di Michele Paris

Lo scontro diplomatico virtualmente senza precedenti tra Olanda e Turchia è continuato nella giornata di lunedì con nuove misure e prese di posizione da parte di entrambi i governi dopo il durissimo scambio di accuse registrato nel fine settimana. Le tensioni di questi giorni si sono innestate su quelle già latenti tra la Turchia e l’Europa, a causa delle giravolte strategiche del presidente Erdogan, e sono state spinte fino al punto di rottura dai delicati appuntamenti elettorali che attendono entrambi i paesi nell’immediato futuro.

Com’è ormai noto, la rabbia di Ankara è esplosa dopo che il governo olandese aveva negato l’ingresso nel paese a due ministri turchi, quello degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, e quello della Famiglia, Fatma Betül Sayan Kaya, che avrebbero dovuto parlare ai propri connazionali espatriati per convincerli a votare “sì” nel referendum costituzionale voluto da Erdogan in programma il 16 aprile prossimo.

L’Aia aveva cancellato la manifestazione che a Rotterdam avrebbe dovuto ospitare Çavuşoğlu citando ragioni di ordine pubblico. Quando il ministro turco aveva fatto sapere di volere entrare ugualmente in Olanda, il governo di questo paese ha impedito l’atterraggio del suo aereo, ancora una volta motivando la decisione con la necessità di evitare scontri tra sostenitori e oppositori di Erdogan nella città portuale.

A questo punto, la reazione del presidente turco non si è fatta attendere. Erdogan ha sostanzialmente bollato come “nazisti” i leader olandesi, mentre il ministro Kaya decideva di entrare via terra in Olanda dalla Germania per parlare dal consolato turco di Rotterdam. Il governo del primo ministro Mark Rutte ha allora preso il drastico provvedimento di arrestare Kaya e di rimandarla in Germania.

Le proteste e le accuse di “nazismo” e “fascismo” indirizzate agli esponenti del governo olandese da parte di quello di Ankara si sono moltiplicate, assieme alle minacce di adottare sanzioni economiche nei confronti de L’Aia.

In Olanda, la vicenda è stata prevedibilmente sfruttata dal leader di estrema destra, Geert Wilders, il quale in una serie di “tweet” ha insultato pesantemente i turchi e il governo di Ankara, celebrando nel contempo come una vittoria la decisione di impedire l’ingresso nel suo paese ai ministri di Erdogan.

Domenica, il premier olandese Rutte aveva affermato di volere fermare l’escalation di tensioni con la Turchia, ma aveva però escluso di essere disposto a chiedere scusa a Erdogan per l’accaduto. Lunedì, poi, il ministero degli Esteri de L’Aia ha emesso un avviso ufficiale agli olandesi in Turchia, invitandoli a fare attenzione o a evitare del tutto i luoghi pubblici e quelli “affollati”.

Il vice-primo ministro, Lodewijk Asscher, ha invece rimandato al mittente l’accusa di nazismo, facendo notare come il governo turco stia facendo registrare “passi indietro” nell’ambito dei diritti umani. Ankara, a sua volta, sempre lunedì ha convocato per la terza volta in altrettanti giorni il “chargé d’affaires” olandese nella capitale turca per protestare il trattamento riservato al ministro rimandato in Germania e ai manifestanti turchi a Rotterdam.

A conferma delle implicazioni più ampie dell’incidente, altri governi europei sono intervenuti a sostegno dell’Olanda. In molti hanno annullato comizi con leader turchi previsti all’interno dei propri confini, mentre la cancelliera tedesca Merkel ha respinto come “del tutto inaccettabili” le accuse di nazismo lanciate da Ankara verso il governo olandese. Anche le autorità di varie città tedesche avevano d’altra parte cancellato recentemente alcuni eventi pubblici a favore del “sì” al referendum costituzionale turco, ai quali avrebbero dovuto partecipare esponenti del partito di Erdogan.

Questi comizi in territorio europeo hanno assunto sempre maggiore importanza per Erdogan, visto che il voto dei milioni di propri connazionali all’estero potrebbe risultare decisivo per l’approvazione di un referendum il cui esito appare in bilico. I provvedimenti dei governi europei e la crescente ostilità nei confronti del mondo musulmano sono stati a loro volta strumentalizzati da Ankara per raccogliere consensi a poche settimane dall’appuntamento con le urne.

Il progetto di riforma costituzionale promosso da Erdogan è senza dubbio profondamente reazionario, dal momento che minaccia di restringere ancor più gli spazi democratici in Turchia, consegnando di fatto al presidente poteri quasi assoluti. Ciononostante, le misure contro la libertà di espressione e lo stesso diritto internazionale da parte di governi come quello olandese o tedesco sono ugualmente anti-democratiche.

Esse non hanno nulla a che vedere con le tendenze semi-dittatoriali di Erdogan, come dimostrano ad esempio gli accordi da tempo siglati per fermare i rifugiati siriani, ma hanno il duplice scopo di alimentare una campagna ultra-reazionaria anti-islamica sul fronte domestico e di colpire un governo turco responsabile di avere voltato le spalle alla NATO e all’Occidente per riavvicinarsi alla Russia.

