di Michele Paris

Mentre la stampa americana e quella internazionale sono impegnate a raccontare la vicenda dei legami con la Russia del consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, questa settimana il Senato di Washington ha ratificato ufficialmente la nomina a segretario al Tesoro dell’ex top manager di Goldman Sachs, Steven Mnuchin.

Mnuchin è l’ennesimo multimilionario a entrare a far parte della nuova amministrazione Repubblicana, nonché uno dei tanti discepoli del colosso bancario americano scelti dal neo-presidente per implementare un’agenda economica apertamente pro-business.

Le credenziali che hanno portato Mnuchin alla guida del Tesoro americano non sono da ricercare nella sua esperienza politica o come capo di un qualche ente governativo di vigilanza dell’industria finanziaria, bensì nell’ambito della pura speculazione bancaria.

Entrato nella prima metà degli anni Novanta in Goldman Sachs, dove lavorava il padre, Mnuchin ne è diventato vice-presidente nel dicembre del 2001, prima di lasciare l’istituto l’anno successivo con un bonus di oltre 50 milioni di dollari. Dopo Wall Street, Mnuchin si è avventurato nel mondo degli “hedge funds”, finanziando tra l’altro alcuni progetti immobiliari di Donald Trump.

L’ultima parte della sua carriera è stata quella maggiormente indagata dai giornali americani e dal Senato di Washington durante le audizioni che hanno preceduto la conferma alla carica di segretario al Tesoro.

Nel 2009, il fondo di Mnuchin acquistò a un prezzo di favore la banca californiana IndyMac, fortemente coinvolta nella crisi dei mutui “subprime”. Il nuovo istituto venne ribattezzato OneWest e avrebbe subito perseguito un’aggressiva politica di pignoramento degli immobili i cui proprietari non erano più in grado di pagare i mutui contratti. Mnuchin e la sua banca realizzarono profitti enormi con questo genere di speculazione, mentre molti proprietari decisero di avviare cause legali, spesso risolte in patteggiamenti milionari.

In un caso riportato qualche settimana fa dalla stampa USA, OneWest aveva pignorato l’abitazione di una donna di 90 anni in seguito a un errore nel pagamento del suo mutuo pari a 27 centesimi di dollaro.

Senza mostrare particolari scrupoli, nel corso delle audizioni al Senato Mnuchin ha mentito deliberatamente in risposta alle domande sulle pratiche della banca OneWest, assicurando che quest’ultima non ha “ricavato benefici dalle sofferenze altrui”. Ciò è bastato perché Mnuchin riuscisse a incassare la conferma del Senato.

Tutti e 52 i senatori Repubblicani hanno infatti votato a favore del nuovo segretario al Tesoro, assieme a un unico Democratico, il “centrista” Joe Manchin della West Virginia, mentre gli altri 47 Democratici hanno espresso parere contrario. In precedenza, la leadership Democratica aveva provato a rallentare la nomina di Mnuchin boicottando le audizioni alla commissione Finanza del Senato, ben sapendo però fin dall’inizio che non ci sarebbero state di fatto possibilità reali di successo.

In un’altra controversia scoppiata attorno alla sua nomina, Mnuchin aveva mancato di notificare al Congresso la proprietà di beni immobiliari per quasi 100 milioni di dollari, più alcune opere d’arte per un altro milione e il suo ruolo di direttore di un fondo di investimenti con sede alle isole Cayman.

Una volta insediato nel suo nuovo incarico, Mnuchin sarà chiamato a prendere decisioni importanti per l’economia americana e non solo. Entro il 15 marzo prossimo, ad esempio, il Congresso dovrà autorizzare l’innalzamento del tetto del debito federale e, se ciò non dovesse avvenire, sarà il segretario al Tesoro a dover decidere come trovare e dove indirizzare il denaro pubblico per il pagamento degli obblighi del governo di Washington, così da evitare il default.

Un'altra questione cruciale sarà la “riforma” del sistema di tassazione per le aziende private. Mnuchin ha affermato di fronte al Senato di essere contrario a un “taglio incondizionato” del carico fiscale delle corporation americane, ma Trump e la maggioranza Repubblicana al Congresso stanno preparando precisamente un abbassamento sostanziale delle tasse per il business privato e il nuovo numero uno del Tesoro finirà con ogni probabilità per avallare l’impostazione complessiva della proposta finale.

Mnuchin sarà anche coinvolto, assieme al consigliere per l’economia del presidente, Gary Cohn, nella preparazione del piano di smantellamento delle già esili regolamentazioni dell’industria finanziaria americana, come promesso prima e dopo le elezioni da Trump.

Nel mirino c’è in particolare la legge “Dodd-Frank” del 2010, ovvero la riforma seguita alla crisi finanziaria del 2008-2009 che avrebbe dovuto limitare le pratiche criminali delle banche americane.

Su quest’ultimo punto opererà inoltre il probabile nuovo direttore della Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC), l’avvocato di Wall Street Jay Clayton. Il prescelto da Trump per guidare un’agenzia che dovrebbe in teoria tutelare risparmiatori e investitori, la cui consorte lavora per Goldman Sachs, ha dedicato tutta la sua carriera alla difesa delle grandi banche e, secondo la senatrice Democratica Elizabeth Warren la sua nomina è stata “un’ottima notizia per chi dirige una grande banca o un hedge fund”.

