di Michele Paris

Mentre i leader della maggioranza Repubblicana al Senato americano hanno iniziato martedì le audizioni per la ratifica delle nomine dei membri della nuova amministrazione Trump, il presidente eletto ha assegnato l’incarico di consigliere “senior” per la Casa Bianca al 36enne Jared Kushner, suo genero. La scelta del giovane costruttore miliardario sposato con la figlia di Trump, Ivanka, conferma l’intenzione del neo-presidente di gestire il potere come una sorta di affare di famiglia, mentre sul fronte della politica estera prospetta un chiaro riavvicinamento degli Stati Uniti a Israele dopo le frizioni tra i due alleati durante l’amministrazione Obama.

Il primo aspetto da considerare nella nomina di Kushner è la dubbia legalità della decisione di Trump. Dal 1967, in conseguenza della nomina di Robert Kennedy a ministro della Giustizia da parte del fratello presidente, negli USA è in vigore una legge “anti-nepotismo” che vieta agli inquilini della Casa Bianca di assegnare incarichi a parenti all’interno di “agenzie” su cui essi hanno autorità. Tra i gradi di parentela previsti rientra anche quello di genero.

Fonti vicine a Trump hanno fatto sapere che quest’ultimo chiederà un parere sulla legittimità della nomina all’ufficio legale del dipartimento di Giustizia, noto peraltro per l’attitudine non esattamente inflessibile nei confronti dei presidenti. Per aggirare la norma, Trump intende puntare sull’ambiguità della definizione di “agenzia” prevista dalla legge, a suo dire non applicabile alla Casa Bianca, e sul fatto che Kushner avrà ufficialmente un ruolo “informale”, per il quale non percepirà nemmeno un compenso.

Un altro fattore che sta suscitando accese discussioni sulla scelta di Kushner ha a che fare con il macroscopico conflitto tra l’incarico che andrà a ricoprire e gli interessi economico-finanziari della sua famiglia. Questo aspetto è d’altra parte ancora più marcato per lo stesso Trump, impegnato proprio questa settimana nella presentazione di un piano che dovrebbe teoricamente impedire il sovrapporsi di interessi pubblici e privati durante il suo mandato.

Kushner ha da parte sua promesso di liberarsi di alcuni investimenti e di vendere le quote di alcune società che detiene, anche se in buona parte saranno semplicemente trasferite ai suoi famigliari. Al di là del fatto che gli affari siano gestiti direttamente da Kushner o dai membri della sua famiglia, gli interessi del prossimo consigliere del presidente potrebbero incrociarsi con le decisioni che il suo superiore sarà chiamato a prendere, soprattutto sulle questioni di politica estera.

Ad esempio, il New York Times ha rivelato come Kushner stia trattando con un gruppo assicurativo cinese un progetto di sviluppo di un edificio commerciale di sua proprietà sulla Quinta Strada a Manhattan. La compagnia cinese - Anbang Insurance Group - è detenuta per almeno il 40% da aziende di proprietà statale e, secondo il Financial Times, può contare su una vasta rete di contatti negli ambienti di potere a Pechino. Non solo, Kushner possiede quote di società finanziarie e tecnologiche nelle quali hanno investito anche miliardari russi e cinesi.

Quali saranno esattamente i compiti di Jared Kushner alla Casa Bianca non è ancora del tutto chiaro, anche se gli ambiti in cui dovrebbe operare includono il Medio Oriente e Israele, i rapporti con il business privato e la rinegoziazione dei trattati di libero scambio.

Svariati media americani hanno sottolineato anche come la sua presenza a fianco di Trump potrebbe avere un “effetto calmante” sul carattere impulsivo del prossimo presidente. Alla Casa Bianca, Kushner ricoprirà dunque un ruolo di spicco, avendo con ogni probabilità maggiore accesso a Trump degli altri tre membri principali dello staff presidenziale: lo stratega capo con inclinazioni neo-fasciste Stephen Bannon, il capo di gabinetto Reince Preibus e Kellyanne Conway, già responsabile della campagna elettorale di Trump.

L’ascesa di Jared Kushner è ad ogni modo insolita, visto che i suoi interessi fino a pochi mesi fa non avevano a che fare direttamente con la politica. Oltretutto, lui e la sua famiglia avevano frequentemente sostenuto e finanziato politici Democratici. Il padre, Charles Kushner, ha donato complessivamente più di un milione di dollari a favore delle campagne dei Democratici, tra cui 90 mila dollari a quella per il Senato di Hillary Clinton nel 2000. Jared ha dato invece personalmente 60 mila dollari ai comitati elettorali Democratici e 11 mila dollari alla stessa ex first lady.

Forbes ha scritto martedì che l’ex presidente Bill Clinton fu compensato con ben 125 mila dollari per un discorso tenuto nell’ottobre del 2001 alla sede delle Kushner Companies a Florham Park, nel New Jersey.

Il denaro del padre ha anche favorito la sua carriera scolastica in università prestigiose. 2,5 milioni di dollari donati a Harvard nel 1998 anticiparono di poco l’ammissione al college nel Massachusetts di uno studente con voti mediocri. In seguito, Jared sarebbe entrato alla facoltà di diritto della New York University, anche in questo caso dopo una donazione del padre pari a 3 milioni di dollari.

