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di Michele Paris
Sulle ansie già ben oltre il livello di guardia della classe dirigente europea, nel fine settimana si è abbattuta come un ciclone un’intervista dai toni destabilizzanti rilasciata dal presidente eletto americano, Donald Trump, al Times di Londra e alla Bild tedesca. Il prossimo inquilino della Casa Bianca è sembrato non avere alcuna intenzione di moderare le proprie posizioni sulle questioni di politica estera, ma ha anzi prospettato un burrascoso riassetto delle relazioni transatlantiche in parallelo con l’intenzione espressa da tempo di ricalibrare le priorità strategiche di Washington.
I bersagli principali delle critiche di Trump sono stati significativamente la NATO e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, vale a dire rispettivamente uno dei cardini della stabilità interna europea e delle relazioni tra Stati Uniti e vecchio continente e la forza politica ed economica dominante nell’Unione.
Per quanto riguarda l’Alleanza atlantica, Trump è tornato sui temi della campagna elettorale, ribadendo come buona parte dei suoi membri non si faccia carico in maniera sufficiente della propria fetta di spese militari, ma si affidi piuttosto alla copertura garantita proprio dagli USA. Ancora più allarmante per i governi europei è stato il giudizio espresso da Trump sulla NATO, definita “obsoleta” e incapace di contrastare la minaccia del terrorismo.
Anche l’attacco alla Merkel è stato portato sfruttando accuse che la destra tedesca continua a rivolgerle da mesi, relative cioè alla presunta permissività del governo di Berlino sull’ingresso degli immigrati in Germania. Per Trump, la Cancelliera avrebbe così favorito l’entrata nel suo paese di un numero troppo alto di “illegali”.
Al centro dei pensieri del neo-presidente non ci sono in realtà tanto le politiche migratorie della Germania, le quali rappresentano tutt’al più un pretesto, quanto questioni più delicate che hanno a che fare con la crescente competizione tra il capitalismo americano e quello tedesco. Competizione che minaccia di inasprirsi a causa dell’agenda di Trump, improntata al nazionalismo economico.
In questa prospettiva vanno inquadrate anche le minacce di Trump alla BMW, contro la quale la sua amministrazione potrebbe imporre un dazio del 35% sugli autoveicoli prodotti all’estero e importati negli Stati Uniti. L’avvertimento del presidente eletto fa riferimento in particolare al progetto di un nuovo impianto produttivo della casa automobilistica tedesca in Messico.
A conferma della vera natura dello scontro con Berlino, nella stessa intervista del fine settimana, il miliardario di New York ha definito l’Unione Europea uno strumento per la dominazione della Germania sul continente allo scopo di competere con Washington sul fronte del commercio internazionale. Da qui, perciò, il suo disinteresse dichiarato per il futuro dell’UE, ma anche l’apprezzamento per la “Brexit”.
In parte legate a queste dinamiche sono state poi le dichiarazioni ancora una volta distensive di Trump sulla Russia, nonostante la persistente caccia alle streghe in patria sul ruolo attribuito a Mosca nelle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Trump ha ipotizzato la cancellazione delle sanzioni alla Russia applicate dall’amministrazione Obama, possibilmente in cambio di un qualche accordo con il governo di Putin, ad esempio sulla riduzione dei rispettivi arsenali nucleari.
L’obiettivo di Trump e della fazione della classe dirigente americana che egli rappresenta è in definitiva quello di cercare un qualche accomodamento con la Russia per concentrare gli sforzi diplomatici, economici e militari degli Stati Uniti verso quello che viene considerato l’ostacolo principale alla promozione degli interessi USA su scala planetaria, ovvero la Cina.
Non solo, il tentativo di ristabilire un dialogo con Mosca ha anche il preciso scopo, decisamente più complicato, di ostacolare la formazione o il consolidamento di un asse tra Russia e Cina, favorito negli ultimi anni proprio dalle politiche di confronto con entrambi i paesi promosse dall’amministrazione Obama.
Questa strategia di ampio respiro prospettata nuovamente da Trump al Times e alla Bild, anche se di difficile implementazione per una lunga serie di ragioni, minaccia appunto di produrre gravi effetti destabilizzanti in Europa. Per cominciare, l’eventuale indebolimento o, addirittura la dissoluzione della NATO, non farebbe che accentuare le divisioni che attraversano il vecchio continente.
Non solo in ambito militare, la conservazione del Patto atlantico dopo la fine dell’Unione Sovietica è servita, sotto la leadership degli Stati Uniti, a favorire il mantenimento della coesione dell’Europa, così che il venir meno di esso accelererebbe probabilmente la disgregazione dell’UE già in atto sotto la spinta delle sue stesse contraddizioni.
Un processo, quest’ultimo, le cui implicazioni non sono difficili da immaginare, vista la storia europea della prima metà del XX secolo. D’altra parte, la classe dirigente tedesca si sta preparando da tempo all’inasprirsi dello scontro con quelli che fin qui sono stati i propri principali alleati, attraverso il rafforzamento dello stato e delle forze armate tedesche come strumento della proiezione in maniera indipendente dei propri interessi in Europa e non solo.