Sotto la gestione di Clayton, è più che probabile che le già fragili iniziative della direttrice uscente della SEC, Mary Jo White, per la protezione degli investitori, così come quelle punitive dirette contro le banche che violano le regole, verranno indebolite per favorire il libero svolgimento delle manipolazioni finanziarie.

Il nuovo segretario al Tesoro Mnuchin non è infine l’unico rappresentante di Wall Street e, più precisamente, non è l’unico ad avere lavorato per Goldman Sachs all’interno dell’amministrazione Trump. Il già ricordato Gary Cohn è stato fino a pochi giorni fa il presidente di questa banca, lasciata per entrare alla Casa Bianca con una buonuscita che, secondo la CNN, ammonta a 285 milioni di dollari.

Lo stesso “stratega capo” del presidente, Stephen Bannon, al centro di accese polemiche per le sue inclinazioni neo-fasciste, ha lavorato nella divisione Fusioni e Acquisizioni di Goldman Sachs, diventandone vice-presidente fino al suo addio nel febbraio del 1990. Anche Anthony Scaramucci, infine, ha beneficiato della sua permanenza in Goldman Sachs fino al 1996 per ottenere la direzione di un ufficio alla Casa Bianca dopo l’elezione di Trump.

La presenza di ex manager di Goldman Sachs all’interno dei governi americani, incluse le amministrazioni Democratiche, è tutt’altro che nuova, né può essere una sorpresa nel caso di un presidente miliardario che ha costruito il suo governo scegliendo membri di spicco della ristretta élite economico-finanziaria americana.

Le nomine seguite al successo di Trump nel voto di novembre hanno perciò da subito contraddetto la retorica populista di una campagna elettorale incentrata sull’appello a lavoratori e classe media, messi in crisi anche da un’industria finanziaria onnipotente. Proprio contro Goldman Sachs, poi, Trump si era scagliato in più occasioni, denunciando frequentemente i legami molto stretti tra i vertici della banca di Wall Street e la sua sfidante per la Casa Bianca, Hillary Clinton.

di Michele Paris

Nella serata di lunedì in America sono arrivate le dimissioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, generale Michael Flynn, al termine di un’escalation di complotti, pressioni e fughe di notizie che si è risolta con una chiara vittoria per la fazione anti-russa all’interno dell’apparato di potere degli Stati Uniti. Flynn, già direttore dei servizi segreti militari, prima di essere licenziato da Obama nel 2014, era uno dei fedelissimi di Trump e, nelle intenzioni del neo-presidente, avrebbe dovuto modellare gli orientamenti in politica estera della nuova amministrazione Repubblicana.

In quanto legato per molti versi al governo russo, Flynn era stato fin dall’inizio uno dei bersagli preferiti dei leader Democratici e della galassia “neo-con” che vede nel Cremlino il principale avversario strategico dell’imperialismo USA.

Proprio i suoi rapporti con la Russia hanno fornito l’occasione all’apparato dell’intelligence e all’amministrazione Obama uscente di preparare un assalto frontale alle politiche di relativa distensione con Mosca allo studio nella nuova Casa Bianca.

I protagonisti principali dell’imboscata tesa a Flynn e allo stesso Trump sono stati non a caso componenti dell’amministrazione Obama, ovvero l’ex ministro della Giustizia ad interim, Sally Yates, l’ex direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, e l’ex direttore della CIA, John Brennan. La Yates, inoltre, era rimasta a guidare temporaneamente il dipartimento di Giustizia dopo l’insediamento di Trump prima di essere licenziata per essersi rifiutata di prendere le difese del famigerato bando anti-immigrati firmato dal nuovo presidente.

La vicenda che è costata il posto a Michael Flynn è legata a una serie di conversazioni, intrattenute da quest’ultimo prima di assumere ufficialmente il suo nuovo incarico, con l’ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak. Nel corso di esse, Flynn avrebbe discusso di vari argomenti, riconducibili ovviamente ai rapporti tra i due paesi, incluse le sanzioni applicate dall’amministrazione Obama contro Mosca in risposta alla mai provata interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane dello scorso novembre.

I colloqui tra Flynn e l’ambasciatore Kislyak erano stati intercettati dall’intelligence americana, i cui vertici ne hanno riferito il contenuto al dipartimento di Giustizia. La Yates, a questo punto, con ogni probabilità su indicazione degli stessi servizi segreti, ha ritenuto di utilizzare le conversazioni per fini politici, informando l’amministrazione Trump dell’accaduto e mettendo in guardia il presidente sul fatto che Flynn avrebbe potuto essere “vulnerabile ai ricatti russi”.

Il pretesto per sollevare la questione sarebbe stato il fatto che Flynn non aveva comunicato al vice-presidente, Mike Pence, e quindi a Trump, di avere discusso anche delle sanzioni con l’ambasciatore russo. In particolare, il consigliere per la Sicurezza Nazionale designato da Trump si era raccomandato che la Russia non adottasse ritorsioni contro le sanzioni decise da Obama, poiché l’imminente avvicendamento alla Casa Bianca avrebbe con ogni probabilità portato a una distensione tra Mosca e Washington.

Il comportamento di Flynn, secondo il dipartimento di Giustizia, avrebbe potuto violare un’oscura e mai applicata legge del 1799 (“Logan Act” ) che proibisce ai privati cittadini di intrattenere rapporti diplomatici con governi stranieri in merito a dispute o controversie che questi ultimi possano avere con gli Stati Uniti.