Per quanto riguarda l’Olanda, lo scontro di questi giorni arriva non a caso nell’immediata vigilia delle elezioni legislative di mercoledì che potrebbero assegnare la maggioranza relativa al Partito per la Libertà di estrema destra (PVV) di Wilders. Per contrastarne l’ascesa, il premier Rutte e il suo Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia di centro-destra (VVD) hanno da tempo cavalcato l’isteria anti-musulmana, nella speranza di sottrarre voti all’estrema destra e distogliere l’attenzione degli elettori dalle politiche anti-popolari del governo.

L’accesa disputa con la Turchia coinvolge ad ogni modo quasi tutti i governi europei ed è appunto il risultato del rimescolamento strategico degli ultimi mesi sulla spinta della guerra in Siria, ma anche dello spostamento verso oriente degli equilibri economici globali.

Dopo la presa d’atto della fallimentare politica siriana del governo turco, basata sull’appoggio a formazioni ribelli fondamentaliste per forzare il cambio di regime a Damasco, Erdogan ha operato una drastica inversione di rotta, riallacciando le relazioni con Mosca e mandando ai minimi storici quelle con gli alleati della NATO.

I rapporti con l’Europa e gli Stati Uniti si sono ulteriormente inaspriti dopo il fallito colpo di stato contro Erdogan dello scorso mese di luglio, secondo il governo di Ankara organizzato o quanto meno appoggiato proprio da Washington.

In questo quadro, è evidente che i governi occidentali auspichino una sconfitta di Erdogan nel referendum di aprile, in modo da favorire un’evoluzione degli scenari politici turchi che porti a un significativo indebolimento della posizione del presidente. Per fare ciò, da Berlino a L’Aia si sta cercando di privare Erdogan e la sua cerchia di potere di un palcoscenico importante in territorio europeo per promuovere le ragioni del referendum costituzionale.

Queste iniziative, tuttavia, oltre a essere di dubbia legalità e a non essere motivate da nessun autentico scrupolo democratico, rischiano sia di avere l’effetto contrario e di favorire Erdogan sia di contribuire ulteriormente all’avvelenamento del clima politico in Europa, favorendo l’ascesa dell’estrema destra alla vigilia degli appuntamenti elettorali che attendono vari paesi nelle prossime settimane.

di Mario Lombardo

Le elezioni legislative previste per mercoledì prossimo in Olanda sono il primo di una serie di appuntamenti con le urne in Europa che, nel corso del 2017, potrebbero cambiare radicalmente il volto non solo dei paesi interessati ma anche della stessa Unione. La relativa marginalità olandese ha perciò lasciato spazio quest’anno a un profondo interesse internazionale per l’esito del voto in questo paese, dove la variabile decisiva è rappresentata dal Partito per la Libertà di estrema destra (PVV) di Geert Wilders.

A lungo dato come probabile primo partito nella futura camera bassa del parlamento olandese, secondo i più recenti sondaggi il PVV sembra ora in declino, così che a raccogliere il maggior numero di seggi potrebbe essere nuovamente il Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia di centro-destra (VVD) dell’attuale primo ministro, Mark Rutte.

Se pure quello di Wilders dovesse diventare il primo partito olandese, è improbabile, anche se non del tutto da escludere, che quest’ultimo possa assumere la carica di primo ministro. Tutti o quasi i principali partiti si sono infatti detti non disponibili a entrare in un governo di coalizione con il PVV, mentre Wilders ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di allearsi con Rutte e il suo VVD.

Il risultato dell’estrema destra olandese sarà nondimeno osservato con estremo interesse fuori e dentro i confini del paese. Nell’immediato, un risultato solido o superiore alle attese potrebbe incoraggiare e dare un’ulteriore spinta al Fronte Nazionale (FN) in Francia, dove a Marine Le Pen vengono date ottime probabilità quanto meno di approdare al secondo turno di ballottaggio delle presidenziali che si terranno tra aprile e maggio.

L’affermazione del PVV, insomma, potrebbe accelerare un’ondata populista, xenofoba e anti-europeista che minaccia di travolgere le strutture europee già in gravissima crisi dopo il voto sulla “Brexit” e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.

L’avanzata della destra estrema non è ovviamente un fenomeno solo olandese o francese, come stanno dimostrando gli eventi politici di questi mesi, né esso è legato alle singole personalità di un Wilders o di una Le Pen. La minaccia che questi movimenti rappresentano e la loro capacità di intercettare consensi relativamente ampi tra la classe media e i lavoratori dei singoli paesi sono la diretta conseguenza delle politiche dei partiti tradizionali, sia di destra sia nominalmente di sinistra.

Il caso olandese non fa eccezione. La stampa internazionale si sta chiedendo in questi giorni come un paese che vanta un tasso di crescita economica tutto sommato sostenuto e un livello di disoccupazione appena superiore al 2% possa mostrare segnali di malessere tali da rischiare di ritrovarsi con un governo di estrema destra. La ragione offerta solitamente è quella di una popolazione sempre più ostile ai flussi migratori, così che questi sentimenti hanno finito per essere cavalcati dai partiti populisti e conservatori che vedono ora salire i propri indici di consenso.

In realtà, ciò che è accaduto sembra essere piuttosto il contrario. La destra e l’estrema destra hanno alimentato deliberatamente la presunta minaccia di immigrati e rifugiati, ovvero la parte più debole della società, in modo da distogliere l’attenzione degli elettori dai problemi e dalle contraddizioni di un sistema economico in declino e che non è più in grado di garantire il benessere relativamente diffuso dei decenni scorsi.

