di Mario Lombardo

Il piano di difesa comune europea, presentato e sostenuto da Bruxelles e da alcuni governi dell’Unione, continua a provocare divisioni tra i paesi membri ed è stato al centro delle discussioni del vertice “informale” tenuto questa settimana a Bratislava. Nella capitale slovacca, il ministro della Difesa britannico, Michael Fallon, ha bocciato categoricamente il progetto di un “esercito europeo”, affermando che secondo Londra, ma anche Washington, è la NATO che deve continuare a essere “il cardine della difesa” del Regno Unito e dell’Europa.

A chiedere una qualche integrazione delle capacità “difensive” dei paesi UE sono soprattutto Francia e Germania, anche se altri governi, come quello italiano, hanno proposto iniziative che vanno sostanzialmente verso la militarizzazione dell’Unione. A livello ufficiale, le ragioni di queste manovre sarebbero legate alla necessità di rilanciare l’unità europea dopo il clamoroso esito del referendum del giugno scorso sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE (“Brexit”).

Allo stesso tempo, come aveva spiegato già nel mese di luglio l’alto rappresentante per la politica estera UE, Federica Mogherini, in ballo vi è l’implementazione di una “strategia globale europea” sulla sicurezza del continente. In altre parole, l’uscita di Londra dall’Unione e l’aggravamento delle rivalità internazionali hanno spinto le classi dirigenti di una parte dei paesi europei a cercare di creare uno strumento militare che rafforzi le capacità di promuovere i loro interessi economici e strategici su scala globale.

L’impatto sulle relazioni tra paesi alleati e membri della NATO di un piano di questo genere è apparso chiaro proprio dalla reazione di Fallon a Bratislava. L’opposizione britannica a quello che, nel lungo periodo, potrebbe diventare un vero esercito europeo rende poco credibili le smentite e le rassicurazioni di coloro che intendono adoperarsi per il progetto.

I ministri della Difesa di Francia e Germania, rispettivamente Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyen, hanno comunque assicurato che nessuno sta pianificando la creazione di un organo alternativo alla NATO. Al contrario, hanno aggiunto i due diplomatici, ciò di cui si parla è uno sforzo complementare e consiste nell’unire le “varie forze” dei paesi europei, in modo che esse siano “pronte ad agire rapidamente assieme”. Quello che “rafforza l’Europa in termini di difesa”, secondo il ministro tedesco, “rafforza anche la NATO”.

Anche per la Mogherini, citata dall’ANSA, il processo in atto “non riguarda in alcun modo la creazione di un esercito europeo ma l'uso degli strumenti che l’UE ha, in piena complementarietà con la NATO, per rafforzare le capacità europee nel campo della difesa”.

Il segretario generale del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg, ha cercato a sua volta di allentare le tensioni, mostrandosi disposto ad accogliere positivamente qualsiasi iniziativa che renda più forte l’Unione Europea. L’ex primo ministro norvegese ha però avvertito che il piano di Bruxelles non dovrà essere la fotocopia della NATO.

Nonostante le rassicurazioni, dirette a Londra quanto a Washington, i governi francese e tedesco sono perfettamente consapevoli delle implicazioni del loro progetto di “difesa europea”. Il meccanismo militare che si intende costruire dovrebbe infatti avere compiti di intervento simili a quelli svolti negli ultimi anni dalla NATO, con tutte le relative conseguenze in termini di destabilizzazione dei paesi interessati, e che, sia pure mascherati dalla retorica umanitaria o da ragioni “difensive”, sono serviti a garantire la difesa degli interessi dei paesi che ne fanno parte, a cominciare dagli Stati Uniti.

L’apparizione nel panorama internazionale di un nuovo organo militare europeo, nel quale a dominare siano Parigi e Berlino, sia esso parallelo e alternativo alla NATO, comporta perciò lo scontrarsi degli interessi di paesi ufficialmente alleati.

Che in gioco ci sia un riassetto degli equilibri strategici in Occidente è confermato anche dal contenuto del documento sulla difesa comune presentato recentemente da Francia e Germania. In esso si auspica la creazione di un “quartier generale permanente UE per le missioni e le operazioni militari e civili”, nonché il sostegno allo “sviluppo delle capacità militari e alla cooperazione europea nell’ambito della difesa”, in modo da garantire “l’autonomia strategica” dell’Europa.

Su queste basi è evidente che il progetto discusso martedì a Bratislava non può che finire per accentuare le divisioni tra i paesi europei che lo appoggiano e quelli che, sulla linea americana, lo vedono con sospetto.