In modo ben poco sorprendente, sia gli impulsi nazionalistici di Trump sia le critiche di quest’ultimo alla NATO e il possibile riallineamento tra Washington e Mosca stanno gettando nel panico i leader europei, già costretti a fare i conti con forze centrifughe esplosive nel continente.
Prevedibilmente, le reazioni alla recente intervista di Trump non si sono fatte attendere e le più preoccupate sono giunte dai politici tedeschi. Il vice-cancelliere, il Social Democratico Sigmar Gabriel, è andato in qualche modo al contrattacco, sottolineando come la crisi dei migranti, attribuita dal nuovo presidente USA alla Merkel, è in realtà il risultato delle politiche interventiste americane nel Mediterraneo e in Medio Oriente.
Il ministro degli Esteri di Berlino, Frank-Walter Steinmeier, ha invece espresso soprattutto il timore di un indebolimento della NATO, per poi rilevare le differenti attitudini tra Trump e il segretario alla Difesa da lui nominato, l’ex generale James Mattis. Quest’ultimo, infatti, nell’audizione di settimana scorsa al Senato di Washington per la conferma della sua nomina aveva definito la NATO come “centrale” nelle strategie della difesa americana.
Queste apparenti contraddizioni sono rilevabili anche dalle posizioni espresse nelle scorse settimane da altri candidati a entrare nella nuova amministrazione Trump e riflettono le forze contrastanti presenti all’interno dell’apparato di potere americano. Dal risultato di questo scontro dipenderà perciò l’impostazione della politica estera del neo-presidente degli Stati Uniti e i rapporti con l’Europa per i prossimi quattro anni.
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di Michele Paris
Lo scontro interno alla classe politica americana sulla presunta interferenza della Russia nel processo elettorale che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca non accenna a placarsi. Martedì è infatti esploso un nuovo caso a dieci giorni esatti dall’insediamento del nuovo presidente Repubblicano. I media hanno pubblicato un documento, anch’esso senza alcun riscontro, che rivelerebbe contatti segreti tra esponenti del governo di Mosca e il team di Trump per manipolare l’esito delle elezioni presidenziali dello scorso novembre.
Com’è puntualmente accaduto nelle scorse settimane, anche in questo caso la notizia è servita ad amplificare la campagna in atto negli USA per screditare la nascente amministrazione Trump e soprattutto impedire il disgelo con il governo russo che il presidente eletto ha prospettato in più di un’occasione.
Tutti i media americani ne hanno fatto un caso pur essendo stati costretti ad ammettere chiaramente, e ancor più che nei precedenti dossier e rapporti sulle attività di hackeraggio attribuite alla Russia, la totale assenza di prove o conferme sui fatti descritti. Addirittura, tutte le principali testate, tranne il sito web Buzzfeed, si sono rifiutate di pubblicare il documento integrale di 35 pagine, redatto lo scorso anno da un ex agente dell’intelligence britannica.
Già l’origine del rapporto solleva enormi dubbi sulla genuinità delle accuse rivolte a Trump. L’ex agente segreto in questione era stato assoldato da una compagnia di Washington a cui si erano rivolti non meglio identificati esponenti del Partito Repubblicano contrari alla candidatura di Trump. A essi si sarebbero poi associati nel complotto contro quest’ultimo anche sostenitori della sua rivale nella corsa alla Casa Bianca, Hillary Clinton.
A dicembre, poi, il senatore Repubblicano John McCain, uno dei più accesi “falchi” anti-russi a Washington, è entrato in possesso di una copia del rapporto e l’ha consegnata all’intelligence americana e al direttore dell’FBI, James Comey, con ogni probabilità nella speranza di favorire un’indagine ufficiale o di fare esplodere uno scandalo.
Per quanto riguarda Comey, la stampa USA ha raccontato del suo rifiuto a procedere e della decisione di tenere segreto il documento su Trump. La mossa del numero uno dell’FBI rivela le divisioni trasversali presenti nella classe dirigente americana sulla vicenda e va collegata a quella che prese clamorosamente a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, quando annunciò l’apertura di una nuova indagine sulle e-mail di Hillary Clinton transitate su un server privato durante il suo incarico al dipartimento di Stato.
Del documento ne ha parlato per prima la CNN martedì e dopo nemmeno un’ora dalla rivelazione del network il già ricordato Buzzfeed ha deciso di pubblicarlo integralmente. Il rapporto, in realtà, era già a conoscenza di media e politici americani da mesi. Alcune testate e almeno un leader Democratico, l’ormai ex senatore del Nevada Harry Reid, ne avevano fatto cenno lo scorso anno, con l’intento di convincere le autorità di polizia a indagare sulla condotta di Trump.