Una ricostruzione degli eventi, accaduti tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, aiuta a comprendere come gli ambienti di potere ostili a un riavvicinamento alla Russia abbiano cercato in tutti i modi di giungere alla rimozione di Flynn con il pretesto della discussione sulle sanzioni e del fatto che di ciò non ne era stata fatta parola con il vice-presidente Pence.

Secondo il Washington Post, la Yates avrebbe iniziato a preoccuparsi seriamente per il contenuto delle conversazioni tra Flynn e l’ambasciatore Kislyak nei giorni successivi al 29 dicembre, data in cui Obama aveva emesso nuove sanzioni contro il governo di Putin sempre a causa delle presunte violazioni dei sistemi informatici del Partito Democratico al fine di favorire Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Infatti, il Cremlino aveva evitato di adottare provvedimenti in risposta alla mossa di Obama. Un atteggiamento prudente, quello del presidente russo, che l’intelligence USA avrebbe spiegato con le promesse fatte da Flynn a Kislyak. L’FBI, allora, decise di redigere un rapporto sul comportamento del consigliere per la Sicurezza Nazionale incaricato.

Ricapitolando, le sanzioni firmate da Obama a fine 2016 non avevano provocato la risposta russa che la Casa Bianca auspicava per inasprire ulteriormente i rapporti con Mosca e rendere complicato il disgelo promesso da Trump. Con questa arma spuntata, viste anche le possibili promesse di Flynn al rappresentante del governo russo a Washington, l’intelligence USA ha deciso allora di utilizzare le registrazioni delle conversazioni tra i due per mettere alle strette Trump e ottenere lo stesso risultato.

Il neo-presidente e i suoi più stretti collaboratori, però, vista la delicatezza della questione erano quasi certamente a conoscenza dell’iniziativa di Flynn, al di là delle smentite ufficiali, e di conseguenza non hanno preso alcuna posizione pubblica sulla vicenda. Inoltre, sempre per il Washington Post, la stessa Sally Yates si era resa conto da subito dell’estrema improbabilità di poter aprire un’indagine nei confronti di Flynn in base al “Logan Act”.

A questo punto, vista l’inefficacia degli sforzi e l’intenzione di Trump di difendere Flynn, i vertici dell’intelligence devono avere deciso di passare la notizia alla stampa nel tentativo di sollevare un polverone mediatico, sempre con l’obiettivo di silurare il consigliere per la Sicurezza Nazionale e ostacolare la distensione con Mosca.

Puntualmente, il 12 gennaio il Washington Post ha così pubblicato un articolo sulle conversazioni di Flynn e le sanzioni contro la Russia, firmato da David Ignatius, opinionista universalmente noto per i suoi legami con l’intelligence USA.

Da allora, la valanga che ha finito per travolgere Flynn non ha fatto che aumentare. Come spesso accade in questi casi, Trump e il suo staff hanno fatto inizialmente muro per cercare di difendere Flynn, ma le divisioni anche all’interno della nuova amministrazione sono rapidamente emerse.

Il presidente aveva mantenuto il silenzio sulla vicenda negli ultimi giorni. Lunedì, invece, la consigliera di quest’ultimo, Kellyanne Conway, aveva affermato che Trump riponeva “totale fiducia” in Flynn, ma pochi minuti più tardi il capo ufficio stampa della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva avvertito che il presidente stava “valutando la situazione”, lasciando intendere che il consigliere aveva le ore contate. In definitiva, di fronte alla stampa la posizione di Flynn era diventata insostenibile.

La Casa Bianca aveva probabilmente concordato con il neo-consigliere la posizione ufficiale da tenere in merito al tema delle sanzioni discusso con l’ambasciatore russo, tanto che tutti i membri dell’amministrazione Trump intervenuti sul caso avevano sempre negato che i due avessero parlato di questo. Non potendo tuttavia ammettere che lo stesso presidente o uomini a lui molto vicini avessero avallato l’iniziativa di Flynn, è stato inevitabile far passare quest’ultimo per bugiardo e sacrificarlo forzandone le dimissioni.

La responsabilità dell’accaduto, così come delle conseguenze strategiche che potrebbero seguire l’addio di Flynn al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, sono da attribuire ad ogni modo a Trump. I giornali americani hanno descritto in maniera dettagliata le resistenze all’interno della nuova amministrazione alle posizioni di Flynn, non tanto per i suoi metodi non esattamente diplomatici o per la sua ossessione nei confronti della minaccia del fondamentalismo islamico, quanto proprio per l’attitudine troppo conciliante nei confronti del Cremlino.

I nemici di Flynn, ovvero la nutrita fazione anti-russa della classe dirigente americana, non sono quindi solo al di fuori del governo Trump ma, appunto al suo interno, e le loro pressioni sembrano avere convinto il presidente a cedere su una questione che in molti ritengono cruciale per gli orientamenti strategici degli Stati Uniti nel prossimo futuro.

Le intenzioni di Michael Flynn, così come quelle di Trump, erano tutt’altro che pacifiche, come aveva confermato una sua recente dichiarazione minacciosa verso l’Iran, messo ufficialmente “sull’avviso”, dopo un test missilistico. Tuttavia, le sue dimissioni potrebbero determinare quanto meno un certo attenuamento della volontà distensiva della nuova amministrazione Repubblicana nei confronti della Russia. Tanto più che svariati membri del Congresso, soprattutto Democratici, già chiedono che la vicenda Flynn faccia da base di partenza per un’indagine a tutto campo sui legami tra Mosca e l’amministrazione Trump.