Anche in Olanda, d’altra parte, i governi che si sono succeduti fino a oggi hanno imposto tagli importanti al welfare o hanno accelerato la casualizzazione del mercato del lavoro, malgrado la generosità delle protezioni sociali rimanga superiore a quella che si registra ad esempio nei paesi dell’Europa meridionale. I partiti di estrema destra come il PVV olandese si sono così appropriati in maniera opportunistica della difesa delle classi più disagiate, laddove le formazioni tradizionali di sinistra hanno abbracciato il neo-liberismo economico.

Significativamente, lo stesso Wilders è passato dall’essere un convinto liberista quando faceva parte del VVD al populismo attuale. Il risicato programma elettorale del suo partito prevede, tra l’altro, l’abbassamento dell’età pensionabile, la riduzione dei contributi pagati dai singoli cittadini per i propri piani sanitari e l’aumento della spesa pubblica destinata all’assistenza per gli anziani. Il tutto accompagnato dalla chiusura di moschee e scuole islamiche, dalla messa al bando del Corano e dallo stop agli immigrati provenienti dai paesi musulmani.

A riassumere perfettamente il senso di disorientamento e di frustrazione nei confronti della classe politica tradizionale, assieme al vuoto della sinistra e agli effetti deleteri della retorica populista della destra estrema, sono ad esempio le parole di un’elettrice olandese raccolte e pubblicate nei giorni scorsi dalla rivista tedesca Der Spiegel.

La pensionata 66enne intervistata dal magazine tedesco sostiene di essere sempre stata un’elettrice del Partito Socialista olandese (SP), come lo erano quasi tutti i suoi ex colleghi di lavoro. I leader di questo partito sono considerati però ora dei “bugiardi”. Il governo è invece colpevole di avere “aumentato l’età di accesso alla pensione” e il suo assegno mensile è fermo da tempo. Inoltre, aggiunge la donna, ogni mese è costretta a “sborsare 151 euro per l’assicurazione sanitaria, mentre i musulmani ottengono tutto gratis”. Il suo voto mercoledì prossimo andrà ovviamente al PVV di Geert Wilders.

Nella realtà dei fatti, quella in atto in Olanda non è esattamente un’invasione di immigrati e rifugiati. Nel 2015, sugli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, l’Olanda ne ha ricevuti 43 mila, vale a dire circa la metà di quelli della Germania in proporzione al numero degli abitanti. Lo scorso anno, poi, la quota si è ulteriormente dimezzata in seguito all’accordo di Bruxelles con la Turchia per il controllo dei rifugiati provenienti dalla Siria.

La percezione della minaccia degli stranieri continua però a essere superiore alla realtà e ciò a causa principalmente del clima creato deliberatamente dai politici, non solo di estrema destra. La Reuters ha citato questa settimana un sondaggio Ipsos del 2016, secondo il quale gli olandesi credono in media che circa il 19% della popolazione del loro paese sia costituita da musulmani, mentre in realtà si aggira attorno al 5%.

Questa retorica anti-immigrati è stata sposata da tempo anche dai partiti centristi in Olanda. Uno studio condotto da un’organizzazione di avvocati olandesi ha recentemente concluso che i programmi di tutti e cinque i principali partiti che parteciperanno alle elezioni legislative contengono iniziative “apertamente discriminatorie”, illegali e contrarie alla costituzione.

Il partito del premier Rutte promette da parte sua un giro di vite sulle norme per l’immigrazione, l’aumento del periodo di residenza in Olanda necessario per ottenere la naturalizzazione, l’obbligo di avere un impiego e la conoscenza della lingua locale per i futuri immigrati, la revoca della cittadinanza per gli stranieri che commettono crimini.

Lo stesso capo del governo nel mese di gennaio aveva pubblicato una lettera aperta nella quale descriveva il “crescente disagio nei confronti di persone che si avvantaggiano delle nostre libertà per creare problemi”. Rutte affermava inoltre di condividere il parere degli olandesi che sostengono nei confronti degli immigrati: “se siete così fondamentalmente ostili al nostro paese, è meglio che ve ne andiate”.

La strategia del VVD di Rutte, ma anche di altri partiti “moderati”, appare simile a quella messa in atto in maniera fallimentare e drammaticamente controproducente anche in Francia dai Socialisti e dalla destra gollista per cercare di contrastare l’ascesa del Fronte Nazionale. Il tentativo è cioè quello di far proprie alcune proposte xenofobe e anti-democratiche in una corsa verso destra che non fa che legittimare e favorire i partiti estremisti.

Ad ogni modo, mercoledì prossimo i circa 13 milioni di olandesi con diritto di voto dovranno scegliere tra 28 partiti che si divideranno i 150 seggi messi a disposizione attraverso una legge strettamente proporzionale. La soglia di consensi che garantisce la rappresentanza nella camera bassa è dello 0,67% che tra gli 11 e i 15 partiti dovrebbero essere in grado di superare.

Attualmente, la maggioranza di governo è formata da una coalizione tra il VVD del premier Rutte e il Partito Laburista di centro sinistra (PvdA). Quest’ultimo è dato in netto calo, a causa delle politiche di destra che ha appoggiato negli ultimi cinque anni. Gli altri partiti di orientamento centrista che dovrebbero spartirsi il maggior numero di seggi e che potrebbero entrare in una coalizione di governo sono i Cristiano Democratici (CDA), i “social-liberali” Democratici 66 (D66) e l’Unione Cristiana (CU).