Il fatto però che il documento sia in sostanza rimasto lontano dal dibattito pubblico fino a questa settimana testimonia di per sé la sua inattendibilità. Allo stesso tempo, la sua pubblicazione dimostra ora il livello raggiunto dallo scontro sulla Russia, manifestazione delle profonde divergenze circa gli orientamenti strategici che gli Stati Uniti dovranno tenere una volta insediata la nuova amministrazione.
Il rapporto pubblicato martedì è stato usato dagli stessi servizi segreti americani per fare pressioni su Trump, al fine di convincerlo a cambiare rotta in merito ai rapporti con la Russia. Infatti, l’intelligence ne aveva inserito un compendio nel briefing sottoposto nei giorni corsi sia a Obama che a Trump sulle presunte interferenze russe nelle vicende politiche USA. Questa decisione, a fronte della mancanza di prove che ne corroborassero la veridicità, è stata definita “estremamente insolita” anche dagli stessi media che continuano ad attaccare Trump sulla Russia
Il contenuto di quest’ultimo rapporto fa riferimento a fatti più o meno gravi, anche se non dimostrati, che, nel clima politico americano odierno, sarebbero sufficienti a far crollare una carriera politica. Ciò dimostra gli sforzi disperati in corso dietro le quinte per convincere Trump ad allinearsi agli obiettivi della caccia alle streghe contro la Russia di Putin e, se ciò non fosse possibile, a impedire il suo ingresso alla Casa Bianca o a fare in modo che la sua permanenza alla guida del paese risulti breve.
Il documento dell’ex agente dei servizi segreti britannici accusa l’ex direttore della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, di essere la mente della cospirazione con il governo russo. Durante la campagna per le presidenziali, Manafort era stato criticato da più parti per avere svolto un incarico di consulenza a favore dell’ex presidente ucraino filo-russo, Viktor Yanukovych, deposto nel 2014 da colpo di stato di estrema destra orchestrato dal governo americano.
In base a informazioni fornite da fonti russe e da altre ancora meno identificabili, l’autore del rapporto fa riferimento ai viaggi di Trump in Russia per affari nel corso degli anni, durante i quali il Cremlino avrebbe cercato di influenzarlo, principalmente offrendogli la possibilità di concludere proficui affari, in vista di un suo futuro ingresso in politica. Secondo gli stessi resoconti dei giornali americani di questi giorni, Trump non avrebbe comunque interessi economici in Russia.
Nel corso del 2016 sarebbero poi avvenuti altri incontri tra membri del clan Trump ed esponenti del governo di Mosca per discutere di varie questioni relative alla campagna elettorale in atto, tra cui la violazione dei sistemi informatici del Comitato Nazionale Democratico e dell’account di posta del numero uno del team di Hillary Clinton, John Podesta.
Trump sarebbe stato dunque a conoscenza dell’hackeraggio attribuito alla Russia e, in cambio dell’aiuto, avrebbe accettato di non sollevare pubblicamente la questione dell’intervento militare di Mosca in Ucraina dopo il golpe del 2014. Il consigliere e legale di Trump, Michael Cohen, viene indicato come uno degli intermediari con uomini del Cremlino, incontrati presumibilmente nel corso di viaggi a Praga la scorsa estate. Cohen ha però negato le accuse, pubblicando immagini del suo passaporto che dimostrano come non si sia mai recato in Repubblica Ceca.
In maniera poco sorprendente, il rapporto racconta anche di materiale in mano ai servizi russi sulla condotta sessuale “perversa” di Trump, protagonista in particolare di filmati con prostitute che avrebbe ospitato in un hotel di Mosca nel corso di una visita nel 2013. I video sono definiti “kompromat”, o materiale compromettente, e sarebbero serviti a ricattare o screditare Trump in caso di necessità.
La notizia è significativamente apparsa alla vigilia di una conferenza stampa programmata da Trump per mercoledì, dopo che l’ultima era avvenuta addirittura lo scorso mese di luglio. Ancora, forse non a caso il novo presunto scandalo ha preceduto l’inizio delle audizioni al Senato per la ratifica della nomina a segretario di Stato di Rex Tillerson.
L’amministratore delegato di ExxonMobil vanta molti legami per motivi d’affari in Russia, tra cui con lo stesso Putin, ed è per questa ragione al centro di critiche da parte della nutrita fazione anti-russa all’interno del Partito Repubblicano e di quello Democratico.
Trump, da parte sua, non ha mostrato di voler cedere alle pressioni, anche se durante la conferenza stampa di mercoledì è sembrato ammettere per la prima volta che l’hackeraggio ai danni del Partito Democratico è stato condotto da agenti russi, prima di affermare che forse la responsabilità potrebbe essere attribuita anche a un altro governo.
In precedenza, martedì aveva pubblicato come suo solito alcuni “tweet” bollando come “falsa” la notizia e denunciando la “caccia alle streghe politica” in atto. Sempre via Twitter, mercoledì è tornato ad attaccare i suoi accusatori, definendoli “disonesti” e impegnati a screditare la sua vittoria elettorale. Trump si è poi scagliato contro l’intelligence USA, responsabile di avere fatto trapelare il rapporto, prima di chiedersi se “stiamo vivendo nella Germania nazista”.