Comunque, nel corso della campagna elettorale, Kushner ha progressivamente assunto un ruolo di primo piano, intervenendo spesso in decisioni cruciali per il destino politico del suocero. A lui vengono attribuiti il licenziamento del vulcanico capo della campagna, Corey Lewandoswki, durante le primarie Repubblicane e il sollevamento del governatore del New Jersey, Chris Christie, dall’incarico di responsabile del processo di transizione alla Casa Bianca.

Su Christie sembra anche che Kushner abbia messo il proprio veto per la candidatura alla vice-presidenza, dal momento che il governatore aveva rappresentato l’accusa nel processo che alcuni anni prima si era risolto con la condanna al carcere del padre per evasione fiscale.

Nelle settimane seguite all’elezione di Trump, il genero del presidente eletto avrebbe inoltre tenuto contatti con leader di paesi stranieri, così come si è incontrato recentemente con i vertici Repubblicani al Congresso per gettare le basi dell’agenda politica del prossimo futuro. Per la stampa USA, infine, Kushner avrebbe consigliato il suocero su alcune importanti nomine, tra cui quella del presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, a direttore del Consiglio Economico Nazionale.

L’incarico di consigliere di Jared Kushner potrebbe dispiegarsi a tutto campo, ma è forse nei rapporti con Israele che i suoi precedenti e la sua predisposizione minacciano di produrre gli effetti più preoccupanti. Ebreo ortodosso, Kushner ha già avuto una chiara influenza sulle attitudini di Trump verso il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.

I toni iniziali moderatamente critici del presidente eletto nei confronti di Israele si erano infatti attenuati in maniera precoce durante la campagna elettorale, secondo molti proprio sotto l’influenza del genero. I legami di quest’ultimo con Israele sono d’altra parte ben documentati. La potente lobby sionista American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) elenca Jared Kushner e il padre tra i propri “benefattori”, coloro cioè che hanno donato almeno 36 mila dollari all’organizzazione di estrema destra che ha tradizionalmente una forte influenza sulla politica USA.

La Reuters ha scritto recentemente che i genitori di Kushner un paio di anni fa hanno donato 20 milioni di dollari per la costruzione di un campus universitario medico a Gerusalemme che ora porta il loro nome. Il quotidiano israeliano Haaretz nel mese di dicembre aveva poi rivelato come la famiglia Kushner avesse elargito decine di migliaia di dollari a “organizzazioni e istituzioni” con sede presso insediamenti illegali in Cisgiordania.

I rapporti con la destra israeliana sono tali da avere spinto questa settimana il quotidiano conservatore Yedioth Ahronot a descrivere Jared Kushner come la migliore “polizza assicurativa” dello stato ebraico e delle sue politiche almeno per i prossimi quattro anni.

di Michele Paris

La morte improvvisa nel tardo pomeriggio di domenica dell’ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani potrebbe rappresentare un punto di svolta sia nelle dinamiche politiche interne alla Repubblica Islamica sia nell’evoluzione delle relazioni internazionali di quest’ultimo paese, a cominciare da quelle in piena trasformazione con le potenze occidentali.

A contribuire alla spiegazione del significato della dipartita a 82 anni di uno dei protagonisti della rivoluzione del 1979 è stata l’uscita in lacrime dall’ospedale di Teheran, dove Rafsanjani era stato ricoverato nella mattinata di domenica dopo un attacco cardiaco, dell’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rouhani.

Il suo governo, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, ha perso infatti il proprio principale punto di riferimento, nonché il leader politico e religioso che aveva svolto un ruolo cruciale per il formarsi di una coalizione in grado di garantire il successo alle urne di un candidato “moderato”, dopo i due mandati di Mahmoud Ahmadinejad, e di frustrare le aspirazioni della corrente “principalista” conservatrice.

Rafsanjani fu presidente dell’Iran dal 1989 al 1997, dopo che negli anni Ottanta aveva ricoperto il ruolo di presidente del parlamento di Teheran (Majlis). Con un’inclinazione marcatamente “pragmatica”, nonostante le responsabilità personali nella sanguinosa repressione del dissenso interno, Rafsanjani ha navigato le acque spesso agitate dei vertici della Repubblica Islamica, grazie alla sua astuzia politica, che gli garantì il soprannome di “squalo”, e al legame di lunga data con il padre della rivoluzione, ayatollah Ruhollah Khomeini.

Tra il 2007 e il 2011 è stato inoltre presidente della potente Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri religiosi e incaricata di scegliere la Guida Suprema e sorvegliarne l’operato, mentre per tre decenni è stato a capo del Consiglio per il Discernimento, organo previsto dalla revisione costituzionale del 1988 con un ruolo consultivo della stessa Guida Suprema.

La singolarità e il peso della figura di Rafsanjani risiedono forse nella sua capacità di promuovere politiche pragmatiche, spesso assimilabili alle posizioni dei “riformatori”, pur continuando a far parte in tutto e per tutto dell’apparato di potere della Repubblica Islamica, all’interno del quale ha potuto arricchire enormemente se stesso e la sua famiglia.