Senza dubbio è troppo presto per prevedere un allineamento di Trump all’isteria anti-russa che aveva caratterizzato l’amministrazione Obama, ma il nuovo presidente potrebbe avere recepito il messaggio lanciato dall’apparato militare e dell’intelligence. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno investito parecchio in questi anni nello sforzo di dipingere la Russia come una minaccia agli interessi americani e l’impegno di Trump per ricostruire un rapporto disteso con Mosca, sia pure per concentrarsi sulla rivalità con la Cina, non può essere lasciato a dispiegarsi in maniera indisturbata.

Qualche indicazione in più sullo stato del conflitto interno al governo americano e sulle intenzioni di Trump si avrà forse con la nomina del successore di Flynn alla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Per ora è stato scelto provvisoriamente il generale in pensione Keith Kellogg, già segretario dello stesso Consiglio, ma Trump starebbe valutando i candidati per una nomina definitiva.

Secondo i media americani in vantaggio ci sarebbero il vice-ammiraglio Robert Harward, già numero due del Comando Centrale, responsabile per le forze armate USA nel Vicino Oriente, e l’ex comandante delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ed ex direttore della CIA, David Petraeus.

Un’eventuale scelta in questo senso profilerebbe un cambio di rotta rispetto a Flynn sulla Russia. Harward viene infatti considerato molto vicino al segretario alla Difesa, generale James Mattis, cioè una delle voci critiche della Russia nell’amministrazione Trump, mentre la sua candidatura è già stata sostenuta con entusiasmo dall’ex portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Obama, Tommy Vietor.

Petraeus, a sua volta, si è spesso distinto per le posizioni ferocemente anti-russe, fino a dichiarare, in una recente audizione alla Camera dei Rappresentanti di Washington, che il governo di Putin è impegnato in uno sforzo “per delegittimare l’intero nostro sistema di vita democratico”.

di Mario Lombardo

L’elezione a 12esimo presidente della Germania dell’ex ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, ha ratificato nel fine settimana non solo il previsto passaggio di consegne ai vertici dello stato tedesco, ma anche una serie di avvicendamenti a cariche di rilievo tra i leader del Partito Social Democratico (SPD), da collegare ai cambiamenti strategici internazionali preannunciati negli ultimi mesi e alla necessità sempre più evidente di perseguire una politica da grande potenza da parte di Berlino.

Lo scambio di ruoli tra i politici Socialdemocratici più influenti era iniziato a fine gennaio con l’annuncio a sorpresa da parte del numero uno del partito, nonché ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, della sua rinuncia a candidarsi a cancelliere nelle elezioni generali previste per il prossimo mese di settembre.

Gabriel aveva proposto per la successione ad Angela Merkel l’ex presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, mentre in precedenza si era già assicurato un accordo con la maggioranza Cristiano-Democratica per l’elezione a presidente federale di Steinmeier.

Quest’ultimo è stato votato domenica a larga maggioranza dall’assemblea federale tedesca e succederà il 18 marzo prossimo a Joachim Gauck, non interessato, all’età di 77 anni, a ricoprire un secondo mandato quinquennale alla presidenza della prima potenza economica europea.

L’accoglienza di Steinmeier da parte della stampa anglo-sassone e, soprattutto, americana è stata significativa, dal momento che il leader della SPD è stato dipinto quasi universalmente come un fermo oppositore di Donald Trump. Steinmeier aveva infatti rilasciato svariati commenti pungenti nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca a partire dalla sua elezione nel mese di novembre.

Anche se nascoste dietro a una retorica che lasciava intendere vi fossero preoccupazioni per le tendenze anti-democratiche di Trump, le prese di posizione di Steinmeier hanno in realtà sempre avuto a che fare principalmente con questioni di diversa natura. Dopo il voto di domenica, in un’intervista alla ZDF il neo-presidente tedesco ha infatti parlato di un “completo riassestamento delle relazioni internazionali”, in atto dopo il successo di Trump.

Ancora, Steinmeier non ha negato che la classe dirigente tedesca dovrà fronteggiare uno scenario fatto, “nella migliore delle ipotesi”, di “incertezze e difficoltà nei rapporti transatlantici”. Il fatto che un capo di stato appena eletto a un incarico principalmente di rappresentanza abbia rilasciato dichiarazioni così allarmate nei confronti di un alleato la dice lunga sul potenziale conflitto tra Washington e Berlino che si profila nel prossimo futuro.

L’altro aspetto chiave della presidenza Steinmeier e, più in generale, dell’orientamento che la classe dirigente tedesca, o quanto meno una parte di essa, intende dare al paese tramite la leadership Socialdemocratica è emerso da un passaggio del discorso dell’ex ministro degli Esteri dopo il voto dell’assemblea federale. Steinmeier ha in sostanza invocato un ruolo di guida in Europa per la Germania, la quale dovrebbe costituire “un’ancora di speranza” nei tempi tumultuosi che stanno presumibilmente per arrivare.

In altre parole, dietro alle manovre dei leader politici tedeschi e, in particolare, di quelli della SPD vi è la sensazione, per non dire la certezza, che l’avvento di Trump alla Casa Bianca e l’impronta ultra-nazionalista della sua agenda comportino un inevitabile scontro tra gli interessi del capitalismo USA e di quello indigeno, come hanno già lasciato intendere le accuse lanciate alla Germania dal presidente americano.