Come già spiegato, la stampa “mainstream” americana ha dovuto sottolineare come non sia stato possibile trovare riscontri delle vicende descritte nel rapporto. Tuttavia, i media hanno deliberatamente usato la notizia per cavalcare l’escalation di accuse nei confronti di Trump e, in più di un caso, hanno fatto minacciosamente intravedere le possibili gravi conseguenze del suo comportamento.
Il New York Times, in prima linea nella propaganda anti-russa, ha ricordato come alcuni dei comportamenti descritti nel rapporto potrebbero comportare addirittura accuse di “tradimento”. La testata on-line Politico ha invece concluso uno dei pezzi dedicati alla vicenda con un riferimento ai pericoli che corre Trump.
Il neo-presidente rischia cioè di mettersi contro l’establishment militare e dell’intelligence su questioni cruciali relative alla sicurezza nazionale e agli obiettivi strategici di quella parte dell’apparato di potere americano, evidentemente maggioritaria, che continua a vedere nella Russia il principale nemico di Washington su scala globale.
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di Michele Paris
Mentre i leader della maggioranza Repubblicana al Senato americano hanno iniziato martedì le audizioni per la ratifica delle nomine dei membri della nuova amministrazione Trump, il presidente eletto ha assegnato l’incarico di consigliere “senior” per la Casa Bianca al 36enne Jared Kushner, suo genero. La scelta del giovane costruttore miliardario sposato con la figlia di Trump, Ivanka, conferma l’intenzione del neo-presidente di gestire il potere come una sorta di affare di famiglia, mentre sul fronte della politica estera prospetta un chiaro riavvicinamento degli Stati Uniti a Israele dopo le frizioni tra i due alleati durante l’amministrazione Obama.
Il primo aspetto da considerare nella nomina di Kushner è la dubbia legalità della decisione di Trump. Dal 1967, in conseguenza della nomina di Robert Kennedy a ministro della Giustizia da parte del fratello presidente, negli USA è in vigore una legge “anti-nepotismo” che vieta agli inquilini della Casa Bianca di assegnare incarichi a parenti all’interno di “agenzie” su cui essi hanno autorità. Tra i gradi di parentela previsti rientra anche quello di genero.
Fonti vicine a Trump hanno fatto sapere che quest’ultimo chiederà un parere sulla legittimità della nomina all’ufficio legale del dipartimento di Giustizia, noto peraltro per l’attitudine non esattamente inflessibile nei confronti dei presidenti. Per aggirare la norma, Trump intende puntare sull’ambiguità della definizione di “agenzia” prevista dalla legge, a suo dire non applicabile alla Casa Bianca, e sul fatto che Kushner avrà ufficialmente un ruolo “informale”, per il quale non percepirà nemmeno un compenso.
Un altro fattore che sta suscitando accese discussioni sulla scelta di Kushner ha a che fare con il macroscopico conflitto tra l’incarico che andrà a ricoprire e gli interessi economico-finanziari della sua famiglia. Questo aspetto è d’altra parte ancora più marcato per lo stesso Trump, impegnato proprio questa settimana nella presentazione di un piano che dovrebbe teoricamente impedire il sovrapporsi di interessi pubblici e privati durante il suo mandato.
Kushner ha da parte sua promesso di liberarsi di alcuni investimenti e di vendere le quote di alcune società che detiene, anche se in buona parte saranno semplicemente trasferite ai suoi famigliari. Al di là del fatto che gli affari siano gestiti direttamente da Kushner o dai membri della sua famiglia, gli interessi del prossimo consigliere del presidente potrebbero incrociarsi con le decisioni che il suo superiore sarà chiamato a prendere, soprattutto sulle questioni di politica estera.
Ad esempio, il New York Times ha rivelato come Kushner stia trattando con un gruppo assicurativo cinese un progetto di sviluppo di un edificio commerciale di sua proprietà sulla Quinta Strada a Manhattan. La compagnia cinese - Anbang Insurance Group - è detenuta per almeno il 40% da aziende di proprietà statale e, secondo il Financial Times, può contare su una vasta rete di contatti negli ambienti di potere a Pechino. Non solo, Kushner possiede quote di società finanziarie e tecnologiche nelle quali hanno investito anche miliardari russi e cinesi.
Quali saranno esattamente i compiti di Jared Kushner alla Casa Bianca non è ancora del tutto chiaro, anche se gli ambiti in cui dovrebbe operare includono il Medio Oriente e Israele, i rapporti con il business privato e la rinegoziazione dei trattati di libero scambio.
Svariati media americani hanno sottolineato anche come la sua presenza a fianco di Trump potrebbe avere un “effetto calmante” sul carattere impulsivo del prossimo presidente. Alla Casa Bianca, Kushner ricoprirà dunque un ruolo di spicco, avendo con ogni probabilità maggiore accesso a Trump degli altri tre membri principali dello staff presidenziale: lo stratega capo con inclinazioni neo-fasciste Stephen Bannon, il capo di gabinetto Reince Preibus e Kellyanne Conway, già responsabile della campagna elettorale di Trump.