Tra le altre formazioni di centro-sinistra dovrebbero far segnare invece progressi i Socialisti (SP) e i Verdi (GL), il cui leader è il 30enne di origine marocchino-indonesiana, Jesse Klaver, il quale sta facendo campagna elettorale ricalcando le strategie di Obama e Bernie Sanders negli Stati Uniti.

Secondo consuetudine, il leader del partito che otterrà il maggior numero di voti dovrà cercare di mettere assieme una nuova maggioranza di governo, ma ciò avverrà difficilmente se a prevalere dovesse essere il PVV di Wilders. Al momento, Rutte sembra essere favorito per confermarsi alla guida del prossimo governo, anche se la composizione della futura maggioranza sarà tutta da verificare.

Quel che è certo è che, se anche Wilders rimarrà fuori dalle stanze del potere a L’Aia, la sua presenza continuerà a essere determinante e, anzi, dall’opposizione contribuirà con ogni probabilità a spostare ulteriormente a destra il panorama politico olandese e, forse, anche quello di altri paesi europei.

di Mario Lombardo

Dopo avere rivelato le operazioni di sorveglianza di massa condotte dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), WikiLeaks ha pubblicato martedì la prima parte di un archivio digitale della CIA che mostra come anche la principale agenzia d’intelligence USA sia in possesso di un’ampia gamma di strumenti per penetrare i dispositivi elettronici e come di questi ultimi faccia ampio uso senza il minimo scrupolo morale o legale. La prima tranche di oltre ottomila documenti della CIA è stata battezzata “Anno Zero” e il più ampio progetto di pubblicazione di informazioni riservate dell’agenzia di Langley va sotto il nome di “Vault 7”.

Nel comunicato stampa apparso sul sito di WikiLeaks viene spiegato che il vero e proprio arsenale di “malware” destinato alle operazioni di hackeraggio in mano alla CIA circola da tempo “in maniera non autorizzata” tra “contractors” e addetti ai lavori alle dipendenze del governo, uno dei quali ha deciso di condividere le informazioni con l’organizzazione di Julian Assange.

In breve, i documenti apparsi on-line martedì dimostrano come la CIA abbia a disposizione “malware, virus, trojan e sistemi per il controllo remoto” che le consentono, tra l’altro, di penetrare, raccogliere informazioni e controllare apparecchi come smartphone e tablet, ma anche televisori con connessione a internet e automobili di ultima generazione.

La divisione all’interno della CIA che si occupa di queste attività prende il nome di Center for Cyber Intelligence (CCI) e, grazie ai suoi cinquemila addetti, ha realizzato più di mille sistemi di hackeraggio. Oltre ai programmi sviluppati internamente, la CIA fa uso anche di “malware” già in circolazione oppure scoperti o realizzati da altre compagnie che operano nell’ambito della sicurezza informatica. Secondo WikiLeaks, la CIA “ha creato a tutti gli effetti la propria NSA”, ma con ancora meno trasparenza e vincoli legali.

La prima gravissima preoccupazione legata all’esistenza di queste operazioni è la violazione sistematica del diritto di qualsiasi individuo alla privacy e a non subire perquisizioni o requisizioni arbitrarie, sia pure di informazioni elettroniche. Ciò era vero anche per i programmi della NSA, i quali però sono almeno in parte “autorizzati” da un apparato pseudo-legale creato ad hoc che la CIA non è tenuta invece a rispettare.

L’altro aspetto allarmante, più volte sottolineato da WikiLeaks, ha a che fare con la possibilità che i programmi utilizzati dalla CIA per penetrare nei dispositivi si diffondano in rete ed entrino in possesso di truffatori e organizzazioni criminali. Per WikiLeaks, anzi, la CIA avrebbe già “perso il controllo della maggior parte del proprio arsenale di hackeraggio”.

Il reparto della CIA dedicato ai dispositivi mobili ha sviluppato numerosi sistemi per attaccare e controllare remotamente gli smartphone con i sistemi operativi iOS (Apple), Android e Windows. Un’altra rivelazione dimostra poi come il dibattito in corso da tempo negli USA sull’opportunità di consentire al governo l’accesso alle comunicazioni elettroniche criptate sia fuorviante e ormai di fatto superato. Se la CIA non sarebbe in grado di violare i sistemi crittografici previsti da programmi come WhatsApp, essa può comunque “bypassarli” e impossessarsi del dispositivo, riuscendo a leggere i messaggi scambiati dal suo possessore.

Il tipico modo di operare della CIA è spiegato dallo sfruttamento delle vulnerabilità dei software sviluppati dalle aziende produttrici dei dispositivi elettronici. Eventuali punti deboli di questi programmi vengono chiamati in gergo “zero giorni”, poiché, in seguito a una direttiva emanata dall’amministrazione Obama dopo le rivelazioni di Snowden, le agenzie governative americane che dovessero scoprirli si impegnano a informarne tempestivamente le stesse compagnie private in modo da consentire loro di porvi rimedio il prima possibile.