A questo atteggiamento di sfida proveniente da Washington, Berlino intende rispondere con un irrigidimento delle proprie posizioni, ovvero gettando le basi per il perseguimento degli interessi del business tedesco in maniera indipendente, da un lato accelerando le spese militari per facilitare la conquista e il presidio di nuovi mercati e, dall’altro, rafforzando la leadership della Germania nell’Unione Europea.

Questi obiettivi sono tutt’altro che nuovi, anche se l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, l’evolversi degli scenari internazionali e l’avvicinarsi delle elezioni federali hanno introdotto più di una nota di urgenza, di cui si sono osservati appunto i segnali nelle recenti manovre dei vertici della Socialdemocrazia tedesca.

A partire almeno dal 2014, lo stesso Steinmeier, assieme a vari leader della CDU di Angela Merkel e al presidente uscente Gauck, aveva in varie occasioni auspicato un nuovo “ruolo globale” per una Germania che, alla luce del proprio peso economico e delle proprie ambizioni, non poteva più sottrarsi alle responsabilità internazionali.

Sulla stessa linea si è espresso più volte anche Sigmar Gabriel, non a caso subentrato nel mese di gennaio a Steinmeier nel ruolo di ministro degli Esteri del governo di Berlino. Gabriel ha anch’egli invocato una strategia sul piano economico e della sicurezza non necessariamente legata agli Stati Uniti. Anzi, un’eventuale guerra commerciale inaugurata dall’amministrazione Trump potrebbe aprire “opportunità” per la Germania e l’Europa, soprattutto in relazione agli scambi con la Cina.

In questo quadro, anche la candidatura di Schulz a cancelliere trova la principale spiegazione non solo nella difficoltà della SPD a far breccia tra gli elettori con un leader di basso profilo come Gabriel, ma anche e soprattutto nel moltiplicarsi delle richieste per dare una nuova rotta alla politica estera della Germania.

Anche l’ex presidente del parlamento europeo ha non a caso più volte attaccato Trump, ritornando sulla contrapposizione tra Berlino e Washington anche in una recente intervista rilasciata a Der Spiegel, nella quale ha ad esempio definito il neo-presidente USA un “pericolo per la democrazia”.

Per Schulz, Trump intende dividere l’UE e “distruggere il mercato europeo”. Simili minacce, ha aggiunto il candidato cancelliere della SPD, si possono combattere solo con “un vero rafforzamento dell’Unione”, ovviamente sotto la guida della Germania.

Con il ritorno di Martin Schulz sulla scena politica tedesca, il suo partito ha improvvisamente fatto segnare una certa avanzata nei sondaggi. Schulz, poi, sembra essere addirittura più gradito come cancelliere dagli elettori rispetto alla Merkel.

Al di là delle rilevazioni statistiche, sembrano esserci in realtà fortissimi interessi che spingono per un cambio ai vertici del governo di Berlino e la SPD appare come il partito preferito e meglio posizionato per operare un riassetto strategico che potrebbe implicare un conflitto con Washington.

Oltre al fatto che la SPD già in passato si era assunta responsabilità di governo in frangenti delicati per il capitalismo tedesco, basti pensare alla Ostpolitik di Willy Brandt o, più recentemente, alla “ristrutturazione” del welfare di Gerhard Schröder, vi sono dubbi sempre più forti che un nuovo gabinetto di centro-destra sia in grado di operare i cambiamenti di rotta necessari a contrastare l’eventuale ostilità di Washington e a promuovere gli interessi delle grandi aziende domestiche in un frangente storico caratterizzato da una competizione internazionale crescente.

A conferma di ciò, la stampa tedesca nei giorni scorsi ha evidenziato come la Merkel abbia salutato in maniera fin troppo cordiale l’elezione di Trump, pur ribadendo la presunta diversità dei valori sostenuti dalla Germania rispetto a quelli del neo-presidente USA. L’atteggiamento della cancelliera sarebbe non solo in contrasto con quello, molto più duro, di Schulz, ma, sul fronte opposto, appare in conflitto anche con l’entusiasmo mostrato dai vertici del principale alleato della CDU, la CSU bavarese, all’indomani del successo di Trump.

Le divisioni tra le due principali formazioni conservatrici tedesche sembrano in definitiva allargarsi e la volontà di emulare il populismo di Trump da parte della CSU minaccia l’implementazione dei nuovi obiettivi strategici, potenzialmente divergenti da quelli americani, che potrebbe essere chiamato a perseguire fin da subito il prossimo governo di Berlino.

di Michele Paris

Le conseguenze della disastrosa incursione condotta in Yemen il 29 gennaio scorso dalle forze speciali americane continuano a farsi sentire dopo che il governo del paese mediorientale in guerra ha fatto sapere di avere preso provvedimenti per limitare quanto meno i danni di immagine derivanti dalle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti.

Martedì, i giornali americani avevano riportato la notizia del ritiro da parte del governo yemenita del permesso, concesso agli USA, di condurre operazioni militari di terra sul proprio territorio per dare la caccia a presunti terroristi. Qualche ora più tardi, però, è arrivata la smentita parziale da parte delle stesse autorità dello Yemen.

Come ha scritto la Reuters dopo avere raccolto dichiarazioni da fonti locali, il governo riconosciuto internazionalmente avrebbe soltanto espresso a Washington le proprie “riserve” in merito al più recente blitz e chiesto “maggiore coordinazione con le autorità yemenite” nel rispetto della sovranità del paese. L’autorizzazione per le future operazioni non sarebbe stata dunque revocata.