Sia pure indebolito politicamente dopo le vicende legate al cosiddetto “Movimento Verde”, da lui appoggiato nel 2009, il mantenimento di posizioni di spicco tra le élite iraniane è stata anche la conferma dell’esistenza ad altissimi livelli e per almeno tre decenni di una fazione interessata a costruire rapporti amichevoli con l’Occidente e, soprattutto, a integrare il paese nei meccanismi del capitalismo internazionale.

Come spiegano in questi giorni i necrologi dei giornali di tutto il mondo, Rafsanjani è stato precocemente protagonista del dialogo, o delle prove di esso, con le potenze che avevano sostenuto strenuamente il regime dello shah, abbattuto dalla rivoluzione del 1979. Dai negoziati segreti degli anni Ottanta con Washington nell’ambito delle vicende che avrebbero portato allo scoppio dello scandalo “Iran-Contra” fino alle trattative sull’accordo relativo al nucleare di Teheran, siglato a Vienna nel luglio del 2015, e, in precedenza, al contributo all’elezione di Rouhani, Rafsanjani è stato di fatto il referente degli sforzi volti a un’apertura non violenta della Repubblica Islamica all’Occidente.

Non a caso, i commenti dei media internazionali hanno disegnato un ritratto tutto sommato positivo dell’ex presidente, ricordato come figura appunto equilibrata e sempre disponibile al dialogo a differenza dei fautori della linea dura e dei rappresentanti dell’estremismo religioso sciita.

Proprio questa lettura del ruolo di Rafsanjani ha parallelamente prodotto negli Stati Uniti e in Europa commenti e analisi allarmate, dal momento che la sua morte potrebbe lasciare un vuoto difficilmente colmabile per la galassia “riformista” iraniana, soprattutto in vista delle presidenziali del mese di maggio.

In molti hanno lamentato l’assenza di una forza comparabile a quella di Rafsanjani in grado di equilibrare il potere dei “principalisti” fedeli dell’ayatollah Ali Khamenei, con i moderati difficilmente in grado di ottenere l’appoggio politico necessario all’interno dell’establishment conservatore e di evitare l’influenza della destra religiosa sulla stessa Guida Suprema.

Il vuoto che i media in Occidente hanno prospettato dopo la morte di Rafsanjani sarebbe dovuto anche alla marginalizzazione da parte del regime delle icone del “riformismo”, o presunte tali, dall’ex presidente Mohammad Khatami ai due leader del “Movimento Verde” e candidati alla presidenza nel 2009, Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi da tempo agli arresti domiciliari.

Se la repressione ha indubbiamente avuto qualche peso, fuori da ogni ricostruzione e analisi dell’eredità politica di Rafsanjani restano tuttavia le responsabilità di quest’ultimo e dello stesso movimento “riformista” a cui il defunto ex presidente si era avvicinato negli ultimi anni.

Il fallimento della presidenza Khatami, il quale aveva ricevuto il sostegno di Rafsanjani, e lo stato comatoso dell’opposizione “riformista”, almeno fino alle proteste di piazza seguite alle discusse elezioni del 2009, viene cioè attribuito principalmente alla reazione dei “falchi” nelle posizioni di potere non elettive, i quali avrebbero frustrato gli sforzi per allentare i vincoli religiosi e ampliare le libertà personali, nonché il tentativo di apertura all’Occidente.

In realtà, se pure l’elezione di Khatami, così come i consensi significativi, anche se non maggioritari, raccolti dai candidati “moderati” nel 2009, era stata la risposta di una parte degli elettori iraniani al clima opprimente creato dal regime, è stata precisamente quell’esperienza di governo e il curriculum dei politici “riformisti” a screditare il movimento di opposizione.

Perfettamente in linea con le posizioni di Rafsanjani in ambito economico, Khatami aveva perseguito politiche di ristrutturazione dell’economia che hanno aumentato le disuguaglianze sociali in Iran, nonostante il sostanziale appoggio di governi, media e istituzioni internazionali a quelle che continuano a essere descritte come iniziative necessarie al rilancio di un’economia in stallo.

Rafsanjani e la fazione “riformista” o “moderata” all’interno della Repubblica Islamica hanno cioè sempre fatto leva sulle libertà personali e democratiche, anche se in maniera limitata, allo scopo di avanzare un’agenda liberista sul fronte economico. La ragione di ciò è da ricercare nelle aspirazioni della loro (limitata) base elettorale, vale a dire la borghesia urbana, spesso filo-occidentale, interessata ad avanzare il proprio status grazie alle occasioni messe a disposizione dall’ingresso del loro paese nei circuiti del capitalismo transnazionale.

L’ostilità nei confronti di questo progetto manifestata dalle fasce più povere della società iraniana ha rappresentato in definitiva il fallimento dei candidati dell’opposizioni nel 2009. Un fallimento che sarebbe costato a Rafsanjani l’esclusione dalle presidenziali del 2013, quando il Consiglio dei Guardiani bocciò la sua candidatura, con ogni probabilità per evitare il coagularsi attorno a essa di una nuova campagna, orchestrata in Occidente, per destabilizzare il regime.

