di Fabrizio Casari

La vittoria schiacciante di Donald Trump ha sorpreso l’intero sistema mediatico e politico, dentro e fuori dagli USA. Benché s’intuissero le debolezze di Hillary Clinton, si riteneva che l’impresentabilità di Donald Trump portasse, per consunzione, a votare per la candidata democratica. Il presupposto fondamentale per l’errore di valutazione é stato l’idea che il voto sia ormai ridotto ad esercizio di stile più che a scelta politica, a consuetudine più che a una richiesta di ascolto da parte di un elettorato privato di ogni interlocuzione politica.

E invece no. Il voto, proprio in assenza di una demarcazione ideologica netta tra le forze politiche, quando si manifesta assume le sembianze di un grido destinato a squarciare il silenzio di una globalizzazione che rende possibile una sola idea, un solo programma, un solo destino.

Trump è riuscito a saldare in una candidatura di rottura con l’establishment politico (sia democratico che repubblicano) la parte peggiore degli Stati Uniti e le vittime del suo sistema. Ovvero ha messo insieme l’America più buia, quella dei razzisti e dei suprematisti bianchi, dei fanatici delle armi, del fondamentalismo religioso e del Tea Party - patrimonio elettorale della destra Repubblicana . con l’America più profonda, quella del disagio sociale, che avrebbe dovuto essere rappresentata dai Democratici. Quella che dal 2008 ha visto precipitare nella crisi la sua stessa coesione sociale, determinando l’impoverimento della classe media e lo sprofondamento delle classi più svantaggiate. In una simbolica linea parallela, Trump ha unito le due sponde opposte che sono diventate un unico mare.

Il voto è stato una risposta gridata contro una crisi sociale e di rappresentanza. E’ stato una rivolta contro le elites. Una dichiarazione di sfiducia verso un sistema guidato dal capitale finanziario che ha dichiarato guerra al lavoro, ai diritti sociali e alle politiche di accompagnamento ai settori più deboli. Sono le politiche che hanno innescato un darwinismo sociale che ha strappato il tessuto sociale del paese. L’America muta e quella dei millennials, dei disoccupati e della casse operaia ha votato, magari turandosi il naso ma gridando l’insostenibilità della sua condizione.

E anche l’America dei migranti, di quei latinos verso i quali Trump ha pronunciato le parole peggiori, ha preferito votare contro, esprimere un gesto di rottura contro l’establishment. Persino una parte consistente dell’immigrazione messicana, benché si senta minacciata direttamente e sia stata insultata ignobilmente, ha votato per lui. Lo ha fatto per votare contro Hillary. Perché la protesta sostiene gli outsider e non il potere consolidato. E’ naturale che il rovesciamento del tavolo sul quale si gioca la partita colpisca chi amministra e non chi è fuori dalle logiche.

Proprio per questa caratteristica quella di Trump é una rivoluzione ancor più forte di quella di Reagan. Se la prima ha offerto le premesse ideologiche per il monetarismo neoliberista, questa ne ha raccolto la sua insopportabilità. E sebbene il partito Repubblicano controllerà Camera dei Rappresentanti e Senato, il suo gruppo dirigente non ha molto di cui gioire. Trump ha avuto nella relazione diretta con gli elettori la sua forza e non nel lavoro organizzativo del suo partito, e ha nel suo programma elettorale una sostanziale sconfessione di parti importanti del disegno Repubblicano.

Peraltro, oltre ad essere un outsider, a differenza di Reagan con la sua vittoria ha dichiarato anche la messa in mora dello stato maggiore del partito che, salvo rare eccezioni, ha ritenuto di non doverlo sostenere e che quindi avrà ora una scarsa capacità di condizionarlo nelle scelte presidenziali. Le elezioni hanno chiarito come Trump non sia un prodotto del partito Repubblicano, semmai sono i Repubblicani che devono a Trump la loro affermazione.

Per i Democratici la sconfitta è bruciante, anche per come è maturata. Hillary era la peggior candidata che potessero scegliere. Solo con Sanders avrebbero potuto vincere, perché la candidatura del Senatore del Vermont avrebbe rappresentato l’intenzione di riposizionare il partito all’ascolto delle vittime di un sistema iniquo ed opprimente. Ma il partito Democratico è ormai privo di qualsivoglia profilo coerente con il suo nome e la cacciata di Sanders è stata solo la conferma di ciò.

E nonostante le volgarità sessiste di Trump, nemmeno il voto femminile ha sostenuto la prima campagna elettorale per una donna alla Casa Bianca; perché più che delle donne Hillary Clinton è stata percepita come la rappresentante dell’establishment, dei poteri forti e dei grandi gruppi finanziari. “Voglio una donna alla Casa Bianca, ma non questa donna” è stato il claim di molte elettrici.