La presa di posizione del governo dello Yemen, anche se dettata da ragioni di opportunità, è estremamente significativa. Se in apparenza la risposta al raid di dieci giorni fa potrebbe sembrare fin troppo cauta, essa va collegata alla natura di un esecutivo che conserva la propria legittimità internazionale proprio grazie al sostegno di Stati Uniti e Arabia Saudita, impegnati in un conflitto sanguinoso contro i “ribelli” sciiti Houthi che avevano di fatto preso il potere nella primavera del 2015.

Anche nel quadro del totale servilismo dovuto a Washington dal governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, gli esponenti di quest’ultimo si sono sentiti costretti a rilasciare una qualche dichiarazione critica nei confronti degli USA, vista la precaria situazione interna. Infatti, operazioni come quella del 29 gennaio non fanno che aggravare l’avversione della popolazione yemenita nei confronti degli Stati Uniti, rendendo ancora più complicata la posizione di un governo che controlla oltretutto solo una parte del paese nella penisola arabica.

L’incursione, in preparazione da almeno due mesi, è stata la prima autorizzata dalla nuova amministrazione Trump. Il neo-presidente aveva dato il via libera senza indugi all’operazione, verosimilmente dopo avere ricevuto le necessarie rassicurazioni da parte del Pentagono, ma l’esito è stato catastrofico su tutti i fronti. Se anche Trump avesse nutrito qualche dubbio, ciò che ha prevalso è stata comunque la necessità di mandare un messaggio di fiducia ai vertici militari a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca.

A nulla, se non ad aumentare l’imbarazzo, sono servite le dichiarazioni al limite del ridicolo dello stesso Trump e del suo portavoce, Sean Spicer, sul “completo successo” dell’operazione. La Casa Bianca, dopo il fiasco, ha provato a far credere che l’incursione aveva come obiettivo la semplice “raccolta di informazioni” sull’organizzazione terroristica al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Le sole modalità del blitz e le massicce forze impiegate smentiscono però clamorosamente questa versione. A partecipare alle operazioni vi erano decine di uomini agli ordini del Comando Centrale, responsabile delle forze armate USA in Medio Oriente, e di quello delle Forze Speciali, ma anche agenti della CIA e delle forze speciali degli Emirati Arabi Uniti. A sostegno di essi, si contavano inoltre elicotteri, aerei, droni e una nave da guerra al largo della costa yemenita.

L’obiettivo reale dell’operazione è stato con ogni probabilità rivelato qualche giorno fa dalla NBC ed era cioè il numero uno di AQAP, Qassim al-Raymi, considerato dagli Stati Uniti il terzo terrorista più pericoloso del pianeta. Il leader di al-Qaeda non è però finito tra le vittime del raid, essendo forse riuscito a fuggire grazie a una soffiata prima dell’operazione o, semplicemente, le informazioni sulla sua presenza nel villaggio preso di mira erano sbagliate.

Il colossale fallimento dell’operazione è costato un numero imprecisato di vittime civili. Alcune stime parlano di oltre 30 morti in totale, mentre per altri sarebbero state poco meno di 60. Tra di essi ci sono anche donne e almeno sette bambini, inclusa Nawar al-Awlaki, la figlia di otto anni di Anwar al-Awlaki, il predicatore di nazionalità americana ucciso su ordine di Obama sempre in Yemen da un drone nel settembre del 2011.

Un paio di settimane dopo l’assassinio di Awlaki, un'altra incursione con un drone USA aveva ucciso anche il figlio16enne di quest’ultimo. A descrivere l’agonia della figlia di Awlaki è stato il nonno, il quale ha raccontato di come la bambina sia stata colpita al collo da un proiettile e sia morta dissanguata in meno di due ore.

Com’è pratica comune per i vertici militari americani, inizialmente era stata smentita l’esistenza di vittime civili. Solo dopo l’apparizione in rete di immagini raccapriccianti e la diffusione dei resoconti dell’accaduto da parte dei sopravvissuti, il Pentagono ha fatto una parziale rettifica. Almeno un certo numero di donne uccise sono state tuttavia giudicate obiettivi legittimi, in quanto presunte sostenitrici di al-Qaeda. Dei bambini trucidati non è stata data invece nessuna indicazione sul loro possibile ruolo nell’organizzazione fondamentalista.

Secondo alcune ricostruzioni dei fatti accaduti la sera del 29 gennaio nel villaggio di Yakla, nella provincia di Bayda, i membri del commando americano sarebbero stati scoperti subito dopo l’inizio dell’operazione, forse grazie a una soffiata o, addirittura, in seguito all’abbaiare di un cane. Visto il bilancio delle vittime e l’elevato numero di civili tra di esse, è probabile che i militari abbiano a quel punto sparato a tutto ciò che si muoveva.

Nel conflitto a fuoco è rimasto ucciso anche il “SEAL” americano, William Owens, e proprio il suo decesso ha senza dubbio contribuito in maniera decisiva a portare la vicenda all’attenzione della stampa. Non solo, anche un elicottero MV-22 Osprey è stato danneggiato e in seguito distrutto da velivoli militari americani appositamente inviati.

I punti oscuri del raid restano numerosi. Il leader di AQAP, in un messaggio diffuso dopo l’attacco, ha ammesso che tra le vittime c’erano 14 suoi uomini. Secondo la testata on-line Middle East Eye, invece, molte testimonianze raccolte nel villaggio hanno smentito la presenza di guerriglieri di al-Qaeda. Piuttosto, gli appartenenti ai clan locali avrebbero preso le armi, ampiamente diffuse in Yemen, e iniziato a sparare contro il commando americano dopo che i soldati avevano fatto irruzione nelle abitazioni uccidendone gli occupanti, incluse donne e bambini.