Il dibattito in corso sul progetto di difesa europea s’inserisce d’altra parte in un contesto segnato da crescenti tensioni dietro un’apparenza di unità. Mentre sul piano formale l’Europa risulta unita e allineata agli Stati Uniti su questioni come i rapporti con Russia e Cina, la crisi in Ucraina o la politica commerciale ed energetica, in realtà divisioni anche profonde sono emerse da tempo non solo all’interno dell’UE, ma anche tra quest’ultima e la Gran Bretagna, peraltro formalmente ancora nell’Unione, e addirittura tra Londra e Washington.

Basti pensare alle divergenze, spesso esplose pubblicamente, attorno al gasdotto “Nordstream 2”, che dovrebbe raddoppiare il collegamento diretto già esistente tra Russia e Germania, oppure alle sanzioni economiche che gravano su Mosca e alle manovre militari della NATO nei paesi dell’Europa orientale. Ancora, nei mesi scorsi molti paesi europei, inclusa la Gran Bretagna, contro il parere americano, avevano aderito al progetto cinese della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB), potenzialmente alternativa a istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti.

Più recentemente, contrasti tra i più influenti paesi europei e gli USA si sono registrati attorno al trattato di libero scambio TTIP (Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti), contro il quale si sono scagliati pubblicamente esponenti dei governi di Francia e Germania.

La stessa sanzione decisa contro Apple dall’Unione Europea per il regime fiscale agevolato in Irlanda e la multa da 14 miliardi di dollari stabilita dalle autorità americane contro Deutsche Bank rientrano nel quadro dei conflitti che animano le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico.

A influire su queste dinamiche sono il declino degli Stati Uniti e, con il persistere della stagnazione economica, l’emergere di situazioni conflittuali dovute all’acuirsi della competizione per accaparrarsi nuovi mercati e il controllo delle risorse energetiche.

Precisamente per questi scopi, nonché per altri legati al controllo delle tensioni sociali sul fronte domestico, è pensato il possibile futuro esercito europeo, strumento dell’interventismo di paesi come Francia e Germania, intenzionati ad agire ovunque siano in gioco i loro interessi anche senza l’approvazione degli Stati Uniti o addirittura in opposizione a questi ultimi.

di Michele Paris

Il primo dei tre dibattiti previsti negli Stati Uniti tra Hillary Clinton e Donald Trump in vista del voto per le presidenziali dell’8 novembre prossimo è fortunatamente già andato in archivio e, come previsto, non dovrebbe avere particolari ripercussioni sulle decisioni dei potenziali elettori. Il pubblico che ha seguito la serata in diretta televisiva è stato uno dei più numerosi della storia di questi eventi, ma lo scontro tra due delle figure pubbliche più odiate d’America si è sostanzialmente risolto in una serie di accuse e attacchi reciproci che hanno confermato il livello di degrado forse senza precedenti raggiunto dal sistema politico d’oltreoceano.

Le premesse e i “contenuti” del dibattito di lunedì sera, andato in scena alla Hofstra University di Long Island, rendono di fatto inutile una qualche seria analisi dei temi affrontati. Gli stessi giornali americani che, come di consueto, si sono dedicati al “fact-checking”, ovvero alla verifica della veridicità delle affermazioni dei candidati, o hanno proclamato il “vincitore” della serata, contribuiscono in realtà ad alimentare l’illusione di una normale competizione elettorale, fondata sullo scambio di vedute e sulla discussione aperta di programmi e proposte politiche concrete.

Il primo dibattito presidenziale è stato piuttosto uno spettacolo mortificante fatto di slogan, insulti, ripetizione meccanica di affermazioni studiate a tavolino e, soprattutto, menzogne. Se nascondere la verità è uno degli esercizi più comuni della politica negli USA (e non solo) le circostanze domestiche e internazionali di questa tornata elettorale rendono ancora più grave il sostanziale silenzio su ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi.

In particolare, se alcune questioni di politica internazionale e legate alla “guerra al terrore” sono state toccate nel corso della discussione, nemmeno lontanamente Hillary o Trump hanno parlato alla popolazione americana della più che probabile escalation militare che Washington sta preparando attivamente, sia in Siria sia contro altri paesi rivali, come Cina, Russia o Corea del Nord.

Ad ogni modo, i giornali americani hanno più o meno concordato nel riconoscere a Trump un avvio di dibattito efficace, salvo poi finire sotto i colpi dell’ex segretario di Stato, in grado di mettere pressione a un rivale che, probabilmente, era stato consigliato dal suo staff di non eccedere nelle reazioni verbali per evitare conseguenze mediatiche negative.

