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di Mario Lombardo
Gli sforzi del governo americano nel costruire un fronte compatto per presentare un qualche ultimatum sulla Siria al governo russo hanno fatto segnare una battuta d’arresto martedì, quando il G7 dei ministri degli Esteri di Lucca ha chiuso i lavori senza trovare un accordo sulla possibile imposizione di sanzioni punitive contro Mosca.
Come di consueto, i partecipanti al vertice hanno provato a minimizzare le divisioni tra i rappresentanti dei sette paesi più industrializzati. Angelino Alfano ha spiegato ad esempio che il G7 “non è una sede deliberante” per quanto riguarda le sanzioni, mentre tutti i convenuti nella città toscana si sarebbero detti d’accordo circa la necessità di non isolare la Russia e di coinvolgerla in un processo politico per la risoluzione della crisi siriana.
In realtà, non solo le posizioni degli USA sembrano lasciare poco o nessuno spazio al compromesso con la Russia, ma il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, e il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, erano arrivati in Italia precisamente con l’obiettivo di ottenere un impegno dai propri partner sulle sanzioni contro il Cremlino per i fatti accaduti settimana scorsa nella provincia di Idlib.
Ciò avrebbe messo in una posizione più solida lo stesso Tillerson in vista dell’imminente visita a Mosca, dove a tenere banco sarà ovviamente la situazione in Siria. Con la minaccia di nuove sanzioni, dopo quelle adottate in seguito alla crisi in Ucraina, il rappresentante di Trump intendeva mettere Putin di fronte a una scelta chiara: scaricare l’alleato Assad in Siria, o per lo meno indurlo a farsi da parte, in cambio di una distensione con l’Occidente oppure subire le conseguenze di un’escalation militare guidata da Washington. I toni di Tillerson a Mosca potrebbero essere comunque minacciosi, ma al Cremlino non sfuggiranno le posizioni sfumate dei membri del G7 uscite dal summit di Lucca.
Nei piani di Washington rientrava anche l’ordine partito dalla Casa Bianca per il ministro degli Esteri britannico Johnson di cancellare la sua prevista visita a Mosca di settimana scorsa, in modo da consentire a Tillerson di incontrare per primo i leader russi dopo le consultazioni di Lucca. Johnson, da parte sua, aveva subito obbedito, cambiando anche significativamente i toni sulla Siria e diventando così il più acceso critico di Putin in Europa.
Le posizioni dei ministri presenti a Lucca hanno in ogni caso mostrato profonde contraddizioni, oltre alle persistenti divisioni interne al G7. Se tutti i governi che ne fanno parte si erano rapidamente allineati alle posizioni di Washington settimana scorsa, facendo quasi a gara nell’esprimere la propria approvazione per il bombardamento sulla Siria ordinato da Trump, sulle ulteriori iniziative da adottare nei confronti di Damasco e, ancor più, di Mosca la situazione è apparsa differente.
Per tutti, la priorità resta il cambio di regime in Siria, da ottenere possibilmente con pressioni su Putin ad abbandonare il proprio supporto incondizionato ad Assad. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sembrano però determinati ad adottare anche iniziative estreme per raggiungere i propri fini, mentre altri paesi, come Germania e Italia, appaiono più cauti e, come accaduto nel caso dell’Ucraina, continuano a confidare di riuscire a convincere Putin con una combinazione di minacce e proposte distensive.
L’impossibilità di accordarsi su un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia ha poi portato a una situazione al limite dell’assurdo, visto che i G7 hanno annunciato un’indagine ufficiale sul presunto attacco chimico nella località siriana di Khan Sheikhoun prima di decidere l’imposizione di misure punitive.
In altre parole, quegli stessi governi che nei giorni scorsi avevano appoggiato il bombardamento americano e si erano scagliati senza incertezze né prove contro Assad e Putin invitano oggi alla cautela e a ricercare le effettive responsabilità di quanto accaduto settimana scorsa in Siria prima di adottare sanzioni nei confronti di Mosca o Damasco.
Se i governi europei che hanno manifestato solidarietà con Washington sul bombardamento in Siria sanno perfettamente che non vi è nessuna chiarezza sul presunto uso di armi chimiche, il loro atteggiamento riflette una scelta strategica, fatta da tempo, che prevede il rovesciamento del regime di Assad e la condivisione degli eventuali vantaggi derivanti da un ordine ancora più favorevole agli Stati Uniti in Medio Oriente.
Questa ragione è sostanzialmente la stessa per cui nessun governo europeo ha finora speso una sola parola di condanna per le stragi di civili delle ultime settimane seguite ai ben documentati bombardamenti americani “anti-ISIS” a Mosul, in Iraq, o per i massacri che da oltre due anni si susseguono in Yemen per mano del regime saudita con il pieno appoggio di Washington.
Anzi, proprio i rappresentanti di Riyadh, assieme a quelli di Turchia, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Qatar, erano presenti martedì a Lucca per sottolineare l’unità di intenti con i paesi mediorientali sulla Siria, malgrado questi ultimi siano i principali sostenitori e finanziatori dei gruppi fondamentalisti che stanno letteralmente distruggendo il paese in guerra dal 2011.