Quell’esperienza finì con ogni probabilità per convincere l’ex presidente a cambiare parzialmente rotta e ad adoperarsi per il successo alle urne di un candidato con credenziali “moderate” ma accettabile agli occhi dell’establishment conservatore. L’elezione di Rouhani è stata così l’ultimo successo politico di Rafsanjani, il quale negli anni successivi ha visto andare in porto, almeno parzialmente, i progetti di riavvicinamento all’Occidente.

Ciò è stato però possibile anche grazie al momentaneo abbandono della linea dura nei confronti dell’Iran da parte dell’amministrazione Obama a Washington e alla convinzione della Guida Suprema e delle fazioni conservatrici meno estreme a tentare un cauto approccio nei confronti degli Stati Uniti.

Gli equilibri usciti dall’accordo sul nucleare di Vienna, a cui ha indubbiamente contribuito Rafsanjani o, quanto meno, la sua visione pragmatica delle relazioni internazionali, restano in ogni caso molto fragili. La morte dell’ex presidente iraniano potrebbe infatti avere conseguenze molto negative per i sostenitori del dialogo con l’Occidente nella Repubblica Islamica, i cui piani dovranno oltretutto fare i conti con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e con il rapido consolidarsi dell’asse economico-diplomatico-militare tra Teheran, Mosca e Pechino.

di Fabrizio Casari

La ricostruzione fantasy delle elezioni statunitensi fornita dai servizi segreti americani continua ad occupare la scena politica USA. La frustrazione dell’establishment democratico, Obama in testa, appare come la cifra per un inedito clima politico nel quale si svolge il passaggio dei poteri. Si assiste ad un passaggio carico di rabbia, di aggressività, di provocazioni e di scontro politico che sono lontane dal consueto procedimento di consegne tra presidenti uscenti ed entranti.

Sostenere che siano stati gli hacker russi a determinare la vittoria di Trump alle elezioni statunitensi è quello che oggi potrebbe essere definito una post-verità. Visto e considerato che il voto non è telematico, diventa difficile immaginare una presunta attività di condizionamento della Rete sul suo risultato.

E visto che far credere che le capacità di penetrazione dei sistemi informatici da parte dei russi sia alla pari di quella degli americani è dura - e oltretutto darebbe luogo al prefigurarsi di  pericolosi scenari - allora i vertici della CIA, con già gli scatoloni sul corridoio, accusano Mosca di aver contribuito alla creazione di un clima “sfavorevole” a Hillary Clinton.

Ma anche qui si scambia la causa con gli effetti. Non serviva l’hacker Ivan per sconfiggere la candidata dei democratici. Hillary, infatti, è stata la principale avversaria di se stessa e del suo partito, considerando il suo operato come Segretario di Stato prima e come candidata poi.

Incolpare chi denuncia l’illecito (Wikileaks) mentre si assolve chi lo compie è tecnica cialtrona e poco efficace. L’utilizzo della sua casella privata di posta durante il suo mandato governativo, nel migliore dei casi è stato frutto di imperizia politica, nel peggiore è stato un tentativo maldestro di occultare le sue comunicazioni, che nascondevano effettivamente verità imbarazzanti.

Non c’è stato nulla di trasparente, né nella sua avventura alla Casa Bianca, né nelle sue vicende private, tantomeno sugli ingentissimi finanziamenti provenienti da fondi sovrani di paesi del Golfo e da multinazionali con interessi fortissimi all’interno.

Che la Clinton non sarebbe stata votata da molta parte dei giovani democratici e che in diversi stati tra quelli più colpiti dalla crisi economica gli elettori democratici avessero scelto Bernie Sanders e non lei come candidato alla Casa Bianca è storia arcinota e solo i potenti quanto oscuri interessi che la circondavano hanno ritenuto che fosse comunque necessario puntare su di lei. Si è ritenuto che il candidato repubblicano mancasse della credibilità necessaria e che, alla fine, Hillary avrebbe comunque vinto, seppure con un distacco limitato. Così non è andata e la responsabilità non può certo essere addossata a Putin.

C’è poi un aspetto paradossale nelle accuse di Washington riguardo al condizionamento del voto. Come si può accusare Mosca di ingerenza nel voto USA quando quella di condizionare il voto nei paesi terzi è una delle maggiori attività che gli Stati Uniti svolgono ai quattro angoli del pianeta? Dall’Est Europa fino all’America Latina, le finte ONG e Fondazioni statunitensi operano illegittimamente nelle campagne elettorali.

Oriente o Occidente poco cambia: strateghi della comunicazione, fondi occulti, addestramento del personale, forniture tecnologiche e strumenti spionistici sono i principali rami di attività USA a favore dei loro alleati nelle competizioni.

E ciò avviene regolarmente e da decenni (ma nell’amministrazione Obama questo tipo di attività è stata potenziata ed estesa) ovunque si ritiene che gli interessi statunitensi, diretti o indiretti, possano essere salvaguardati a seconda del risultato elettorale.

