di Mario Lombardo

Con un annuncio a sorpresa nella tarda mattinata di martedì di fronte alla residenza di Downing Street, la premier britannica Theresa May ha fatto sapere di voler chiedere alla Camera dei Comuni di Londra lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate per il prossimo 8 di giugno. La decisione del governo Conservatore smentisce la posizione ufficiale sul voto che esso stesso aveva tenuto fino a poche settimane fa e testimonia delle gravi tensioni che attraversano la classe politica del Regno Unito in queste fasi iniziali delle trattative sulla “Brexit” con l’Unione Europea.

Il primo ministro non ha comunque la facoltà di indire elezioni anticipate ma, secondo quanto previsto dal “Fixed-term Parliaments Act” del 2011, necessita di un voto dei due terzi della Camera del Comuni. L’altro caso in cui il parlamento può essere sciolto prima della sua scadenza naturale è invece in seguito a una mozione di sfiducia e in assenza di un nuovo governo che succeda a quello dimissionario.

La premier May presenterà mercoledì all’aula la propria richiesta di voto anticipato e il sostegno già offerto dal Partito Laburista assicura l’esito voluto dal governo Conservatore. A dare conferma della posizione del principale partito di opposizione in Gran Bretagna è stato il suo leader, Jeremy Corbyn, il quale ha salutato le prossime elezioni con un comunicato decisamente troppo ottimistico rispetto alle reali chances di un partito lacerato da un violento conflitto interno.

Le ragioni che hanno spinto Theresa May a invertire la rotta sulle elezioni sono dunque legate principalmente alla “Brexit”. Nel suo annuncio di martedì ha affermato che, se la Gran Bretagna “non dovesse andare al voto ora, il gioco politico [delle opposizioni] proseguirebbe e i negoziati con l’UE raggiungerebbero il momento più complicato proprio alla vigilia delle prossime elezioni”, originariamente previste per il 2020.

In sostanza, la May ha riconosciuto l’esistenza di forze centrifughe scatenate dal referendum dello scorso anno sull’uscita di Londra dall’Unione Europea, pur scaricandone le responsabilità interamente su formazioni politiche diverse dal Partito Conservatore che, a suo dire, vorrebbero strumentalizzare il processo in atto e ostacolare il lavoro del governo.

La scommessa del primo ministro è così quella di rafforzare il mandato del governo con una più solida maggioranza parlamentare in modo da neutralizzare o, quanto meno, ridurre ai margini del dibattito politico gli oppositori della “Brexit” o delle posizioni che Downing Street terrà nel corso dei negoziati con Bruxelles.

La decisione di indire elezioni anticipate giunge ovviamente quando le trattative non sono ancora entrate nel vivo, nonostante siano già state registrate accese polemiche con l’Europa. Le tensioni che emergeranno al momento di discutere le questioni più esplosive – come l’accesso della Gran Bretagna al mercato unico europeo – potrebbero infatti pesare sui livelli di gradimento di un governo che ha già provocato la devastazione sociale in questi anni, mettendo in dubbio la conferma alla guida del paese dei Conservatori se il voto si fosse tenuto nel 2020.

Visto anche lo sbandamento del “Labour”, perciò, la leadership Conservatrice ha valutato sufficientemente rassicuranti i sondaggi più recenti che danno in media un margine attorno ai 20 punti percentuali tra i due principali partiti britannici.

Gli ambienti del business, da parte loro, malgrado la sorpresa hanno generalmente accolto positivamente l’annuncio di Theresa May, visti i vantaggi nei negoziati con l’UE di un governo più solido e una maggioranza più compatta rispetto a quella attuale.

La scommessa del primo ministro non è però senza rischi, se non altro alla luce dei sorprendenti risultati delle recenti elezioni in vari paesi occidentali e, ad esempio, dell’incertezza quasi senza precedenti delle presidenziali di domenica prossima in Francia dopo che per mesi la destra gollista sembrava destinata a vincere a mani basse.

Le forze politiche di opposizione in Gran Bretagna sono comunque screditate o in balia di guerre intestine. I Liberal Democratici cercheranno forse di trasformare l’imminente campagna elettorale in un secondo referendum sulla “Brexit”, ma il partito guidato da Tim Farron farà fatica a riprendersi dalla batosta del voto del 2015, quando perse quasi 50 seggi e oltre il 15% dei consensi per avere partecipato al governo a guida Conservatrice di David Cameron.

Il Partito Laburista è invece ancora molto lontano dal formulare un progetto politico alternativo all’austerity senza fine degli ultimi governi Conservatori, visto anche che Corbyn è sottoposto a un assalto continuo da parte della destra “blairita”. Quest’ultima fazione, probabilmente, vede oltretutto con favore una sconfitta alle urne, poiché fornirebbe l’occasione per una nuova offensiva contro l’attuale leadership del partito.