Se dalle dichiarazioni ufficiali seguite al G7 di Lucca è sembrata emergere una posizione americana più o meno allineata alla relativa moderazione dei governi europei sulla Siria o, per meglio dire, sull’attitudine da tenere nei confronti della Russia, ciò è smentito dalle dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione Trump prima e dopo il vertice in Toscana.
Lunedì, ad esempio, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva minacciato ulteriori iniziative militari americane se Assad dovesse usare nuovamente non solo armi chimiche ma anche “barrel bombs”. Dopo le parole di Spicer, con un tempismo perfetto il cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, già fonte principale di media e governi occidentali per l’attacco di settimana scorsa con armi chimiche attribuito ad Assad, ha subito segnalato l’uso da parte di Damasco di questi ordigni nella provincia di Hama.
Gli avvertimenti provenienti da Washington sembrano in fin dei conti prospettare una situazione nella quale i missili americani sono pronti a essere lanciati alla prima provocazione messa in atto dai “ribelli”, filiale di al-Qaeda inclusa, visto che anche l’episodio di Khan Sheikhoun ha tutta l’aria di essere stata una “false flag” condotta da gruppi dell’opposizione armata che operano a Idlib per far ricadere la colpa su Damasco e giustificare un’azione militare.
L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva invece escluso categoricamente la possibilità di una soluzione politica in Siria con Assad al potere. Lo stesso Tillerson, prima della partenza per Mosca al termine del G7 ha infine ribadito che, per il suo governo, il presidente siriano ha i giorni contati e che la Russia farà meglio a scaricarlo al più presto.
Proprio la trasferta del segretario di Stato USA a Mosca aiuterà forse a chiarire la strategia siriana dell’amministrazione Trump, visto anche che lo stesso presidente non si esprime da giorni sulla crisi in Medio Oriente. Una strategia che, al di là del bombardamento di dubbia efficacia della settimana scorsa, sembra essere ancora tutt’altro che limpida, anche se estremamente pericolosa, e affidata più che altro all’iniziativa dei generali che occupano posizioni di spicco all’interno del governo americano.
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di Michele Paris
Il bombardamento illegale ordinato settimana scorsa dal presidente americano Trump contro una base militare siriana non sembra avere distolto l’attenzione degli Stati Uniti dalla Corea del Nord né reso meno caldo il fronte del nord-est asiatico. Anzi, l’incursione in Siria, seguita alle accuse al regime siriano di avere utilizzato armi chimiche nella provincia di Idlib, potrebbe essere stato anche un avvertimento diretto al regime di Kim Jong-un e al suo alleato cinese, come ha confermato la notizia dell’invio di una portaerei USA nelle acque della penisola di Corea.
Il dirottamento della “USS Carl Vinson” dall’Australia, dove era diretta dopo avere lasciato Singapore, è infatti un nuovo segnale provocatorio di Washington, all’indomani dell’incontro in Florida tra Trump e il presidente cinese, Xi Jinping. Il primo faccia a faccia tra i due leader si era tenuto verosimilmente in un clima molto teso, al di là delle ridicole rassicurazioni di Trump, proprio perché in concomitanza con il raid americano in Siria e il surriscaldarsi dello scenario coreano.
L’aggravamento della crisi, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e una serie di test missilistici condotti da Pyongyang, sta sollevando l’interrogativo sulle reali intenzioni del governo americano. Se, cioè, l’escalation promossa dagli Stati Uniti nei confronti del regime di Kim possa effettivamente tradursi nel breve periodo in una nuova aggressione militare o se, invece, debba considerarsi un avvertimento, per quanto rischioso, indirizzato principalmente a Pechino.
A far propendere per quest’ultima ipotesi sarebbero alcuni segnali giunti da Washington dopo il vertice tra Trump e Xi. A parte le dichiarazioni del presidente americano, che ha parlato di “straordinari progressi” nei rapporti con la Cina, significativa è stata la notizia riportata dal Financial Times sulla disponibilità di Pechino a cancellare il bando alle importazioni di carne di manzo dagli Stati Uniti e ad alzare la percentuale delle quote che gli investitori stranieri possono detenere nelle compagnie finanziarie cinesi.
La retorica anti-cinese di Trump negli ultimi mesi era sembrata infatti puntare all’ottenimento di concessioni significative da parte di Pechino proprio sul fronte commerciale ed economico. Perciò, il rischio di veder scoppiare un conflitto dalle conseguenze incalcolabili in Corea, soprattutto dopo l’esempio della Siria, avrebbe spinto il governo cinese ad assecondare almeno alcune delle richieste americane.
Un inviato del governo di Pechino in Corea del Sud nella giornata di lunedì ha poi concordato con Seoul una strategia congiunta che prevede l’imposizione di nuove sanzioni contro Pyongyang se il regime dovesse portare a termine altri test nucleari o di missili balistici.
In questa dinamica potrebbero inserirsi quindi anche le recenti dichiarazioni del segretario di Stato americano, Rex Tillerson, il quale, pur definendo il bombardamento in Siria some una sorta di messaggio alla Corea del Nord, ha rivelato come il presidente Xi abbia promesso al governo di Washington una maggiore collaborazione nell’affrontare la questione del programma nucleare nordcoreano. La reazione di Pechino all’incursione militare americana in Siria di settimana scorsa è stata inoltre misurata, tanto da far pensare effettivamente a una qualche trattativa in atto per allentare le tensioni nella penisola di Corea.