Trump ha così ripetuto alcuni degli attacchi rivolti contro Hillary nei mesi scorsi, tornando ad esempio a sollevare le controversie scaturite attorno al suo stato di salute e alle e-mail personali utilizzate durante l’incarico al dipartimento di Stato. L’affondo che qualcuno si attendeva non è però arrivato e, anzi, in uno dei non pochi momenti al limite dell’assurdo della serata, Trump ha promesso una rivelazione “estremamente grave” sui coniugi Clinton per poi smentire se stesso e affermare di non poterlo fare, ufficialmente a causa della presenza nel pubblico della loro figlia, Chelsea.

Da parte di Hillary è stato invece fin troppo evidente il tentativo di utilizzare la carta del razzismo e delle discriminazioni di genere che hanno caratterizzato finora buona parte della campagna di Trump. L’appello basato sulle politiche identitarie è d’altra parte l’unica arma rimasta al Partito Democratico per dare un’immagine vagamente progressista alle politiche che lo caratterizzano, improntate all’ultra-liberismo e all’imposizione degli interessi della classe dirigente americana all’estero.

In uno dei rarissimi momenti della serata in cui si è almeno sfiorata la realtà della situazione americana, Trump ha parlato della “bolla” speculativa che rischia di far crollare nuovamente l’economia non appena “la Fed[eral Reserve] alzerà i tassi di interesse”. Ugualmente, è stato il miliardario di New York a cercare di smontare la fissazione di Hillary e dei Democratici per il coinvolgimento del governo russo nelle recenti violazioni dei sistemi informatici del partito.

La questione era stata toccata dalla Clinton per condannare le presunte simpatie di Trump per Putin. Il candidato Repubblicano si è tuttavia ben guardato dall’allargare la discussione ai piani di guerra contro Mosca, allo studio di quello stesso apparato militare americano che Trump corteggia da tempo.

La totale assenza di sostanza nel dibattito presidenziale di lunedì è da riferire in larga misura alla natura stessa dei due candidati e alle dinamiche che li hanno portati a un passo dalla Casa Bianca. Hillary Clinton e Donald Trump sono cioè l’espressione rispettivamente di un ambiente politico e un’élite economico-finanziaria con caratteri ben precisi, che sono il risultato di decenni di promozione di forze ultra-reazionarie.

Se Trump rappresenta una classe di multi-miliardari arricchitisi grazie a inganni, evasione fiscale, agganci politici e sfruttamento di lavoratori sottopagati, la Clinton è invece l’espressione di una classe politica non meno criminale, che ha costruito la propria carriera appoggiando guerre rovinose all’estero e lo smantellamento delle protezioni sociali garantite alle classi più deboli.

Da un’offerta di questo genere, è evidente che nulla potrà uscire di positivo dal voto di novembre e iniziative come il dibattito di questa settimana non sono che esercizi di poca o nessuna utilità per rassicurare gli elettori circa la salute di un sistema democratico che è in realtà al collasso.

Una vittoria di Hillary Clinton avvicinerebbe con ogni probabilità gli USA a un conflitto dalle conseguenze incalcolabili con una potenza nucleare. Trump, la cui clamorosa ascesa politica è dovuta quasi del tutto alla capacità di cavalcare le frustrazioni degli americani più colpiti dalla devastazione economica di questi anni, se pure promette una politica estera meno aggressiva e la salvaguardia di alcuni programmi sociali, non offre ricette alternative alla rimozione di qualsiasi ostacolo alle operazioni del business americano.

Chiunque sia a trarre eventualmente vantaggio dai tre dibattiti in programma fino al voto di novembre e a entrare alla Casa Bianca a gennaio, la prossima amministrazione promette dunque fin da ora di diventare precocemente la più reazionaria della già non edificante storia recente degli Stati Uniti d’America.

di Michele Paris

Alla guida del “Labour” britannico è stato confermato come previsto l’attuale leader, Jeremy Corbyn, grazie al vasto consenso ottenuto tra iscritti e “simpatizzanti” del partito che hanno avuto la possibilità di partecipare al voto nelle scorse settimane. L’esito della consultazione rappresenta una nuova umiliazione per la maggioranza dei parlamentari Laburisti e dei vertici del partito stesso, i cui sforzi in atto da dodici mesi per rovesciare la leadership di Corbyn sono stati correttamente percepiti dalla base come un vero e proprio golpe pianificato da una destra “blairita” con ben poco seguito nel paese.

