di Michele Paris

Con una parziale vittoria diplomatica sugli Stati Uniti, la Cina ha ottenuto lunedì lo stralcio di qualsiasi riferimento esplicito alla recente sentenza della Corte Arbitrale Permanente de L’Aja sulle contese nel Mar Cinese Meridionale dal tradizionale comunicato congiunto emesso durante il summit dei dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), in corso questa settimana in Laos.

Questo gruppo di paesi, le cui economie sommate costituirebbero la settima potenza del pianeta, è da tempo esposto alle pressioni di Washington e Pechino per orientarne le deliberazioni secondo i rispettivi interessi strategici. L’ASEAN è diventata in sostanza uno dei terreni di scontro tra USA e Cina, con i primi che cercano di portare le dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale al centro delle discussioni di un forum multilaterale, mentre la seconda continua a prediligere la soluzione delle controversie su un piano esclusivamente bilaterale.

Come già era accaduto nei vertici ASEAN degli ultimi anni, anche in questa occasione le sedute sono state caratterizzate da accese trattative che hanno visto gli inviati di Washington e Pechino impegnati a convincere i delegati dei paesi membri a sostenere le loro posizioni.

L’incontro di Vientiane, la capitale del Laos, ha assunto un’importanza diplomatica particolare, essendo il primo di questa organizzazione a tenersi dopo la già citata opinione del tribunale internazionale che, in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), ha accolto in buona parte la causa intentata dalle Filippine contro la Cina.

Proprio il governo di Manila, assieme al Vietnam, cioè l’altro paese maggiormente disposto a seguire la linea provocatoria degli Stati Uniti nel sud-est asiatico, aveva spinto per convincere gli altri membri dell’ASEAN a produrre un comunicato ufficiale che facesse riferimento alla sentenza, fermamente respinta dalla Cina, e alla necessità di rispettarne il contenuto

Gli alleati di Pechino - il Laos e, ancor più, la Cambogia - hanno però sostenuto le posizioni della Cina e, visto che il comunicato ufficiale del vertice deve essere approvato all’unanimità, da quest’ultimo è alla fine rimasto fuori ogni riferimento diretto alla sentenza del Tribunale ONU.

La dichiarazione dell’ASEAN ha soltanto espresso preoccupazione per le attività in corso nel Mar Cinese Meridionale, senza tuttavia condannare la Cina, come volevano gli Stati Uniti. I dieci membri hanno poi riaffermato l’impegno nel “mantenere e promuovere la pace, la stabilità, la sicurezza e la libertà di navigazione e sorvolo nel Mar Cinese Meridionale”, assieme all’auspicio di migliorare la “fiducia reciproca”, nonché l’invito ad agire con moderazione ed “evitare azioni che possano complicare ulteriormente la situazione”.

Nel comunicato si chiede infine l’implementazione del cosiddetto “Codice di comportamento”, ovvero un meccanismo, condiviso dalla Cina, per gestire e risolvere in maniera pacifica le emergenze e i disaccordi derivanti dalle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale.

L’amministrazione Obama non è dunque riuscita nemmeno in questa circostanza a ottenere una presa di posizione netta contro la Cina da parte dell’ASEAN. Washington intendeva utilizzare un’eventuale condanna per mostrare alla comunità internazionale che le proprie politiche di contenimento e accerchiamento della Cina non rispondono a una logica unilaterale, ma sarebbero la naturale risposta alle aspirazioni di pace e stabilità dei paesi della regione.

In realtà, è precisamente l’inserimento degli USA nelle annose dispute territoriali che caratterizzano il Mar Cinese Meridionale, così come quello Orientale, ad avere infiammato una situazione che per decenni non aveva fatto segnare particolari problemi. Dopo avere lanciato ufficialmente la propria “svolta” asiatica, gli Stati Uniti hanno da un lato sollecitato i loro alleati ad assumere atteggiamenti sempre più aggressivi nei confronti di Pechino, mentre dall’altro hanno intrapreso la strada dell’escalation militare, sia siglando accordi per il posizionamento di forze aeree e navali in pianta più o meno stabile in vari paesi sia conducendo pattugliamenti altamente provocatori all’interno delle acque o degli spazi aerei reclamati dalla Cina.

Le ripetute condanne da parte americana sono rivolte inoltre alla militarizzazione e alle costruzioni cinesi nelle isole e atolli contesi nel Mar Cinese Meridionale, mentre attività simili, sia pure su scala ridotta, da parte di altri paesi, come il Vietnam o le Filippine, vengono puntualmente ignorate, nonostante la dichiarata imparzialità di Washington sulle dispute territoriali.

L’intenzione degli Stati Uniti è comunque quella di dividere i paesi del sud-est asiatico dalla Cina, a costo, come si è visto questa settimana in Laos, di compromettere la stabilità dell’area e lo stesso funzionamento di un organo caratterizzato tradizionalmente dal pacifico consenso interno come l’ASEAN.