A sostegno della tesi di coloro che considerano improbabile un’opzione militare in questo frangente vi è una dichiarazione citata dalla Reuters nel fine settimana sulla posizione dei governi di Giappone e Corea del Sud circa la possibilità di un attacco militare americano contro la Corea del Nord. Una fonte anonima del ministero della Difesa giapponese ha affermato che “probabilmente è irrealistico per gli Stati Uniti attaccare la Corea del Nord” e, soprattutto, che se Trump dovesse muoversi in questa direzione sia Tokyo sia Seoul si adopererebbero per impedire un’escalation militare.
Ciononostante, i preparativi per un’operazione militare contro la Corea del Nord da parte americana sembrano decisamente avanzati. A fornire questa impressione sono anche i media ufficiali che continuano a dare spazio ad analisi sull’eventuale efficacia di un raid in questo paese, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze in termini di vite umane e del possibile coinvolgimento della Cina.
Come dimostra proprio l’attacco in Siria, d’altra parte, l’amministrazione Trump non sembra mostrare troppi scrupoli nel ricorrere alla forza per imporre i propri interessi e per cercare di districarsi dalla profonda crisi sul fronte domestico nella quale è invischiata a nemmeno tre mesi dall’insediamento.
L’invio della portaerei “Carl Vinson” in Asia nord-orientale, assieme ad altre navi da guerra con un enorme potenziale distruttivo, è giunto infatti al termine della revisione della strategia americana relativa alla Corea del Nord ordinata dallo stesso presidente. Secondo NBC News, Trump e i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale avrebbero analizzato il rapporto su Pyongyang proprio alla vigilia dell’incontro con Xi in Florida.
Per la stampa americana sarebbero tre le opzioni a disposizione della Casa Bianca, tutte palesemente criminali o comunque destinate precipitare la penisola di Corea in una guerra rovinosa. Trump potrebbe cioè favorire il ritorno di armi nucleari sul territorio della Corea del Sud, dopo che erano state rimosse nel 1991, oppure ordinare l’assassinio dei leader nordcoreani, a cominciare dallo stesso Kim, o ancora dare il via libera a operazioni clandestine per colpire le installazioni militari e industriali del paese.
Quel che è certo è che qualsiasi iniziativa americana sarà presentata come se fosse di natura difensiva, necessaria per far fronte a un regime irresponsabile e imprevedibile, in grado di colpire gli alleati in Giappone e in Corea del Sud, se non lo stesso territorio americano.
I timori per un possibile blitz militare USA contro Pyongyang sono legati anche ad alcune celebrazioni che nel mese di aprile si terranno in Corea del Nord, tra cui il giorno 15 per i 105 anni dalla nascita di Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader. In queste occasioni, il regime è solito eseguire test missilistici o prendere altre iniziative provocatorie che potrebbero essere sfruttate dagli Stati Uniti per condurre un attacco militare.
Se le reali intenzioni dell’amministrazione Trump potranno essere decifrate solo in un futuro più o meno immediato, è comunque evidente che l’atteggiamento di Washington intende provocare precisamente una reazione sconsiderata da parte nordcoreana. La storia recente dei rapporti tra i due paesi nemici assicura infatti che alle minacce americane fanno puntualmente seguito risposte dai toni bellicosi.
A conferma di ciò, la reazione ufficiale di Pyongyang all’attacco USA in Siria ha fatto riferimento alla necessità di disporre di un arsenale nucleare efficace per fronteggiare la minaccia americana. Il calcolo illusorio del regime di Kim è quello di convincere gli Stati Uniti a desistere dall’attaccare un paese che dispone di armi atomiche, a differenza di quanto accaduto con Saddam Hussein, Gheddafi e, ora, Assad in Siria.
La corsa agli armamenti nella penisola di Corea non fa però che offrire l’occasione agli USA di rafforzare la loro presenza nella regione, dove l’obiettivo strategico principale è il contenimento di Pechino, e moltiplica il rischio di incidenti che potrebbero facilmente innescare un pericolosissimo conflitto su vasta scala.
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di Fabrizio Casari
Senza lo straccio di una prova, senza nessuna verifica circa l’accertamento dei fatti e le responsabilità, senza nessuna certezza sul materiale chimico utilizzato e, con esso, sull’identità dell’eventuale possessore, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco a base di missili Tomahawk sulla base militare siriana di Al Shayrat. Il Presidente Trump ha così avuto il suo “battesimo del fuoco”, rito di passaggio di ogni presidente statunitense che segna il passaggio dalla sua elezione all’assunzione effettiva di ruolo.
Stavolta è toccato alla Siria, il cui governo sembra effettivamente poco entrarci con le armi chimiche che hanno avvelenato decine di vittime. Ma non c’è nessuna prova che accusi le forze armate siriane dell’accaduto, che riferiscono invece di aver centrato con i loro aerei un deposito di armi dei terroristi jahidisti, dove evidentemente erano stoccate anche quelle chimiche.
Che l’Isis e le fazioni terroristiche facenti riferimento ad Al-Nusra dispongano di armi chimiche non è un segreto: gliele hanno fornite i turchi un anno fa su indicazione statunitense. Le hanno già usate in diverse occasioni, a Palmira come ad Aleppo, ma nel silenzio dei media occidentali che, del resto, tacciono anche sul flagello saudita su Sana’a e derubricano a incidente il massacro USA a Mosul. Come a dire che le vittime pesano a seconda di chi le fa.
