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di Michele Paris
Una nuova indagine del veterano giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha confermato nel fine settimana come i presupposti del bombardamento americano del 6 aprile scorso contro una base aerea siriana fossero basati su informazioni totalmente false. Il primo attacco deliberato degli Stati Uniti contro forze del regime di Assad, autorizzato dal presidente Trump, era stata la risposta a un raid in una località controllata dai “ribelli” condotto dall’aviazione siriana con armi chimiche, la cui esistenza, secondo la ricostruzione di Hersh, era stata però smentita anche dai servizi di intelligence americani.
L’80enne giornalista basa come di consueto la sua analisi su informazioni ricavate da fonti anonime all’interno del governo USA. Significativamente, il lungo articolo non è stato pubblicato da una testata americana, ma dalla tedesca Die Welt. Lo stesso giornale tedesco ha rivelato che Hersh aveva proposto la sua indagine alla London Review of Books, che già aveva dato spazio ad alcune delle ultime fatiche del giornalista, ma si era alla fine rifiutata di pubblicarla per le critiche che avrebbe potuto subire dando spazio a posizioni troppo vicine a quelle dei governi di Russia e Siria.
La ricerca di Hersh spiega come l’incursione dell’aviazione siriana del 4 aprile scorso nella città di Khan Sheikhoun fosse stata meticolosamente preparata grazie al lavoro dell’intelligence russa. In maniera insolita, Mosca aveva anche fornito a Damasco una “bomba guidata” con cui portare a termine l’operazione, a conferma dell’importanza dell’obiettivo da colpire.
Infatti, i russi avevano informazioni che confermavano come nell’edificio di Khan Sheikhoun si sarebbe tenuta una riunione tra membri di alto livello delle formazioni armate integraliste Ahrar al-Sham e Jabhat al-Nusra, quest’ultima formalmente affiliata ad al-Qaeda. I due gruppi avevano unito le loro forze per tenere sotto controllo la città del governatorato di Idlib, nella Siria nord-occidentale. L’edificio individuato dall’intelligence russa serviva da centro di comando e nel piano interrato ospitava una sorta di magazzino, nel quale si trovavano beni di prima necessità ma anche armi, munizioni e missili, così come medicinali e decontaminanti a base di cloro.
Ciò che risulta decisivo nella ricostruzione proposta da Hersh è che i russi avevano avvertito in anticipo i militari e i servizi segreti americani dell’operazione che sarebbe stata condotta a Khan Sheikhoun all’alba del 4 aprile. Mosca sapeva benissimo che la CIA poteva avere propri uomini o informatori all’interno dei gruppi dell’opposizione anti-Assad che si stavano per riunire, così che la condivisione dell’informazione avrebbe permesso a questi ultimi di evitare di presentarsi all’incontro il giorno stabilito per l’attacco siriano.
Le fonti di Hersh spiegano che la decisione russa di anticipare i dettagli dell’operazione agli americani era dovuta anche al fatto che nelle settimane precedenti l’aria a Washington sembrava essere cambiata in merito alla guerra in Siria. Il segretario di Stato, Rex Tillerson, e l’ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, avevano ad esempio lasciato intendere che Assad sarebbe rimasto a lungo alla guida del suo paese.
L’informazione, ad ogni modo, era stata accolta in maniera molto seria dalla comunità dell’intelligence USA e, quindi, ritenuta del tutto credibile. Dopo il bombardamento dell’edificio occupato dai “ribelli”, la CIA e i vertici militari americani avrebbero continuato a confermare l’assenza di prove dell’utilizzo di un agente chimico da parte dell’aviazione siriana, anche se il presidente Trump sarebbe rimasto dell’opinione che ciò era esattamente quanto accaduto a Khan Sheikhoun.
Una fonte di Hersh riassume le conclusioni che qualsiasi osservatore poteva trarre dopo i fatti del 4 aprile, cioè che un’eventuale decisione da parte di Damasco di ricorrere a un attacco con armi chimiche contro “ribelli” e civili sarebbe stato un autentico suicidio, visto soprattutto che le sorti della guerra erano diventate ormai favorevoli al regime. La Russia, poi, sarebbe stata furiosa nei confronti di Assad perché un’iniziativa di questo genere avrebbe screditato la sua posizione e messo in discussione la stessa guerra allo Stato Islamico (ISIS) che Mosca, oltretutto, intendeva coordinare con Washington.
Quello che segue è il resoconto della reazione di Trump, il quale sarebbe stato accecato dalle immagini che trapelarono da subito da Khan Sheikhoun grazie alla propaganda di enti e individui vicini all’opposizione siriana. Filmati e istantanee che documentavano la distruzione e gli effetti provocati dal presunto attacco con armi chimiche fecero in fretta il giro del mondo e, assieme alla propaganda della stampa “mainstream” occidentale, contribuirono a creare una versione indiscussa dei fatti sposata dal presidente, cioè che il regime di Assad aveva deliberatamente colpito con armi chimiche civili innocenti in Siria provocando decine o centinaia di vittime.
I governi di Russia e Siria, da parte loro, avevano affermato che nell’edificio colpito si trovava un deposito di sostanze tossiche, diffuse in seguito all’impatto della bomba sganciata dal jet siriano. La testimonianza di membri dell’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere, che aveva trattato alcune vittime dell’esplosione, sembrava supportare questa versione, dal momento che i sintomi indicavano l’azione di più sostanze chimiche. Ciò sarebbe stato impossibile se, come affermarono esponenti dell’opposizione, il regime avesse utilizzato una bomba equipaggiata con il sarin.Trump, comunque, dopo avere visto le immagini e le notizie dei principali network americani provenienti dalla Siria, aveva insistito con i vertici militari per organizzare una risposta all’attacco. La CIA e i servizi segreti militari rimasero invece fermi nel loro giudizio che l’attacco del jet siriano era stato condotto con un’arma convenzionale, mentre le analisi proposte ai vertici politici di Washington insistevano sull’assurdità della decisione di Assad di ricorrere ad armi chimiche.