Al contrario, dal voto potrebbero trarre vantaggio sia l’UKIP di estrema destra, dato al di sopra del 10% in alcuni sondaggi, e l’SNP scozzese che a fine marzo aveva fatto approvare dal parlamento di Edimburgo una risoluzione per chiedere un secondo referendum sull’indipendenza da Londra.

La leader dell’SNP, Nicola Sturgeon, nella sua risposta ufficiale all’annuncio della May di martedì ha già anticipato i toni della campagna elettorale del suo partito, evidenziando comunque correttamente come, nel voto anticipato, i Conservatori vedano la possibilità di “governare per molti anni e spostare il Regno Unito ancora più a destra”, forzando nel contempo una “hard Brexit” e “imponendo tagli ancora più pesanti” alla spesa pubblica.

Secondo alcuni, proprio la necessità di avere le mani libere nelle trattative con Bruxelles per giungere a una “hard Brexit”, ovvero un’uscita dall’UE sostanzialmente senza accordo su questioni come l’accesso al mercato unico o la libertà di movimento delle persone, sarebbe stato uno dei fattori che hanno convinto la May a chiedere elezioni anticipate.

Una vittoria convincente nel voto di giugno le permetterebbe di imporre le proprie condizioni nei negoziati, superando le resistenze di quanti, anche all’interno del suo partito, auspicherebbero un’uscita più “soft”. Se la premier non ha in realtà chiarito del tutto le sue intenzioni su questo tema cruciale, le indicazioni di questi mesi appaiono a molti abbastanza chiare.

Soprattutto dopo l’elezione di Trump, la May è sembrata abbracciare il nazionalismo e l’anti-europeismo del nuovo presidente americano, lasciando intendere che un trattato di libero scambio con Washington e, più in generale, un rafforzamento della partnership col tradizionale alleato di Londra siano da preferire al mantenimento di un rapporto privilegiato con l’UE.

Come già anticipato, nonostante i sondaggi sembrino parlare chiaro sugli attuali equilibri politici in Gran Bretagna, ci deve essere qualche apprensione all’interno della leadership Conservatrice in previsione del voto anticipato.

In primo luogo, i governi May e Cameron hanno condotto un assalto frontale in questi anni contro il welfare britannico e l’apparente popolarità del partito di maggioranza dipende in larga misura dal discredito delle altre principali forze politiche.

I rovesci, per non dire le umiliazioni, che il governo di Londra ha già dovuto incassare dopo l’avvio ufficiale delle trattative per la “Brexit”, assieme alle conseguenze negative che determinerà l’addio da Bruxelles, hanno fatto poi dubitare molti elettori dell’opportunità di lasciare l’Unione e ciò potrebbe incidere almeno parzialmente sulla performance dei “Tories”.

Il Partito Conservatore rimane ad ogni modo favorito, almeno per il momento, ma potrebbe anche vincere le elezioni con un margine non necessariamente maggiore o di poco superiore rispetto a quello registrato due anni fa. Una vittoria meno convincente della precedente sotto la guida di David Cameron potrebbe trasformarsi così in un boomerang per Theresa May e, invece di rafforzare la sua posizione, rischierebbe di indebolire il governo e aggravare le divisioni e i conflitti innescati dalla “Brexit” che il voto anticipato dovrebbe cercare di risolvere.

di Michele Paris

Il margine di vittoria minimo registrato dal “sì” nel referendum costituzionale in Turchia di domenica scorsa ha rappresentato con ogni probabilità una certa delusione per il presidente Erdogan, al quale, in ogni caso, è stata consegnata la possibilità di trasformare la democrazia parlamentare del suo paese in un sistema dai connotati marcatamente autoritari.

Se Erdogan ha comunque incassato un successo che riteneva fondamentale per le sue ambizioni e il suo progetto politico, nondimeno il 51,4% dei favorevoli alla proposta di stravolgimento della costituzione avanzata dal suo partito (AKP) conferma la realtà di una Turchia profondamente divisa, principalmente proprio a causa del suo presidente.

Come avevano confermato le numerose proteste popolari contro il governo di Erdogan e dei suoi primi ministri a partire da quelle del 2013, esplose attorno a un controverso progetto edilizio a Istanbul, soprattutto nelle aree urbane turche continua a essere forte il malcontento nei confronti dell’AKP. Il sostegno al referendum costituzionale è arrivato infatti dalle aree rurali e più conservatrici della Turchia. Le principali metropoli – Istanbul, Ankara, Izmir – hanno visto invece prevalere il “no”, talvolta nettamente, così come in alcune città industriali, a cominciare da Bursa.