Hillary é stata vista come icona dei compromessi e dell’inganno, delle bugie e della lotta sordida per il potere. E l’endorsment di grandi banche e gruppi di potere finanziario, delle corporations, dei grandi media e dello star-siystem, hanno ulteriormente rafforzato questa sua immagine.

Priva di ogni possibile empatia, arrogante e bugiarda, incapace di comunicare con le persone normali, quelle che non siedono nei board delle società finanziarie, ha solo minacciato un inasprimento della guerra con la Russia e il proseguimento delle guerre mediorientali.

Di fronte alla pubblicazione delle sue mail segrete non ha avuto il coraggio di affermare la verità, preferendo inoculare rabbia e veleno contro chi aveva reso pubblico quanto affermava in segreto e minacciare rappresaglie. In una notte, 24 anni di potentato della famiglia Clinton è stato rimosso.

Sconfitti anche i sondaggisti, che avevano vaticinato ben altro risultato. Ma non c’è da stupirsi se non hanno compreso quanto succedeva nel ventre della società americana. Per definizione lavorano in superficie e non scendono verso la parte più profonda del paese, che non considerano negli algoritmi che sottintendono la cultura del marketing politico.

A forza di credere che a politica è solo marketing e che il candidato è solo un brand, ci si dimentica che le persone non sono solo consumatori. Che utilizzano lo spazio minimo concesso per esprimere quello che provano, quello che chiedono e quello che rifiutano. Dunque, se il contesto è quello rappresentato da una globalizzazione che ha distrutto l’identità socioeconomica di milioni di persone, quel voto sarà esattamente il grido di protesta contro la loro perdita di cittadinanza.

Identico errore hanno commesso i media, schierati pancia a terra con Hillary Clinton perché incapaci di leggere la società. Infastiditi da tutto ciò che non emana il profumo del potere, emarginano o nascondono ogni contraddizione sociale, confondendo il popolo con i loro lettori e scambiando il ruolo di giornalisti con quello dei funzionari al servizio dell’ideologia.

Il primo discorso di Trump dopo l’annuncio della sua vittoria è stato improntato su uno stile corretto, completamente diverso per parole e toni da quelli della campagna elettorale. Non solo perché l’immagine di rottura serve per vincere e non per governare, ma perché il compito che lo aspetta non consente una spaccatura netta nel paese.

Difficile immaginare quali saranno le sue prime mosse, ma intanto il temuto crollo dei mercati non c’è stato e le Borse hanno risposto positivamente al nuovo assetto di Washington.

La dose del programma che vorrà o potrà applicare dipenderà da diversi fattori ma con la sua vittoria le scelte di politica estera subiranno modifiche profonde. Quanto e come esse si verificheranno dipenderà dal livello di mediazione con il complesso militar-industriale che il tycoon, ora Presidente, sarà in grado di stabilire.


di Michele Paris

Se c’è una buona notizia nella quasi incredibile vittoria di Donald Trump è che all’America e al mondo sarà risparmiata una nuova presidenza di un membro della famiglia Clinton. Detto questo, l’ingresso di Trump alla Casa Bianca aprirà nelle prossime settimane una serie di scenari e porrà interrogativi a dir poco inquietanti. Le responsabilità per il successo del candidato Repubblicano sono in ogni caso da attribuire per intero al Partito Democratico, alla sua deriva destrorsa, alle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione Obama e all’incapacità di offrire una prospettiva progressista a ciò che resta del proprio elettorato di riferimento, presentando invece una candidata tra le più screditate e reazionarie della storia degli Stati Uniti.

Le reali speranze di successo di Hillary Clinton erano svanite in fretta nelle prime ore della notte italiana, quando il leggero vantaggio registrato in stati considerati decisivi come Florida, North Carolina e Ohio ha ben presto lasciato spazio alla rimonta di Trump. La Florida, in particolare, sembrava poter essere ancora una volta in bilico fino alla fine del conteggio, ma i suoi 29 “voti elettorali” sono stati assegnati alla fine senza incertezze a Trump, in grado di raccogliere circa 130 mila voti in più della rivale.

Uno ad uno, sotto gli occhi increduli degli “anchormen” della CNN e di altri network filo-Democratici, quasi tutti gli “swing states” che Trump era in effetti obbligato a conquistare, e nei quali l’ex segretario di Stato era data in vantaggio, sono finiti nella colonna Repubblicana. Probabilmente, oltre che in Florida, fondamentale è stata la superiorità di Trump in North Carolina e in Ohio, stato quest’ultimo vinto da Obama sia nel 2008 che nel 2012.