Probabilmente, sentirsi minacciare sul terreno nel quale si pensa che si possa e debba avere l’esclusiva, ha scatenato una reazione isterica e scarsamente credibile, ma la gittata dell’operazione è soprattutto altra: delegittimare la vittoria di Trump.

Se infatti si dimostrasse che Putin abbia influito sul voto e che Trump ne fosse stato al corrente, l’impeachment per lui prima ancora di varcare il cancello della Casa Bianca sarebbe inevitabile. Nella sua ultima conferenza stampa, Obama ha chiesto alla CIA di chiudere l’indagine entro il 20 gennaio, ovvero la data dell’insediamento di Trump. L’agenzia dovrà anche valutare se e quali informazioni andranno coperte da segreto.

Paventare l’esistenza di notizie top-secret e quindi da non poter divulgare è l’essenza della campagna politica: se non potessero essere trasmesse a deputati e senatori non sarebbe possibile procedere legislativamente all’impeachment, ma ciò aumenterebbe esponenzialmente l’insinuazione di una verità inconfessabile, dunque gravissima.

Più concretamente l’operazione mira a condizionare la politica di Trump verso la Russia. La posizione di Trump, favorevole al dialogo con Mosca, mette infatti in discussione le scelte del Pentagono e dell’intero complesso militar-industriale statunitense, che prova a rilanciare il suo ruolo (e i suoi affari) in una politica di scontro aperto con Putin. Politica della quale l’allargamento ad Est della NATO costituisce premessa e obiettivo al tempo stesso.

Non è un caso che poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, Obama abbia firmato il decreto di espulsione per 35 diplomatici russi e, poco dopo, abbia siglato l’ordine esecutivo per manovre militari pericolosamente vicine ai confini russi che vedono il coinvolgimento di 5 mila soldati NATO.

Putin questa volta non ha ritenuto di reagire basandosi sul principio di reciprocità che anima l’essenza delle relazioni diplomatiche. Ha preferito agire politicamente e, rifiutandosi di applicare le stesse misure, ha dimostrato intelligenza politica decisamente superiore, visto che il suo obiettivo è proprio quello di non turbare l’insediamento di Trump e metterne così in difficoltà la disponibilità al dialogo. L’interesse di Mosca, è naturale, è quello di riportare ad uno stato di normalità i rapporti con Washington e l’espulsione di diplomatici o la chiusura di uffici statunitensi non avrebbero prodotto un effetto positivo al riguardo.

L’agenda del miliardario cafone che tra pochi giorni si insedierà alla Casa Bianca è complessa e la composizione del suo Gabinetto appare già un esempio di come Trump intenda governare e per favorire quali interessi. Non c’è davvero di che stare allegri.

Ma che i democratici abbiano obiettivi ed interessi diversi da quelli di Trump è stato sufficientemente smentito in otto anni di amministrazione. La differenza sta solo nei gruppi di riferimento sui quali ci si appoggia. Provare di tutto, lecitamente o meno, per sovvertire l’esito del voto di Novembre è inutile ma racconta di quanti interessi vi fossero in gioco e di quale dignità politica i democratici dispongano.

Ma visto che governare gli riesce male, smettano di urlare ai complotti e convocare lo star-system a celebrare improbabili addii. Si preparino piuttosto a fare opposizione ed a ricostruire un partito che entri in sintonia con il suo elettorato. Se ne sono capaci.

di Michele Paris

Il rimescolamento degli equilibri strategici in Asia sud-orientale innescato dall’elezione alla presidenza delle Filippine di Rodrigo Duterte, ha fatto segnare una nuova e potenzialmente importante tappa in questo inizio anno con l’approdo nella capitale, Manila, di due navi da guerra russe. Il cacciatorpediniere “Ammiraglio Tributs” e la petroliera “Boris Butoma” hanno attraccato nel porto filippino il 2 gennaio scorso e rimarranno nel paese-arcipelago fino a sabato prossimo.

L’ammiraglio russo Eduard Mikhailov ha cercato di inquadrare la visita in un contesto più ampio del semplice gesto di amicizia, su cui hanno insistito più che altro le autorità locali, ipotizzando la conduzione di esercitazioni relative alla lotta alla pirateria e al terrorismo.

Un portavoce della Marina militare filippina ha escluso però esercitazioni congiunte per questa settimana, ma, come aveva già anticipato qualche tempo fa il presidente Duterte, questa possibilità verrà presa in considerazione nel prossimo futuro. Secondo i media russi, quello di questa settimana è il primo contatto diretto in assoluto tra le marine dei due paesi. Per il governo di Manila, invece, si tratterebbe della terza visita di navi militari russe nei porti filippini, tra cui l’ultima era avvenuta nel 2012.

Che sia o meno senza precedenti, l’evento è indubbiamente di estrema rilevanza, soprattutto in considerazione delle circostanze in cui si inserisce. Le tensioni già alle stelle tra Cina e Stati Uniti si sono aggravate dopo l’ascesa di Duterte alla presidenza delle Filippine e in seguito ai suoi sforzi per ristabilire relazioni cordiali con Pechino. Parallelamente, l’elezione di Donald Trump minaccia un ulteriore irrigidimento di Washington nei confronti della seconda potenza economica del pianeta.