Subito dopo la diffusione dei primi dati, i principali partiti di opposizione, come il kemalista CHP e l’HDP curdo, hanno denunciato brogli diffusi che avrebbero influito in maniera decisiva sull’esito del voto. L’Alta Commissione Elettorale ha ad esempio ammesso che molte schede sono state distribuite ai votanti nonostante fossero sprovviste del timbro ufficiale della stessa commissione, previsto dalla legge turca. Queste schede, per l’Alta Commissione, sono però da considerarsi valide, a meno che non venga provata l’esistenza di una qualche frode elettorale.

Gli osservatori internazionali dell’OSCE, da parte loro, pur non riscontrando episodi particolarmente gravi nella giornata di domenica, hanno evidenziato come il voto non abbia rispettato gli “standard internazionali”. Soprattutto, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa ha evidenziato come il referendum si sia svolto “in un clima politico nel quale le libertà fondamentali ed essenziali di un processo autenticamente democratico sono risultate ridotte”.

Inoltre, le due parti – i sostenitori del “sì” e quelli del “no” – “non hanno avuto le stesse opportunità di far sentire le proprie ragioni agli elettori”. La drastica limitazione degli spazi concessi dal governo agli oppositori delle modifiche costituzionali ha probabilmente influito in maniera decisiva sull’esito del voto. Erdogan stesso ha fatto campagna elettorale attiva per il “sì” al referendum, giungendo spesso a bollare come poco meno di “traditori” o “terroristi” i contrari al suo progetto autoritario.

Fino a poche settimane prima dell’appuntamento con le urne, svariati sondaggi indicavano come fosse il “no” ad avere un leggero margine di vantaggio, ma alla vigilia del voto gli equilibri sembravano essersi consolidati a favore di Erdogan.

Oltre che a questi metodi e a possibili brogli, il presidente turco, il quale può comunque contare su un ampio consenso in Turchia, si è assicurato la maggioranza dei votanti anche in un altro modo. A fare spostare verso il “sì” un certo numero di elettori, verosimilmente tra quelli gravitanti attorno all’AKP, è stata anche la strategia di Erdogan di presentare il suo governo e l’intero paese come vittime delle manovre delle potenze occidentali.

Importanti consensi il fronte del “sì” li ha certamente guadagnati dopo gli scontri diplomatici di qualche settimana fa con paesi come Olanda, Germania o Austria a causa delle decisioni dei governi di questi ultimi di impedire a politici turchi di fare campagna elettorale per il referendum entro i loro confini.

Erdogan ha sfruttato abilmente queste iniziative oggettivamente anti-democratiche, collegandole tra l’altro alle accuse che dalla scorsa estate rivolge all’Occidente di essersi immischiato nelle vicende interne turche con il fallito golpe che lo aveva quasi rimosso dal potere.

Nel suo primo discorso dopo la chiusura delle urne, Erdogan ha ad ogni modo assunto i consueti toni aggressivi, prospettando una rapida evoluzione verso l’autoritarismo in Turchia. Inquietante è stata ad esempio la promessa di tenere un prossimo referendum sulla reintroduzione della pena di morte, abolita nel 2004. Un passo in questo senso metterebbe fine ai già moribondi negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Dopo il successo del “sì”, che dovrebbe essere ratificato ufficialmente tra pochi giorni, si metterà in moto un processo parlamentare che introdurrà entro un anno le modifiche alla costituzione volute da Erdogan.

Tra di esse spicca l’abolizione della carica di primo ministro con il trasferimento del potere esecutivo al presidente. Quest’ultimo avrà facoltà di nominare i ministri, ma anche la maggioranza dei membri della versione turca del CSM. Infine, il presidente potrà dichiarare lo stato di emergenza e sciogliere il Parlamento, il quale diventerà di fatto una sorta di organo di ratifica dell’esecutivo. Le modifiche entreranno in vigore con le elezioni del 2019 e il presidente resterà in carica cinque anni e per un massimo di due mandati, così che Erdogan potrà continuare a guidare la Turchia fino al 2029.

L’esito del referendum è stato accolto da reazioni differenti a livello internazionale. Se le monarchie assolute del Golfo persico o il vicino Azerbaigian si sono complimentati con Erdogan per il successo, evidenti sono state le critiche dell’Occidente. Qui, i governi di vari paesi e i vertici UE hanno anche sottolineato come il margine di vantaggio del “sì” sia stato ridotto e hanno invitato perciò Erdogan a cercare il più ampio consenso possibile nell’implementare i cambiamenti alla costituzione.

