di Michele Paris

Il giudizio dato domenica dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, al G7 di Taormina nel corso di un evento elettorale a Monaco di Baviera ha rappresentato probabilmente un momento cruciale nell’evoluzione dei rapporti tra Europa e Stati Uniti ai tempi di Donald Trump.

Il suo intervento ha riconosciuto tutte le tensioni generate dal nuovo fattore destabilizzante che risiede alla Casa Bianca e allo stesso tempo prospettato un futuro caratterizzato da un progressivo incrinamento dei rapporti transatlantici, anche se le ragioni non sono da cercare esclusivamente nella singolare personalità del presidente americano.

Com’è stato ampiamente riportato dai giornali di mezzo mondo, la Merkel, reduce dalla trasferta siciliana, domenica ha avvertito la classe dirigente tedesca ed europea che, per la difesa dei propri interessi, essa non potrà più “fare affidamento” sugli altri, cioè gli Stati Uniti, e che è ormai tempo di “prendere il destino nelle nostre mani”.

In molti tra i commentatori occidentali hanno evidenziato come la natura prudente del capo del governo di Berlino costringa a dare un peso particolare a queste parole, anche se già poco dopo l’elezione di Trump la Merkel aveva espresso il proprio giudizio in maniera molto schietta.

Dopo un confronto diretto con il presidente americano e gli altri leader delle principali potenze economiche del pianeta, la sua presa di posizione deve essere stata perciò dettata da un riconoscimento delle strade divergenti che Stati Uniti e UE sembrano avere intrapreso.

L’epilogo del summit di Taormina ha d’altra parte chiuso il sipario su una settimana segnata, tra l’altro, dalla strigliata di Trump agli alleati NATO per i loro insufficienti livelli di spesa in ambito militare e dal mancato impegno ufficiale per il principio della “difesa comune”, sancito dall’articolo 5 del Patto Atlantico.

Proprio nella località siciliana, poi, le differenze sono esplose ancora più chiaramente, con il presidente americano in aperto disaccordo con gli alleati del G-7 sulle questioni del libero commercio e della lotta al cambiamento climatico. Di fronte alla quasi rottura su questi temi, è passato in secondo piano anche il rifiuto americano a prendere in considerazione una proposta italiana sulla questione dei migranti.

Se l’esistenza di divergenze all’interno di forum internazionali non è cosa nuova, soprattutto in tempi molto recenti, quelle emerse pubblicamente a Taormina rappresentano un salto qualitativo non indifferente e il loro manifestarsi è la logica conseguenza delle crescenti tensioni registrate negli eventi che in questi anni hanno preceduto il G-7 italiano.

Fino al termine dei lavori, i rappresentanti di Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Italia si sono rifiutati di scendere a compromessi con gli Stati Uniti su alcuni temi. Su quello del clima, ad esempio, l’impossibilità americana di assicurare almeno per ora l’adesione all’accordo di Parigi del 2015 è stata registrata nel comunicato finale, nel quale invece gli altri sei paesi hanno confermato il rispetto per gli impegni presi.

I consueti sforzi per cercare almeno di minimizzare le differenze sembrano dunque non avere dato particolari frutti in questa occasione. Infatti, il compromesso che è stato raggiunto sul commercio è servito ad accentuare le diverse posizioni, visto che, su richiesta americana, nel testo della dichiarazione congiunta non vi è stata traccia del riferimento all’impegno esplicito nella lotta a “ogni forma di protezionismo”.

Al difficilissimo clima registrato a Taormina sul tema del commercio aveva contribuito lo stesso Trump, protagonista nei giorni precedenti di una discussione con i leader dell’Unione nella quale si era lamentato apertamente del numero troppo elevato di automobili tedesche vendute sul mercato americano. Una situazione a cui Trump, come aveva già spiegato nei mesi scorsi, intenderebbe rimediare proprio con misure protezionistiche.

Le implicazioni del giudizio totalmente negativo della Merkel sul G-7 sono difficili da sopravvalutare. Nonostante la cancelliera abbia invocato il mantenimento di relazioni amichevoli con gli Stati Uniti, così come con il Regno Unito avviato verso la “Brexit”, ha affermato che l’Europa “deve lottare da sola per il proprio futuro”.

