irritante per Washington, visto che Trump e buona parte del suo staff denunciano da tempo i termini sottoscritti a Vienna e, anzi, minacciano di ritirare gli USA dall’intesa alla prima occasione possibile.
La presa di posizione della cancelliera tedesca rischia così di allargare ulteriormente il solco tra gli Stati Uniti e l’Europa. Praticamente tutti i governi del vecchio continuano ad avvertire Washington che un passo indietro sul nucleare di Teheran sarebbe uno sbaglio enorme, in primo luogo perché molte aziende europee hanno ormai gettato le basi per il ritorno sul mercato iraniano.Trump sembra intenzionato comunque a non certificare nuovamente l’adempienza dell’Iran ai termini dell’accordo di Vienna quando sarà chiamato a farlo per la terza volta a metà ottobre. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) continua in realtà a confermare il comportamento conforme all’intesa da parte di Teheran, ma l’amministrazione repubblicana ha di fatto anticipato che ricorrerà a qualsiasi giustificazione per far naufragare l’accordo.
Una mossa in questa direzione sarebbe basata su scelte di natura puramente strategica, essendo l’Iran uno dei principali ostacoli agli interessi USA in Medio Oriente e al tentativo di impedire l’integrazione euroasiatica in atto, di cui la Repubblica Islamica è appunto uno snodo cruciale.
Inevitabilmente, quindi, il precipitare della crisi nella penisola di Corea dopo il sesto test nucleare del 3 settembre scorso ha finito per sovrapporsi alle tensioni esplose tra le due sponde dell’Atlantico dopo l’arrivo al potere di Donald Trump con la sua agenda ultra-nazionalista.
Sulla questione coreana, i governi europei hanno finora assecondato le dure condanne del regime di Kim provenienti da Washington, ma le rispettive reazioni hanno evidenziato approcci innegabilmente diversi. Se gli USA hanno affermato che il tempo del dialogo è ormai passato e non hanno mai escluso l’opzione militare, inclusa quella nucleare, giungendo anzi talvolta ad ipotizzarla seriamente, l’Europa si è fermata alle sanzioni punitive come strumento per giungere a una qualche soluzione diplomatica.
La stessa Merkel avrebbe già preso iniziative in questo senso, avendo discusso nei giorni scorsi della Corea del Nord con il presidente cinese, Xi Jinping, il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, e, secondo il Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, anche con Vladimir Putin.
Il governo tedesco non è comunque l’unico a voler escludere l’uso della forza. L’ambasciatore francese all’ONU, François Delattre, ad esempio, ha detto settimana scorsa all’americana CBS che le sanzioni, “più pesanti risulteranno, più ci renderanno forti nel promuovere una soluzione politica” alla crisi coreana.
Leggermente più sfumata è invece la posizione britannica, dal momento che essa si incrocia con i dilemmi strategici di Londra legati alla “Brexit”. Il rappresentante del governo May alle Nazioni Unite, Matthew Rycroft, ha anch’egli collegato eventuali nuove sanzioni contro il regime di Kim alla necessità di lanciare un’iniziativa diplomatica.
Tuttavia, come ha scritto domenica il Guardian, Downing Street non vuole rompere con l’amministrazione Trump, sulla quale conta per mandare in porto un accordo di libero scambio di importanza fondamentale dopo l’uscita dall’Unione Europea. Nonostante queste apprensioni, anche Londra si oppone sia a un’iniziativa militare contro la Corea del Nord sia all’uscita degli USA dall’intesa sul nucleare iraniano.Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ad ogni modo, nella giornata di lunedì si è votato su una risoluzione americana ammorbidita, vista l’impossibilità di ottenere l’appoggio di Mosca e Pechino su una versione precedente. In essa, Washington chiedeva tra l’altro l’embargo sulle forniture di greggio alla Corea del Nord, lo stop alle esportazioni di manufatti tessili e sanzioni dirette contro Kim Jong-un.
Russia e Cina non sono evidentemente disposte a forzare il tracollo dell’economia nordcoreana. Da parte dei membri europei del Consiglio di Sicurezza invece, il timore è che un impasse all’ONU possa spingere l’amministrazione Trump ad abbandonare la ricerca del consenso internazionale e ad agire in maniera unilaterale.
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di Michele Paris
Dopo un lungo silenzio, in questi giorni la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha parlato finalmente della repressione in corso nello stato occidentale di Rakhine, in Myanmar, condotto dalle forze governative contro la minoranza musulmana Rohingya. L’icona della democrazia nella ex Birmania non ha però condannato le operazioni che stanno costringendo alla fuga nel vicino Bangladesh decine di migliaia di persone, ma le ha giustificate in nome della lotta al terrorismo nel paese asiatico di cui essa stessa è la leader di fatto assieme ai vertici militari.