Mesi di cospirazioni, propaganda, accuse al limite del ridicolo alla leadership del partito hanno anzi probabilmente contribuito ad ampliare il consenso per Corbyn e la sua agenda progressista tra coloro che hanno votato. Il membro della Camera dei Comuni per la circoscrizione londinese di Islington North ha vinto con una percentuale addirittura superiore (61,8%) rispetto a quella del voto tenuto nel settembre del 2015 (59,5%).

In questi mesi, Corbyn e i suoi fedelissimi sono stati al centro di una campagna di discredito senza precedenti. A guidarla, come già anticipato, è una destra del partito che vede con orrore anche una minima deviazione dalle posizioni virtualmente indistinguibili da quelle dei Conservatori, sia sul fronte domestico che internazionale, promosse dall’ex primo ministro Tony Blair negli anni Novanta e proseguite dai suoi successori alla guida del Labour.

Che la linea politica di quello che era stato ribattezzato informalmente come il “New Labour” fosse diventata rapidamente impopolare era apparso evidente non solo dalle sconfitte nelle elezioni generali del 2010 e del 2015, ma anche dalla netta vittoria di Corbyn nella sfida interna per la leadership del partito dello scorso anno.

Malgrado ciò, i tentativi di dare la spallata a Corbyn si sono intensificati e il referendum dello scorso mese di giugno per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (“Brexit”) ha fornito l’occasione per il lancio di una campagna ufficiale per il cambio al vertice del partito. La giustificazione per la necessità di liquidare Corbyn era il suo presunto scarso impegno nel convincere gli elettori a scegliere la permanenza di Londra nell’UE.

Poco dopo il voto era così iniziata un’autentica rivolta nel partito, con le dimissioni di massa di numerosi “ministri-ombra” ostili a Corbyn, mentre un voto di sfiducia interno al Labour aveva ottenuto l’appoggio della larga maggioranza dei parlamentari del partito. L’auspicio di questi ultimi era quello di costringere il segretario alle dimissioni, in modo da evitare una nuova consultazione tra elettori e sostenitori Laburisti che, com’è apparso chiaro lo scorso fine settimana, non avrebbe che confermato la popolarità di Corbyn.

Quando il numero uno del partito ha mostrato di volere rimanere al suo posto, forte del sostegno tra gli elettori del partito e i principali sindacati, l’ala “blairita” del Labour ha provato da un lato a cambiare le regole del voto per la leadership e dall’altro a escludere il maggior numero possibile di nuovi iscritti dall’elenco degli aventi diritto, lanciando una caccia alle streghe dai contorni spesso grotteschi.

Ad esempio, il diritto di scegliere il leader del partito era stato negato arbitrariamente a quanti avevano aderito al Labour solo negli ultimi mesi. Inoltre, per i simpatizzanti non iscritti la quota richiesta per partecipare al voto era stata alzata dalle 3 sterline dello scorso anno a 25, da versare oltretutto in una finestra di tempo molto ristretta.

Parallelamente a ciò, un’unità del partito addetta alla verifica del rispetto dei principi del Labour da parte dei suoi sostenitori e iscritti, aveva iniziato una verifica da regime stalinista delle opinioni espresse e dell’eventuale precedente appartenenza ad altri partiti o movimenti di coloro che avrebbero votato per la leadership. Tutte queste manovre sono culminate in una purga che ha alla fine escluso dal voto centinaia di migliaia di potenziali elettori Laburisti, in grandissima parte avvicinatisi al partito proprio per sostenere Jeremy Corbyn.

Un ultimo disperato tentativo per impedire a quest’ultimo di confermare il successo dello scorso anno era stato fatto dagli appartenenti alla destra del partito dirottando il loro sostegno verso un candidato alla leadership non troppo compromesso con Tony Blair. La sfidante annunciata di Corbyn, la fedelissima dell’ex primo ministro Angela Eagle, si era così fatta da parte per lasciare strada a Owen Smith, presentato come una versione più “soft” dell’attuale numero uno del partito. Anche questa strategia non ha però funzionato e Smith ha raccolto appena il 38,2% dei consensi.

Il secondo voto per la leadership del Labour chiusosi con la sonora vittoria di Jeremy Corbyn non ha comunque convinto gli appartenenti alla destra del partito a mettere da parte le trame golpiste e a rispettare il volere degli elettori a cui dovrebbero teoricamente fare riferimento. Al contrario, le reazioni al voto indicano piuttosto una volontà di intensificare gli sforzi per raggiungere lo stesso obiettivo, sia pure in maniera meno aperta.

