di Carlo Musilli

La Polonia cammina sul crinale fra democrazia e regime, ma per il momento lo Stato di diritto resiste. Il governo di Varsavia – dal 2015 guidato dal partito di estrema destra euroscettica Diritto e Giustizia (Pis) – aveva fatto passare in Parlamento un pacchetto di riforme che cancellavano l’autonomia del potere giudiziario. Ma a sorpresa il presidente Andrzej Duda ha annunciato che metterà il veto su due dei tre provvedimenti: "Ho deciso che rimanderò alla camera bassa la legge riguardante la Corte suprema e quella sul consiglio nazionale della magistratura", ha detto Duda dopo tre giorni di manifestazioni di protesta che hanno attraversato tutto il Paese.  

La prima riforma dava al governo il potere di controllare la nomina dei giudici della Corte suprema, consentendogli anche di sostituire quelli attualmente in carica. La seconda invece riguardava il Consiglio nazionale della magistratura, che svolge una funzione decisiva nelle scelta dei magistrati: in questo caso la nuova legge prevedeva che la maggioranza delle nomine (15 su 25) fosse in mano al Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, in cui il Pis detiene la maggioranza. Inoltre, il testo permetteva al ministro della Giustizia di deciedere quando i membri del Consiglio dovessero andare in pensione e di nominare in autonomia i presidenti dei tribunali regionali e delle corti d'appello.

Purtroppo però le leggi bloccate da Duda non sono gli unici attacchi al diritto andati in scena in Polonia. In precedenza il governo aveva già unificato le funzioni della Procura generale con quelle del ministero della Giustizia, affidando il doppio ruolo al super-ministro Zbigniew Ziobro. A quest’ultimo sarà consentito anche di condurre una caccia alle streghe tra i membri dell’avvocatura polacca attraverso un nuovo consiglio disciplinare con un ampio raggio d’azione.

Il disegno che sta dietro a tutte queste riforme è di accentrare il potere giudiziario nelle mani di Jaroslaw Kaczynski, vero uomo forte della Polonia di oggi. In teoria si tratta un semplice deputato, ma di fatto governo e maggioranza obbediscono a lui. Già primo ministro fra il 2006 e il 2007, Jaroslaw è cofondatore e presidente del Pis, nonché fratello gemello di Lech Kaczynski, ex presidente della Repubblica morto in un incidente aereo nel 2010. Un caso su cui è stato costruito un romanzo di spionaggio funzionale all’ascesa del partito: l’incidente sarebbe stato un attentato organizzato dai russi e coperto dalle élite liberali polacche, compreso l’odiato ex premier Donald Tusk (oggi presidente del Consiglio europeo malgrado la feroce opposizione proprio del governo polacco).

Ma Bruxelles stavolta non è rimasta a guardare. “L’Ue è sempre più vicina a invocare l’Articolo 7”, aveva minacciato Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, prima del veto posto da Duda. Il provvedimento, previsto del Trattato di Lisbona, avrebbe portato alla sospensione del diritto di voto della Polonia nel Consiglio Ue. Una punizione senza precedenti, anche se con ogni probabilità Varsavia avrebbe potuto contare sull'aiuto di Victor Orban: “In questo momento – aveva detto premier ungherese – il principale obiettivo dell'inquisizione, l'esempio di governo nazionale da indebolire, smantellare e spezzare è la Polonia”.

Ma come si è arrivati a mettere in discussione addirittura la divisione dei poteri? Quello che sta accadendo a Varsavia dimostra come le istituzioni democratiche e i principi stessi dello Stato di diritto possano essere minacciati senza che nessuno imbracci un fucile. La crisi di rappresentanza e di credibilità che in mezzo mondo sta travolgendo i partiti tradizionali può aprire la strada a chiunque sia in grado d’intercettare una quota significativa di rabbia sociale.

Esempio. Nel 2013, quando al governo c’era Tusk, il ministero degli Esteri polacco acquistò 28 sedie alla cifra astronomica 300mila zloty per "mantenere un design uniforme". Fu uno scandalo che finì sui giornali. Al contrario, una delle principali promesse (poi mantenuta) con cui Diritto e Giustizia ha vinto le ultime elezioni era quella di concedere a ogni famiglia polacca, indipendentemente dallo status economico, un bonus di 500 zloty al mese (circa 115 euro) per ogni figlio dal secondo in poi, dalla nascita fino al 18esimo compleanno. Sono tanti soldi, considerato che la metà dei lavoratori polacchi guadagna meno di 2.500 zloty al mese (600 euro) e che i prezzi continuano a salire ben più rapidamente degli stipendi.

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