Alcuni commenti sui media europei prima e dopo il voto, pur riconoscendo lo scivolamento della Turchia in una quasi-dittatura, hanno però anche rilevato come una sconfitta di Erdogan avrebbe complicato la sua permanenza al potere e messo a rischio la tenuta stessa della Turchia. Grazie al successo, al contrario, il presidente turco avrà la possibilità di stabilizzare il paese con amplissimi poteri conferitigli da un processo “democratico”.

Le preoccupazioni occidentali per la situazione in Turchia, in definitiva, non sembrano essere tanto per la deriva autoritaria che si prospetta, quanto per gli orientamenti strategici di un presidente spesso imprevedibile. Se Erdogan, cioè, dovesse operare una nuova svolta e tornare ad allinearsi agli interessi europei e americani, soprattutto in Siria e nell’intera regione mediorientale, gli scrupoli “democratici” prodotti dal referendum costituzionale finiranno probabilmente col dissolversi in fretta.

di Michele Paris

A poco più di una settimana dal primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, la competizione continua a essere una delle più imprevedibili e difficilmente pronosticabili della storia repubblicana. Dopo la quasi caduta dell’ormai ex favorito, il gollista François Fillon, l’ex Socialista “indipendente” Emmanuel Macron e Marine Le Pen del Fronte Nazionale (FN) sembravano ormai certi di accedere al secondo turno di ballottaggio, ma nell’ultima settimana il candidato della sinistra “radicale”, Jean-Luc Mélenchon, ha fatto segnare una rapida risalita nei sondaggi, diventando improvvisamente un serio pretendente nella corsa all’Eliseo.

Le rilevazioni di opinione più recenti danno il leader del “Parti de Gauche” (Partito di Sinistra) alternativamente in terza o in quarta posizione, cioè più o meno alla pari con Fillon, e a una manciata di punti dai due attuali favoriti, a loro volta attestati su livelli simili attorno al 23-25%. Mentre però i numeri di Macron e Le Pen stanno ristagnando, Mélenchon in poche settimane ha quasi raddoppiato i propri potenziali consensi.

Lo stesso candidato della sinistra francese vanta poi la percentuale più alta di opinioni favorevoli tra i candidati alla presidenza e viene dato in vantaggio in un eventuale ballottaggio sia con Macron che con Le Pen e Fillon. L’ascesa di Mélenchon è avvenuta finora quasi interamente a spese del candidato del Partito Socialista (PS), Benoît Hamon, il quale al momento non supererebbe nemmeno quota 10%.

Hamon aveva vinto a sorpresa le primarie del PS dopo una campagna elettorale in opposizione al presidente Hollande, ma la profonda impopolarità di quest’ultimo e la decisione di molti leader del suo partito di appoggiare Macron hanno pesato in maniera decisiva sulla sua candidatura. Alcune voci della sinistra francese stanno perciò chiedendo a Hamon di farsi da parte a favore di Mélenchon già a partire dal primo turno di domenica 23 aprile.

I progressi di Mélenchon stanno in ogni caso suscitando qualche preoccupazione negli ambienti di potere e del business in Francia. Il riflesso di queste ansie si è osservato ad esempio nel sensibile allargamento dello “spread” tra i bond francesi e quelli tedeschi negli ultimi giorni, dopo che i sondaggi sembrano dare appunto concrete possibilità al candidato del movimento “France Insoumise” (Francia Ribelle) di qualificarsi per il secondo turno delle presidenziali.

Mélenchon si presenta con un programma che prevede, tra l’altro, un piano di investimenti pubblici addirittura da 100 miliardi di euro e la rinegoziazione dei trattati europei, in modo da allentare l’austerity imposta dall’Unione in questi anni praticamente a tutti i paesi.

Soprattutto, la classe dirigente d’oltralpe teme che il proprio candidato preferito, l’ex ministro dell’Economia Macron, finisca per sgonfiarsi, lasciando strada a un populista di destra o di sinistra che metta a rischio la stabilità dell’Unione Europea, l’orientamento strategico atlantista e anti-russo e il mantenimento della rotta neo-liberista in ambito economico.

Il fattore Mélenchon è determinato in primo luogo dalla crescente repulsione anche degli elettori francesi per la politica tradizionale, rappresentata in primo luogo dai governi Socialisti sotto una presidenza Hollande segnata da tagli al settore pubblico, chiusura di storici impianti industriali, precarizzazione del lavoro e imposizione di uno stato di emergenza che, in nome della lotta al terrorismo, ha ridotto sensibilmente i diritti civili e democratici.