Gli alti ufficiali russi presenti in questi giorni nelle Filippine hanno poi fatto ben poco per nascondere le implicazioni strategiche della visita. Sempre l’ammiraglio Mikhailov ha sottolineato come Mosca intenda fornire a Manila “tutto l’aiuto di cui ha bisogno”. Inoltre, l’invito a condurre esercitazioni militari nel Mar Cinese Meridionale è allargato anche alla stessa Cina e alla Malaysia, il cui governo nei mesi scorsi ha fatto intravedere un possibile riallineamento strategico più o meno sul modello delle Filippine di Duterte.

L’eventuale ingresso della Russia nelle questioni del sud-est asiatico rappresenterebbe dunque un nuovo elemento di destabilizzazione dei piani egemonici americani, diretti contro la Cina e perseguiti negli ultimi anni dall’amministrazione Obama, sia pure senza troppo successo, attraverso un’escalation di provocazioni militari, economiche e diplomatiche.

Mosca ha infatti visto nella presidenza Duterte una chiara occasione per interferire negli interessi americani nella regione, ma anche per allargare il mercato dei propri produttori di armi, i quali in Asia sud-orientale vantano posizioni consolidate soprattutto in Vietnam.

Proprio il Mar Cinese Meridionale è stato poi il teatro dei principali scontri tra Washington e Pechino, con il governo USA che, ad esempio, ha ripetutamente attaccato quello cinese per la costruzione di installazioni civili e militari nelle isole controllate da quest’ultimo ma rivendicate da altri paesi della regione.

La Marina militare americana ha inoltre condotto svariate missioni di pattugliamento nelle acque al largo dei territori su cui Pechino afferma la propria sovranità, sollecitando allo stesso tempo i propri alleati ad alimentare le tensioni con la Cina. La stessa Russia, invece, proprio con il cacciatorpediniere “Ammiraglio Tributs lo scorso settembre aveva partecipato a esercitazioni militari nel Mar Cinese Meridionale assieme a unità navali di Pechino.

Il presidente filippino Duterte, da parte sua, ha da tempo mostrato la disponibilità a valutare esercitazioni militari con la Russia, così come ad acquistare equipaggiamenti militari da questo paese. L’apertura di Manila a Mosca e a Pechino è iniziata proprio quando gli Stati Uniti si aspettavano dall’alleato un’accelerazione delle iniziative anti-cinesi, sull’onda di quanto ottenuto dalla precedente amministrazione del fedelissimo di Washington, Benigno Aquino.

Sotto la guida dell’ex presidente, le Filippine avevano tra l’altro sottoscritto un accordo per il ritorno nelle basi militari del paese-arcipelago di truppe americane in pianta stabile e avviato con successo un procedimento presso un tribunale internazionale a L’Aia sulle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

Con l’elezione del populista Duterte, al contrario, le Filippine sono passate da alleato cruciale nella strategia asiatica degli Stati Uniti ad anello debole, con cui perciò l’amministrazione Trump dovrà fare i conti per evitare un effetto domino che potrebbe avere effetti rovinosi sui piani americani in questo continente, ovviamente a tutto vantaggio della Cina.

In questo scenario risulta evidente quali siano le implicazioni della visita delle due navi russe nelle Filippine, al di là del fatto che la possibile partnership tra Mosca e Manila, nella più ottimistica delle ipotesi, sia ancora alle fasi iniziali.

Sforzi per costruire rapporti più stretti con la Russia erano tuttavia iniziati già qualche mese fa. Duterte e Putin si erano incontrati lo scorso novembre a Lima, in Perù, nel corso del vertice della Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico (APEC).

Poche settimane più tardi, i ministri degli Esteri e della Difesa filippini, Perfecto Yasay e Delfin Lorenzana, si erano recati a Mosca per discutere il possibile allargamento della cooperazione tra i due paesi, nonché per programmare una visita del loro presidente a Mosca.

Prima Duterte e in seguito sempre più anche i suoi ministri hanno ripetutamente parlato in maniera esplicita della portata strategica del riorientamento della politica estera di Manila, segnata di fatto dall’allontanamento dall’alleato americano, almeno in linea teorica.

L’elezione di Trump ha avuto infatti un effetto moderatore sulla retorica anti-americana di Duterte, il quale qualche mese fa era giunto addirittura a definire Obama “figlio di p…”. Dall’invito alle forze armate americane a lasciare le Filippine e dalla promessa di annullare ogni esercitazione militare con gli USA, Duterte è passato agli elogi e alla disponibilità a collaborare con il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Sul suo atteggiamento influiscono con ogni probabilità le critiche rivolte dall’amministrazione Obama alla guerra sanguinosa condotta nelle Filippine da Duterte contro il narcotraffico e lasciate cadere da Trump. Il presidente americano uscente e il dipartimento di Stato avevano in realtà appoggiato anche finanziariamente questa battaglia, ma i toni sono presto cambiati quando il presidente filippino ha iniziato a mostrare un atteggiamento conciliante nei confronti della Cina.