Con ancora un percorso aperto verso la Casa Bianca, Hillary ha visto poi svanire di fatto le proprie speranze in seguito all’arrivo dei dati di altri stati della cosiddetta “Rust Belt”, generalmente orientati a votare Democratico. Scioccanti sono apparsi i risultati di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, diventati nel corso della nottata vere e proprie roccaforti a cui Hillary doveva aggrapparsi.

Nella mattinata di mercoledì, questi tre stati, assieme a Minnesota, Arizona, Maine e New Hampshire, erano ancora ufficialmente in bilico ma in quelli che mettevano in palio il maggior numero di “voti elettorali” il miliardario di New York sembrava avere un margine tale da rendere praticamente impossibile un recupero di Hillary. All’alba, la Associated Press aveva comunque già assegnato la Pennsylvania a Trump e poco più tardi sono arrivati i rimanenti stati necessari a chiudere i conti, spingendo quest’ultimo oltre la soglia decisiva dei 270 “voti elettorali”.

Il livello di shock che ha attraversato lo schieramento Democratico e lo staff della Clinton è apparso chiaro dalle reazioni, o dalla mancanza di esse, sui social media, mentre nella notte americana la ex first lady ha addirittura rinunciato a parlare alle migliaia di sostenitori raccolti nel suo quartier generale di New York.

Ad apparire è stato il capo della sua campagna elettorale, John Podesta, ovvero il bersaglio dell’hackeraggio che aveva portato alla rivelazione delle email compromettenti pubblicate da WikiLeaks nelle scorse settimane. L’ex capo di gabinetto del presidente Bill Clinton ha solo invitato ad attendere il conteggio finale, ma poco più tardi la stampa USA ha fatto sapere che Hillary aveva finito per chiamare Trump riconoscendo la sconfitta.

Significativamente, dopo una campagna elettorale dai toni violenti, Trump ha aperto invece il suo discorso riconoscendo il “servizio” prestato da Hillary al paese, prefigurando l’impegno che i media americani considerano inevitabile da parte di un presidente-eletto per “unire” un paese spaccato. Altrettanto rilevante è stato il riferimento alla necessità di stabilire rapporti cordiali con tutti i paesi del pianeta, a conferma di quello che può forse essere considerato uno dei pochi aspetti relativamente positivi dell’elezione di Trump.

In definitiva, se l’affermazione di Trump non è stata evidentemente a valanga, Hillary ha fallito clamorosamente su tutti i fronti. Solo poche settimane fa, la stampa USA parlava di una possibile cancellazione del Partito Repubblicano dalla mappa elettorale americana, così come di una probabile riconquista Democratica del Senato e, nella migliore delle ipotesi, della Camera dei Rappresentanti.

Non solo Hillary non è riuscita in sostanza a strappare nessuno stato tradizionalmente Repubblicano, ma, tra quelli in equilibrio, ha portato a casa solo Virginia, Colorado e Nevada. Il voto di queste presidenziali americane è stato perciò una clamorosa bocciatura dell’establishment, rappresentato principalmente da tutto ciò che incarna Hillary Clinton e dai suoi legami con i grandi interessi economico-finanziari e con l’apparato militare e dell’intelligence. A uscire con le ossa rotte dal voto è stato però anche un sistema mediatico che aveva cercato in tutti i modi di spingerla verso la Casa Bianca, non da ultimo producendo una raffica di sondaggi favorevoli alla candidata Democratica.

Ben lontani dall’assumersi la responsabilità di avere consegnato gli Stati Uniti a un presidente dalle evidenti tendenze fasciste, i politici Democratici e ancor più commentatori e analisti “liberal” hanno continuato e continueranno verosimilmente a collegare il successo di Trump a fattori che, se pure hanno influito, non sono stati determinanti.

Tra questi, in primo luogo, la mai provata interferenza del governo russo nel processo elettorale americano attraverso la penetrazione dei server di posta elettronica del partito e dello staff di Hillary Clinton. Ancor più, la galassia pseudo-progressista e i professionisti delle politiche identitarie e di genere sostengono che il fenomeno Trump sia una pura espressione di un’America retrograda, razzista e misogina che resiste il cambiamento che avrebbe determinato la sola elezione della prima donna alla Casa Bianca.