La CIA, però, è rimasta in silenzio sui buchi dei sistemi operativi di smartphone e tablet, così da poterli utilizzare per avere accesso ai dispositivi degli utenti, consentendo allo stesso tempo anche all’intelligence di altri paesi o a cyber-criminali di poterli sfruttare.

Ampio rilievo è stato dato dalla stampa di tutto il mondo al programma “Weeping Angel”, utilizzato per assumere il controllo delle “smart TV”. In maniera degna del “Grande Fratello” orwelliano, la CIA è infatti in grado di attaccare i televisori Samsung con connessione a internet. Una volta penetrati, questi dispositivi vengono messi apparentemente in modalità “spento”, ma in realtà un “malware” registra le conversazioni delle persone che si trovano nelle vicinanze e le invia a un server della CIA.

Uno dei documenti pubblicati da WikiLeaks rivela anche come l’agenzia di Langley nell’ottobre del 2014 discuteva della possibilità di hackerare i sistemi di controllo di automobili e altri mezzi di trasporto di recente costruzione. Lo scopo di simili operazioni non è spiegata in modo esplicito, ma WikiLeaks ipotizza ragionevolmente che ciò potrebbe servire a portare a termine assassini i cui responsabili sarebbe di fatto impossibile individuare.

A molti, questa capacità ha ricordato la vicenda del giornalista Michael Hastings, morto nel 2013 in seguito a uno strano incidente stradale a Los Angeles. Hastings aveva da poco pubblicato un articolo che aveva costretto alle dimissioni l’allora comandante delle forze di occupazione USA in Afghanistan, Stanley McChrystal, e stava lavorando a un profilo del direttore della CIA, John Brennan.

Nei giorni precedenti l’incidente fatale, il giornalista di Rolling Stone e BuzzFeed aveva confidato ad amici e colleghi di sentirsi sotto sorveglianza e che la sua auto era stata probabilmente manomessa. Molte teorie erano state proposte per spiegare l’incidente, ma alcuni esperti avevano affermato che la dinamica poteva far pensare a un hackeraggio del sistema informatico dell’auto su cui viaggiava Hastings.

Le attività di hackeraggio della CIA sono condotte infine non solo dal quartier generale di Langley, nello stato americano della Virginia, ma anche dal consolato USA di Francoforte, in Germania, mentre almeno una parte dei programmi vengono sviluppati in collaborazione con l’MI5, cioè il servizio segreto domestico britannico.

Agli agenti incaricati degli attacchi informatici di stanza in Germania vengono forniti passaporti diplomatici e la copertura del dipartimento di Stato. Nei documenti di WikiLeaks viene spiegato come gli hacker della CIA dovevano rispondere alle domande degli agenti della dogana tedesca dicendo di essere consulenti tecnici addetti al consolato americano di Francoforte.

Le ultime rivelazioni di WikiLeaks giungono nel pieno dello scontro tra il presidente Trump e i suoi oppositori sulla questione della presunta interferenza della Russia nelle elezioni presidenziali americane. Mentre in molti nel Partito Democratico e in quello Repubblicano continuano a invocare un’indagine ufficiale sul ruolo di Mosca e dei possibili legami tra l’entourage di Trump e il Cremlino, c’è da credere che nessuno a Washington chiederà di far luce sulle operazioni di sorveglianza ben più gravi della CIA.

Queste ultime sono state sviluppate e ampliate nell’ultima fase della presidenza Obama e sono perfettamente coerenti con l’espansione dei poteri dell’apparato della “sicurezza nazionale”, ma anche con l’intensificazione dell’impegno militare all’estero e l’erosione dei diritti democratici, che ha caratterizzato i due mandati dell’ormai ex inquilino della Casa Bianca.

Il sistema di sorveglianza di massa su cui ha fatto nuovamente luce questa settimana WikiLeaks, e che già aveva esposto Edward Snowden, è stato consegnato ora a una nuova amministrazione dalle inclinazione fasciste, la quale se ne servirà per accelerare ancor più le politiche reazionarie e anti-democratiche che hanno segnato gli Stati Uniti negli ultimi due decenni.

di Michele Paris

La penisola di Corea è da qualche settimana tornata al centro di delicate vicende internazionali che minacciano l’esplosione di un conflitto nel quale potrebbero essere facilmente coinvolte potenze nucleari come Cina e Stati Uniti. A riaccendere gli animi in Estremo Oriente è stato l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump e il suo immediato innalzamento dei toni nei confronti sia di Pechino sia di Pyongyang, da dove continuano a giungere segnali tutt’altro che distensivi in risposta al persistente senso di accerchiamento del regime stalinista di Kim Jong-un.

Le tensioni già alle stelle sono state alimentate direttamente da Washington nella giornata di martedì, quando è circolata la notizia dell’inizio dell’installazione in territorio sudcoreano del sistema antimissilistico americano THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”). Questo impianto è stato fortemente voluto dal governo USA e serve a intercettare missili balistici a corto e medio raggio. Ufficialmente, il sistema dovrebbe proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi del vicino settentrionale e la sua installazione è stata infatti accelerata in seguito ai recenti test missilistici condotti da Pyongyang.

In realtà, il THAAD rientra nel quadro della strategia americana anti-cinese nel continente asiatico o, meglio, nei preparativi di guerra in atto da tempo contro Pechino. Il governo di questo paese è perfettamente cosciente della minaccia che il THAAD in Corea del Sud rappresenta per la propria sicurezza, dal momento che esso ridimensionerebbe in modo significativo il potenziale militare cinese.