Mélenchon non è comunque una faccia nuova nel panorama politico francese, essendo stato membro dal 1976 al 2008 del PS, per il quale ha ricoperto molte cariche, tra cui quella di ministro dell’Educazione tra il 2000 e il 2002 nel governo Jospin. Inoltre, nel 2012 Mélenchon aveva appoggiato Hollande nel secondo turno delle presidenziali contro Sarkozy, alimentando l’illusione di poter orientare verso sinistra il futuro capo dello stato che, al contrario, avrebbe ben presto operato una decisa svolta a destra sia sul fronte domestico che internazionale.

Nonostante il suo passato, Mélenchon sta però approfittando delle tensioni sociali che attraversano la Francia e la diffusa ostilità per i due candidati favoriti, animati da tendenze ugualmente reazionarie, sia pure con orientamenti differenti.

In particolare, Mélenchon ha beneficiato di una prestazione convincente nell’ultimo dibattito televisivo tra gli aspiranti all’Eliseo, andato in onda il 4 aprile scorso. In esso, Mélenchon aveva denunciato fermamente le politiche dei governi Socialisti e le disuguaglianze sociali che hanno favorito.

Allo stesso tempo, sull’esempio della candidatura di Bernie Sanders per le primarie del Partito Democratico negli USA lo scorso anno, Mélenchon ha costruito un’organizzazione in grado di promuove la sua immagine soprattutto tra i giovani grazie a un’attenta gestione della rete e dei social networks.

A dargli un’ulteriore spinta nei sondaggi è stato anche il bombardamento deciso giovedì scorso dal presidente americano Trump contro una base delle forze armate siriane. Mélenchon, al contrario dell’establishment politico francese, aveva subito denunciato l’iniziativa di Washington, presentandosi come il “candidato della pace”.

Questa presa di posizione ha raccolto parecchi consensi tra una popolazione che continua a manifestare sentimenti pacifisti malgrado le inclinazioni guerrafondaie della classe politica e la propaganda dei media ufficiali. Ugualmente, Mélenchon si è espresso con toni ben diversi da quelli xenofobi e razzisti dei leader di tutti i principali partiti, impegnati in Francia e non solo nel presentare l’immigrazione come un fenomeno catastrofico che sembra minacciare l’esistenza stessa dell’Occidente.

La scalata nei sondaggi di Mélenchon smentisce dunque la tesi di una Francia spostata sempre più a destra e conferma piuttosto come le tendenze reazionarie caratterizzino più che altro le classi dirigenti di fronte al crescere delle tensioni sociali e alla polarizzazione della società.

Che, poi, Mélenchon riesca anche solo a raggiungere il secondo turno delle presidenziali del 7 maggio è tutt’altro che certo. Le forze che spingono Macron verso l’Eliseo sono infatti formidabili e sostanzialmente le stesse che stanno già suonando l’allarme circa il pericolo di un’eventuale presidente appartenente alla sinistra “radicale”.

Ancor più, anche un’eventuale clamoroso successo di Mélenchon con ogni probabilità non si tradurrebbe nell’implementazione di un’agenda progressista. In primo luogo, il leader del “Parti de Gauche” molto difficilmente potrebbe contare su una maggioranza parlamentare dopo le elezioni legislative in programma nel mese di giugno, così che l’approvazione del suo programma risulterebbe pressoché impossibile.

Inoltre, Mélenchon ha trascorso la sua carriera politica nell’ultimo decennio gravitando più o meno attorno al Partito Socialista, trasformatosi ormai in un movimento politico dai contorni reazionari. Questa realtà, assieme alle enormi pressioni domestiche e internazionali, determinerebbero un sicuro ammorbidimento delle posizione registrate in campagna elettorale già all’indomani dell’ingresso all’Eliseo.

Nondimeno, l’avanzata di Mélenchon nei sondaggi e l’imprevedibilità della corsa alla presidenza a pochi giorni dal voto testimoniano della fortissima richiesta di cambiamento in senso progressista tra la popolazione francese, così come di una ferma opposizione al neo-liberismo, alla guerra e al razzismo che, tuttavia, non trova ancora una chiara espressione nel panorama politico odierno.

di Mario Lombardo

Gli sforzi del governo americano nel costruire un fronte compatto per presentare un qualche ultimatum sulla Siria al governo russo hanno fatto segnare una battuta d’arresto martedì, quando il G7 dei ministri degli Esteri di Lucca ha chiuso i lavori senza trovare un accordo sulla possibile imposizione di sanzioni punitive contro Mosca.

Come di consueto, i partecipanti al vertice hanno provato a minimizzare le divisioni tra i rappresentanti dei sette paesi più industrializzati. Angelino Alfano ha spiegato ad esempio che il G7 “non è una sede deliberante” per quanto riguarda le sanzioni, mentre tutti i convenuti nella città toscana si sarebbero detti d’accordo circa la necessità di non isolare la Russia e di coinvolgerla in un processo politico per la risoluzione della crisi siriana.