Ma in guerra, come in politica, di fronte agli eventi domandarsi a chi giovano è esercizio ineliminabile se si vuole limitare i danni della propaganda. E anche in questo caso andrebbe fatto. E qui davvero non si comprende quale utilità avrebbe avuto Assad all’utilizzo di armi chimiche. In primo luogo la guerra in Siria è agli sgoccioli e l’alleanza tra Damasco e Mosca, con l’aiuto di Teheran e Hezbollah libanesi, ha praticamente vinto. Dunque perché provocare la comunità internazionale quando si sta già decidendo sede e composizione del tavolo della pace sulla Siria?
In secondo luogo: visto che la Siria ha dichiarato di aver inviato a suo tempo a Gioia Tauro tutte le armi chimiche siriane e che la Russia si è resa garante internazionalmente della moratoria sul loro uso, perché mai effettuare una sortita così goffa che distruggere la credibilità di Mosca e Damasco di fronte alla comunità internazionale? E tutto questo, ovvero un prezzo altissimo, sarebbe stato pagato per avere ragione di una casamatta dell’Isis in un paese senza particolare importanza, quando per la stessa presa di Aleppo, ben più importante strategicamente e politicamente, non è stato fatto?
Per sostenere la tesi dell’attacco aereo con armi chimiche su Khan Sheikhoun bisognerebbe ritenere che Assad sia stupido. Ma stupido non è. Lo fosse, non avrebbe resistito per anni e vinto una guerra con la quale tutto l’Occidente, in forma diretta e per procura con i terroristi islamici, ha tentato di spodestarlo. Damasco può semmai essere accusata di cinismo, di opportunismo, autoritarismo, ma certo non di stupidità.
La nuova crociata intrapresa si spiega con ragioni di politica interna statunitense, abilmente sollecitate. L’intenzione di Trump è di offrire spazio all'apparato militare statunitense per poter rafforzare una presidenza altrimenti già in crisi di credibilità, caratterizzata ogni giorno da licenziamenti, dimissioni e gaffes. L'apparato bellico statunitense, già in disaccordo con Obama sul mancato attacco in Siria, è il bastone indispensabile per Trump, l'unico in grado di bilanciare l'ostilità di CIA e FBI verso il tycoon, che deve quindi, in primo luogo, divincolarsi dalle accuse di collusione con Putin. In questa direzione va il licenziamento di Bannon, voluto dal falco McMaster: Trump cerca di acconsentire alle tesi guerrafondaie dei neocons, per cumulare forze utili a ridurre l’impatto dell’offensiva democratica, che punta a costruire le condizioni per arrivare in tempi rapidi all’impeachment.
Tutto ciò non esaurisce le motivazioni dietro all’ordine di attacco impartito ieri, vi sono anche ragioni di politica internazionale ancor più serie, non ultima quella di assegnare al presidente un profilo di uomo determinato, capace di sorvolare sulle ragioni della mediazione politica a favore del decisionismo. Le coincidenze non vanno mai sottovalutate. Trump attacca Damasco soprattutto per inviare un monito a Pechino.
Ospite del governo statunitense in Florida, il Presidente cinese è stato il vero destinatario del messaggio. Il riferimento è al nuovo equilibrio di forze che Trump chiede alla Cina. Un avvertimento forte circa la Corea del Nord, sul quale Washington la ritiene non sufficientemente attiva nel controllo e poco trasparente nelle sue intenzioni.
Quello che Trump vuole è un sostanziale reset del quadro delle relazioni con i cinesi, che comprenda la disputa sul Mar della Cina, il destino di Taiwan e, appunto, la soluzione della questione spinosa di Pyongyang. In cambio di questo offre l’apertura di relazioni commerciali prive delle logiche protezionistiche che si vorrebbero imporre al resto del mondo. L’Asia, i suoi immensi mercati, il suo ruolo geostrategico sono l’essenza della visione di politica estera della Casa Bianca e raggiungere un accordo con la Cina che veda gli Stati Uniti come dominus nell’area è il suo vero indirizzo strategico in politica estera.
Le reazioni russe all’attacco sono state dure, ma si sono fermate allo scontro politico e diplomatico, almeno per ora. Ha sospeso il memorandum con la coalizione a guida americana per la prevenzione degli incidenti e la garanzia della sicurezza dei voli ed ha annunciato che rafforzerà la difesa aerea siriana e chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Nella valutazione di Mosca pesa la sostanza militare dell’operazione, davvero per ora assai limitata. Il bombardamento ha colpito una base militare già evacuata, nessun missile ha colpito Damasco né obiettivi politici. Si può quindi definire l’azione militare una iniziativa che, sebbene rischi di innescare conseguenze gravi – resta comunque un gesto a carattere sostanzialmente dimostrativo.
La valutazione di Putin è che l’offensiva politica e diplomatica occidentale contro Mosca tende a stroncare sul nascere il clima di dialogo tra Putin e Trump. In questo senso pur muovendo le pedine politico-diplomatiche si guarda bene dall’incrementare lo scontro, consapevole che l’obiettivo strategico è quello di riportare il dialogo con Washington ad un livello che consenta il definitivo sdoganamento di Mosca nel grande risiko internazionale.