Hersh e le sue fonti rivelano che non ci fu modo di convincere il presidente a desistere e, alla fine, in un vertice tenuto il 6 aprile nella residenza di Mar-a-Lago, in Florida, furono offerte a Trump quattro opzioni. La prima consisteva nel non fare nulla. La seconda nel procedere con una ritorsione sostanzialmente simbolica che permettesse agli USA di salvare la faccia. La terza era un piano di bombardamenti massicci contro le postazioni militari siriane, come già era stato proposto a Obama nel 2013, e la quarta addirittura un intervento per decapitare i vertici dello stato siriano.
La prima e la quarta opzione vennero subito scartate da Trump, il quale decise di dare ampia discrezionalità ai militari per organizzare una risposta all’inesistente attacco con armi chimiche. Ciò che seguì, com’è noto, fu un attacco con decine di missili Tomahawk lanciati da due navi da guerra USA nel Mediterraneo contro la base aerea siriana di Shayrat, vicina alla città di Homs sotto il controllo governativo.
Per i militari americani, l’operazione fu un successo in quanto provocò danni minimi alle forze armate siriane. Ben 24 missili mancarono il bersaglio, i nove aerei distrutti non erano operativi e, alla fine, le strutture danneggiate sarebbero state ricostruite in pochi giorni. Gli informatori di Hersh definiscono l’operazione come “poco più di una costosa esibizione di fuochi d’artificio” e “uno show alla Trump dall’inizio alla fine”. Alcuni dei consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente sentivano il dovere di “minimizzare una pessima decisione del presidente” che, tuttavia, avevano l’obbligo di portare a termine.
Il pregio principale dell’indagine di Seymour Hersh è senza dubbio quello di dimostrare come il 6 aprile scorso non ci fu alcun attacco con armi chimiche da parte delle forze armate del regime di Damasco. Il tentativo di innescare un’escalation della guerra in Siria da parte americana era peraltro già stato fatto con modalità simili in precedenza, soprattutto nell’estate del 2013, quando Obama sospese un attacco militare contro Assad solo di fronte all’opposizione popolare, del Congresso di Washington e di svariati alleati occidentali. Anche su questa vicenda sarebbe stato Hersh a smentire la versione ufficiale americana con un’indagine pubblicata nel dicembre dello stesso anno.
Se è comprensibile che Hersh si attenga alle conclusioni suggerite dalle proprie fonti e dalle informazioni che ha ottenuto, non del tutto convincente appare però il tentativo di attribuire al solo Trump e alla sua impulsività o ostinazione nel respingere le conclusioni dell’intelligence la responsabilità dell’attacco ordinato contro la base aerea siriana.
Se è innegabile, come in molti avevano subito avuto l’impressione, che l’iniziativa contro il regime siriano era stata messa in atto al preciso di scopo di causare il minimo danno possibile, è altrettanto chiaro che almeno alcune sezioni dell’apparato dello stato americano, e non il solo presidente, intendevano mandare un segnale esplicito a Damasco e, soprattutto, a Mosca e a Teheran. Il risultato può essere stato perciò un qualche compromesso tra posizioni contrastanti.
Come peraltro spiega lo stesso giornalista, la mobilitazione della propaganda di politici e media ufficiali fu decisamente massiccia dopo i fatti del 4 aprile, nonostante non vi fosse alcuna prova della responsabilità siriana. Ciò testimonia, tra l’altro, dell’esistenza di un’ampia “coalizione” favorevole alla guerra diretta contro Assad negli Stati Uniti e, se effettivamente disaccordo ci fu, forse per i timori di un pericoloso allargamento del conflitto, esso rimase per lo più dietro le quinte.
L’indagine di Hersh è accompagnata dalla pubblicazione su Die Welt di una conversazione tra un anonimo consigliere della Casa Bianca e un non meglio precisato militare americano operativo in Medio Oriente. La discussione riprende i temi dell’indagine, ma un passaggio dà un contributo ulteriore che aiuta a comprendere meglio il quadro generale in cui sono avvenuti i fatti raccontati.
A un certo punto, cioè, il “consigliere” parla di “un’agenda nascosta” dietro a quanto è accaduto tra il 4 e il 6 aprile e il tutto avrebbe a che fare con il tentativo “in fin dei conti di colpire l’Iran”, ovvero il principale alleato di Damasco. La precisazione è fondamentale e conferma ancora una volta come l’intero conflitto in Siria e il coinvolgimento americano si spieghino con gli sforzi degli Stati Uniti e dei loro alleati di colpire e possibilmente rovesciare i governi che rappresentano un ostacolo al loro dominio nella regione mediorientale.
Il fatto che quanto accaduto quasi tre mesi fa non sia sfociato in una guerra più ampia, secondo Hersh grazie alla relativa moderazione dei militari e dell’intelligence USA, non significa che ciò non possa accadere nel prossimo futuro. Anzi, quelle vicende sono state una prova generale e le stesse forze che si sono mosse per limitare i danni derivanti dalla decisione di Trump non esiterebbero ad agire contro Damasco e Mosca se le condizioni dovessero permetterlo.L’ultima indagine di Hersh è stata prevedibilmente ignorata negli Stati Uniti e, quei pochi media che l’hanno citata lo hanno fatto per lo più per screditare il suo lavoro. La solita accusa rivolta a Hersh è quella di basare le sue ricerche su fonti anonime che fornirebbero informazioni non provate.
Ferma restando la necessità di proteggere le proprie fonti, l’autorevolezza e la credibilità di Hersh sono dimostrate da decenni di impeccabile lavoro investigativo, a cominciare dalla rivelazione del massacro dei militari americani a My Lai, in Vietnam, nel 1969. Quelle stesse fonti anonime giudicate inattendibili nelle indagini di Hersh, inoltre, non sono mai messe in discussione dagli ambienti giornalistici ufficiali quando servono a propagandare le posizioni dell’apparato di potere USA attraverso imbeccate a giornali come New York Times o Washington Post.