In realtà, non solo le posizioni degli USA sembrano lasciare poco o nessuno spazio al compromesso con la Russia, ma il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, e il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, erano arrivati in Italia precisamente con l’obiettivo di ottenere un impegno dai propri partner sulle sanzioni contro il Cremlino per i fatti accaduti settimana scorsa nella provincia di Idlib.

Ciò avrebbe messo in una posizione più solida lo stesso Tillerson in vista dell’imminente visita a Mosca, dove a tenere banco sarà ovviamente la situazione in Siria. Con la minaccia di nuove sanzioni, dopo quelle adottate in seguito alla crisi in Ucraina, il rappresentante di Trump intendeva mettere Putin di fronte a una scelta chiara: scaricare l’alleato Assad in Siria, o per lo meno indurlo a farsi da parte, in cambio di una distensione con l’Occidente oppure subire le conseguenze di un’escalation militare guidata da Washington. I toni di Tillerson a Mosca potrebbero essere comunque minacciosi, ma al Cremlino non sfuggiranno le posizioni sfumate dei membri del G7 uscite dal summit di Lucca.

Nei piani di Washington rientrava anche l’ordine partito dalla Casa Bianca per il ministro degli Esteri britannico Johnson di cancellare la sua prevista visita a Mosca di settimana scorsa, in modo da consentire a Tillerson di incontrare per primo i leader russi dopo le consultazioni di Lucca. Johnson, da parte sua, aveva subito obbedito, cambiando anche significativamente i toni sulla Siria e diventando così il più acceso critico di Putin in Europa.

Le posizioni dei ministri presenti a Lucca hanno in ogni caso mostrato profonde contraddizioni, oltre alle persistenti divisioni interne al G7. Se tutti i governi che ne fanno parte si erano rapidamente allineati alle posizioni di Washington settimana scorsa, facendo quasi a gara nell’esprimere la propria approvazione per il bombardamento sulla Siria ordinato da Trump, sulle ulteriori iniziative da adottare nei confronti di Damasco e, ancor più, di Mosca la situazione è apparsa differente.

Per tutti, la priorità resta il cambio di regime in Siria, da ottenere possibilmente con pressioni su Putin ad abbandonare il proprio supporto incondizionato ad Assad. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sembrano però determinati ad adottare anche iniziative estreme per raggiungere i propri fini, mentre altri paesi, come Germania e Italia, appaiono più cauti e, come accaduto nel caso dell’Ucraina, continuano a confidare di riuscire a convincere Putin con una combinazione di minacce e proposte distensive.

L’impossibilità di accordarsi su un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia ha poi portato a una situazione al limite dell’assurdo, visto che i G7 hanno annunciato un’indagine ufficiale sul presunto attacco chimico nella località siriana di Khan Sheikhoun prima di decidere l’imposizione di misure punitive.

In altre parole, quegli stessi governi che nei giorni scorsi avevano appoggiato il bombardamento americano e si erano scagliati senza incertezze né prove contro Assad e Putin invitano oggi alla cautela e a ricercare le effettive responsabilità di quanto accaduto settimana scorsa in Siria prima di adottare sanzioni nei confronti di Mosca o Damasco.

Se i governi europei che hanno manifestato solidarietà con Washington sul bombardamento in Siria sanno perfettamente che non vi è nessuna chiarezza sul presunto uso di armi chimiche, il loro atteggiamento riflette una scelta strategica, fatta da tempo, che prevede il rovesciamento del regime di Assad e la condivisione degli eventuali vantaggi derivanti da un ordine ancora più favorevole agli Stati Uniti in Medio Oriente.

Questa ragione è sostanzialmente la stessa per cui nessun governo europeo ha finora speso una sola parola di condanna per le stragi di civili delle ultime settimane seguite ai ben documentati bombardamenti americani “anti-ISIS” a Mosul, in Iraq, o per i massacri che da oltre due anni si susseguono in Yemen per mano del regime saudita con il pieno appoggio di Washington.

Anzi, proprio i rappresentanti di Riyadh, assieme a quelli di Turchia, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Qatar, erano presenti martedì a Lucca per sottolineare l’unità di intenti con i paesi mediorientali sulla Siria, malgrado questi ultimi siano i principali sostenitori e finanziatori dei gruppi fondamentalisti che stanno letteralmente distruggendo il paese in guerra dal 2011.