Obiettivo però ostacolato in diversi modi e da diverse forze. Gli interessi in gioco sono enormi e vanno da quelli del Pentagono, che senza la “minaccia russa” vedrebbe una diminuzione effettiva del suo ruolo e, in conseguenza, del budget per la Difesa. Ci sono poi gli interessi europei, tedeschi in testa, che puntano al rafforzamento della tensione con Mosca utilizzando la Crimea, l’Ucraina e le accuse di ingerenze russe nelle elezioni europee.
Parigi è interessata ad uno scontro politico aperto con Putin nella speranza che nell’attuale campagna elettorale francese questo possa danneggiare Marine Le Pen, che di Putin è estimatrice, mentre alla Germania giova un clima di tensione crescente con la Russia. Nella strategia tedesca c’è l’intenzione di candidare Berlino a un ruolo di garante politico verso i paesi dell’ex Patto di Varsavia.
La Germania pensa in sostanza di poterne rappresentare uno scudo politico e militare, prefigurando una sorta di suo protettorato verso Est e, in questa veste, disporre di una interlocuzione esclusiva con Mosca, bypassando la stessa UE, che considera un problema e non una soluzione.
Vedremo quali saranno gli sviluppi nelle prossime ore. Nel frattempo si può solo registrare come l’attacco alla Siria non abbia nulla a che vedere con la sorte delle vittime, a maggior ragione in un paese dove la guerra scatenata dall’Occidente in cinque anni ha lasciato sul terreno 270.000 morti di cui 14.000 bambini e mezzo milione di profughi. E’ solo il teatro cinico ed ipocrita di una colossale fake news avente come oggetto il tentativo disperato d’invertire le sorti del campo di battaglia, nella speranza di fermare una storia già scritta, quella della sconfitta occidentale in Siria.
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di Michele Paris
A quattordici anni dagli eventi che portarono all’invasione dell’Iraq e alla virtuale distruzione del paese mediorientale in base ad accuse totalmente fabbricate, gli Stati Uniti sembrano essere sul punto di scatenare una nuova aggressione contro un altro paese arabo grazie alla messa in scena seguita al recente “attacco” con armi chimiche in Siria, attribuito senza nessuna prova al regime di Bashar al-Assad.
I fatti che si sono susseguiti dopo l’episodio di martedì nella provincia nord-occidentale di Idlib hanno innescato due dinamiche ben precise e attentamente pianificate da parte dei fautori della guerra contro la Siria. Da un lato, l’intera macchina governativa e militare degli Stati Uniti ha iniziato una campagna retorica contro Damasco di un’intensità che non si riscontrava dall’agosto del 2013.
Dall’altro, questo sforzo è stato sostenuto da una vigorosa propaganda dei media “mainstream” per incolpare senza la minima esitazione il regime di Assad e soffocare qualsiasi voce critica o intenzionata a mettere in discussione la ricostruzione ufficiale di quanto accaduto in Siria.
La nuova offensiva dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” americano per giungere a un intervento su larga scala in Siria per rovesciare il regime di Damasco sembra avere ormai travolto anche la nuova amministrazione Trump, delle cui velleità di imbastire un dialogo con la Russia per combattere la minaccia terroristica in Medio Oriente non vi è ormai quasi più traccia.
Praticamente nulla del tradizionale corredo che precede le operazioni maggiori dell’imperialismo americano è stato trascurato in questi giorni: dalle accuse infondate rivolte ai propri nemici per un fatto di sangue dai contorni oscuri all’ostentazione rivoltante di scrupoli umanitari, dalla promessa di assecondare l’imperativo morale che guiderebbe la politica estera degli Stati Uniti all’occultamento delle responsabilità americane in crimini di gran lunga peggiori.
Il presidente, i membri del suo gabinetto e i vertici militari hanno così messo in chiaro come questa settimana sia stato fatto un passo forse decisivo nell’apertura di un nuovo rovinoso fronte di guerra in Medio Oriente, destinato ad abbattere il regime di Assad e a colpire nel contempo gli interessi di Russia e Iran.
Anche da un punto di vista formale, l’accelerazione dell’amministrazione Trump sulla Siria ha ricordato la campagna del 2003, soprattutto con l’intervento dell’ambasciatrice americana all’ONU, Nikki Haley, nella giornata di mercoledì durante una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza. Apparentemente senza imbarazzo, l’ex governatrice della South Carolina ha mostrato immagini di bambini vittime del presunto attacco con armi chimiche di martedì, avvertendo che il suo paese potrebbe adottare iniziative unilaterali se le Nazioni Unite non saranno in grado di fermare il massacro in Siria.
La presa di posizione più clamorosa è stata però quella del presidente, apparso in una conferenza stampa a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, per annunciare il suo cambiamento di “attitudine nei confronti della Siria e di Assad”. Per Trump, il regime di Damasco avrebbe commesso un atto “atroce” e “oltrepassato parecchie linee rosse”, in riferimento all’avvertimento di Obama allo stesso Assad nell’estate del 2013 dopo un altro attacco con armi chimiche attribuito al regime e che portò gli USA sull’orlo della guerra in Siria.