Molti giornali “mainstream” in Gran Bretagna hanno inoltre discusso nei giorni scorsi sul futuro del Labour e delle modalità con cui gli oppositori di Corbyn dovrebbero muoversi per tornare a impadronirsi del partito. L’Economist, ad esempio, ha ipotizzato la necessità di una scissione in futuro, non prima però di un nuovo tentativo per lanciare un’altra sfida alla leadership, sfruttando magari “l’inevitabile” risultato negativo che i Laburisti dovrebbero incassare nelle elezioni amministrative del 2017 o del 2018, se non nel voto anticipato a livello nazionale che il premier Theresa May potrebbe indire.

Anche testate teoricamente di orientamento progressista, come l’Independent e il Guardian, hanno dato spazio a editoriali e commenti anti-Corbyn, coerentemente con la linea che avevano tenuto nei mesi scorsi. Il primo ha avvertito che lo spostamento a sinistra del Labour con l’attuale leader porta il principale partito di opposizione britannico “sempre più lontano dal potere”. Il secondo, nell’edizione domenicale dell’Observer, ha citato un piano d’azione redatto da Tom Baldwin, già consigliere strategico dell’ex leader Laburista, Ed Miliband.

Secondo questo documento, il nuovo “governo-ombra” Laburista dovrebbe essere composto da una maggioranza di parlamentari ostili a Corbyn, in modo da garantire che le politiche del partito non vengano troppo influenzate dagli orientamenti della leadership. Attorno a questo nucleo si dovrebbe poi formare un’agenda alternativa a quella di Corbyn e, evidentemente, a quella ufficiale del partito, improntata al perseguimento di politiche di destra su cui basare un eventuale nuovo movimento.

Intanto, poco prima della proclamazione del vincitore nella giornata di sabato a Liverpool, gli oppositori di Corbyn avevano tentato un colpo di mano, fallito di misura, all’interno del cosiddetto Comitato Esecutivo Nazionale Laburista. In una riunione di settimana scorsa, il numero due del partito, Tom Watson, aveva proposto di ristabilire le modalità di selezione della leadership in vigore fino ai cambiamenti voluti da Ed Miliband nel 2011.

La facoltà di scegliere il numero uno del partito dovrebbe essere cioè assegnata ai parlamentari Laburisti, ai sindacati e agli iscritti. Il peso del loro voto inciderebbe di un terzo ciascuno sul risultato finale. Ciò escluderebbe i simpatizzanti del partito che hanno mostrato di favorire nettamente Jeremy Corbyn. L’altra proposta-chiave di Watson era stata quella di sottrarre al leader del partito la nomina dei “ministri-ombra”, i quali dovrebbero essere invece votati dai parlamentari Laburisti. In questo modo, il prossimo “governo-ombra” avrebbe avuto una solida maggioranza anti-Corbyn.

Come già detto, queste e altre proposte sono state respinte, ma Corbyn ha acconsentito a discuterle nuovamente nel prossimo futuro, anche se per allora due membri del Comitato Esecutivo saranno sostituiti da altrettanti vicini al leader del partito.

Corbyn, da parte sua, ha risposto alla vittoria schiacciante sul rivale, Owen Smith, con lo stesso atteggiamento che lo aveva contraddistinto in campagna elettorale e nei mesi precedenti, segnati dai continui assalti interni alla sua leadership.

Il numero uno Laburista ha infatti continuato a parlare di unità all’interno del partito, manifestando l’intenzione di ristabilire la “fiducia” tra la leadership e i suoi oppositori. Questi ultimi non avranno inoltre “nulla da temere”, in quanto non verranno automaticamente esclusi dal prossimo “governo-ombra” né “deselezionati” dalla lista dei candidati al parlamento di Londra in occasione del prossimo appuntamento con le urne.

L’atteggiamento irriducibilmente conciliante di Corbyn verso la destra del suo partito stride fortemente con la risolutezza con cui i membri del Labour che ne fanno parte hanno cercato e continuano a cercare di liquidarlo. Questa strategia non può che essere perdente, dal momento che, invece di spegnere l’opposizione interna, finisce per alimentarla, come si è visto in questi mesi.

Inoltre, le continue aperture di Corbyn alla galassia “blairita” neutralizzano inevitabilmente la sua agenda, già non esattamente rivoluzionaria, e ancorano il Labour alle politiche liberiste che lo hanno caratterizzato negli ultimi decenni. Il risultato di questa scelta sarà quello di allontanare dal partito quanti si sono riavvicinati nell’ultimo anno, intravedendo in Corbyn l’illusione di un esile spiraglio di cambiamento.

di Michele Paris

L’uccisione di un 43enne di colore a Charlotte, da parte di un agente di polizia della città del North Carolina, ha fatto riesplodere in un’ondata di proteste tutte le tensioni che attraversano la società americana, provocando l’immediata repressione di quelle stesse forze di sicurezza che continuano a fare vittime innocenti tra le classi più disagiate, al di là del colore della loro pelle.