Se questa fetta di America, il cui peso è peraltro discutibile, ha indubbiamente appoggiato con entusiasmo la candidatura di Donald Trump, la sua affermazione è stata determinata in realtà dalla capacità di proporsi, sia pure soltanto in maniera apparente, come l’unico aspirante alla presidenza in grado di stravolgere l’establishment, dando voce soprattutto a una classe media e a una “working-class” che non hanno sentito se non, tutt’al più, in minima parte la “ripresa” dell’economia. Tutto ciò è stato canalizzato in una direzione reazionaria ed è stato possibile solo grazie al vuoto della sinistra americana e alla crisi irreversibile del Partito Democratico.

La ripresa dell’economia, piuttosto, sotto la gestione Obama ha beneficiato una ristretta élite, di cui fanno invariabilmente parte quegli esponenti della stampa “mainstream” che non si capacitano di come decine di milioni di elettori abbiano mancato di vedere i presunti progressi economici del paese e le rosee prospettive di un’eventuale presidenza Clinton.

La metabolizzazione della vittoria di Trump richiederà comunque tempo e le difficoltà che si prospettano sono state anticipate già mercoledì dal crollo delle borse in tutto il mondo. La storia della campagna elettorale appena terminata, così come i reali orientamenti dei poteri che controllano la politica americana, nasconde ancora molti lati oscuri, ma l’eventuale conciliazione del 45esimo presidente degli Stati Uniti con un sistema che l’ha in larga misura contrastato negli ultimi diciotto mesi non potrà avvenire senza scosse.

Allo stesso modo, la sola discussione delle varie proposte ultra-reazionarie di Trump, alcune delle quali con possibilità concrete di essere implementate vista la maggioranza Repubblicana confermata al Congresso, provocheranno gravi tensioni nel paese, a cominciare da quelle relative all’immigrazione, dalla possibile abolizione della “riforma” sanitaria di Obama e dalla nomina di giudici reazionari alla Corte Suprema.

Per il momento, alla luce del degrado che ha caratterizzato questa stagione elettorale americana e la quasi certezza che nessuno dei veri problemi sociali che affliggono gli Stati Uniti sarà risolto dopo questa elezione, è legittimo per lo meno consolarsi con la consegna probabilmente definitiva alla storia della dinastia politica clintoniana.

di Fabrizio Casari

Con oltre il 72,5% dei voti, il Comandante Sandinista Daniel Ortega Saavedra, presentatosi in tandem con Rosario Murillo alla guida della coalizione Nicaragua Triunfa, è stato rieletto per la terza volta consecutiva Presidente della Repubblica del Nicaragua. Schiacciante il predominio del Frente Sandinista nelle urne, l’insieme delle opposizioni si avvicina solo al 30% dei consensi e, sebbene disporrà di una discreta forza parlamentare, la maggioranza assoluta del FSLN nell’Assemblea Nazionale consentirà a Daniel Ortega e Rosario Murillo di proseguire nell’opera di ricostruzione socioeconomica e di modernizzazione del Paese iniziata dieci anni orsono.

Precisamente dal Gennaio del 2007, da quando cioè Daniel Ortega riprese in mano il destino del paese centroamericano. Raccolse una nazione in macerie che, dopo 16 anni di governi liberali, aveva superato Haiti nella classifica dei paesi più poveri dell’emisfero centroamericano. In dieci anni il governo Ortega ha rivoltato il paese come un guanto, posizionato il Nicaragua al secondo posto - dopo Panama - per la crescita economica costante nella regione .

Proprio i risultati ottenuti al governo negli ultimi dieci anni trovano oggi risposta in un consenso così ampio, che ha quasi doppiato lo zoccolo duro dell’elettorato sandinista, da sempre intorno al 35-38%. Sono effetto di una crescita basatasi sui principi fondanti di una economia sociale di mercato di ispirazione socialista, concentrata sulle politiche orientate alla riduzione della povertà e alla generazione di lavoro. Politiche concertate anche con l’impresa privata, che nella rinascita del paese ha trovato ruolo sociale e margini di profitto altrimenti irraggiungibili.

La rinascita del Nicaragua è stata sostenuta da investimenti pubblici in strade, case, sanità, trasporti, istruzione, assistenza, oltre che facilitazione al credito cooperativo e individuale, sostegno alla piccola e media impresa rurale, elettrificazione (erogata per una quota del 55% con energie rinnovabili), ampliamento della rete Internet in quasi tutto il paese. In conseguenza di queste politiche di coagulo sociale si è raggiunto anche un livello di sicurezza che vede il Nicaragua al primo posto nell’area centroamericana. Non a caso la stessa agenzia di rating Ficht, che ha assegnato al Nicaragua la B+ con prospettiva stabile, in un comunicato dove si complimenta con Ortega afferma che i governi da lui guidati "hanno migliorato la dinamica del debito pubblico, ridotto gli squilibri ed hanno visto una crescita crescente e una inflazione decrescente".