Da Pechino sono state esercitate parecchie pressioni su Seoul per far naufragare il progetto antimissilistico americano, sfruttando i legami economici sempre più intensi tra i due paesi. I media ufficiali cinesi hanno da parte loro orchestrato una campagna per boicottare le aziende e i prodotti coreani. In particolare, di recente era stata presa di mira la catena di supermercati Lotte, la quale aveva venduto al governo di Seoul il terreno che dovrebbe ospitare il THAAD. Un ex generale dell’esercito cinese, in un commento pubblicato sulla testata on-line Global Times, aveva addirittura ipotizzato un attacco militare mirato in territorio sudcoreano per mettere fuori uso il THAAD.

L’implementazione del sistema antimissile, anche se già negoziata dall’amministrazione Obama, era apparsa subito una priorità di Trump, tanto che il suo segretario alla Difesa, James Mattis, aveva raccomandato al governo sudcoreano di stringere i tempi nel corso di una visita a Seoul lo scorso mese di febbraio. Una portavoce del contingente militare americano in Corea del Sud ha confermato che il primo dei cinque componenti del THAAD è giunto nel paese asiatico lunedì, mentre saranno necessari un paio di mesi per rendere il sistema completamente operativo.

L’insistenza americana è dovuta anche alle preoccupazioni legate all’incerta situazione politica in Corea del Sud. Il processo di impeachment che sta coinvolgendo la deposta presidente, Park Geun-hye, potrebbe portare a elezioni anticipate e al potere di qui a pochi mesi l’attuale opposizione di centro-sinistra contraria all’installazione del THAAD.

L’annuncio dell’inizio dei lavori ha seguito di un solo giorno il lancio di quattro missili balistici da parte del regime nordcoreano, tre dei quali precipitati in mare all’interno della cosiddetta “zona economica esclusiva” del Giappone. L’iniziativa è stata prevedibilmente bollata come l’ennesima irresponsabile provocazione di Kim. In realtà, essa non è altro che la risposta del regime all’annuale esercitazione militare “Foal Eagle” tra Stati Uniti e Corea del Sud.

Queste manovre sono sempre più imponenti e minacciose di anno in anno e prevedono ormai quasi apertamente prove di aggressione “preventiva” contro la Corea del Nord. A ciò va aggiunta poi la notizia, pubblicata dal Wall Street Journal settimana scorsa, che l’amministrazione Trump starebbe valutando la stesura di piani militari per rovesciare il regime di Kim nel quadro della nuova strategia USA nei confronti di Pyongyang.

Di fronte a queste minacce, il comportamento della cerchia di potere nordcoreana appare meno irrazionale di quanto sostengano i governi e i media occidentali. Detto questo, è altrettanto evidente che il militarismo e le provocazioni di Kim non fanno altro che aggravare la situazione nella penisola coreana, visto che forniscono continue occasioni agli Stati Uniti per rafforzare la propria posizione nella regione e, soprattutto, per esercitare pressioni sulla Cina, unico vero alleato di Pyongyang.

In questo quadro va inserita anche la vicenda dell’assassinio del fratellastro del leader nordcoreano, Kim Jong-nam, all’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malaysia, con una sostanza tossica che gli è stata fatta inalare da due donne successivamente arrestate dalle autorità locali.

Il caso ha provocato un vero e proprio scontro diplomatico tra i due paesi, aggravatosi questa settimana dopo i provvedimenti adottati dai rispettivi governi. La Corea del Nord ha sempre respinto le conclusioni preliminari della Malaysia, chiedendo il corpo del fratellastro di Kim. Il governo malese è invece sulle tracce di sette cittadini nordcoreani che ritiene coinvolti nell’omicidio.

Tre di questi ultimi sarebbero ancora nel paese del sud-est asiatico e, secondo il governo malese, si troverebbero all’interno dell’ambasciata della Corea del Nord a Kuala Lumpur. Per questa ragione, la Malaysia ha deciso lunedì di espellere l’ambasciatore nordcoreano. A questa decisione è subito seguito un uguale provvedimento da parte di Pyongyang, anche se il primo rappresentate diplomatico malese in Corea del Nord era già stato richiamato in patria giorni fa.

Martedì, poi, il regime nordcoreano ha emesso un ordine di divieto di lasciare il paese per undici cittadini malesi, almeno fino a quando “l’incidente [dell’assassinio di Kim Jong-nam] non sarà risolto in maniera appropriata”. Il primo ministro malese, Najib Razak, ha reagito duramente alla misura decisa dalla Corea del Nord, accusando il regime di “tenere di fatto i nostri cittadini in ostaggio”.

In precedenza, le autorità della Malaysia avevano fatto sapere di avere aperto indagini su compagnie nordcoreane attive all’interno dei propri confini, gestite da spie e operanti clandestinamente nel traffico di armi. La Malaysia è uno dei pochi paesi, oltre alla Cina, ad avere rapporti cordiali con la Corea del Nord, ma le relazioni bilaterali si sono seriamente aggravate dopo la morte di Kim Jong-nam.