L’ascesa di Jared Kushner è ad ogni modo insolita, visto che i suoi interessi fino a pochi mesi fa non avevano a che fare direttamente con la politica. Oltretutto, lui e la sua famiglia avevano frequentemente sostenuto e finanziato politici Democratici. Il padre, Charles Kushner, ha donato complessivamente più di un milione di dollari a favore delle campagne dei Democratici, tra cui 90 mila dollari a quella per il Senato di Hillary Clinton nel 2000. Jared ha dato invece personalmente 60 mila dollari ai comitati elettorali Democratici e 11 mila dollari alla stessa ex first lady.
Forbes ha scritto martedì che l’ex presidente Bill Clinton fu compensato con ben 125 mila dollari per un discorso tenuto nell’ottobre del 2001 alla sede delle Kushner Companies a Florham Park, nel New Jersey.
Il denaro del padre ha anche favorito la sua carriera scolastica in università prestigiose. 2,5 milioni di dollari donati a Harvard nel 1998 anticiparono di poco l’ammissione al college nel Massachusetts di uno studente con voti mediocri. In seguito, Jared sarebbe entrato alla facoltà di diritto della New York University, anche in questo caso dopo una donazione del padre pari a 3 milioni di dollari.
Comunque, nel corso della campagna elettorale, Kushner ha progressivamente assunto un ruolo di primo piano, intervenendo spesso in decisioni cruciali per il destino politico del suocero. A lui vengono attribuiti il licenziamento del vulcanico capo della campagna, Corey Lewandoswki, durante le primarie Repubblicane e il sollevamento del governatore del New Jersey, Chris Christie, dall’incarico di responsabile del processo di transizione alla Casa Bianca.
Su Christie sembra anche che Kushner abbia messo il proprio veto per la candidatura alla vice-presidenza, dal momento che il governatore aveva rappresentato l’accusa nel processo che alcuni anni prima si era risolto con la condanna al carcere del padre per evasione fiscale.
Nelle settimane seguite all’elezione di Trump, il genero del presidente eletto avrebbe inoltre tenuto contatti con leader di paesi stranieri, così come si è incontrato recentemente con i vertici Repubblicani al Congresso per gettare le basi dell’agenda politica del prossimo futuro. Per la stampa USA, infine, Kushner avrebbe consigliato il suocero su alcune importanti nomine, tra cui quella del presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, a direttore del Consiglio Economico Nazionale.
L’incarico di consigliere di Jared Kushner potrebbe dispiegarsi a tutto campo, ma è forse nei rapporti con Israele che i suoi precedenti e la sua predisposizione minacciano di produrre gli effetti più preoccupanti. Ebreo ortodosso, Kushner ha già avuto una chiara influenza sulle attitudini di Trump verso il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.
I toni iniziali moderatamente critici del presidente eletto nei confronti di Israele si erano infatti attenuati in maniera precoce durante la campagna elettorale, secondo molti proprio sotto l’influenza del genero. I legami di quest’ultimo con Israele sono d’altra parte ben documentati. La potente lobby sionista American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) elenca Jared Kushner e il padre tra i propri “benefattori”, coloro cioè che hanno donato almeno 36 mila dollari all’organizzazione di estrema destra che ha tradizionalmente una forte influenza sulla politica USA.
La Reuters ha scritto recentemente che i genitori di Kushner un paio di anni fa hanno donato 20 milioni di dollari per la costruzione di un campus universitario medico a Gerusalemme che ora porta il loro nome. Il quotidiano israeliano Haaretz nel mese di dicembre aveva poi rivelato come la famiglia Kushner avesse elargito decine di migliaia di dollari a “organizzazioni e istituzioni” con sede presso insediamenti illegali in Cisgiordania.
I rapporti con la destra israeliana sono tali da avere spinto questa settimana il quotidiano conservatore Yedioth Ahronot a descrivere Jared Kushner come la migliore “polizza assicurativa” dello stato ebraico e delle sue politiche almeno per i prossimi quattro anni.
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di Michele Paris
La morte improvvisa nel tardo pomeriggio di domenica dell’ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani potrebbe rappresentare un punto di svolta sia nelle dinamiche politiche interne alla Repubblica Islamica sia nell’evoluzione delle relazioni internazionali di quest’ultimo paese, a cominciare da quelle in piena trasformazione con le potenze occidentali.
A contribuire alla spiegazione del significato della dipartita a 82 anni di uno dei protagonisti della rivoluzione del 1979 è stata l’uscita in lacrime dall’ospedale di Teheran, dove Rafsanjani era stato ricoverato nella mattinata di domenica dopo un attacco cardiaco, dell’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rouhani.