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di Mario Lombardo
Con una manovra politica insolita, questa settimana la coalizione di maggioranza nel parlamento romeno ha approvato una mozione di sfiducia contro il proprio governo, sbloccando una situazione che aveva messo uno contro l’altro il primo ministro, Sorin Grindeanu, e il suo compagno di partito, il leader dei Social Democratici (PSD), Liviu Dragnea.
L’evoluzione della nuova crisi politica in Romania era stata per molti inaspettata. La rottura tra Grindeanu e Dragnea si era consumata la scorsa settimana dopo che 25 dei 26 ministri del governo di Bucarest avevano rassegnato le dimissioni per costringere il primo ministro ad abbandonare il proprio incarico. Parallelamente, i vertici del PSD avevano anche espulso Grindeanu dal partito.
Quest’ultimo aveva però puntato i piedi e denunciato il golpe ai suoi danni orchestrato dalla leadership del partito, così che mercoledì è stato necessario un imbarazzante voto formale in parlamento per ratificare il cambio alla guida dell’esecutivo romeno.
La presentazione di una mozione di sfiducia da parte della stessa maggioranza di governo è una novità assoluta per la Romania e riflette il durissimo scontro in atto all’interno del PSD. Mercoledì in parlamento, i due leader socialdemocratici hanno spiegato le proprie ragioni prima del voto. Il primo ministro ha ricordato come fino a pochi mesi fa i suoi rapporti con Dragnea fossero buoni e il numero uno del partito avesse approvato in pieno sia la composizione dell’esecutivo sia il programma di governo.
Grindeanu era stato la seconda scelta di Dragnea dopo che il presidente conservatore romeno, Klaus Iohannis, a fine dicembre aveva respinto la prima candidata del PSD, Sevil Shaidehh, con ogni probabilità a causa delle simpatie espresse dal marito di origine siriana per il regime di Assad.
Sia la Shaidehh che Grindeanu erano dati per fedelissimi di Dragnea, tanto da essere considerati entrambi dei fantocci nelle mani del leader socialdemocratico, impossibilitato ad assumere in prima persona l’incarico di primo ministro per via di una condanna per frode elettorale.
Dopo il successo piuttosto netto del PSD nelle elezioni del dicembre scorso, il governo di coalizione con l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici (ALDE) di centro-destra aveva subito incontrato un pesante ostacolo nei primi mesi del nuovo anno. A febbraio, l’esecutivo era sopravvissuto a una mozione di sfiducia dell’opposizione, scaturita dalle massicce proteste di piazza contro un decreto di emergenza che, tra l’altro, garantiva un’amnistia di fatto ai politici corrotti del paese balcanico.
Del provvedimento, successivamente ritirato, avrebbe beneficiato anche lo stesso Dragnea per tornare a ricoprire incarichi di governo, ma si era alla fine risolto in un fallimento, vista soprattutto l’attitudine della popolazione romena nei confronti di una classe politica considerata in gran parte corrotta e al servizio delle classi privilegiate.
Lo stop all’amnistia deve avere dunque provocato un deterioramento nei rapporti tra il premier Grindeanu e Dragnea, così da spingere il leader del PSD a tramare per un avvicendamento alla guida del governo in modo da disporre di un sostituto più facilmente controllabile.Ufficialmente, Dragnea ha spiegato che le ragioni della sua iniziativa hanno a che fare con l’incapacità del gabinetto di implementare le “riforme” previste dal programma del partito. Mercoledì in aula, Dragnea ha definito “piuttosto buona” la performance del governo Grindeanu, aggiungendo che, tuttavia, ciò “non è abbastanza”.
La stampa romena ha fatto notare come appena un mese fa Dragnea avesse espresso la propria soddisfazione per l’operato del governo. Un parere positivo, quello del leader socialdemocratico, dovuto anche ai dati economici diffusi nel mese di maggio che indicavano la crescita della Romania nel primo trimestre dell’anno (5,6%) come la più sostenuta di tutta l’Unione Europea.
Dietro a questi numeri vi è però una realtà economica e sociale ben diversa e il sostanziale malcontento diffuso tra la maggioranza della popolazione romena, esploso solo pochi mesi fa contro il governo Grindeanu, può avere convinto Dragnea a muoversi contro il primo ministro.
La vita dei governi romeni di qualsiasi orientamento è stata d’altra parte breve negli ultimi anni, caratterizzati da numerose manifestazioni di piazza. Già nel corso del 2015 il governo socialdemocratico dell’allora premier Victor Ponta era stato costretto alle dimissioni, dopo che le accuse di corruzione si erano saldate alla rabbia popolare dovuta a un incendio scoppiato in una discoteca di Bucarest, nel quale erano morte 64 persone.
Messo da parte Ponta, il presidente Iohannis aveva nominato a capo di un governo tecnico l’ex commissario europeo Dacian Ciolos, ma, dopo appena un anno, le dure politiche di austerity implementate da quest’ultimo avevano riconsegnato la maggioranza parlamentare al PSD.
Dietro alle vicende di questi giorni c’è comunque un’accesa lotta di potere tra le fazioni del Partito Social Democratico romeno. La mozione di sfiducia di mercoledì è stata approvata con 241 voti a favore e appena 7 contrari, con le opposizioni che si sono astenute, ma per molti osservatori gli equilibri nel partito potrebbero non essere così netti.
Grindeanu era stato appoggiato ad esempio dall’ex primo ministro Ponta, tra i più accesi oppositori di Dragnea, ed entrambi sembravano poter essere in grado di raccogliere un certo numero di consensi nel partito tra i colleghi più a disagio per i metodi autoritari dell’attuale leader.
Il tentativo di salvare il governo è invece evidentemente fallito, anche se la maggior parte di coloro che hanno votato la sfiducia in aula può averlo fatto per evitare una spaccatura nel PSD. La situazione precaria nel paese e l’aggravarsi delle rivalità internazionali, che si riflettono in maniera particolare sull’area balcanica, non lasciano comunque intravedere un percorso sereno per il prossimo governo, così che la resa dei conti interna al partito di maggioranza potrebbe essere soltanto rimandata.Alcuni, addirittura, prevedono un difficile percorso parlamentare per il prossimo governo, con la maggioranza che ha sostenuto finora Grindeanu in forte dubbio a causa di possibili defezioni.