Se dalle dichiarazioni ufficiali seguite al G7 di Lucca è sembrata emergere una posizione americana più o meno allineata alla relativa moderazione dei governi europei sulla Siria o, per meglio dire, sull’attitudine da tenere nei confronti della Russia, ciò è smentito dalle dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione Trump prima e dopo il vertice in Toscana.

Lunedì, ad esempio, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva minacciato ulteriori iniziative militari americane se Assad dovesse usare nuovamente non solo armi chimiche ma anche “barrel bombs”. Dopo le parole di Spicer, con un tempismo perfetto il cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, già fonte principale di media e governi occidentali per l’attacco di settimana scorsa con armi chimiche attribuito ad Assad, ha subito segnalato l’uso da parte di Damasco di questi ordigni nella provincia di Hama.

Gli avvertimenti provenienti da Washington sembrano in fin dei conti prospettare una situazione nella quale i missili americani sono pronti a essere lanciati alla prima provocazione messa in atto dai “ribelli”, filiale di al-Qaeda inclusa, visto che anche l’episodio di Khan Sheikhoun ha tutta l’aria di essere stata una “false flag” condotta da gruppi dell’opposizione armata che operano a Idlib per far ricadere la colpa su Damasco e giustificare un’azione militare.

L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva invece escluso categoricamente la possibilità di una soluzione politica in Siria con Assad al potere. Lo stesso Tillerson, prima della partenza per Mosca al termine del G7 ha infine ribadito che, per il suo governo, il presidente siriano ha i giorni contati e che la Russia farà meglio a scaricarlo al più presto.

Proprio la trasferta del segretario di Stato USA a Mosca aiuterà forse a chiarire la strategia siriana dell’amministrazione Trump, visto anche che lo stesso presidente non si esprime da giorni sulla crisi in Medio Oriente. Una strategia che, al di là del bombardamento di dubbia efficacia della settimana scorsa, sembra essere ancora tutt’altro che limpida, anche se estremamente pericolosa, e affidata più che altro all’iniziativa dei generali che occupano posizioni di spicco all’interno del governo americano.

di Michele Paris

Il bombardamento illegale ordinato settimana scorsa dal presidente americano Trump contro una base militare siriana non sembra avere distolto l’attenzione degli Stati Uniti dalla Corea del Nord né reso meno caldo il fronte del nord-est asiatico. Anzi, l’incursione in Siria, seguita alle accuse al regime siriano di avere utilizzato armi chimiche nella provincia di Idlib, potrebbe essere stato anche un avvertimento diretto al regime di Kim Jong-un e al suo alleato cinese, come ha confermato la notizia dell’invio di una portaerei USA nelle acque della penisola di Corea.

Il dirottamento della “USS Carl Vinson” dall’Australia, dove era diretta dopo avere lasciato Singapore, è infatti un nuovo segnale provocatorio di Washington, all’indomani dell’incontro in Florida tra Trump e il presidente cinese, Xi Jinping. Il primo faccia a faccia tra i due leader si era tenuto verosimilmente in un clima molto teso, al di là delle ridicole rassicurazioni di Trump, proprio perché in concomitanza con il raid americano in Siria e il surriscaldarsi dello scenario coreano.

L’aggravamento della crisi, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e una serie di test missilistici condotti da Pyongyang, sta sollevando l’interrogativo sulle reali intenzioni del governo americano. Se, cioè, l’escalation promossa dagli Stati Uniti nei confronti del regime di Kim possa effettivamente tradursi nel breve periodo in una nuova aggressione militare o se, invece, debba considerarsi un avvertimento, per quanto rischioso, indirizzato principalmente a Pechino.

A far propendere per quest’ultima ipotesi sarebbero alcuni segnali giunti da Washington dopo il vertice tra Trump e Xi. A parte le dichiarazioni del presidente americano, che ha parlato di “straordinari progressi” nei rapporti con la Cina, significativa è stata la notizia riportata dal Financial Times sulla disponibilità di Pechino a cancellare il bando alle importazioni di carne di manzo dagli Stati Uniti e ad alzare la percentuale delle quote che gli investitori stranieri possono detenere nelle compagnie finanziarie cinesi.

La retorica anti-cinese di Trump negli ultimi mesi era sembrata infatti puntare all’ottenimento di concessioni significative da parte di Pechino proprio sul fronte commerciale ed economico. Perciò, il rischio di veder scoppiare un conflitto dalle conseguenze incalcolabili in Corea, soprattutto dopo l’esempio della Siria, avrebbe spinto il governo cinese ad assecondare almeno alcune delle richieste americane.

Un inviato del governo di Pechino in Corea del Sud nella giornata di lunedì ha poi concordato con Seoul una strategia congiunta che prevede l’imposizione di nuove sanzioni contro Pyongyang se il regime dovesse portare a termine altri test nucleari o di missili balistici.