Se Trump e Duterte sembrano avere inclinazioni simili, le crescenti divergenze tra USA e Filippine potrebbero non risolversi così agevolmente, visto che sono legate a fattori oggettivi ben più importanti. In particolare, l’avvicinamento di Manila a Pechino, ma anche a Mosca, è il risultato di un calcolo basato su considerazioni che hanno a che fare con il declino degli Stati Uniti, principalmente sul fronte economico.

Una parabola discendente, quella americana, che viene contrastata dalle varie amministrazioni di Washington con un ricorso sempre più spinto al militarismo, con il rischio di provcare rovinosi conflitti armati, di cui a farne le spese sarebbero in primo luogo proprio paesi come le Filippine.

di Michele Paris

Con l’avvicinarsi del passaggio di consegne alla Casa Bianca tra Barack Obama e Donald Trump, il livello di isteria anti-russa negli Stati Uniti continua ad aumentare esponenzialmente in un quadro politico attraversato da profonde divisioni circa le priorità strategiche della classe dirigente americana. Le sanzioni contro Mosca decise dall’amministrazione Democratica uscente poco prima di Capodanno non hanno placato la rabbia del fronte anti-russo, il quale chiede ulteriori interventi in questo senso per rendere sempre più complicato l’eventuale processo di distensione tra le due potenze nucleari promesso dal neo-presidente Repubblicano.

Nonostante la propaganda amplificata da media e politici americani, la natura delle accuse rivolte al governo del presidente Putin per avere interferito nelle elezioni presidenziali americane del novembre scorso continua ad apparire tutta politica. Delle presunte responsabilità del Cremlino e dei servizi segreti russi non è stata infatti presentata finora una sola prova concreta.

Gli stessi giornali d’oltreoceano che stanno conducendo questa battaglia sono quasi sempre costretti ad ammettere, quanto meno tra le righe, come non vi sia evidenza dell’identità degli autori dei cyber-attacchi contro i sistemi informatici americani descritti da molte settimane a questa parte.

Titoli sensazionalistici che assicurano come sia in atto una gigantesca aggressione informatica da parte di Mosca anticipano in realtà soltanto dubbie rivelazioni che si basano su dichiarazioni di esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale USA, quasi sempre anonimi, o di compagnie private che operano nel campo della sicurezza informatica, con interessi economici direttamente connessi allo smascheramento dei responsabili delle intrusioni.

A quasi 14 anni dall’invasione dell’Iraq, la campagna in corso contro la Russia sembra così assumere sempre più le sembianze di quella che venne scatenata dall’amministrazione Bush e da media compiacenti, compresi quelli “liberal” come il New York Times, per fabbricare l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese mediorientale, pronte a essere utilizzate dal regime di Saddam Hussein.

La caccia alle streghe a cui si sta assistendo non è però condivisa da tutto il panorama politico, militare, dell’intelligence e del business negli Stati Uniti. Anzi, proprio l’amministrazione entrante di Donald Trump fa capo a una fazione dell’apparato di potere che, pur non essendo caratterizzata da particolari predisposizioni pacifiste, vede almeno per ora con preoccupazione l’aggravamento dei rapporti con la Russia registrata durante la presidenza Obama. Ciò perché, dalla loro prospettiva, lo scontro con Mosca non fa che distogliere attenzioni e risorse dal vero nemico degli USA su scala planetaria, ovvero la Cina.

Come già anticipato, è esattamente la possibilità di un riavvicinamento tra Washington e Mosca fatta intravedere da Trump che sta alimentando i continui blitz mediatici contro il Cremlino. L’obiettivo di questa parte dell’establishment USA è quello di avvelenare il più possibile i rapporti bilaterali, in modo da ostacolare un possibile disgelo che potrebbe avere luogo su questioni cruciali come la lotta al terrorismo, la guerra in Siria o l’espansione della NATO in Europa orientale.

In altre parole, dal punto di vista dell’amministrazione Obama e di coloro che a essa sono allineati sulla Russia, come sarà possibile per Trump raggiungere un qualche accordo con Putin se quest’ultimo è intervenuto in maniera così palese e illegale nel processo elettorale americano ? O ancora, come potrà Putin giustificare un’intesa con Washington essendo in vigore pesanti sanzioni contro il suo paese ?

L’eccezionalità delle accuse rivolte alla Russia dimostra in ogni caso quanto sia alta la posta in gioco in questo confronto sulla direzione strategica che dovranno tenere gli Stati Uniti nel post-Obama. Eccezionali sono anche le divisioni tra i due campi, visto anche che lo stesso Trump si troverà a far fronte non solo alla grande maggioranza del Partito Democratico ma anche a una buona parte dei suoi colleghi Repubblicani.

Uno dei senatori più legati all’apparato militare americano, l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain, continua ad esempio a essere in prima linea nella battaglia contro Mosca, in netta contrapposizione con il presidente eletto del suo partito. McCain, a cavallo del Capodanno, è stato protagonista di una trasferta in Ucraina e nei paesi Baltici assieme ai senatori Lindsey Graham (Repubblicano) e Amy Klobuchar (Democratica).