Intanto, il presidente Iohannis ha fissato per lunedì prossimo l’inizio delle consultazioni con i rappresentanti dei partiti romeni. Dragnea, da parte sua, ha fatto sapere di avere già selezionato quattro possibili candidati alla carica di primo ministro, tra cui, secondo la stampa locale, ci sarebbero il vice-governatore della banca centrale, Florin Georgescu, e l’ex ministro dell’Interno, Carmen Dan.
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di Mario Lombardo
Il vertice strategico sino-americano che si è aperto mercoledì negli Stati Uniti è stato anticipato da un intervento pubblico del presidente Trump sulla situazione in Corea del Nord che ha confermato l’intenzione di Washington di alzare il livello dello scontro con Pyongyang, mettendo nuovamente in una situazione scomoda il governo cinese.
Al “Dialogo strategico e sulla sicurezza”, concordato da Trump e Xi Jinping nel mese di aprile, partecipano i segretari di Stato e alla Difesa USA, Rex Tillerson e James Mattis, e i rispettivi omologhi cinesi, Yang Jiechi e Fang Fenghui. Fonti del dipartimento di Stato hanno chiarito che il tema principale in agenda è appunto la Corea del Nord, attorno alla quale la retorica americana ha fatto segnare una nuova escalation nei giorni scorsi.
L’occasione è giunta questa volta dal decesso, avvenuto lunedì, del 22enne studente americano Otto Warmbier pochi giorni dopo il rimpatrio in stato di coma dalla Corea del Nord, dove era stato arrestato e condannato a 15 anni di lavori forzati, ufficialmente per avere rubato un manifesto di propaganda da un hotel.
Washington ha subito fatto sapere di voler prendere in considerazione lo stop ai viaggi di cittadini americani in Corea del Nord, mentre esponenti politici e dei vertici militari, incluso il presidente Trump, hanno chiesto o promesso una risposta adeguata al trattamento di Warmbier.
Ancora prima dei risultati delle analisi mediche sulle reali cause della morte del giovane dell’Ohio, soprattutto dal Congresso è giunto un coro di durissime accuse nei confronti del regime nordcoreano. Tra gli altri, i senatori repubblicani John McCain e Marco Rubio hanno invitato la Casa Bianca a non lasciare impunito quello che è stato definito un “assassinio” di un cittadino americano da parte di una “potenza ostile”.
Nuove sanzioni punitive contro Pyongyang sarebbero già in preparazione, ma anche l’ipotesi militare continua a essere pericolosamente discussa sui media e all’interno del governo americano. In una conferenza stampa, la portavoce del dipartimento di Stato, Heather Nauert, ha confermato che gli USA starebbero “considerando ogni opzione”.
Il già ricordato intervento di Trump, come al solito su Twitter, ha poi convinto molti dell’imminenza di un’operazione militare contro la Corea del Nord. Martedì, cioè, il presidente americano ha ringraziato il governo cinese per “l’aiuto” nel trattare con la Corea del Nord, per poi aggiungere che lo sforzo “non ha funzionato”.
L’uscita di Trump fa riferimento alle continue pressioni su Pechino per richiamare all’ordine il regime di Kim, convincendolo ad abbandonare il proprio programma nucleare e ad accettare le condizioni imposte da Washington per il possibile avvio di un qualche confronto diplomatico.
Nei mesi scorsi, infatti, l’amministrazione Trump aveva chiarito che l’eventuale contributo di Pechino nella risoluzione della crisi nella penisola di Corea avrebbe dovuto dare frutti nel breve periodo. In caso contrario, Washington avrebbe risolto la questione in maniera unilaterale.Questa strategia serviva evidentemente a creare il clima adatto a un’offensiva anche militare contro Pyongyang. Di ciò il governo cinese ne era ben consapevole, così com’è oggi cosciente del pericolo di un’escalation militare contro la Corea del Nord. Se la Cina è di gran lunga il principale partner economico e strategico di Pyongyang, per non dire l’unico, la sua influenza sulle dinamiche interne del vicino nord-orientale è però limitata.
Da Pechino, martedì un portavoce del ministero degli Esteri ha ricordato come la crisi potrà essere affrontata efficacemente solo attraverso la “cooperazione” di USA e Cina. La testata ufficiale cinese Global Times ha inoltre definito una “illusione” credere che la questione possa essere risolta solo grazie all’aiuto della Cina.
Con la consueta moderazione, cioè, il governo cinese insiste correttamente nel ricordare come la responsabilità dell’aggravamento della situazione nella penisola coreana, così come di un’eventuale de-escalation, sia soprattutto degli Stati Uniti.
Il “tweet” di Trump aveva comunque l’obiettivo di fissare da subito i toni della discussione di mercoledì e giovedì a Washington tra i rappresentanti di USA e Cina. Un esito negativo del vertice potrebbe perciò essere utilizzato dalla Casa Bianca come giustificazione per le nuove misure allo studio, sia in termini di sanzioni che militari, attribuendone la colpa al rifiuto o all’incapacità cinese di rimettere in riga la Corea del Nord.
D’altra parte, i preparativi per una guerra nella penisola di Corea sono ormai avanzati, visto il dispiegamento di forze USA nella regione ordinato durante le scorse settimane. Se le portaerei Carl Vinson e Ronald Reagan dovrebbero avere lasciato recentemente le acque al largo della penisola, la dimostrazione della forza militare americana in questi giorni è apparsa evidente dall’esercitazione condotta martedì da due bombardieri B-1B con l’aviazione giapponese e sudcoreana.