Molti aspetti dell’assassinio continuano a essere avvolti nel mistero e, al di là degli esecutori materiali, le ragioni che possono avere motivato un’operazione di questo genere sono difficili da individuare. La totale assenza di scrupoli del regime di Kim Jong-un potrebbe benissimo spiegare quanto accaduto all’aeroporto di Kuala Lumpur.

Il fratellastro del dittatore potrebbe essere stato ucciso perché rappresentava una potenziale alternativa “moderata” all’attuale regime, visto che in passato si era espresso, sia pure in modo prudente, a favore di un percorso “riformista” simile a quello cinese per il suo paese di origine. In particolare, Kim Jong-nam sembrava essere gradito da molti all’interno del governo di Pechino, il quale gli aveva garantito protezione nella sua vita da esule a Macao.

Anche se Kim Jong-nam aveva sempre escluso di essere interessato a svolgere un ruolo politico in Corea del Nord, la sua morte potrebbe essere un avvertimento, lanciato da Pyongyang a Pechino, a evitare qualsiasi trama volta a installare un regime più “responsabile” di quello attualmente al potere.

D’altro canto, è altrettanto evidente che un’operazione di questo genere comportava rischi non indifferenti, visto anche il momento estremamente delicato che la Corea del Nord sta attraversando dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. È difficile cioè credere che il regime non abbia considerato che l’assassinio in circostanze così clamorose del fratellastro di Kim, oltretutto in un paese “amico”, avrebbe suscitato una valanga di condanne internazionali, aumentando ancor più il cronico isolamento in cui si trova il paese.

Se le teorie cospirazioniste promosse principalmente proprio dalla Corea del Nord vanno prese quanto meno con cautela, il nuovo prevedibile putiferio scatenato su Pyongyang dalla morte di Kim Jong-nam ha contribuito ad alimentare il clima ostile verso il regime e a giustificare iniziative come quella dell’accelerazione dei lavori per l’installazione del sistema antimissilistico americano in Corea del Sud.

D’altra parte, subito dopo la diffusione della notizia dell’assassinio del fratellastro di Kim, i servizi segreti sudcoreani si erano affrettati ad annunciare che le responsabilità dell’operazione erano da attribuire al regime di Pyongyang. La presa di posizione era apparsa quanto meno sospetta, visto che le autorità malesi non si erano ancora espresse ufficialmente, e poteva sembrare un modo per far cadere qualsiasi ipotesi alternativa a quella proposta da Seoul.

Quale che sia la verità dietro ai fatti di Kuala Lumpur, essi sono stati comunque sfruttati da quanti si oppongono al regime nordcoreano e a quello cinese, così da aggravarne l’isolamento internazionale e contribuire a gettare le basi per la legittimazione di una possibile aggressione militare nel prossimo futuro.

di Michele Paris

Mentre il presidente americano Trump ha firmato nella giornata di lunedì un nuovo ordine esecutivo per tenere fuori dagli Stati Uniti i cittadini di sei paesi a maggioranza musulmana, l’eco delle polemiche sull’accusa rivolta a Obama di avere ordinato l’intercettazione delle sue comunicazioni telefoniche non si è ancora spenta.

Il nuovo capitolo dello scontro in atto tra la Casa Bianca e gli oppositori della nuova amministrazione è solo l’ultima delle situazioni virtualmente senza precedenti registrate nelle ultime settimane. Ciò è la dimostrazione degli effetti laceranti che continuano a produrre sulla classe dirigente degli Stati Uniti il declino della posizione internazionale della prima economia del pianeta e le posizioni divergenti in merito alle decisioni in materia di politica estera che dovranno essere prese nei prossimi mesi.

In maniera poco sorprendente, Trump non ha presentato nessuna prova del presunto ordine di sorveglianza ai suoi danni che l’ex presidente Democratico avrebbe sottoscritto prima delle elezioni del novembre scorso. Le accuse a Obama erano state espresse in alcuni tweet scritti da Trump sabato scorso e poi seguite dalla richiesta del suo portavoce, Sean Spicer, di un’indagine del Congresso nel quadro di quella già annunciata sui rapporti con il governo russo del presidente e di alcuni membri del suo staff.

Singolarmente, i media ufficiali negli Stati Uniti hanno criticato Trump a causa dell’assenza di prove a supporto delle sue accuse, nonostante la vera e propria caccia alle streghe in atto da mesi sull’interferenza russa nelle elezioni americane sia basata allo stesso modo su dichiarazioni e rapporti di esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale finora non confermati da nessun fatto concreto.

Vista la scarsa attitudine di Trump per la verità, è del tutto possibile che le recenti accuse a Obama siano un’invenzione per contrattaccare alle accuse sui suoi legami con Mosca. In molti hanno attribuito la mossa di Trump contro il suo predecessore al consigliere neo-fascista del presidente, Stephen Bannon. Ciò sembra avere una qualche attendibilità, anche perché il sito web di estrema destra che Bannon dirigeva prima di essere assunto da Trump, Breitbart News, il giorno prima dei già ricordati tweet del presidente aveva ipotizzato l’esistenza di un’operazione clandestina per sorvegliare l’allora candidato Repubblicano alla Casa Bianca.

L’inclinazione di Breitbart per le tesi cospirazioniste è ben nota, così come quella di altre fonti ultra-conservatrici che avevano ispirato l’articolo in questione. Tuttavia, alcuni dei precedenti che hanno fatto da sfondo alle accuse di svariate pubblicazioni di estrema destra contro Obama sono reali e sollevano più di un interrogativo.