Ma il voto storico di domenica scorsa è anche il risultato di una comunicazione costante e dettagliata tra popolo e governo (della quale va dato merito soprattutto alla ora Vicepresidente Rosario Murillo) che ha rivoluzionato la tradizione della relazione tra rappresentanti e rappresentati costituendo una autentica novità nel panorama politico internazionale.

Difficile dunque, a fronte di simili risultati, svolgere una opposizione che valichi i confini puramente ideologici, ma il voto riflette anche la crisi dell’area liberale e conservatore, sebbene essa ha comunque ottenuto un mandato a rappresentare quella porzione di paese che non si riconosce nel FSLN.

La grande sconfitta di queste elezioni è invece l’ultradestra camuffata da improbabili rinnovatori, che a seguito dei sondaggi che l’accreditavano allo 0,2%, ha preferito non partecipare e lanciare una campagna sguaiata sui media internazionali di delegittimazione del voto. I loro sforzi hanno prodotto una discreta dose di disinformazione mediatica e un imbarazzante abbraccio con i settori più reazionari del partito Repubblicano statunitense, ma è proprio in Nicaragua che non hanno ottenuto seguito.

Gli ex-sandinisti del MRS e gli ex-liberali che hanno puntato sull’astensione hanno cercato con una mossa furba di sovrapporla con il loro proclama politico, ma non ha funzionato. L’assenza dal voto è stata infatti intorno al 35%, in perfetta media storica e comunque inferiore agli altri paesi del continente. Dunque risulta impossibile per loro auto assegnarsi il dato quantitativo dell'astensione e meno che mai raffigurarlo come dato politico. La loro unica vittoria è stata non presentarsi per evitare l’umiliazione della conta.

Ciononostante, fallita la strategia dell’astensione, prosegue senza sosta quella della disinformazione, dove si sentono appoggiati dai media internazionali. In spregio alla decenza hanno diffuso dichiarazioni che invertono completamente la realtà, indicando la quota di astensione al 65 per cento e quella dei votanti al 35!!

Ma nemmeno i loro amici stavolta li seguono. Un portavoce aggiunto del Dipartimento di Stato USA hacriticato l'assenza di osservatori internazionali (ovvero i loro) e ricordato come l'impegno della Casa Bianca è quello di insistere per il rispetto della democrazia e dei diritti umani, ma ruolo di chi ha effettuato le dichiarazioni e contenuto delle stesse appaiono decisamente inferiori alle attese dei loro amici nicaraguensi.

D’altra parte l’esito del voto nei suoi diversi aspetti era stato previsto dai sondaggi di opinione precedenti al voto, che indicavano il consenso al FSLN e all’opposizione, così come i numeri dell’astensione, i dati effettivamente riscontratisi ai seggi, il che rende ulteriormente prive di credibilità le dichiarazioni dell’ultradestra.

L’ampiezza dell’affermazione del Frente Sandinista evidenzia invece il sostegno popolare di cui gode il governo di Daniel Ortega e rende le denunce degli ex di tutto, persino della loro dignità personale, un esercizio di disperazione di chi è completamente privo di prestigio ed è ormai confinato ai margini della storia politica del paese.

A conferma invece di un voto tranquillo, regolare ed ordinato, rispettoso delle procedure e dei suoi esiti, vanno registrate le dichiarazioni del Gruppo di Esperti Elettorali, composto da ex Presidenti, ministri e deputati dei paesi latinoamericani. A nome di tutti l’ex Viceministro degli Esteri dell’Argentina, Raúl Alconada, si è complimentato con il Nicaragua, sottolineando che “mantenere il livello di partecipazione elettorale superiore alla media dei paesi latinoamericani, oltre a costituire una buona notizia, deve essere assunto come una sfida di prim’ordine per tutti i paesi”.

Anche la delegazione del COPPAL (la Conferenza dei partiti politici latinoamericani) in un report dettagliato sulle operazioni di voto monitorate, si è complimentata con tutti i partiti e “con il popolo nicaraguense per la dimostrazione di educazione civica esibita durante il processo elettorale, così come con il Consiglio Supremo Elettorale per la trasparenza e il livello di organizzazione dimostrato..che ha messo in evidenza la maturità del popolo e i progressi in materia elettorale raggiunti in Nicaragua”.

Auguri e complimenti a Ortega e Murillo sono arrivati dal presidente cubano Raul Castro, da quello venezuelano Maduro, dal boliviano Evo Morales e dal governo del Messico, del Guatemala e di El Salvador, ai quali si sono aggiunti quelli di Diego Armando Maradona, che sulla sua pagina Facebook invia i suoi complimenti a Daniel Ortega “da parte di un sandinista in più”.