Le pressioni degli ambienti “neo-con” per imprimere un’accelerazione sulla Corea del Nord devono però fare i conti anche con gli equilibri politici ancora in fase di assestamento a Seoul. L’amministrazione sudcoreana del neo-presidente di centro-sinistra, Moon Jae-in, sta cercando di definire i propri orientamenti strategici nel tentativo di attenuare la linea dura tenuta nei confronti di Pyongyang dai suoi due predecessori conservatori.
Moon sta da un lato assecondando per molti versi l’aggressività di Washington sulla crisi nordcoreana, ma ha dall’altro evidenziato una certa disponibilità al dialogo con il regime di Kim, coerentemente con il suo programma elettorale che ha intercettato la moderazione diffusa tra la popolazione sudcoreana per quanto riguarda i rapporti con il nord.Potenzialmente, anzi, le posizioni di Washington e Seoul rischiano di divergere sempre più nel prossimo futuro, visti anche i giustificati timori con cui la Corea del Sud guarda a un eventuale catastrofico conflitto armato nella penisola.
A conferma delle tensioni tra i due alleati, mercoledì un portavoce del presidente Moon ha affermato che la Corea del Sud “non necessita del permesso degli Stati Uniti per riaprire il dialogo” con Pyongyang. La precisazione è arrivata in seguito alla controversia scatenata da una precedente intervista rilasciata dallo stesso presidente alla rete americana CBS, nella quale la giornalista Norah O’Donnell aveva appunto chiesto a quest’ultimo se Trump sarà disposto ad approvare un eventuale negoziato tra le due Coree “senza condizioni preliminari”.
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di Fabrizio Casari
MANAGUA. L’aggressione politica, diplomatica e mediatica verso il Venezuela ha ormai oltrepassato i limiti dell’ossessione. A sostegno di una opposizione inguardabile, sostenuta da Washington e dai paramilitari colombiani, sono scese in campo forze e personaggi di ogni ordine e grado. Nell’opera di mistificazione spiccano i media (tra tutti la CNN) che sulla realtà venezuelana spacciano fake news senza pudori, realizzando i loro reportage sotto dettatura dei partiti di opposizione.
A cominciare dal definire una “dittatura” un paese nel quale si è votato 19 volte negli ultimi 15 anni e dove solo in due di queste ha vinto la destra. Stando alla Fondazione di Jimmy Carter - ex presidente USA, non un chavista - il sistema elettorale venezuelano “è il migliore del mondo e vi partecipa l’80% della popolazione avente diritto".
Tra le cose che non vengono raccontate c’è che l’acutizzarsi dello scontro ha origine in un conflitto tra i poteri dello Stato, nato dalla decisione del Tribunale elettorale di non riconoscere la validità dell’elezione di 3 deputati dell’opposizione nella zona amazzonica. Si trattava di elezioni fraudolente e il tribunale non le vistò come legittime. Da quel momento l’opposizione rifiutò di adeguarsi a quanto prevedono le norme sulle elezioni e il regolamento parlamentare e diede inizio alla campagna violenta di manifestazioni. Provando a mettere all’angolo il governo Maduro, convinti che il Venezuela non avrebbe accettato, chiesero la mediazione della Chiesa di Roma al negoziato, ma quando Papa Francisco inviò un suo delegato, alla prima riunione abbandonarono il tavolo e interruppero le trattative.
Negli ultimi mesi si è assistito ad un incremento delle manifestazioni violente perché lo scopo dell’opposizione é la caduta rapida del governo: la sua strategia, così come la sua unità interna, hanno respiro corto e, se non vincono a breve, c’è rischio che non vincano più. Non a caso alla reiterata disponibilità del governo di riattivare il dialogo, l’opposizione rifiuta e sceglie invece di aizzare le piazze.
Perché? Per diversi motivi, tra i quali quello, appunto, della divisione al suo interno, riscontrabile tra l’altro nella lotta subdola tra l’ex candidato alla Presidenza Capriles e il fascista Leopoldo Lopez. Capriles, il cui carisma è in discesa, teme che Lopez possa utilizzare un suo cedimento al governo per strappagli la leadership e resta quindi sull’onda del rifiuto del dialogo nel timore di essere sconfessato dalle piazze dove si mescolano attivisti di destra e criminali in affitto.E proprio nel racconto falsificato delle manifestazioni violente i media svolgono la seconda parte del compito assegnatogli. Dipingono le squadracce pagate dell’opposizione come fossero manifestanti spontanei e pacifici. Non parlano dell’abbondanza di pistole e molotov, di fionde e pietre, di spranghe e scudi; di due ragazzi bruciati vivi solo perché sospettati di essere “chavisti”, sempre dai “manifestanti pacifici”.
Meno che mai parlano dei paramilitari colombiani dediti agli assassinii mirati, tra questi quelli di deputati governativi assassinati fin dentro alle loro case. Infine, occultano le manifestazioni di massa a favore del governo, come quella di due giorni fa a Caracas con centinaia di migliaia di persone e dimenticano che, anche nella passata vittoria elettorale dell’opposizione, il margine era assai ridotto e che, lo si voglia o no, il paese è diviso in due come una mela.
Nell’area dedicata allo spaccio di fake news si distingue il "Gruppo Prisa", ovvero il marchio editoriale al quale appartiene il quotidiano spagnolo El Pais. Legato oltre ogni decenza ad alcuni settori politico-finanziari spagnoli e statunitensi, da diversi anni si è messo al servizio dell’impero a stelle e strisce in ogni paese del continente latinoamericano. Per non dire di altre emittenti, come la tv nazionale cilena, che per corroborare le tesi di un reportage sulla violenza in Venezuela mise in onda immagini prese a Bogotà e Rio De Janeiro spacciandole come fossero di Caracas.
Ma anche i nostri media, Corriere e Repubblica in testa (cui si accoda - purtroppo - anche Il Fatto Quotidiano, per ignoranza redazionale nei temi di politica estera), svolgono il loro compitino da impiegati amanuensi della propaganda statunitense. Solo per fare un esempio, nel caso del fascista Leopoldo Lopez, arrestato, giudicato e condannato per istigazione all’odio e per responsabilità sia nei disordini (le guarimbas), sia negli omicidi di civili, i nostri eroi della “libera stampa” chiedono incessantemente il suo rilascio, sebbene sia stato considerato colpevole di tre omicidi.