Per altri, ancora, il disastro dell’operazione dimostrerebbe la profonda ignoranza americana della realtà dello Yemen o, peggio ancora, la più o meno deliberata intenzione di fomentare odio ed estremismo, forse per alimentare una minaccia terroristica che consente a Washington di perpetuare la propria presenza militare in aree strategicamente rilevanti del pianeta, come la penisola arabica.

A Yakla, infatti, non vi era probabilmente nessuna base qaedista ma, in un intreccio tribale e di interessi locali difficile da sciogliere, forse soltanto famiglie o gruppi di individui che talvolta stabiliscono alleanza temporanee con al-Qaeda o formazioni armate vicine ad essa.

Singolarmente, almeno in apparenza, questi gruppi sono spesso sostenuti finanziariamente e militarmente dall’Arabia Saudita, il cui regime li recluta per combattere i “ribelli” Houthi. A conferma di ciò, sempre l’indagine di Middle East Eye ha citato testimoni che assicurano come nell’operazione americana siano morti almeno tre leader tribali di spicco che facevano parte di un gruppo di combattenti impegnato contro gli Houthi e, quindi, di fatto a fianco dei sauditi.

A complicare il quadro c’è infine anche il fatto che al-Qaeda nella Penisola Arabica, ufficialmente obiettivo numero uno dell’anti-terrorismo USA, ha notevolmente allargato il territorio sotto il proprio controllo in Yemen grazie alla guerra scatenata da Riyadh con l’appoggio americano, dopo che in precedenza svariate analisi avevano giudicato ormai quasi irrilevante l’influenza dell’organizzazione nel paese.

Nonostante tutti i dettagli dell’incursione americana siano ben lontani dall’essere noti, quanto è accaduto in Yemen è un ulteriore esempio della criminalità e del disinteresse per le vite umane e la stabilità di paesi sovrani con cui il governo e i militari degli Stati Uniti conducono i propri affari internazionali.

Inoltre, con l’autorizzazione al massacro del 29 gennaio, il neo-presidente Trump ha confermato la sua intenzione di raccogliere la sanguinosa eredità di Obama in questo paese, già teatro di precedenti incursioni di terra finite in tragedia, di un’incessante campagna condotta con i droni che continua a mietere vittime civili e di una guerra cruenta per ristabilire l’autorità di un governo-fantoccio che salvaguardi gli interessi nella regione degli Stati Uniti e del regime saudita.

di Mario Lombardo

Con il lancio delle campagne elettorali di tre probabili protagonisti delle elezioni presidenziali francesi, in programma tra i mesi di aprile e maggio prossimi, la corsa alla successione a François Hollande all’Eliseo è di fatto partita ufficialmente lo scorso fine settimana. L’estrema impopolarità del presidente uscente, i riflessi dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il discredito dei tradizionali partiti borghesi e la quasi totale assenza di un candidato in grado di rappresentare lavoratori e classe media rendono l’atmosfera esplosiva, con la concreta possibilità che a beneficiarne sia uno degli “outsider”, a cominciare dalla numero uno del Fronte Nazionale (FN), Marine Le Pen.

La candidata di estrema destra ha chiuso domenica una due giorni del suo partito a Lione, durante la quale aveva denunciato le “tirannie” della globalizzazione, dell’Unione Europea e del fondamentalismo islamico. Ricorrendo alla consueta strategia populista della destra estrema e sfruttando il vuoto quasi totale a sinistra, la Le Pen è stata in grado di proporsi come l’unico candidato “del popolo”.

Nel suo discorso ha poi evitato accuratamente qualsiasi analisi di classe della realtà economica e sociale odierna in Francia, per presentare un quadro profondamente fuorviante caratterizzato, a suo dire, da una “divisione non più tra destra e sinistra”, cioè tra diversi interessi di classe, bensì “tra patriottismo e globalizzazione”.

Le difficoltà dei francesi comuni, per la Le Pen, sarebbero perciò dovute al fatto che essi “sono stati privati del loro patriottismo” e soffrono dunque “in silenzio perché non è permesso loro di amare il proprio paese”. I toni apocalittici di una Francia che ha perso la propria libertà e identità di fronte all’offensiva dell’Islam e del capitalismo internazionale, ma non di quello indigeno, serve in sostanza a dirottare in senso ultra-nazionalista e xenofobo le frustrazioni più che legittime di decine di milioni di francesi abbandonati dalla sinistra.

In uno scenario dominato da austerity, precarietà e disoccupazione, nonché da un Partito Socialista che ha fatto registrare un’ulteriore drammatica deriva neo-liberista durante il mandato di Hollande, la piattaforma del “Front National”, che include misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento della spesa per il welfare o l’accesso gratuito all’educazione per i francesi non può che incontrare un certo consenso. Lo stesso vale anche per l’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, in cima al programma politico della Le Pen.

I sondaggi di opinione più recenti in Francia danno Marine Le Pen come probabile vincitrice del primo turno delle presidenziali, davanti all’ex banchiere ed ex ministro Socialista ora “indipendente”, Emmanuel Macron, largamente in vantaggio invece in un ipotetico ballottaggio. Anche Macron ha inaugurato ufficialmente la sua campagna a Lione nel corso del fine settimana.