I commenti seguiti alle parole della Merkel hanno spesso dato l’idea dello stato dei nuovi scenari transatlantici. La parola “spartiacque” nei rapporti tra alleati è stata ad esempio ricorrente negli USA. Il politologo Henry Farrell ha invece descritto al Washington Post le implicazioni di un allontanamento tra Stati Uniti e Germania, così come di un allentamento dei vincoli NATO.

Il docente della Georgetown University ha spiegato che “uno degli scopi della NATO era di inserire la Germania in un organo internazionale che impedisse a questo paese di diventare una minaccia alla pace in Europa, come accadde nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale”. Il venir meno anche parziale di questo legame e il perseguimento di un programma di difesa europeo comune a guida tedesca minacciano quindi il ritorno a scenari già visti nel corso del XX secolo.

Il commento di Henry Farrell sembra ribaltare la percezione comune di questi giorni sulle responsabilità del governo americano per il raffreddamento delle relazioni transatlantiche, attribuendole peraltro in maniera non del tutto erronea anche alle ambizioni della classe dirigente tedesca, ma ha il merito di ricordare i rischi per la stabilità occidentale che una deriva di questo genere comporta, al di là della natura innegabilmente reazionaria di un’alleanza come la NATO.

Un altro giornale americano molto critico nei confronti dell’amministrazione Trump – il New York Times – ha a sua volta rilevato come da alcuni mesi tra i leader europei ci sia la sensazione, virtualmente inedita dal 1945, di “dover voltare le spalle a Washington e prepararsi ad affrontare il mondo da soli”.

Le conseguenze, spesso sottintese, di una simile involuzione dei rapporti transatlantici minacciano un inasprimento delle tensioni fino a prefigurare, ancora una volta, un futuro ritorno a conflitti armati che sembravano impensabili fino a pochi anni fa.

Nelle analisi dei nuovi scenari la responsabilità è però quasi sempre attribuita al fattore Trump, alla sua personalità e al suo comportamento imprevedibile. In realtà, le frizioni venute a galla nel corso del G7 ed esposte nelle parole del fine settimana di Angela Merkel sono l’espressione del processo attraversato dal capitalismo internazionale almeno a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008.

La stagnazione economica persistente e l’acuirsi delle rivalità internazionali per la spartizione e l’accaparramento di mercati e risorse energetiche hanno accelerato il manifestarsi delle contraddizioni del sistema, scuotendo fin dalle fondamenta la stabilità su cui esso si è basato a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Trump è in definitiva la manifestazione di un processo oggettivo che vede gli Stati Uniti dibattersi nel tentativo di far fronte alla crisi della propria posizione internazionale, attraverso iniziative destabilizzanti, come appunto quelle all’insegna del protezionismo, che rischiano di innescare una guerra economica, anche con i propri alleati, dagli esiti potenzialmente rovinosi.

Il riflesso di questa tendenza è il ritorno alle ambizioni da grande potenza di un paese come la Germania, i cui interessi, o meglio quelli della sua classe dirigente, divergono necessariamente sempre più da quelli dell’alleato americano. Ciò è evidente non solo nelle questioni attorno alle quali è mancato un accordo a Taormina, ma ad esempio anche sull’approccio alla Cina, all’Iran e, in parte, alla Russia, tre paesi considerati fondamentali per gli interessi dell’economica tedesca e, al contrario, l’ostacolo principale al dispiegamento di quelli strategici americani.

La manifestazione delle tensioni transatlantiche e delle ambizioni di Berlino a provvedere da sé o con i partner europei alla propria sicurezza, rilanciate dall’elezione di Macron alla presidenza francese, non è comunque la conseguenza esclusiva dell’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Chiari segnali di questa evoluzione si erano osservati già ai tempi dell’invasione USA dell’Iraq nel 2003. Anche in quel caso, come sta accadendo oggi, l’opposizione di Berlino ai piani dell’amministrazione americana non era dovuta a scrupoli di natura morale o democratica, bensì agli obiettivi strategici ed economici divergenti dei due paesi alleati.

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