Le ricostruzioni dei fatti che hanno preceduto la morte di Keith Lamont Scott sono contrastanti e finora la polizia di Charlotte si è rifiutata di rendere pubblica la registrazione effettuata dalla telecamera che gli agenti sono obbligati a indossare durante il servizio.

Scott era in ogni caso nella sua auto in un parcheggio di un edificio residenziale dove stava aspettando uno dei suoi figli di ritorno da scuola quando un’auto della polizia si è avvicinata, scambiandolo probabilmente per un'altra persona su cui pendeva un ordine di arresto.

Secondo alcuni testimoni e i suoi famigliari, Scott aveva tra le mani un libro quando è sceso dall’auto, mentre per la polizia si trattava di una pistola. A questo punto, l’agente Brentley Vinson, anch’esso afro-americano, ha sparato a Scott, uccidendolo. Se anche la versione della polizia dovesse corrispondere al vero, la situazione non giustificava l’uso di un’arma da fuoco da parte dell’agente, visto che in North Carolina è consentito portare con sé una pistola senza che sia necessario nasconderla.

Secondo il conteggio tenuto dal sito killedbypolice.net, Keith Lamont Scott è stato la vittima della polizia numero 840 dall’inizio dell’anno e la sessantesima nel solo mese di settembre. Nel 2015, i morti per mano della polizia americana erano stati, sempre secondo la stessa fonte che si basa sui resoconti dei media, 1.207, quasi cento in più rispetto all’anno precedente.

Sulle proteste scoppiate a Charlotte nella serata di martedì hanno evidentemente influito questi numeri e, in particolare, altre due uccisioni registrate nella settimana precedente in circostanze apparentemente inspiegabili.

Il 13 settembre, a Columbus, nell’Ohio, il 13enne Tyree King è stato ucciso dalla polizia mentre impugnava una pistola giocattolo; due giorni più tardi a Tulsa, in Oklahoma, come ha mostrato un filmato diffuso dalla polizia, Terrence Crutcher di 45 anni è stato colpito fatalmente dopo essere stato fermato con la sua auto e mentre si avvicinava a quest’ultima con le mani alzate. Entrambe le vittime erano di colore.

A Charlotte, le proteste contro l’uccisione di Keith Lamont Scott sono sfociate in un’aperta rivolta, con i manifestanti che hanno lanciato oggetti contro le forze dell’ordine, bloccato le strade e distrutto le vetrate di alcuni negozi.

Gli eventi seguiti all’esplosione della rabbia della popolazione hanno ricalcato quelli a cui si era assistito tra il 2014 e il 2015 a Ferguson, nel Missouri, e a Baltimora, nel Maryland, dopo l’uccisione da parte della polizia di altri due afro-americani, il 18enne Michael Brown e il 25enne Freddie Gray.

Mercoledì, il governatore della North Carolina, Pat McCrory, ha cioè dichiarato lo stato di emergenza “su richiesta del capo della polizia della contea di Mecklenburg”, di cui fa parte Charlotte. Contestualmente è stata mobilitata la Guardia Nazionale della North Carolina e un contingente di agenti di polizia è giunto dalle località vicine per aiutare le forze locali a contenere le proteste. Negli scontri nella notte tra mercoledì e giovedì, inoltre, un manifestante è rimasto gravemente ferito da colpi di arma da fuoco che la polizia ha però escluso di avere sparato.

In parallelo alla repressione, il metodo utilizzato dalla classe dirigente americana per calmare gli animi in queste occasioni consiste nel ricorso ai leader della comunità nera, inclusi esponenti del governo di Washington. Questi ultimi vengono puntualmente chiamati nelle città interessate dai disordini, come in questo caso a Charlotte, per lanciare pubblici appelli alla riconciliazione con le autorità e ad avere fiducia nelle indagini e nel normale corso della giustizia.

Questa strategia appare particolarmente insidiosa, poiché punta a mantenere il dibattito sulla violenza della polizia americana nei confini della questione razziale. Tutte o quasi le reazioni delle personalità pubbliche che sono intervenute dopo i fatti di Charlotte, tra cui la candidata alla presidenza Hillary Clinton, hanno sostanzialmente sostenuto che la brutalità della polizia è un problema da ricondurre al razzismo degli agenti e dei vertici delle forze dell’ordine.