Nel periodo precedente alle presidenziali, ad esempio, l’FBI aveva esaminato dei dati relativi a un “flusso di attività” tra un server usato dalla campagna di Trump e la banca russa Alfa Bank, i cui vertici, secondo i giornali americani, avrebbero stretti legami con il presidente Putin. Per questa indagine non ci sarebbero prove che l’FBI abbia ottenuto un mandato per intercettare il traffico di dati, anche se almeno una testata on-line di estrema destra lo aveva dato per certo.

Ancora, l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, generale Michael Flynn, era stato costretto alle dimissioni dopo che era emersa una discussione con l’ambasciatore russo a Washington sul possibile allentamento delle sanzioni imposte da Obama contro Mosca. Flynn era stato intercettato dall’FBI e, essendo implicato nella vicenda un membro di un governo estero, è estremamente probabile che in questo caso fosse stata richiesta e ottenuta un’autorizzazione al tribunale speciale per la sorveglianza (FISC).

Già a gennaio, inoltre, i britannici Guardian e BBC avevano citato due casi relativi ad altrettante richieste di sorveglianza da parte di agenzie federali ai danni di individui dell’entourage di Trump sospettati di avere legami con la Russia e perciò oggetto di indagini.

In definitiva, malgrado le smentite dei portavoce e di ex membri dell’amministrazione Obama, questi fatti indicano l’esistenza di un quadro investigativo, fatto anche di intercettazioni, diretto contro Trump e i suoi possibili rapporti con Mosca che non può fare escludere del tutto la possibilità che lo stesso attuale presidente sia stato tenuto sotto controllo dall’intelligence.

Coloro che respingono questa tesi fanno notare come non ci sia evidenza dell’iter legale che avrebbe portato al rilascio di un’autorizzazione specifica all’intercettazione. Tuttavia, visti i precedenti, prendere per buone le rassicurazioni sul fatto che Obama non abbia mai ordinato o avallato la sorveglianza di cittadini americani o che ciò non possa essere avvenuto in maniera illegale rappresenta un atto di estrema ingenuità. Soprattutto alla luce della gravità dello scontro che si sta verificando ai vertici dello stato americano.

La pesantezza del clima che si respira a Washington è risultata evidente anche domenica in seguito alla notizia che il direttore dell’FBI, James Comey, avrebbe chiesto, senza successo, al dipartimento di Giustizia di smentire le dichiarazioni di Trump sull’ordine di intercettazione di Obama. Anche il gesto del numero uno della polizia federale americana, così come quello del giorno prima di Trump, è stato estremamente insolito e sarebbe stato dettato dal timore che l’FBI venisse accusato di avere agito illegalmente.

Secondo il New York Times, i vertici dell’FBI non avevano inoltre richiesto nessun mandato per mettere sotto controllo i telefoni di Trump perché, se avessero fatto ciò, avrebbero “alimentato aspettative sul fatto che le autorità federali erano in possesso di prove significative” per collegare il presidente alla mai dimostrata campagna di Mosca volta a influenzare le elezioni. Prove che, evidentemente, nonostante il putiferio mediatico di queste settimane sembrano essere inesistenti.

Queste ultime vicende confermano ad ogni modo come la battaglia interna all’apparato di potere americano sia tutt’altro che risolta a meno di una settimana dall’intervento di Trump al Congresso che aveva generato commenti largamente positivi anche dai media che lo avevano attaccato sulla questione russa.

Già un paio di giorni dopo il discorso del presidente, il Washington Post era tornato infatti alla carica affermando che il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, prima delle elezioni dello scorso anno aveva incontrato in un paio di occasioni l’ambasciatore russo negli USA, senza informarne i membri della commissione del Senato incaricata di ratificare la sua nomina.

Sotto le pressioni della stampa, del Partito Democratico e di una parte di quello Repubblicano, Sessions aveva finito per chiamarsi fuori dall’indagine sulle presunte interferenze russe che dovrà condurre il suo dipartimento, smentendo di fatto un Trump che poco prima si era invece schierato a difesa del suo operato.

Le tensioni che stanno esplodendo negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca sono la manifestazione di un conflitto che si sta consumando attorno alle priorità strategiche di Washington. Gli oppositori del presidente, in particolare nel Partito Democratico e sui media “liberal”, stanno cercando di convogliare le fortissime resistenze contro un’amministrazione di estrema destra verso una campagna anti-russa di stampo “maccartista” per ragioni ben precise.

Da un lato, questi ultimi intendono dare voce agli ambienti militari e dell’intelligence che hanno investito enormemente nella demonizzazione e nell’offensiva contro gli interessi della Russia, considerata il principale ostacolo alle mire strategiche americane, ostacolando perciò qualsiasi riavvicinamento a Mosca. Dall’altro, l’obiettivo è quello di impedire che il movimento di protesta popolare contro Trump assuma caratteri progressisti, ma venga piuttosto imbrigliato in un’agenda ugualmente reazionaria e guerrafondaia.

Così facendo, continua a non esservi quasi traccia di una reale opposizione politica all’ondata di iniziative ultra-reazionarie già adottate o promesse dal neo-presidente in queste prime settimane del suo mandato alla guida degli Stati Uniti.


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