Durante la trasferta, i tre hanno ribadito il sostegno americano a regimi di destra e ferocemente anti-russi alla luce della presunta aggressività di Mosca. Lo stesso McCain ha poi auspicato un atteggiamento ancora più duro nei confronti di Putin e chiesto nuove sanzioni contro la Russia, giudicando insufficienti l’espulsione di 35 diplomatici e la chiusura di due strutture russe negli Stati Uniti, ordinate settimana scorsa da Obama.

La commissione Forze Armate del Senato, presieduta da McCain, ha inoltre fissato per giovedì un’udienza sui cyber attacchi attribuiti alla Russia, durante la quale testimonieranno, tra gli altri, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, e il numero uno dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), ammiraglio Mike Rogers.

Eventi come questo dovrebbero contribuire a tenere alto il livello di attenzione sulla questione russa, mentre già si profilano scontri tra la Casa Bianca e il Congresso. Il deputato Democratico della California, Adam Schiff, membro della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti, in una recente intervista a ABC News ha assicurato che il suo partito e la maggioranza Repubblicana si impegneranno per impedire a Trump di cancellare le sanzioni applicate alla Russia dall’amministrazione Obama. In maniera minacciosa, lo stesso deputato ha poi invitato il neo-presidente a smettere di “denigrare la comunità dell’intelligence”, visto che, una volta insediato, dovrà “fare affidamento su di essa”.

Un altro terreno di scontro saranno anche le audizioni al Senato per la ratifica della nomina a segretario di Stato di Rex Tillerson. Per questioni di affari, l’amministratore delegato di ExxonMobil ha coltivato rapporti molto stretti con i vertici dello stato russo, Putin compreso, e per questa ragione nelle ultime settimane è stato oggetto di critiche esplicite anche da parte di senatori Repubblicani.

La scelta di Tillerson, ma anche dell’ex generale Michael Flynn a consigliere per la sicurezza nazionale, sembra dunque profilare un riallineamento strategico dell’amministrazione Repubblicana entrante sulla Russia, nonostante le pressioni a proseguire la politica di confronto seguita da Obama.

A confermare che, almeno per il momento, su questo tema si vada verso l’aggravamento del conflitto interno alla classe dirigente americana ci sono le dichiarazioni di Trump dopo le sanzioni decise da Obama alla fine del 2016. Il presidente eletto aveva in sostanza elogiato Putin per la risposta pacata e la decisione di non espellere a sua volta diplomatici americani dalla Russia.

Domenica scorsa, poi, il prossimo portavoce di Trump alla Casa Bianca, Sean Spicer, in un’apparizione televisiva aveva criticato l’iniziativa di Obama nei confronti della Russia, ribadendo lo scetticismo del miliardario di New York circa le responsabilità di Mosca per gli attacchi informatici negli USA. Significativamente, Spicer aveva messo a confronto l’atteggiamento dell’amministrazione Democratica verso la Russia con quello che avrebbe tenuto con la Cina, accusando quest’ultimo paese di essere impegnato in una lunga serie di furti informatici ai danni del governo e delle compagnie americane. La moderazione di Trump nei confronti del Cremlino è d’altra parte dettata da una visione differente sulle priorità strategiche USA che vedono al primo posto non Mosca ma, appunto, Pechino.

A dare l’idea del clima che si respira negli Stati Uniti in merito ai rapporti con la Russia vale la pena citare infine l’ennesima accusa contro Mosca contenuta in una “rivelazione” del Washington Post, altra testata in prima linea nella crociata anti-Putin.

Venerdì scorso il giornale della capitale aveva pubblicato un articolo con un titolo allarmante che annunciava l’intrusione da parte di hacker al servizio del Cremlino nei sistemi informatici della rete elettrica americana attraverso un terminale di una compagnia operante in questo ambito nello stato del Vermont.

La notizia non aveva nessun fondamento, ma anche due dei politici più importanti dello stato del New England, il governatore Peter Shumlin e il senatore Patrick Leahy, entrambi Democratici, si erano lasciati andare ad accuse molto pesanti contro Putin.

Il Post ha dovuto alla fine pubblicare una rettifica, ammettendo che una versione precedente dell’articolo in questione attribuiva “erroneamente” la responsabilità dell’accaduto a hacker russi, dopo però che milioni di utenti avevano ormai letto il pezzo nella versione iniziale.

Quello che viene considerato come uno dei più autorevoli giornali americani non aveva nemmeno ritenuto necessario sentire sull’accaduto la compagnia elettrica pubblica del Vermont, la Burlington Electric. Poco dopo l’uscita dell’articolo sul sito web del Washington Post, quest’ultima aveva pubblicato un comunicato sul giornale locale Burlington Free Press per precisare che era stata semplicemente riscontrata la presenza di un “malware” su un singolo computer “non connesso alla rete elettrica” dello stato.

L’unica “prova” delle responsabilità di Mosca, almeno per il Post, era il solo fatto che il software dannoso sembrava provenire dalla Russia. Come hanno spiegato svariati esperti informatici sui media americani, ciò non dimostra evidentemente nulla, poiché un “malware” realizzato in Russia come altrove può essere acquistato on-line e utilizzato da chiunque in qualsiasi parte del mondo.


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