Il suo governo, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, ha perso infatti il proprio principale punto di riferimento, nonché il leader politico e religioso che aveva svolto un ruolo cruciale per il formarsi di una coalizione in grado di garantire il successo alle urne di un candidato “moderato”, dopo i due mandati di Mahmoud Ahmadinejad, e di frustrare le aspirazioni della corrente “principalista” conservatrice.
Rafsanjani fu presidente dell’Iran dal 1989 al 1997, dopo che negli anni Ottanta aveva ricoperto il ruolo di presidente del parlamento di Teheran (Majlis). Con un’inclinazione marcatamente “pragmatica”, nonostante le responsabilità personali nella sanguinosa repressione del dissenso interno, Rafsanjani ha navigato le acque spesso agitate dei vertici della Repubblica Islamica, grazie alla sua astuzia politica, che gli garantì il soprannome di “squalo”, e al legame di lunga data con il padre della rivoluzione, ayatollah Ruhollah Khomeini.
Tra il 2007 e il 2011 è stato inoltre presidente della potente Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri religiosi e incaricata di scegliere la Guida Suprema e sorvegliarne l’operato, mentre per tre decenni è stato a capo del Consiglio per il Discernimento, organo previsto dalla revisione costituzionale del 1988 con un ruolo consultivo della stessa Guida Suprema.
La singolarità e il peso della figura di Rafsanjani risiedono forse nella sua capacità di promuovere politiche pragmatiche, spesso assimilabili alle posizioni dei “riformatori”, pur continuando a far parte in tutto e per tutto dell’apparato di potere della Repubblica Islamica, all’interno del quale ha potuto arricchire enormemente se stesso e la sua famiglia.
Sia pure indebolito politicamente dopo le vicende legate al cosiddetto “Movimento Verde”, da lui appoggiato nel 2009, il mantenimento di posizioni di spicco tra le élite iraniane è stata anche la conferma dell’esistenza ad altissimi livelli e per almeno tre decenni di una fazione interessata a costruire rapporti amichevoli con l’Occidente e, soprattutto, a integrare il paese nei meccanismi del capitalismo internazionale.
Come spiegano in questi giorni i necrologi dei giornali di tutto il mondo, Rafsanjani è stato precocemente protagonista del dialogo, o delle prove di esso, con le potenze che avevano sostenuto strenuamente il regime dello shah, abbattuto dalla rivoluzione del 1979. Dai negoziati segreti degli anni Ottanta con Washington nell’ambito delle vicende che avrebbero portato allo scoppio dello scandalo “Iran-Contra” fino alle trattative sull’accordo relativo al nucleare di Teheran, siglato a Vienna nel luglio del 2015, e, in precedenza, al contributo all’elezione di Rouhani, Rafsanjani è stato di fatto il referente degli sforzi volti a un’apertura non violenta della Repubblica Islamica all’Occidente.
Non a caso, i commenti dei media internazionali hanno disegnato un ritratto tutto sommato positivo dell’ex presidente, ricordato come figura appunto equilibrata e sempre disponibile al dialogo a differenza dei fautori della linea dura e dei rappresentanti dell’estremismo religioso sciita.
Proprio questa lettura del ruolo di Rafsanjani ha parallelamente prodotto negli Stati Uniti e in Europa commenti e analisi allarmate, dal momento che la sua morte potrebbe lasciare un vuoto difficilmente colmabile per la galassia “riformista” iraniana, soprattutto in vista delle presidenziali del mese di maggio.
In molti hanno lamentato l’assenza di una forza comparabile a quella di Rafsanjani in grado di equilibrare il potere dei “principalisti” fedeli dell’ayatollah Ali Khamenei, con i moderati difficilmente in grado di ottenere l’appoggio politico necessario all’interno dell’establishment conservatore e di evitare l’influenza della destra religiosa sulla stessa Guida Suprema.
Il vuoto che i media in Occidente hanno prospettato dopo la morte di Rafsanjani sarebbe dovuto anche alla marginalizzazione da parte del regime delle icone del “riformismo”, o presunte tali, dall’ex presidente Mohammad Khatami ai due leader del “Movimento Verde” e candidati alla presidenza nel 2009, Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi da tempo agli arresti domiciliari.
Se la repressione ha indubbiamente avuto qualche peso, fuori da ogni ricostruzione e analisi dell’eredità politica di Rafsanjani restano tuttavia le responsabilità di quest’ultimo e dello stesso movimento “riformista” a cui il defunto ex presidente si era avvicinato negli ultimi anni.
Il fallimento della presidenza Khatami, il quale aveva ricevuto il sostegno di Rafsanjani, e lo stato comatoso dell’opposizione “riformista”, almeno fino alle proteste di piazza seguite alle discusse elezioni del 2009, viene cioè attribuito principalmente alla reazione dei “falchi” nelle posizioni di potere non elettive, i quali avrebbero frustrato gli sforzi per allentare i vincoli religiosi e ampliare le libertà personali, nonché il tentativo di apertura all’Occidente.