Strano però, che quando sono stati inferti nove anni di carcere ad un manifestante italiano per il lancio di un estintore su un blindato dei carabinieri, la condanna venne salutata dagli stessi giornali come necessaria e congrua. Insomma, uccidere poliziotti e civili a Caracas viene considerata poco più che una ragazzata meritevole di assoluzione, mentre lanciare un oggetto contundente su un blindato dei carabinieri a Roma merita 9 anni di carcere.
La terza centuria si giova poi degli ex presidenti o ministri di paesi stranieri che, per arrotondare le già laute prebende, si mettono a disposizione degli Stati Uniti per combattere la guerra contro Caracas. Spiccano in questo ruolo gli spagnoli Josè Maria Aznar e Felipe Gonzales. Aznar non stupisce: i suoi rapporti con l’America latina sono sempre stati eccellenti con i settori più reazionari, soprattutto con il terrorismo cubanoamericano in Florida e con i paramilitari colombiani di Uribe e Mancuso in Colombia, quindi nessuna sorpresa per la sua posizione.
Per quanto riguarda invece l’ex socialista Felipe Gonzales, si deve ricordare che da Premier spagnolo diede l’autorizzazione alla costituzione illegale ed incostituzionale dei GAL, gli squadroni della morte governativi che uccidevano i dirigenti ETA: con che faccia oggi accusi Caracas di non rispettare la democrazia e i diritti umani, è un mistero. Per carità di patria non menzioniamo Casini, ci troveremmo peraltro in totale solitudine.
Ad occupare il fronte continentale latinoamericano ci sono le ONG americane come Human Right Watch e le organizzazioni regionali filo statunitensi, tra le quali spicca la OEA (Organizzazione degli Stati Americani) diretta da Luis Almagro, ex politicante uruguayano che ha aperto una guerra senza quartiere contro il governo Maduro. Nonostante l’organismo abbia nel suo statuto anche la difesa dell’integrità dei paesi membri, Almagro, che svolge ormai da mesi il ruolo di portavoce dell’opposizione venezuelana, si guarda bene dal chiedere dialogo e pacificazione, come il suo ruolo imporrebbe; accusa Caracas di ogni nefandezza chiedendo le dimissioni del governo e la fine del progetto politico bolivariano.L’operato di Almagro è in totale osservanza di quanto impone la Casa Bianca. Con l’intento di isolare il Venezuela e renderlo così più vulnerabile, cerca da mesi d’imporre un voto dell’organizzazione. L'obiettivo è produrre una rottura che permetta ai paesi membri di decidere sanzioni contro Caracas e, eventualmente, di girarsi altrove nel caso di un intervento militare diretto, sia da parte della Colombia per procura che direttamente da parte statunitense, visto che dispone di 7 basi militari in territorio colombiano.
Ma Almagro al momento colleziona sconfitte, perché nessuna delle sue proposte (formalmente avanzate da Messico e Stati Uniti, e sostenute dai dodici paesi che propongono la linea dura nei confronti di Maduro) ha ottenuto il sostegno necessario tra i trentaquattro membri. Il gruppo dei paesi alleati con Caracas, in tutto otto, ha invece appoggiato una proposta in cui si auspica la fine della violenza e la ripresa del dialogo.
L’inginocchiamento di fronte ai voleri di Washington ha spaccato in due l’istituzione che presiede - e della quale dovrebbe garantire l’unità come condizione per l’esercizio di un ruolo terzo da tutti riconosciuto - e ha con ciò sancito la fine della sua credibilità personale e politica. Rivelatosi tra i peggiori interpreti del ruolo nella storia dei suoi segretari generali, ha trasformato l’OEA nella sezione esteri della Casa Bianca, così riportando l’organismo multinazionale alla scarsa considerazione che ha sempre riscosso nelle più importanti cancellerie del continente.
A tutto ciò si aggiunge l’aspetto paradossale della faccenda. Si perché ad Almagro si associano alcuni paesi che, quanto a diritti umani e democrazia, meriterebbero una censura da parte di tutta la comunità internazionale, non solo della stessa OEA. Pur volendo stendere un velo pietoso sul Cile della Bachelet, primo per povertà e repressione (di studenti e indios Mapuches) nel Cono Sud, o soprassedere sul Brasile del golpista ultracorrotto Temer, la cui repressione brutale delle manifestazioni che ne chiedevano le dimissioni non ha mai ricevuto una parola di condanna da parte di Almagro, il paradosso più vistoso è quello del Messico, lanciato in una offensiva senza precedenti contro il Venezuela. L’intento è quello di inginocchiarsi verso gli USA, nella speranza di ricevere meno ceffoni nel negoziato bilaterale con Washington e che le minacce di Trump sul muro e sul Nafta restino solo propaganda elettorale.
Certo, ci si aspetterebbe che la 14esima economia del pianeta reagisse con maggior dignità al disprezzo esibito da Trump, ma è pur vero che l’attitudine servile è connotato preponderante del presidente Pena Nieto. Ad ogni modo è divertente sentir parlare il Messico di democrazia e diritti umani, dato che nel mondo si posiziona subito dopo Iraq e Siria per il numero di vittime civili; che conta oltre 22.000 scomparsi negli ultimi 6 anni; che assassina e fa scomparire 43 studenti ad Ayotzinapa; che ha il triste record di primo paese al mondo per femminicidi (tra i 5 e i 7 al giorno dal 2005 ad oggi); che è al primo posto per la corruzione e l’impunità dei corruttori e dei corrotti; che esibisce un livello profondo di vincoli tra narcos e politici che ne fanno un narco-stato; che si colloca tra i peggiori al mondo per l’orrore del suo sistema penitenziario e l’amministrazione della giustizia, che risulta tra i primi in Occidente per frodi elettorali e povertà cronica e che, oltretutto, è leader mondiale di produzione, commercio ed esportazione di droga. Ebbene, il suo ministro degli Esteri, Luis Videgaray, accusa il Venezuela di mancato rispetto dei diritti umani e scarsa democrazia.