Il solo caso di Charlotte smentisce tuttavia questa interpretazione, anche se in altre circostanze il razzismo può chiaramente giocare un ruolo più o meno importante. L’agente che ha ucciso martedì Keith Lamont Scott, così come il capo della polizia appartengono infatti alla stessa comunità afro-americana. Questa realtà non ha dunque impedito l’ennesimo assassinio immotivato e a sangue freddo da parte della polizia.

Inoltre, mentre le sparatorie che sfociano in decessi di cittadini di colore trovano in genere maggiore spazio sui media nazionali e internazionali, le statistiche compilate da varie fonti indicano che almeno la metà delle vittime della polizia negli Stati Uniti sono bianchi.

Piuttosto, un altro elemento accomuna la gran parte dei morti per mano della polizia, cioè il fatto che essi sono quasi sempre poveri o provenienti da situazioni di disagio economico e famigliare, dovute all’aggravarsi delle condizioni materiali di vita in un paese segnato da un aumento fuori controllo delle disuguaglianze sociali.

Ferme restando le singole vicende che caratterizzano i vari episodi di violenza con protagonisti gli agenti di polizia, in generale questi ultimi agiscono di fatto come una forza incaricata di controllare, contenere e reprimere le tensioni e i segnali di rivolta sociale tra le classi più povere.

Il fatto che le minoranze etniche negli Stati Uniti siano costrette a fare i conti in misura maggiore con situazioni di disagio contribuisce a spiegare la ragione per cui gli afro-americani sono in proporzione più esposti alla brutalità della polizia.

Mentre l’intervento dei “pacificatori” di professione e le autorità civili promettono giustizia per le uccisioni come quella di martedì a Charlotte, i numerosissimi precedenti di questi anni suggeriscono il contrario. Sia pure in assenza di statistiche ufficiali, alcune ricerche giornalistiche danno l’idea del grado di impunità di cui godono i poliziotti-assassini.

Un’indagine di qualche mese fa della testata on-line Huffington Post ha rivelato ad esempio come nel 2014 e nel 2015 nessun agente sia stato condannato per omicidio a fronte di un totale di oltre 2.300 uccisioni. Dal 2005 solo 13 poliziotti hanno ricevuto una sentenza di condanna negli Stati Uniti. Per il New York Daily News, invece, nonostante le oltre 1.200 uccisioni documentate, nel 2015 appena 7 agenti sono stati oggetto di incriminazioni, evidentemente risultate in tutti i casi nel proscioglimento.

Praticamente a nulla sono servite infine le misure promesse e talvolta adottate dai vertici delle forze di polizia e dallo stesso governo. L’esempio più clamoroso è quello delle telecamere installate sulle auto della polizia o indossate dagli agenti. Infatti, in più di un’occasione, anche in presenza di filmati che documentavano senza possibilità di equivoci la violenza immotivata dei poliziotti, questi ultimi hanno finito per evitare anche solo l’incriminazione formale per i crimini da loro commessi.

di Michele Paris

Le residue speranze di salvare la tregua negoziata tra Washington e Mosca in Siria sono di fatto crollate questa settimana in seguito all’accusa rivolta dal Pentagono alle forze armate russe di avere attaccato e distrutto un convoglio umanitario alla periferia settentrionale della città di Aleppo. Le prove e le possibili motivazioni legate all’episodio risultano in realtà molto esili, se non del tutto inesistenti, ma la responsabilità attribuita alla Russia consente al governo degli Stati Uniti di liberarsi di un accordo che minacciava di aggravare divisioni e imbarazzi al proprio interno già emersi subito dopo lo stop ai combattimenti.

Per il dipartimento della Difesa americano, due aerei da guerra russi Sukhoi SU-24 che volavano nell’area dove stava transitando il convoglio nella serata di lunedì sarebbero stati i responsabili del bombardamento che ha annientato 18 dei 31 veicoli della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Nessuna prova è stata come al solito presentata dal governo americano, ma i principali media hanno praticamente avallato la versione del Pentagono, basata su non meglio precisate “informazioni di intelligence”.

Martedì, il segretario di Stato, John Kerry, ha comunque sostenuto che la tregua “non è morta” dopo avere incontrato il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. In precedenza, il governo siriano aveva però dichiarato finito il cessate il fuoco, mentre Mosca ha acconsentito per ora a non mettere da parte gli sforzi per fermare le ostilità.

Anche se i colloqui tra le due parti e gli altri paesi che fanno parte del cosiddetto Gruppo Internazionale di Supporto per la Siria proseguiranno, gli eventi degli ultimi giorni hanno chiarito ancora una volta come gli Stati Uniti abbiano tutta l’intenzione di continuare a destabilizzare la situazione nel paese mediorientale.