In realtà, se pure l’elezione di Khatami, così come i consensi significativi, anche se non maggioritari, raccolti dai candidati “moderati” nel 2009, era stata la risposta di una parte degli elettori iraniani al clima opprimente creato dal regime, è stata precisamente quell’esperienza di governo e il curriculum dei politici “riformisti” a screditare il movimento di opposizione.
Perfettamente in linea con le posizioni di Rafsanjani in ambito economico, Khatami aveva perseguito politiche di ristrutturazione dell’economia che hanno aumentato le disuguaglianze sociali in Iran, nonostante il sostanziale appoggio di governi, media e istituzioni internazionali a quelle che continuano a essere descritte come iniziative necessarie al rilancio di un’economia in stallo.
Rafsanjani e la fazione “riformista” o “moderata” all’interno della Repubblica Islamica hanno cioè sempre fatto leva sulle libertà personali e democratiche, anche se in maniera limitata, allo scopo di avanzare un’agenda liberista sul fronte economico. La ragione di ciò è da ricercare nelle aspirazioni della loro (limitata) base elettorale, vale a dire la borghesia urbana, spesso filo-occidentale, interessata ad avanzare il proprio status grazie alle occasioni messe a disposizione dall’ingresso del loro paese nei circuiti del capitalismo transnazionale.
L’ostilità nei confronti di questo progetto manifestata dalle fasce più povere della società iraniana ha rappresentato in definitiva il fallimento dei candidati dell’opposizioni nel 2009. Un fallimento che sarebbe costato a Rafsanjani l’esclusione dalle presidenziali del 2013, quando il Consiglio dei Guardiani bocciò la sua candidatura, con ogni probabilità per evitare il coagularsi attorno a essa di una nuova campagna, orchestrata in Occidente, per destabilizzare il regime.
Quell’esperienza finì con ogni probabilità per convincere l’ex presidente a cambiare parzialmente rotta e ad adoperarsi per il successo alle urne di un candidato con credenziali “moderate” ma accettabile agli occhi dell’establishment conservatore. L’elezione di Rouhani è stata così l’ultimo successo politico di Rafsanjani, il quale negli anni successivi ha visto andare in porto, almeno parzialmente, i progetti di riavvicinamento all’Occidente.
Ciò è stato però possibile anche grazie al momentaneo abbandono della linea dura nei confronti dell’Iran da parte dell’amministrazione Obama a Washington e alla convinzione della Guida Suprema e delle fazioni conservatrici meno estreme a tentare un cauto approccio nei confronti degli Stati Uniti.
Gli equilibri usciti dall’accordo sul nucleare di Vienna, a cui ha indubbiamente contribuito Rafsanjani o, quanto meno, la sua visione pragmatica delle relazioni internazionali, restano in ogni caso molto fragili. La morte dell’ex presidente iraniano potrebbe infatti avere conseguenze molto negative per i sostenitori del dialogo con l’Occidente nella Repubblica Islamica, i cui piani dovranno oltretutto fare i conti con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e con il rapido consolidarsi dell’asse economico-diplomatico-militare tra Teheran, Mosca e Pechino.
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di Fabrizio Casari
La ricostruzione fantasy delle elezioni statunitensi fornita dai servizi segreti americani continua ad occupare la scena politica USA. La frustrazione dell’establishment democratico, Obama in testa, appare come la cifra per un inedito clima politico nel quale si svolge il passaggio dei poteri. Si assiste ad un passaggio carico di rabbia, di aggressività, di provocazioni e di scontro politico che sono lontane dal consueto procedimento di consegne tra presidenti uscenti ed entranti.
Sostenere che siano stati gli hacker russi a determinare la vittoria di Trump alle elezioni statunitensi è quello che oggi potrebbe essere definito una post-verità. Visto e considerato che il voto non è telematico, diventa difficile immaginare una presunta attività di condizionamento della Rete sul suo risultato.
E visto che far credere che le capacità di penetrazione dei sistemi informatici da parte dei russi sia alla pari di quella degli americani è dura - e oltretutto darebbe luogo al prefigurarsi di pericolosi scenari - allora i vertici della CIA, con già gli scatoloni sul corridoio, accusano Mosca di aver contribuito alla creazione di un clima “sfavorevole” a Hillary Clinton.
Ma anche qui si scambia la causa con gli effetti. Non serviva l’hacker Ivan per sconfiggere la candidata dei democratici. Hillary, infatti, è stata la principale avversaria di se stessa e del suo partito, considerando il suo operato come Segretario di Stato prima e come candidata poi.
Incolpare chi denuncia l’illecito (Wikileaks) mentre si assolve chi lo compie è tecnica cialtrona e poco efficace. L’utilizzo della sua casella privata di posta durante il suo mandato governativo, nel migliore dei casi è stato frutto di imperizia politica, nel peggiore è stato un tentativo maldestro di occultare le sue comunicazioni, che nascondevano effettivamente verità imbarazzanti.
Non c’è stato nulla di trasparente, né nella sua avventura alla Casa Bianca, né nelle sue vicende private, tantomeno sugli ingentissimi finanziamenti provenienti da fondi sovrani di paesi del Golfo e da multinazionali con interessi fortissimi all’interno.