San Suu Kyi ha avuto un colloquio telefonico con il presidente turco Erdogan nella giornata di martedì, durante il quale ha fornito spiegazioni a quest’ultimo sui fatti dello stato di Rakhine. Erdogan si è unito al coro di condanne internazionali contro il governo del Myanmar, provenienti in particolare dai paesi musulmani, giungendo a ipotizzare il pericolo di “genocidio” nei confronti di una minoranza da tempo perseguitata. Per San Suu Kyi, al contrario, la crisi sarebbe alimentata dalla diffusione di “fake news” e da una “campagna di disinformazione” globale.
Quella a cui si sta assistendo è solo l’ultima ondata di violenze interetniche nello stato di Rakhine, scaturita il 25 agosto scorso dopo che un gruppo ribelle Rohingya aveva attaccato alcune postazioni delle forze di sicurezza birmane. La risposta è stata come di consueto durissima, con i militari che hanno tra l’altro dato fuoco a villaggi abitati a maggioranza da musulmani, costringendoli alla fuga.
A oggi, le Nazioni Unite stimano che circa 125 mila persone di etnia Rohingya abbiano trovato rifugio in Bangladesh per sfuggire a violenze, a esecuzioni sommarie, e alla distruzione delle loro abitazioni. La posizione ufficiale del governo del Myanmar è invece che l’intervento delle forze armate sia necessario per reprimere gruppi ribelli che minacciano sia la sicurezza degli abitanti di fede buddista dello stato sia l’unità del paese.
I Rohingya in Myanmar sono più di un milione e vengono considerati immigrati illegali “bengalesi” senza diritti, nonostante il loro stanziamento nel paese a maggioranza buddista sia iniziato svariati secoli fa. L’attitudine del governo e del resto della popolazione della ex Birmania nei confronti dei Rohingya è generalmente ostile e negli ultimi anni si sono verificati numerosi scontri ed episodi di violenza, spesso scoppiati in seguito a resoconti ingigantiti di attacchi o aggressioni commesse da musulmani contro buddisti.
I musulmani Rohingya che hanno lasciato i loro villaggi si ritrovano in condizioni drammatiche. Il governo del Bangladesh, anche se continua ad accogliere i profughi dietro pressioni internazionali, minaccia spesso di rimpatriarli e non ha i mezzi né la volontà di creare condizioni adatte a un’accoglienza quanto meno dignitosa.
La situazione in Myanmar ha raggiunto una gravità tale che il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, questa settimana ha insolitamente fatto appello al governo centrale a cessare le discriminazioni nei confronti della minoranza musulmana, a suo dire a rischio di “pulizia etnica”. A rendere ancora più drammatico il quadro, come ha spiegato il direttore esecutivo di UNICEF, Anthony Lake, l’80% dei Rohingya fuggiti e bisognosi di aiuti sono donne e bambini.
L’interesse della stampa e della comunità internazionale per la nuova crisi nello stato di Rakhine si è concentrato in particolare sul comportamento di Aung San Suu Kyi. Non solo la “consigliera di stato” e ministro degli Esteri del Myanmar non ha finora mai pronunciato una sola parola a favore dei Rohingya, ma la repressione nei confronti della minoranza musulmana si è intensificata dopo l’approdo al governo del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).
Il sostanziale allineamento di San Suu Kyi alle posizioni dei militari, i quali conservano ampi poteri anche dopo il ritorno formale al multipartitismo, testimonia quindi a sufficienza della sua attitudine “democratica”, così come della natura tutt’altro che disinteressata delle campagne occidentali, e soprattutto americane, degli anni scorsi per promuovere la figlia del fondatore della moderna Birmania.
È in ogni caso vero che in Myanmar le questioni legate alla sicurezza interna restano di totale competenza dei militari, i quali hanno anche una sorta di potere di veto sull’operato e la sopravvivenza stessa del governo civile. San Suu Kyi e i vertici del suo partito condividono tuttavia il nazionalismo buddista che caratterizza le forze armate e, ancor più, non intendono mettere a rischio gli equilibri politici che hanno consentito loro di condividere il potere dopo decenni di esclusione e repressione.Il sostegno garantito da Washington alla NLD era collegato ai tentativi di sottrarre un paese strategico come il Myanmar all’influenza cinese, cresciuta a dismisura nel corso degli anni della dittatura militare durante i quali esso era virtualmente isolato dalla comunità internazionale.
Dopo la revoca degli arresti domiciliari di San Suu Kyi e le elezioni vinte dalla NLD nel 2015, gli Stati Uniti hanno di fatto interrotto le critiche al Myanmar per lo stato precario dei diritti umani, malgrado persistenti problemi come quello dei Rohingya, premiando un nuovo governo che si era subito mostrato disposto ad aprire il paese all’influenza e al capitale occidentale.