Il Nicaragua continua quindi il suo cammino verso il futuro sotto lo sguardo vigile di Sandino che, dalla Loma di Tiscapa, si è trasferito in ogni luogo e in ogni urna della sua Nicaragua.

di Michele Paris

A poche ore dalla conclusione del lunghissimo processo elettorale che porterà all’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, il quadro politico americano si ritrova invischiato in una situazione di crisi come forse mai è accaduto nella storia di questo paese. La (relativamente) normale evoluzione delle campagne elettorali per la Casa Bianca è stata infatti stravolta quest’anno da due candidati profondamente screditati agli occhi dei potenziali elettori, mentre la loro stessa presenza sulle schede ha prodotto e, allo stesso tempo, è apparsa il risultato delle gravissime tensioni che attraversano la classe dirigente di un “impero” entrato con ogni probabilità in una fase di declino irreversibile.

La vigilia del voto ha così rispecchiato il travaglio della classe politica americana e le contraddizioni scaturite dai timori di non essere più in grado di mantenere in piedi la facciata di legittimità democratica di un sistema che non ha praticamente più nessun contatto con la realtà in cui vivono decine o centinaia di milioni di persone.

L’ultima scossa è giunta nel fine settimana, ancora una volta da un organo ufficialmente a-politico. Il direttore dell’FBI, James Comey, nemmeno dieci giorni dopo essere intervenuto nel dibattito delle presidenziali, annunciando la riapertura del procedimento d’indagine ai danni di Hillary Clinton per le note e-mail del Dipartimento di Stato, domenica ha operato una nuova marcia indietro.

Comey ha ancora una volta indirizzato una lettera alle principali commissioni del Congresso per dichiarare questa volta che nulla, nel nuovo materiale relativo all’indagine, può far pensare a elementi che giustifichino un’ipotetica incriminazione della candidata Democratica alla Casa Bianca. Il passo indietro del numero uno della polizia federale americana è l’ennesima farsa di questa campagna elettorale e, almeno in teoria, riporta le lancette dell’orologio della vicenda legale che ha coinvolto l’ex segretario di Stato allo scorso mese di luglio, quando lo stesso Comey aveva escluso la presenza di materiale incriminante.

Com’è noto, il caso ruota attorno all’utilizzo, da parte di Hillary, di un server di posta elettronica privato al posto di quello governativo per la propria corrispondenza durante la permanenza al dipartimento di Stato. Con questo account e in violazione della legge, l’ex segretario aveva scambiato mail personali e, soprattutto, ufficiali, esponendo potenzialmente materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.

Ancora peggio, come ha rivelato recentemente WikiLeaks, Hillary e il suo team avevano eliminato migliaia di messaggi, a loro dire per errore e comunque in gran parte di natura personale. Secondo molti, queste mail contenevano invece materiale esplosivo, tra cui le prove della concessione di favori a grandi interessi economici e a governi stranieri, i quali a loro volta avevano donato somme ingenti alla famiglia Clinton, principalmente attraverso l’ente “filantropico” Clinton Foundation.

Dopo l’archiviazione annunciata la scorsa estate, tra mille polemiche l’FBI aveva riaperto il caso a meno di due settimane dalle elezioni presidenziali in seguito al reperimento di migliaia di nuove e-mail riconducibili alla Clinton nel corso di indagini apparentemente non collegate, relative cioè all’invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, già consorte dell’assistente di Hillary, Huma Abedin.

Sui giornali americani e sui social media è subito scattata una discussione sulle motivazioni del comportamento del direttore dell’FBI. Al di là della reale possibilità di analizzare il contenuto di qualcosa come 650 mila mail in una settimana, la più recente decisione di Comey sembra riflettere ancora una volta le divisioni e le tensioni che caratterizzano la sua agenzia, così come l’intera classe dirigente USA, di fronte all’imminente elezione alla presidenza di uno tra Hillary Clinton e Donald Trump.

Se il discredito e i guai legali della candidata Democratica, che rischiano di compromettere da subito il suo mandato e di indebolire ancor più la posizione internazionale degli Stati Uniti, rendono credibile il fatto che una parte degli ambienti di potere americani abbia cercato di riportare in corsa Trump, Hillary rimane di gran lunga il cavallo preferito dall’establishment.