Le parole di Trump sono ancora più significative se si pensa che solo pochi giorni prima alcuni esponenti del suo gabinetto, tra cui la stessa ambasciatrice Haley, avevano rilasciato dichiarazioni pubbliche che sembravano riconoscere l’inevitabilità della permanenza al potere in Siria del presidente Assad.
Il repentino cambio di rotta, sollecitato dal presunto attacco con armi chimiche nella provincia di Idlib, dimostra come gli ambienti di potere negli Stati Uniti contrari alle posizioni di Trump sulla Siria e la Russia abbiano deciso di accelerare la propria offensiva, così da rimettere in linea la nuova amministrazione con gli obiettivi della galassia “neo-con”, votata all’interventismo a oltranza sulla scena internazionale nell’illusione di riuscire a invertire il declino della potenza americana.
A queste dinamiche può essere forse collegato anche un altro evento importante di questi giorni, cioè la rimozione del consigliere di Trump, Stephen Bannon, dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale (NSC). L’ideologo dell’ultra-nazionalismo di Trump sarebbe stato silurato dal direttore dell’NSC, generale Herbert Raymond McMaster, ovvero il principale rappresentante dell’apparato militare nel cuore della Casa Bianca. McMaster era stato scelto da Trump pochi giorni dopo l’insediamento per sostituire il “filo-russo” Michael Flynn, costretto alle dimissioni a causa dei suoi contatti “illeciti” con l’ambasciatore di Mosca a Washington.
McMaster avrebbe voluto il passo indietro di Bannon proprio per escludere dalla formulazione delle politiche sulla “sicurezza nazionale”, ovvero le decisioni in merito a guerre e iniziative militari di vario genere, un uomo molto vicino al presidente e per il quale aveva modellato i piani di impronta nazionalista, nonché moderatamente tendenti all’isolazionismo e alla distensione con la Russia.
Il riorientamento dell’amministrazione Trump verso le tradizionali posizioni “neo-con” che hanno dominato la politica estera USA dei suoi due predecessori è apparso evidente anche dalle parole seguite ai fatti in Siria di martedì del segretario di Stato, Rex Tillerson, considerato, almeno fino a qualche settimana fa, tra i principali sostenitori del disgelo con Mosca all’interno del gabinetto. Tillerson si è in sostanza anch’egli allineato alla nuova attitudine della Casa Bianca, assicurando di non avere dubbi sulle responsabilità di Assad e invitando la Russia a “riconsiderare attentamente il proprio sostegno al regime” siriano.
Per quanto riguarda i dettagli dei fatti di martedì in Siria, le incongruenze della versione ufficiale, subito sposata dagli Stati Uniti e dai loro alleati ma smentita in maniera decisa da Mosca e Damasco, sono state ampiamente messe in risalto da vari giornalisti e siti web indipendenti. Per i media ufficiali, invece, tutte le prove necessarie per la colpevolezza di Damasco consistono nelle informazioni provenienti da fonti dell’opposizione siriana e dalle note ufficiali dell’ufficio stampa della Casa Bianca.
Anche solo la parvenza di una posizione neutrale e indipendente avrebbe dovuto richiedere almeno un’indagine approfondita di quanto accaduto in una realtà complessa e difficilmente accessibile. Inoltre, i precedenti attacchi ben documentati con armi chimiche condotti da gruppi “ribelli” in Siria, assieme alla certificazione nel 2016 da parte dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche della rimozione dalla Siria di tutto l’arsenale proibito in possesso del regime, avrebbe dovuto suggerire cautela nel giungere alle conclusioni.
Ancora, non un solo giornale “mainstream” ha fatto notare ad esempio come l’indignazione del governo americano e dei suoi alleati occidentali per le vittime siriane di martedì si sia manifestata proprio mentre Trump accoglieva a Washington il presidente-macellaio egiziano al-Sisi, responsabile della morte di migliaia di oppositori interni a partire dal colpo di stato del luglio 2013 contro il presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi.
Non solo, sempre questa settimana la premier britannica, Theresa May, il cui rappresentante all’ONU ha contribuito alla stesura di una risoluzione di condanna del governo siriano, è stata protagonista di una visita cordiale in Arabia Saudita, il cui regime ultra-reazionario sta conducendo una guerra sanguinosa in Yemen, con il pieno appoggio occidentale, che ha fatto migliaia di vittime civili. Le notizie provenienti dal Medio Oriente fino alla scorsa settimana erano infine dominate dai bombardamenti americani a Mosul, in Iraq, nel quadro della battaglia contro lo Stato Islamico (ISIS) e che anche in questo caso avevano provocato centinaia di morti tra la popolazione civile.
Per questi fatti non è stata convocata nessuna riunione urgente del Consiglio di Sicurezza, né i diplomatici occidentali hanno mostrato indignati al mondo le immagini di donne e bambini massacrati dalle bombe degli Stati Uniti e dei loro alleati, nonostante le prove delle responsabilità siano in questo caso decisamente più consistenti di quelle contro la Siria.
Forse ancor più delle circostanze sul campo, praticamente impossibili da verificare in questa fase, è comunque un’analisi delle ragioni che avrebbero potuto motivare un eventuale attacco con armi chimiche da parte del regime di Assad a risultare utile per fare chiarezza sui fatti di martedì nella provincia di Idlib.