L’accusa alla Russia di avere distrutto il convoglio umanitario è infatti il secondo passo fatto dagli USA per forzare il naufragio della tregua. Il primo, e più drammatico, era avvenuto sabato scorso con il bombardamento di una ben nota base militare dell’esercito siriano nella città di Deir ez-Zor, nel quale erano rimasti uccisi quasi cento soldati.

Se in quell’occasione il governo di Washington, il Pentagono e la stampa ufficiale americana avevano propagandato l’inverosimile versione dell’errore, lunedì è stato dato per certo che sia stata la Russia a colpire i mezzi che trasportavano aiuti umanitari destinati alla popolazione di Aleppo.

Le ricostruzioni dell’accaduto non hanno lasciato molto spazio a considerazioni che rendono invece meno chiari i fatti, né tantomeno alla versione di Mosca. Per cominciare, il governo di Damasco aveva appena dato la propria approvazione all’ingresso dei convogli umanitari nel paese e non è perciò chiara la ragione per cui avrebbe dovuto bombardarne uno poche ore più tardi, considerando soprattutto l’ondata di condanne che avrebbe suscitato un’azione di questo genere. Se avesse voluto impedirne l’arrivo ad Aleppo avrebbe potuto continuare a bloccare i veicoli al confine, come aveva fatto nei giorni precedenti.

Piuttosto, erano stati vari gruppi armati dell’opposizione anti-Assad a essersi rifiutati di garantire la sicurezza dei convogli. Inoltre, il ministero della Difesa russo ha diffuso un video ripreso da un drone nel quale si può osservare un mezzo dei “ribelli”, nascosto tra il convoglio umanitario, che trasportava un lancia missili, la cui destinazione e il cui utilizzo restano un mistero.

Il luogo dove i veicoli sono stati distrutti, sempre secondo i militari russi, non presenta poi nessuna traccia di un cratere dovuto a bombardamenti, né gli stessi mezzi avrebbero subito i danni tipici di un attacco aereo.

L’episodio ha in ogni caso permesso agli Stati Uniti di insabbiare le proprie responsabilità nell’attacco molto probabilmente deliberato contro la base militare siriana di sabato e, grazie alla stampa “mainstream”, attribuire alla Russia la responsabilità del fallimento della tregua.

La posizione di Mosca sul cessate il fuoco in Siria è tuttavia chiara, così come sia il regime di Assad sia l’Iran avevano dato il proprio assenso allo stop dei combattimenti che non includesse evidentemente le formazioni jihadiste. Gli Stati Uniti, al contrario, si sarebbero trovati di fronte a ostacoli insormontabili se la tregua avesse retto.

Innanzitutto, Washington avrebbe dovuto garantire la separazione dei gruppi “ribelli” moderati da quelli fondamentalisti e questi ultimi sarebbero stati poi oggetto di operazioni militari congiunte tra americani e russi. Questo obiettivo è però apparso da subito impossibile da raggiungere, visto che “ribelli” secolari e integralisti operano in simbiosi o, per meglio dire, i primi sono virtualmente inesistenti all’interno della galassia dell’opposizione armata.

Implementare il dettato della tregua su questo punto avrebbe dunque mostrato clamorosamente la strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati sunniti in Medio Oriente per quella che realmente è, basata cioè sull’appoggio a formazioni fondamentaliste se non apertamente terroristiche per abbattere il legittimo governo siriano.

L’altro dilemma che aveva consumato il governo e i vertici militari degli Stati Uniti riguarda proprio la necessità di collaborare con Mosca per colpire i terroristi attivi in Siria. Questa opzione non è mai stata accettata dal Pentagono, tanto che il segretario alla Difesa, Ashton Carter, e più di un generale avevano denunciato i “rischi” legati alla creazione di una partnership ad hoc con la Russia in Siria e lasciato intendere che gli ordini dell’autorità civile avrebbero potuto rimanere sulla carta.

Gli sviluppi della situazione siriana di questi ultimi giorni confermano che, al di là delle prese di posizione pubbliche, le decisioni e le mosse del governo e della macchina da guerra degli Stati Uniti sono influenzate da forze che nulla hanno a che vedere con la ricerca di una soluzione pacifica del conflitto.

Ad agire pericolosamente sugli eventi continua invece a essere la volontà di rovesciare il regime di Assad a Damasco e di tenere alto il livello di pressione sulla Russia, con il preciso scopo di limitarne gli spazi di manovra sul piano internazionale e le ambizioni da grande potenza che possano intralciare gli interessi strategici americani.


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