Che la Clinton non sarebbe stata votata da molta parte dei giovani democratici e che in diversi stati tra quelli più colpiti dalla crisi economica gli elettori democratici avessero scelto Bernie Sanders e non lei come candidato alla Casa Bianca è storia arcinota e solo i potenti quanto oscuri interessi che la circondavano hanno ritenuto che fosse comunque necessario puntare su di lei. Si è ritenuto che il candidato repubblicano mancasse della credibilità necessaria e che, alla fine, Hillary avrebbe comunque vinto, seppure con un distacco limitato. Così non è andata e la responsabilità non può certo essere addossata a Putin.
C’è poi un aspetto paradossale nelle accuse di Washington riguardo al condizionamento del voto. Come si può accusare Mosca di ingerenza nel voto USA quando quella di condizionare il voto nei paesi terzi è una delle maggiori attività che gli Stati Uniti svolgono ai quattro angoli del pianeta? Dall’Est Europa fino all’America Latina, le finte ONG e Fondazioni statunitensi operano illegittimamente nelle campagne elettorali.
Oriente o Occidente poco cambia: strateghi della comunicazione, fondi occulti, addestramento del personale, forniture tecnologiche e strumenti spionistici sono i principali rami di attività USA a favore dei loro alleati nelle competizioni.
E ciò avviene regolarmente e da decenni (ma nell’amministrazione Obama questo tipo di attività è stata potenziata ed estesa) ovunque si ritiene che gli interessi statunitensi, diretti o indiretti, possano essere salvaguardati a seconda del risultato elettorale.
Probabilmente, sentirsi minacciare sul terreno nel quale si pensa che si possa e debba avere l’esclusiva, ha scatenato una reazione isterica e scarsamente credibile, ma la gittata dell’operazione è soprattutto altra: delegittimare la vittoria di Trump.
Se infatti si dimostrasse che Putin abbia influito sul voto e che Trump ne fosse stato al corrente, l’impeachment per lui prima ancora di varcare il cancello della Casa Bianca sarebbe inevitabile. Nella sua ultima conferenza stampa, Obama ha chiesto alla CIA di chiudere l’indagine entro il 20 gennaio, ovvero la data dell’insediamento di Trump. L’agenzia dovrà anche valutare se e quali informazioni andranno coperte da segreto.
Paventare l’esistenza di notizie top-secret e quindi da non poter divulgare è l’essenza della campagna politica: se non potessero essere trasmesse a deputati e senatori non sarebbe possibile procedere legislativamente all’impeachment, ma ciò aumenterebbe esponenzialmente l’insinuazione di una verità inconfessabile, dunque gravissima.
Più concretamente l’operazione mira a condizionare la politica di Trump verso la Russia. La posizione di Trump, favorevole al dialogo con Mosca, mette infatti in discussione le scelte del Pentagono e dell’intero complesso militar-industriale statunitense, che prova a rilanciare il suo ruolo (e i suoi affari) in una politica di scontro aperto con Putin. Politica della quale l’allargamento ad Est della NATO costituisce premessa e obiettivo al tempo stesso.
Non è un caso che poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, Obama abbia firmato il decreto di espulsione per 35 diplomatici russi e, poco dopo, abbia siglato l’ordine esecutivo per manovre militari pericolosamente vicine ai confini russi che vedono il coinvolgimento di 5 mila soldati NATO.
Putin questa volta non ha ritenuto di reagire basandosi sul principio di reciprocità che anima l’essenza delle relazioni diplomatiche. Ha preferito agire politicamente e, rifiutandosi di applicare le stesse misure, ha dimostrato intelligenza politica decisamente superiore, visto che il suo obiettivo è proprio quello di non turbare l’insediamento di Trump e metterne così in difficoltà la disponibilità al dialogo. L’interesse di Mosca, è naturale, è quello di riportare ad uno stato di normalità i rapporti con Washington e l’espulsione di diplomatici o la chiusura di uffici statunitensi non avrebbero prodotto un effetto positivo al riguardo.
L’agenda del miliardario cafone che tra pochi giorni si insedierà alla Casa Bianca è complessa e la composizione del suo Gabinetto appare già un esempio di come Trump intenda governare e per favorire quali interessi. Non c’è davvero di che stare allegri.
Ma che i democratici abbiano obiettivi ed interessi diversi da quelli di Trump è stato sufficientemente smentito in otto anni di amministrazione. La differenza sta solo nei gruppi di riferimento sui quali ci si appoggia. Provare di tutto, lecitamente o meno, per sovvertire l’esito del voto di Novembre è inutile ma racconta di quanti interessi vi fossero in gioco e di quale dignità politica i democratici dispongano.
Ma visto che governare gli riesce male, smettano di urlare ai complotti e convocare lo star-system a celebrare improbabili addii. Si preparino piuttosto a fare opposizione ed a ricostruire un partito che entri in sintonia con il suo elettorato. Se ne sono capaci.