Incurante persino dei doveri di anfitrione, l’altro ieri, al Vertice di Cancun dell’OEA, Videgaray ha rilanciato le sue accuse a Caracas. Ma, stupidamente, lo ha fatto nelle stesse ore in cui in Messico si svelava la scoperta di un programma d’intercettazione telefonica governativo destinato ai dirigenti degli organismi a difesa dei diritti umani e ai giornalisti più autorevoli.
Con un software chiamato Pegasus, d’invenzione e brevetto israeliano, il governo messicano tiene illegalmente sotto controllo e intercettati centinaia di persone cui ne minaccia l’integrità fisica. C’è da sottolineare come l’articolo 66 della Costituzione messicana proibisca categoricamente la violazione della riservatezza personale, ma è chiaro l’intento di cercare elementi utili alla ricattabilità dei giornalisti più autorevoli affinché scrivano solo quello che al governo conviene. Il New York Times di ieri ha esposto in un lungo articolo la vicenda e i giornalisti messicani hanno presentato tutti gli elementi del caso in una conferenza stampa. Le smentite del governo messicano non hanno potuto smentire un bel nulla e anzi, com’era prevedibile, nessuno si è sorpreso.L’aggressione a Caracas si spiega con l’intenzione di Washington di tornare a mettere le mani sul subcontinente. Gli Stati Uniti dirigono la guerra al Venezuela perché vogliono rientrare in possesso del suo petrolio, ridurre la presenza di Russia e Cina nel continente e, nel contempo, interrompere la stagione dell’unità latinoamericana. Per questo attaccano il Venezuela, provocano Cuba e minacciano il Nicaragua, ammoniscono la Bolivia e provano ad agire in Ecuador.
Alcuni tra i paesi che dovrebbero difendere la dignità e la sovranità latinoamericana si prestano al volere imperiale: non hanno cominciato oggi e non finiranno domani, la vocazione alla servitù si alimenta con la corruzione e venirne a capo sarà questione di generazioni.
Altri però, dimostrano che il Venezuela non è solo, che un continente di solidarietà e di scambi tra eguali è presupposto di un territorio libero. Resistere all’aggressione al Venezuela oggi significa anche permettere di resistere a quelle che verranno verso gli altri pesi latinoamericani. E’ perciò resistenza che diventa prospettiva politica, è cura del futuro di tutti. Di chi lo ha già capito e di chi lo capirà.
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di Michele Paris
A cinque mesi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la strategia della nuova amministrazione repubblicana per la guerra in Afghanistan è ancora ben lontana dall’essere definita. Mentre il Pentagono sta ultimando la propria analisi della situazione nel paese centro-asiatico, che sarà presentata al presidente entro la metà di luglio, già da ora appare evidente che i piani futuri includeranno un nuovo aumento delle truppe di occupazione e l’assegnazione di maggiori poteri decisionali ai vertici militari.
Il dibattito politico a Washington sull’Afghanistan è tornato all’ordine del giorno in concomitanza con una serie di eventi sanguinosi. Attacchi e attentati suicidi, attribuiti o rivendicati dai Talebani o dalla costola afgana dello Stato Islamico (ISIS), hanno mostrato impietosamente il fragilissimo controllo sul paese esercitato dal governo-fantoccio di Kabul e dalle forze della NATO.
Dopo quasi sedici anni di guerra e occupazione, lo stato afgano continua a essere allo sbando, povertà e corruzione sono dilaganti e le forze di sicurezza indigene, per l’addestramento delle quali sono state spese decine di miliardi di dollari, totalmente inadeguate. Il processo di pace con i Talebani è ugualmente in attesa di essere avviato, mentre questi ultimi controllano oggi tra il 40% e il 60% del territorio dell’Afghanistan.
In questo quadro, anche le dichiarazioni ufficiali moderatamente ottimistiche di politici e militari americani sull’andamento della guerra hanno da tempo lasciato spazio all’ammissione più o meno esplicita del fallimento. Settimana scorsa, nel corso di un’audizione al Congresso il segretario alla Difesa, generale James Mattis, aveva ad esempio affermato che gli USA “non stanno vincendo in Afghanistan”, per poi promettere un’ulteriore dose della medicina che in questi anni non ha provocato altro che morte e distruzione nel paese occupato.
Mattis ha velatamente criticato la strategia dell’amministrazione Obama di ritirare la gran parte del contingente americano dall’Afghanistan. Alcune indiscrezioni riportate dai giornali americani hanno rivelato come il Pentagono starebbe valutando un aumento delle truppe di occupazione pari a qualche migliaia di uomini. La cifra più probabile sembra essere di cinquemila, in aggiunta ai 9.800 già presenti sul campo.
Gli aspetti più significativi della nuova strategia in fase di elaborazione sono la facoltà, garantita dalla Casa Bianca al dipartimento della Difesa, di stabilire in autonomia il numero di soldati ritenuti necessari a cambiare le sorti del conflitto e l’impiego esplicito dei soldati USA in operazioni di combattimento. Quest’ultima misura sostituirebbe la direttiva di Obama che, almeno ufficialmente, assegna alla maggior parte delle truppe di occupazione il semplice ruolo di “consiglieri” dell’esercito afgano. Le rimanenti forze impiegate nel paese sono impegnate invece in operazioni di “anti-terrorismo”.
Al di là del numero esatto di uomini che saranno spediti a combattere e a morire in Afghanistan, in pochi a Washington credono realmente che l’aumento del contingente di occupazione possa risultare decisivo per invertire la rotta. Gli Stati Uniti, assieme agli alleati NATO, hanno avuto d’altra parte in passato un picco di oltre 100 mila uomini in Afghanistan e ciò non ha in pratica generato alcun effetto positivo sulla guerra agli “insorti”.