Negli ultimi tempi, però, la penetrazione occidentale in Myanmar ha fatto segnare un netto rallentamento per varie ragioni e il governo di questo paese è tornato a guardare in buona parte alla Cina per la realizzazione dei progetti di sviluppo e di crescita economica promessi e mai attuati da Washington.
Come quasi sempre accade con le crisi internazionali, specialmente se umanitarie, alle vicende di popoli repressi o perseguitati si incrociano questioni politiche, strategiche ed economiche più ampie e, con ogni probabilità, non fa eccezione nemmeno la sorte dei Rohingya. Mentre è innegabile che quelle in atto siano violenze gravissime commesse dalle forze di sicurezza governative, i fatti registrati tra lo stato birmano di Rakhine e il Bangladesh rischiano di essere strumentalizzati dalle potenze internazionali.
Significative a questo proposito sono le critiche che anche nei circoli ufficiali in Occidente vengono rivolte sempre più a Aung San Suu Kyi. Il governo americano ha in realtà finora mantenuto un atteggiamento molto cauto sulla crisi, ma la stampa “mainstream” occidentale ha fatto ricorso a toni piuttosto aggressivi verso il premio Nobel, indicando quindi un possibile cambiamento di rotta nei suoi confronti.
Il Washington Post ha ad esempio pubblicato mercoledì un vero e proprio attacco alla leader birmana, titolandolo “il vergognoso silenzio di Aung San Suu Kyi”. Il britannico Guardian ha parlato a sua volta di “negazione di prove ben documentate” sui massacri dei Rohingya e “impedimenti agli aiuti umanitari” da parte di quest’ultima.
A dare un’idea delle ragioni che stanno generando ansia in Occidente è stata ad esempio una dichiarazione di mercoledì del consigliere per la sicurezza nazionale del Myanmar, Thaung Tun, il quale ha fatto sapere che il suo governo sta negoziando con Cina e Russia – definite “paesi amici” – per bloccare eventuali risoluzioni sulla crisi dei Rohingya al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La situazione sul campo nello stato di Rakhine è per certi versi altrettanto complessa degli scenari strategici che si intrecciano alla vicenda. Il governo centrale non consente infatti l’accesso alle aree dove vive la minoranza musulmana a giornalisti stranieri e indipendenti, né sembra volere accettare un’indagine internazionale.
Malgrado ciò o forse proprio per questo, alcune notizie che circolano contribuiscono ad alimentare più di un dubbio su alcuni aspetti della crisi. La pretesa del Myanmar di combattere il terrorismo appare decisamente esagerata, essendo la formazione di gruppi ribelli in larga misura di natura difensiva. Tuttavia, non è da escludere del tutto che dietro a queste formazioni ci possano essere quanto meno forze interessate a mettere in atto un’agenda di più ampio respiro.
La testata on-line Asia Times ha pubblicato nei giorni scorsi alcuni articoli che descrivevano la nascita e le attività del principale gruppo ribelle attivo a favore della minoranza musulmana, l’Esercito di Salvezza dell’Arakan Rohingya (ARSA). Il suo leader, Ataullah abu Ammar Junjuni, sembra corrispondere al ritratto del jihadista, essendo nato in Pakistan da una comunità Rohingya ed educato in Arabia Saudita, dove ha operato come “imam wahhabita” prima di giungere nella ex Birmania.
La Reuters già nel 2016 aveva scritto che gli “insorti” musulmani in Myanmar avevano legami finanziari con il Pakistan e l’Arabia Saudita, mentre l’anno prima il quotidiano pakistano Dawn aveva spiegato come l’influenza del fondamentalismo islamico avesse solide radici nelle comunità Rohingya del paese centro-asiatico.
Se la repressione in corso in Myanmar ha probabilmente ancora pochi legami con questi aspetti, è comunque possibile che almeno in prospettiva vi siano forze che intendano sfruttare le divisioni etniche per promuovere i propri interessi strategici, visti soprattutto i precedenti legati all’utilizzo delle forze integraliste anche da parte occidentale.Il Myanmar rappresenta d’altronde una componente importantissima della strategia di crescita e di integrazione economica euro-asiatica della Cina, interessata, tra l’altro, a fare di questo paese un punto di transito delle rotte energetiche e commerciali provenienti dal Medio Oriente, in modo da evitare le potenzialmente pericolose vie marittime sud-orientali.
In questa prospettiva, non è difficile comprendere come determinati attori internazionali abbiano tutto l’interesse ad alimentare il caos nella ex Birmania, ostacolandone la stabilizzazione attraverso il sostegno a un movimento ribelle sorto per ragioni difensive e interamente legittime.