Per quanto alcuni analisti citati dai media ufficiali abbiano provato a dare giustificazioni contorte delle motivazioni di Damasco, in nessun modo il regime avrebbe potuto trarre vantaggio da un’incursione in un’area controllata dai “ribelli” utilizzando il sarin o altre sostanze chimiche, oltretutto prendendo di mira la popolazione civile.
Un governo, come quello di Assad, che ha resistito per oltre sei anni a un’offensiva sostenuta dalle principali potenze regionali e internazionali, a costo della devastazione del paese e di centinaia di migliaia morti, solo in un gesto del tutto irrazionale, per non dire suicida, avrebbe potuto pensare che il ricorso ad armi chimiche contro i civili non si sarebbe risolto in nuove accuse, pressioni e minacce di guerra.
Inoltre, Assad avrebbe ordinato un’operazione di questo genere proprio quando negli Stati Uniti si è insediata una nuova amministrazione apparentemente meno ostile della precedente e pochi giorni dopo che alcuni esponenti di quest’ultima avevano mostrato aperture circa la sua permanenza al potere in Siria.
Al contrario, sono proprio le formazioni dell’opposizione armata a raccogliere i benefici di un attacco con armi chimiche attribuito al regime, tanto più in uno scenario segnato da mesi di pesanti rovesci sul fronte militare.
Come dimostrano anche in questo caso i precedenti sia in Siria sia in Iraq, il tempismo di quanto accaduto non è casuale. Oltre che all’indomani delle già citate dichiarazioni del governo USA sul riconoscimento della posizione di Assad, l’episodio di martedì è arrivato in contemporanea con l’apertura a Bruxelles di una conferenza internazionale sulla Siria, nel quale si è discusso di una possibile “transizione” politica e di una ricostruzione che, tuttavia, dopo i fatti di questi giorni sembra appartenere a un futuro sempre più lontano.
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di Michele Paris
La vigilia del primo faccia a faccia tra il presidente americano, Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping, è stata segnata dal lancio, da parte della Corea del Nord, di un missile balistico nel Mare del Giappone, il più recente di una serie che nelle ultime settimane ha accompagnato una pericolosa escalation di minacce americane nei confronti del regime stalinista di Pyongyang.
La stampa sudcoreana ha dato notizia del lancio nella prima mattinata di mercoledì. Attorno alle 6.40 ora locale, dalla base nordcoreana di Sinpo è partito quello che i militari americani hanno identificato come un missile a medio raggio KN-15, affondato in mare 11 minuti più tardi dopo avere percorso circa 60 chilometri.
Visto il quasi completo isolamento internazionale in cui continua a trovarsi la Corea del Nord, i test missilistici sono solitamente il metodo preferito del regime di Kim Jong-un per comunicare con l’esterno, in particolare con i propri nemici.
Come sempre, inoltre, il lancio di ordigni fa aumentare pressioni e provocazioni che soprattutto gli Stati Uniti mettono in atto nei confronti della Corea del Nord. Quest’ultimo paese, a sua volta, insiste nel mantenere un atteggiamento di sfida, alimentando una spirale di minacce e ritorsioni che rischia seriamente di far riesplodere la guerra nella penisola di Corea.
Se l’ultimo episodio della vicenda nordcoreana è tutt’altro che inedito, esso si inserisce in un clima particolarmente teso, con la nuova amministrazione Trump impegnata a mandare segnali espliciti circa una possibile soluzione militare a tutto campo per risolvere definitivamente il problema rappresentato dal regime.
A dare l’idea della situazione è stata la risposta ufficiale del dipartimento di Stato USA al lancio di mercoledì. Il segretario Rex Tillerson non ha cioè nemmeno commentato l’iniziativa di Kim, ma ha semplicemente riconosciuto il lancio di un missile balistico per poi sottolineare in maniera concisa come “gli Stati Uniti abbiano parlato abbastanza della Corea del Nord” e non vi siano “ulteriori commenti” da fare.
Questa sorta di silenzio su Pyongyang da parte di Washington sembra prefigurare l’esistenza di avanzati preparativi per un’azione militare distruttiva. Una sensazione, quest’ultima, suffragata dalle dichiarazioni rilasciate pubblicamente nei giorni scorsi dal presidente Trump, da membri del suo gabinetto e da alti ufficiali militari.
Il presidente americano, in un’intervista al Financial Times, aveva invitato ancora una volta la Cina a collaborare per fermare il programma nucleare di Pyongyang, ma, se ciò non dovesse avvenire, Trump aveva assicurato che gli Stati Uniti si faranno carico da soli della risoluzione del problema nordcoreano.
Trump era stato solo parzialmente contraddetto poco più tardi dal numero uno del Comando Strategico americano, generale John Hyten, responsabile tra l’altro dell’arsenale nucleare USA. Hyten aveva spiegato come Pechino sia essenziale nell’affrontare la sfida della Corea del Nord, lasciando intendere quindi che qualsiasi soluzione unilaterale rischierebbe di trascinare la Cina in un conflitto armato in Asia nord-orientale. Lo stesso generale aveva comunque aggiunto che il comando da lui guidato avrebbe presentato al presidente i piani per una possibile opzione militare in relazione alla Corea del Nord.