Con un’impasse difficile se non impossibile da rompere e alla luce dei conflitti in cui gli Stati Uniti sono coinvolti in altre parti del pianeta, l’obiettivo non dichiarato della guerra in Afghanistan potrebbe essere perciò quello di aumentare le forze di occupazione il tanto necessario per mantenere in vita il governo di Kabul e, in attesa di tempi migliori, perpetuare la propria presenza in un paese cruciale per gli equilibri strategici centro-asiatici.
Se cambiamenti significativi degli scenari di guerra non sono previsti praticamente da nessuno, qualunque siano le decisioni finali di Trump sull’Afghanistan, l’intensificazione dell’impegno militare americano che si prospetta finirà di certo per inasprire il conflitto e provocare un nuovo aumento delle vittime, sia tra i civili sia tra le forze di occupazione e gli “insorti”.
L’amministrazione Trump ha ad ogni modo già autorizzato un aumento delle operazioni in Afghanistan, come hanno dimostrato il moltiplicarsi degli attacchi aerei condotti negli ultimi mesi dalle forze USA e il lancio nel mese di aprile contro un’area controllata dai Talebani del più grande e distruttivo ordigno non-nucleare mai utilizzato in combattimento.
La definizione della strategia afgana e, soprattutto, la situazione disastrosa in cui si trova il paese e il dispendio di risorse che la guerra ha comportato stanno facendo emergere le profonde divisioni che attraversano gli ambienti di poteri negli Stati Uniti.I malumori dell’apparato militare americano sono stati espressi ad esempio questa settimana dal senatore repubblicano John McCain, il quale in un intervento pubblico ha citato il recente assassinio di militari americani da parte di un soldato dell’esercito afgano come il simbolo del fallimento dell’occupazione e il punto di partenza per imprimere un’illusoria “svolta” alla campagna bellica più lunga della storia degli Stati Uniti.
McCain, tra i più feroci oppositori di Trump nel Partito Repubblicano, ha denunciato l’assenza di una strategia chiara per l’Afghanistan, anche se le sue critiche non offrono nessuna via d’uscita percorribile dal conflitto, basandosi fondamentalmente sull’imprescindibilità di un aumento dell’impegno militare.
Con il probabile avvicinarsi della conclusione della revisione strategica americana per l’Afghanistan, martedì la Reuters ha anticipato alcune iniziative che la Casa Bianca potrebbe autorizzare nel prossimo futuro, pur mettendo in guardia dal carattere non ancora definitivo dei provvedimenti ipotizzati.
Secondo le fonti citate dall’agenzia di stampa, Trump e il Pentagono starebbero valutando la possibilità di esercitare pressioni sul governo del Pakistan, da tempo ritenuto troppo tenero nei confronti dei gruppi fondamentalisti armati che troverebbero rifugio o protezione entro i propri confini e che risultano attivi in Afghanistan.
Per convincere Islamabad a rompere i legami con gruppi come quello degli Haqqani, considerato responsabile di svariati attentati in territorio afgano, gli USA potrebbero ricorrere alla minaccia di maggiori incursioni con i droni nelle aree tribali del Pakistan, di tagliare i finanziamenti destinati alle forze armate di questo paese o di cancellare lo status di “alleato non appartenente alla NATO” che, a sua volta, garantisce il flusso di determinati equipaggiamenti militari.
La questione dell’approccio al Pakistan è però estremamente delicata e non è vista in maniera univoca dalle varie sezioni dell’apparato militare e governativo americano. Eccessive pressioni su questo paese potrebbero infatti provocare l’effetto opposto a quello desiderato, poiché la classe dirigente pakistana è già fortemente sospettosa delle intenzioni americane in Afghanistan e nella regione centro-asiatica.
Un atteggiamento ancora più ostile nei confronti di Islamabad potrebbe spingere il Pakistan ancor più verso la Cina, con la quale i rapporti storicamente cordiali si sono ulteriormente intensificati negli ultimi anni, e a continuare a puntare su determinate fazioni talebane per mantenere la propria influenza sulla realtà afgana.
Puntare il dito contro il Pakistan per la situazione disastrosa di Kabul è comunque un esercizio non nuovo da parte degli Stati Uniti e serve a evitare un’analisi onesta della fallimentare politica estera americana. Per cominciare, le accuse al Pakistan non tengono in considerazione il prezzo altissimo pagato da questo paese e, soprattutto, dalla sua popolazione per la “guerra al terrore” promossa da Washington.
Inoltre, chiedere al Pakistan di tagliare i legami pure esistenti tra i suoi servizi segreti e i gruppi militanti attivi in Afghanistan è semplicemente inutile se non si affrontano le ragioni che stanno alla base di questi stessi rapporti. Non solo l’ambiguità nei confronti del fondamentalismo islamista in Pakistan è da collegare proprio alle strategie anti-sovietiche americane in Afghanistan, ma questa politica mai abbandonata del tutto da Islamabad dipende in larga misura dall’evoluzione del comportamento degli Stati Uniti nella regione.
Fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush, gli USA hanno cercato costantemente di integrare l’India, vale a dire l’arci-nemico storico del Pakistan, nella propria strategia centro-asiatica, con l’obiettivo di sottrarre Nuova Delhi dall’orbita russa e, soprattutto, di controbilanciare l’espansionismo cinese.Questa iniziativa, accelerata da Obama, ha previsto da subito un ruolo di spicco per l’India in Afghanistan, suscitando inevitabilmente le ansie del Pakistan, vistosi accerchiato e potenzialmente escluso dal vicino occidentale, considerato tradizionalmente all’interno della propria sfera di influenza.
Le decisioni che l’amministrazione Trump prenderà sull’Afghanistan nelle prossime settimane e nei prossimi mesi avranno quindi riflessi su tutti gli scenari più caldi dell’Asia centro-meridionale e proprio queste implicazioni, assieme all’assenza di prospettive ottimistiche per il conflitto in corso dal 2001, stanno ritardando in maniera insolita la formulazione di una strategia coerente o anche solo apparentemente percorribile.