Dopo avere abbandonato il Partito Socialista (PS) la scorsa estate, il 39enne Macron aveva lanciato la propria candidatura all’Eliseo sfruttando la sua immagine di giovane vincente, modernizzatore e progressista sulle questioni sociali, in modo da mascherare un impopolare progetto ultra-liberista in ambito economico.

I suoi riferimenti sono l’alta borghesia francese che vede con orrore l’approdo di Trump alla Casa Bianca e che, per salvaguardare i propri interessi, auspica il mantenimento del ruolo strategico della NATO, la sopravvivenza dell’UE e il rilancio della partnership con Washington e Berlino. A favore della sua candidatura si sono inoltre già espressi in molti in un PS a rischio spaccatura, soprattutto tra coloro che, nella destra di questo partito, ritengono di dover reagire alla crisi che sta attraversando liberandosi anche formalmente della retorica e dell’immagine esteriore progressista per abbracciare senza riserve i “valori” del mercato.

Comprensibilmente, sul fronte economico Macron ha finora evitato di entrare nei particolari del suo programma, mentre in politica estera ha ricalcato le posizioni della destra Socialista, basate sul militarismo e la demonizzazione di paesi come Russia o Iran.

I progressi di Macron evidenziati nelle ultime settimane dai sondaggi sono dovuti in primo luogo al tracollo del candidato della destra gollista del partito “Les Républicaines” (“I Repubblicani”), François Fillon. Dopo le primarie, l’ex primo ministro sembrava dover essere il favorito assoluto per l’Eliseo, ma un recente scandalo sembra essere sul punto di affondarne la candidatura.

Un giornale satirico francese aveva rivelato come la moglie di nazionalità britannica era stata pagata complessivamente circa un milione di euro per impieghi di assistente parlamentare che non avrebbe invece mai svolto. Negli ultimi giorni, il caso si è addirittura aggravato e i primi interrogatori dei coniugi hanno inoltre evidenziato varie contraddizioni.

Le voci all’interno de "I Repubblicani" che chiedono un passo indietro di Fillon iniziano ormai a farsi sentire, anche se quest’ultimo ha per ora escluso l’abbandono della corsa e ha anzi annunciato l’intenzione di rilanciare la sua campagna.

Se la vicenda in cui è invischiato Fillon è effettivamente grave, non si può evitare di far notare come essa sia emersa subito dopo una sua visita in Germania, durante la quale aveva rilasciato interviste ampiamente riportate in tutta Europa proponendo, tra l’altro, una sorta di asse tra Parigi, Berlino e Mosca in risposta alle tendenze ultra-nazionalistiche del neo presidente americano Trump.

Per quanto riguarda i candidati di “sinistra” all’Eliseo, quello del Partito Socialista, Benoît Hamon, sembra avere già perso anche la minuscola spinta del successo inaspettato nelle primarie sull’ex primo ministro, Manuel Valls. Hamon, appartenente alla “fronda” anti-Hollande del suo partito, dovrebbe contendere a Jean-Luc Mélenchon del Partito di Sinistra (PG) il quarto posto nel primo turno delle presidenziali.

Anche Mélenchon ha lanciato la sua campagna domenica scorsa apparendo in collegamento da Parigi a un evento organizzato a Lione. Pur attaccando le iniziative anti-sociali dei governi nominati dal presidente uscente, Mélenchon ha lasciato intendere di essere disponibile a un accordo elettorale con Hamon nel tentativo disperato di portare un candidato della “sinistra” francese al secondo turno.

La situazione a poche settimane dal voto resta dunque estremamente fluida, così da alimentare i timori di quanti temono un risultato che potrebbe avere conseguenze rovinose sulle già precarie istituzioni europee che hanno garantito la stabilità del capitalismo occidentale a partire dal secondo dopoguerra.

Scorrendo i giornali francesi e non solo, si ricava l’impressione che il fronte anti-Le Pen, che fino al recente passato aveva tenuto lontano dagli incarichi di potere che contano l’estrema destra neo-fascista, potrebbe non essere sufficiente in questa occasione. I sondaggi che indicano una comoda vittoria di Macron o Fillon su Marine Le Pen sembrano essere infatti poco confortanti, alla luce sia degli abbagli presi da simili rilevazioni in molte competizioni elettorali nei mesi scorsi sia della difficoltà nel prevedere la direzione che prenderà il massiccio voto di protesta.

Macron, Fillon o lo stesso Hamon, nel caso uno dei tre dovesse confrontarsi al secondo turno con la leader dell’FN, avrebbero tutti dei fortissimi handicap che potrebbero far pendere l’ago della bilancia a favore della candidata di estrema destra. Il primo, malgrado i favori della stampa e di buona parte della classe dirigente d’oltralpe, presenta grossi limiti di popolarità dovuti in primo luogo al suo passato di banchiere d’investimenti e a un’agenda economica di stampo liberista.

Fillon, da parte sua, è su posizioni simili se non ancora più estreme in ambito economico, mentre la vicenda dei compensi alla moglie continuerà a perseguitarlo, se pure dovesse riuscire a salvare la propria campagna elettorale.

Hamon, infine, anche nel caso si qualificasse miracolosamente per il secondo turno, sarà associato al super-impopolare Hollande e, ad ogni modo, molto difficilmente riuscirà a dirottare su di sé il voto degli elettori di destra e centro-destra che vedono oggi il Fronte Nazionale in una luce molto meno minacciosa rispetto a qualche anno fa.


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