In questa prospettiva, l’uscita di dieci giorni fa di Comey poteva essere un modo per placare le voci, ben documentate dai media, che all’interno dell’FBI chiedevano un’azione più incisiva contro la ex first lady. Che poi tutto si sia risolto, almeno per il momento, in un nulla di fatto può dipendere dall’autorità che esercita sull’FBI il dipartimento di Giustizia, ovvero un organo politico controllato da un’amministrazione Democratica.

Gli ultimi sviluppi della vicenda Clinton potrebbero comunque avere un’influenza tutt’al più marginale sulle intenzioni di voto di elettori in buona parte scoraggiati nei confronti di tutto ciò che emana da Washington e ormai assuefatti a una campagna elettorale fatta di scandali e insulti.

Piuttosto, l’ennesimo colpo di scena – vero o finto che sia – sembra avere accentuato la percezione di politici e commentatori del danno che le candidature di Hillary e Trump, così come i loro guai, stanno provocando all’immagine e alla credibilità internazionale degli Stati Uniti.

Vari editoriali apparsi sulle principali testate americane nei giorni scorsi hanno evidenziato queste ansie e, in particolare, la presa d’atto che, a questo punto, chiunque conquisti la presidenza gli Stati Uniti sono destinati ad andare incontro a un periodo di grave instabilità. Ciò, a sua volta, rischia di indebolire la spinta propulsiva nelle aree cruciali del pianeta che viene considerata fondamentale per rimediare alla costante perdita di influenza di Washington di fronte all’avanzata di paesi come Russia, Iran e, soprattutto, Cina.

Sia pure in apprensione per queste ragioni, lo schieramento politico e mediatico “liberal” ha dato l’impressione nell’immediata vigilia del voto di avere tratto un respiro di sollievo, credendo infatti di avere scongiurato il pericolo di una vittoria di Donald Trump. Se i sondaggi commissionati dalle testate “mainstream” americane vanno presi con le dovute precauzioni, le indagini degli ultimi giorni e ancor prima della più recente decisione favorevole alla Clinton del direttore dell’FBI indicano una tenuta della candidata Democratica.

Per quanto riguarda il dato nazionale, quest’ultima continua ad avere un margine di vantaggio, anche se ristretto. La competizione si deciderà tuttavia in una manciata di stati in bilico, nella maggior parte dei quali, allo stesso modo, Hillary risulta in vantaggio nonostante il recupero di Trump.

Le ultimissime apparizioni dei due candidati hanno così rispecchiato le loro priorità. Lunedì, Trump è stato impegnato addirittura in cinque stati (Florida, North Carolina, Pennsylvania, New Hampshire e Michigan), mentre la favorita per la Casa Bianca si è limitata a tre stati tra quelli decisivi: North Carolina, Pennsylvania e Michigan.

Hillary, infine, ha cercato di conservare il vantaggio attribuitole dai sondaggi reclutando varie celebrità per convincere gli elettori ancora indecisi a votare per lei e a impedire una vittoria di Trump. Un eventuale ingresso alla Casa Bianca del miliardario di New York, che segnerebbe in effetti un drastico spostamento a destra del baricentro politico americano, viene dipinto dai sostenitori di Hillary come un evento catastrofico, ma questa strategia serve più che altro a nascondere la realtà di una presidenza Clinton che lascia intravedere conseguenze ugualmente disastrose, se non addirittura più gravi, soprattutto in merito a una più che probabile accelerazione dell’intervento degli USA nei principali scenari di crisi internazionali.

di Michele Paris

Il governo Conservatore britannico del primo ministro, Theresa May, ha dovuto incassare un colpo pesante nella giornata di giovedì dopo che l’Alta Corte di Londra ha attribuito al Parlamento il potere di far scattare la cosiddetta “Brexit”. Downing Street aveva infatti annunciato che sarebbe stato invece il governo a invocare entro la fine di marzo l’articolo 50 del trattato dell’Unione Europea, avviando in autonomia le procedure di sganciamento da Bruxelles.

Come minimo, la decisione letta dal “Lord Chief Justice”, Lord Thomas, rallenterà l’uscita della Gran Bretagna dall’UE e mette in serio imbarazzo il gabinetto May, dal momento che la premier aveva cercato di evitare il coinvolgimento di un Parlamento a maggioranza contrario alla “Brexit”.

Theresa May e i consulenti legali del governo ritenevano ci fossero le condizioni per esercitare la decisione esclusiva sull’avvio della “Brexit” da parte dell’Esecutivo visto che la questione era passata attraverso un voto popolare. L’Alta Corte, al contrario, ha stabilito che “la regola fondamentale della Costituzione [non scritta] del Regno Unito consiste nella sovranità del Parlamento”, il quale dovrà così esprimersi sulla cancellazione della legge del 1972 che ratificò l’ingresso di Londra nell’Unione Europea (“European Communities Act”).