In questa dinamica potrebbero inserirsi quindi anche le recenti dichiarazioni del segretario di Stato americano, Rex Tillerson, il quale, pur definendo il bombardamento in Siria some una sorta di messaggio alla Corea del Nord, ha rivelato come il presidente Xi abbia promesso al governo di Washington una maggiore collaborazione nell’affrontare la questione del programma nucleare nordcoreano. La reazione di Pechino all’incursione militare americana in Siria di settimana scorsa è stata inoltre misurata, tanto da far pensare effettivamente a una qualche trattativa in atto per allentare le tensioni nella penisola di Corea.

A sostegno della tesi di coloro che considerano improbabile un’opzione militare in questo frangente vi è una dichiarazione citata dalla Reuters nel fine settimana sulla posizione dei governi di Giappone e Corea del Sud circa la possibilità di un attacco militare americano contro la Corea del Nord. Una fonte anonima del ministero della Difesa giapponese ha affermato che “probabilmente è irrealistico per gli Stati Uniti attaccare la Corea del Nord” e, soprattutto, che se Trump dovesse muoversi in questa direzione sia Tokyo sia Seoul si adopererebbero per impedire un’escalation militare.

Ciononostante, i preparativi per un’operazione militare contro la Corea del Nord da parte americana sembrano decisamente avanzati. A fornire questa impressione sono anche i media ufficiali che continuano a dare spazio ad analisi sull’eventuale efficacia di un raid in questo paese, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze in termini di vite umane e del possibile coinvolgimento della Cina.

Come dimostra proprio l’attacco in Siria, d’altra parte, l’amministrazione Trump non sembra mostrare troppi scrupoli nel ricorrere alla forza per imporre i propri interessi e per cercare di districarsi dalla profonda crisi sul fronte domestico nella quale è invischiata a nemmeno tre mesi dall’insediamento.

L’invio della portaerei “Carl Vinson” in Asia nord-orientale, assieme ad altre navi da guerra con un enorme potenziale distruttivo, è giunto infatti al termine della revisione della strategia americana relativa alla Corea del Nord ordinata dallo stesso presidente. Secondo NBC News, Trump e i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale avrebbero analizzato il rapporto su Pyongyang proprio alla vigilia dell’incontro con Xi in Florida.

Per la stampa americana sarebbero tre le opzioni a disposizione della Casa Bianca, tutte palesemente criminali o comunque destinate precipitare la penisola di Corea in una guerra rovinosa. Trump potrebbe cioè favorire il ritorno di armi nucleari sul territorio della Corea del Sud, dopo che erano state rimosse nel 1991, oppure ordinare l’assassinio dei leader nordcoreani, a cominciare dallo stesso Kim, o ancora dare il via libera a operazioni clandestine per colpire le installazioni militari e industriali del paese.

Quel che è certo è che qualsiasi iniziativa americana sarà presentata come se fosse di natura difensiva, necessaria per far fronte a un regime irresponsabile e imprevedibile, in grado di colpire gli alleati in Giappone e in Corea del Sud, se non lo stesso territorio americano.

I timori per un possibile blitz militare USA contro Pyongyang sono legati anche ad alcune celebrazioni che nel mese di aprile si terranno in Corea del Nord, tra cui il giorno 15 per i 105 anni dalla nascita di Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader. In queste occasioni, il regime è solito eseguire test missilistici o prendere altre iniziative provocatorie che potrebbero essere sfruttate dagli Stati Uniti per condurre un attacco militare.

Se le reali intenzioni dell’amministrazione Trump potranno essere decifrate solo in un futuro più o meno immediato, è comunque evidente che l’atteggiamento di Washington intende provocare precisamente una reazione sconsiderata da parte nordcoreana. La storia recente dei rapporti tra i due paesi nemici assicura infatti che alle minacce americane fanno puntualmente seguito risposte dai toni bellicosi.

A conferma di ciò, la reazione ufficiale di Pyongyang all’attacco USA in Siria ha fatto riferimento alla necessità di disporre di un arsenale nucleare efficace per fronteggiare la minaccia americana. Il calcolo illusorio del regime di Kim è quello di convincere gli Stati Uniti a desistere dall’attaccare un paese che dispone di armi atomiche, a differenza di quanto accaduto con Saddam Hussein, Gheddafi e, ora, Assad in Siria.

La corsa agli armamenti nella penisola di Corea non fa però che offrire l’occasione agli USA di rafforzare la loro presenza nella regione, dove l’obiettivo strategico principale è il contenimento di Pechino, e moltiplica il rischio di incidenti che potrebbero facilmente innescare un pericolosissimo conflitto su vasta scala.


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