L’opzione militare, assieme a nuove sanzioni e cyber-attacchi clandestini, è stata citata apertamente martedì anche da un membro dello staff della Casa Bianca, dal momento che “il tempo è ormai scaduto” e la situazione nella penisola è di “urgente interesse” per l’amministrazione Trump.
Anche il segretario di Stato Tillerson, nel corso della sua trasferta in Estremo Oriente a metà marzo, aveva affermato che la politica della “pazienza strategica” aveva fatto il proprio corso e che, nei confronti della Corea del Nord, sul tavolo vi era anche l’ipotesi di un attacco militare.
Trump e il suo entourage insistono sul fallimento dei precedenti governi americani nel risolvere la crisi coreana attraverso metodi “pacifici” o con la collaborazione cinese. In realtà, però, nel recente passato le amministrazioni americane hanno sempre boicottato i negoziati con Pyongyang, preferendo alimentare lo scontro per i propri interessi strategici.
Malgrado le poche settimane trascorse dall’insediamento, anche la nuova amministrazione non ha ritenuto opportuno considerare l’ipotesi di aprire un qualche dialogo – diretto o indiretto – con Pyongyang. Anzi, quando qualche settimana fa Pechino aveva proposto il ritorno al tavolo delle trattative, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere le massicce esercitazioni militari in corso con le forze armate sudcoreane in cambio del congelamento del programma nucleare del regime di Kim, Washington ha opposto un secco rifiuto.
Ex esponenti dell’apparato militare americano hanno anch’essi confermato in questi giorni come l’amministrazione Trump stia seriamente considerando un’operazione militare contro la Corea del Nord. Uno di questi è l’ultimo segretario alla Difesa di Obama, Ashton Carter, che nel fine settimana si è detto pessimista sulla possibilità di risolvere diplomaticamente la crisi nordcoreana con la collaborazione della Cina.
Carter, considerato uno dei più convinti “falchi” della precedente amministrazione Democratica, ha parlato di un possibile attacco “preventivo” contro le installazioni militari nordcoreane, in seguito al quale, però, Pyongyang risponderebbe con un’invasione o un contrattacco nei confronti della Corea del Sud.
A questo punto lo scenario ipotizzato dal numero uno del Pentagono diventa catastrofico e dimostra la totale assenza di scrupoli degli ambienti di potere americani per la vita di milioni di persone. Carter si è mostrato “ottimista” sull’esito dell’eventuale conflitto, ma ha avvertito che la guerra contro il regime di Kim sarebbe di un’intensità e di una violenza tali da essere paragonabile a quella del 1950-1953, al termine della quale, secondo alcune stime, si contarono un totale di circa 5 milioni tra morti, feriti e dispersi.
La stampa occidentale continua a far notare come la Corea del Nord non abbia ancora le capacità tecniche per equipaggiare un missile a lungo raggio con una testata nucleare. Ciò non rappresenta però uno stimolo a percorrere al più presto la strada della diplomazia, ma sembra essere piuttosto un motivo per accelerare un attacco militare prima che sia troppo tardi e la reazione di Kim risulti efficace.
L’ex direttore della CIA, Michael Hayden, ha ad esempio avvertito in una recente intervista alla CNN che, “prima della fine del mandato di Trump, la Corea del Nord sarà probabilmente in grado di raggiungere [la città sulla costa occidentale americana di] Seattle con un’arma nucleare… montata su un missile balistico intercontinentale”.
I venti di guerra in Asia nord-orientale continuano a essere alimentati da un dibattito sui media e all’interno della classe politica americana che omette puntualmente di ricordare le più che probabili conseguenze di un attacco contro la Corea del Nord. Una guerra provocherebbe non solo un numero enorme di vittime nella penisola di Corea, ma rischierebbe di allargarsi rapidamente, coinvolgendo la Cina e, forse, la stessa Russia o il Giappone, mentre estremamente probabile sarebbe il ricorso ad armi nucleari.
Secondo alcuni osservatori, l’escalation di minacce del governo americano contro il regime di Kim rientrerebbe in una strategia che non prevede tanto il ricorso immediato alla forza ma che serve più che altro ad aumentare le pressioni su Pechino, sia per richiamare all’ordine la Corea del Nord sia, ancor più, per ottenere concessioni militari, commerciali e strategiche dalla stessa Cina.
Come già ricordato, la nuova crisi in Asia orientale è esplosa pochi giorni prima dell’arrivo negli USA del presidente cinese Xi per un vertice con Trump che si annuncia estremamente teso e sul quale peserà l’ombra della situazione in Corea. Se anche così fosse, tuttavia, l’aggressività della nuova amministrazione Repubblicana di Washington non può che far aumentare il rischio di un conflitto con la Corea del Nord o con la Cina, nel breve o nel medio periodo.
In ogni caso, l’ipotesi di un attacco militare ordinato da Trump contro Pyongyang non può essere scartata, al di là delle conseguenze che ne deriverebbero. A spingere verso questa soluzione ci sono vari fattori – dalla popolarità in picchiata del presidente al conflitto interno alla classe dirigente americana sulla Russia, dalle pressioni dell’apparato militare alla necessità di far fronte alla crescente influenza cinese – tutti derivanti invariabilmente dal rapido e inevitabile deterioramento della posizione internazionale degli Stati Uniti.