Il governo Conservatore, per bocca del ministro per il Commercio Estero Liam Fox, si è detto deluso dalla sentenza, ma ha confermato la determinazione “nel rispettare il risultato del referendum” e annunciato ricorso alla Corte Suprema. Theresa May non ha invece parlato pubblicamente, ma lunedì prossimo, dal momento che sarà in visita in India, invierà un proprio ministro alla Camera dei Comuni per leggere una dichiarazione ufficiale.

Il ricorso dell’Esecutivo verrà preso in considerazione a partire dal prossimo 7 dicembre, ma se la Corte Suprema dovesse confermare la decisione di giovedì la crisi politica innescata dalla “Brexit” rischia di aggravarsi ulteriormente.

Politici e commentatori britannici assicurano comunque che il Parlamento non potrà che confermare il voto del referendum. Tuttavia, la poca chiarezza sulle procedure che dovrebbero innescare la “Brexit” rende incerti i prossimi sviluppi e il Parlamento potrebbe inoltre imporre delle condizioni per la conduzione delle trattative con Bruxelles, principalmente per ridurne l’impatto negativo, limitando così gli spazi di manovra del governo.

Al momento non è nemmeno chiaro se la Camera dei Comuni e quella dei Lord voteranno con un semplice sì o un no oppure, complicando gli scenari, se sarà necessaria l’approvazione di una legge ad hoc.

Nella più clamorosa delle ipotesi, il Parlamento di Londra potrebbe addirittura bloccare la “Brexit”, mentre in molti ritengono possibile che il protrarsi dello scontro politico possa provocare elezioni anticipate nei prossimi mesi. Per il momento, i leader che si erano schierati per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione hanno soltanto evidenziato come il verdetto dell’Alta Corte rappresenti un successo per la democrazia, visto che sanziona l’intervento del Parlamento nella “Brexit”

Il numero uno dei Laburisti, Jeremy Corbyn, e quello dei Liberal Democratici, Tim Farron, hanno poi invitato il governo a presentare al più presto al Parlamento i termini con cui intende negoziare con Bruxelles l’uscita dall’UE.

Una delle principali forze dietro alla “Brexit”, Nigel Farage, del partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di estrema destra, ha invece prospettato un possibile “tradimento” del voto popolare attraverso un rinvio o una marcia indietro sull’invocazione dell’articolo 50. Farage, in maniera inquietante, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze molto gravi se ciò dovesse accadere, mettendo in guardia dal “livello di rabbia popolare” che verrebbe provocata.

La dichiarazione della premier May sulla decisione del governo di far scattare le condizioni previste dall’articolo 50, oltre ad avere toccato un tasto delicato in relazione alle prerogative dell’esecutivo e del Parlamento, aveva suscitato i timori di quella parte della classe dirigente britannica che vede con apprensione l’uscita dall’Unione senza la salvaguardia di alcune condizioni favorevoli a Londra, a cominciare dall’accesso al mercato unico europeo.

Ciò è vero in particolare per l’industria finanziaria, come conferma anche l’identità delle forze dietro alla causa legale che ha portato alla sentenza di giovedì dell’Alta Corte.

Ad esempio, una delle protagoniste della vicenda è la proprietaria di un fondo di investimenti, Gina Miller, la quale, con il marito, ha messo assieme nella “City” una fortuna da svariate decine di milioni di sterline.

Anche alcuni studi legali che si sono occupati del caso operano solitamente nel settore bancario e finanziario. Ciò aiuta a capire come le pretese di volere rendere più democratico il processo di uscita dall’UE con il coinvolgimento del Parlamento di Londra nascondano in realtà interessi di ben altro genere.

Il business britannico che ha beneficiato dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, nel caso non riuscisse a bloccare la “Brexit”, intende cioè mantenere condizioni favorevoli anche dopo l’uscita, puntando per questo sull’intervento del Parlamento, i cui membri erano in maggioranza schierati per il “Remain”.

A dare un’idea delle turbolenze provocate dal voto sulla “Brexit” è infine l’andamento della sterlina. La moneta britannica aveva perso circa il 20% sul dollaro e il 15% sull’euro a partire dal referendum, con punte negative toccate dopo l’annuncio di Theresa May che a far scattare l’articolo 50 sarebbe stato il governo.

Soltanto giovedì, invece, la sterlina ha recuperato quasi l’1.5% sul dollaro e potrebbe proseguire nel trend positivo se la sentenza dell’Alta Corte dovesse essere confermata dalla Corte Suprema di qui a poche settimane.


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