Clamoroso fu ad esempio l’esito del summit in Cambogia nel 2012, quando, soprattutto a causa dell’intervento americano, per la prima volta dalla nascita dell’organizzazione nel 1967, i paesi membri non furono in grado di accordarsi su un comunicato ufficiale congiunto.

Malgrado l’impossibilità di ottenere una condanna aperta della condotta cinese in Laos, gli sforzi degli Stati Uniti per umiliare Pechino non cesseranno. Il segretario di Stato, John Kerry, è giunto in Laos lunedì, dove ha avuto discussioni con vari leader dei paesi ASEAN per fare pressioni a seguire le indicazioni americane nel prossimo futuro.

Ancora più chiaro era stato settimana scorsa il vice-presidente, Joe Biden, nel corso di una visita in Australia e Nuova Zelanda. Il numero due della Casa Bianca era stato protagonista di discorsi minacciosi, ribadendo la volontà di Washington di continuare a mantenere una massiccia presenza in Estremo Oriente, al di là del prossimo occupante della Casa Bianca, e invitando i due alleati a partecipare più attivamente alle provocazioni anti-cinesi messe in atto dalle forze navali e aeree americane.

La portata destabilizzante delle attività diplomatiche e militari in quest’area del pianeta sta mettendo in seria difficoltà molti paesi, soprattutto quelli che intendono attuare una politica estera equilibrata e mantenere relazioni cordiali con USA e Cina. La crescente rivalità tra le due potenze e il costante declino della posizione internazionale degli Stati Uniti renderanno però sempre più complicato il mantenimento di posizioni caute, viste le pressioni esercitate da Washington.

Un esempio delle conseguenze si potrebbe osservare proprio all’interno dell’ASEAN, le cui divisioni già esistenti rischiano di trasformarsi in vere e proprie spaccature. Come ha spiegato una recente analisi del Wall Street Journal, le frustrazioni degli USA e dei loro alleati per non essere riusciti a ottenere una dichiarazione di condanna della Cina hanno fatto circolare la proposta di cambiare le modalità di voto, abbandonando l’unanimità a favore di una semplice maggioranza per l’approvazione di risoluzioni e comunicati ufficiali.

Ciò potrebbe indebolire in maniera seria un’associazione che, inevitabilmente, sulla spinta delle rivalità tra Washington e Pechino, finirebbe per vedere la formazione di blocchi contrapposti, favorevoli all’una o all’altra delle prime due potenze economiche del pianeta.

di Michele Paris

Ormai da parecchi anni, la scelta del candidato alla vice-presidenza negli Stati Uniti è sempre meno legata al bisogno di facilitare la conquista di un determinato stato nelle elezioni di novembre o di intercettare il consenso di un determinato gruppo sociale e razziale. Il senso delle decisioni degli aspiranti alla Casa Bianca di entrambi i principali partiti americani, come conferma la scelta del senatore della Virginia, Tim Kaine, da parte di Hillary Clinton, ha a che fare piuttosto con la necessità di consolidare le loro ambizioni alla guida del paese di fronte a determinate sezioni dei rispettivi partiti o, nel caso della ex first lady, all’apparato della sicurezza nazionale e al mondo degli affari.

Già governatore del suo stato e sostenitore della prima ora della campagna di Hillary, Kaine fa parte a tutti gli effetti della destra del Partito Democratico. La sua scelta rappresenta perciò uno schiaffo all’ex rivale Bernie Sanders e, soprattutto, ai sostenitori di quest’ultimo, illusi di ricevere una qualche concessione in senso progressista, ancorché soltanto esteriore, in cambio dell’appoggio ufficiale del senatore del Vermont alla sua rivale nelle primarie.

Scorrendo il curriculum politico di Tim Kaine, si deve faticare per intravedere un voto al Congresso, un’iniziativa o una posizione che ricordi anche lontanamente qualcosa di “sinistra”. L’etichetta di “progressista” applicata al suo nuovo “running mate” da Hillary in un comizio sabato sera a Miami non ha perciò alcun riscontro nella realtà dei fatti.

Al di là delle considerazioni dei media ufficiali negli USA a proposito di una decisione basata sulle presunte garanzie di affidabilità o sulla capacità di raccogliere il voto degli elettori bianchi e di quelli indipendenti, il ruolo di Kaine è principalmente quello di mandare un ulteriore messaggio ai poteri forti americani circa l’orientamento di un’eventuale presidenza Clinton.

Non che la disposizione dell’ex segretario di Stato sia mai stata in discussione. Tuttavia, le pressioni di Sanders e la necessità di assicurarsi il voto dei milioni di elettori Democratici che nelle primarie lo avevano preferito a Hillary poteva lasciare teoricamente aperta la possibilità di un’agenda non del tutto appiattita a destra.

Un segnale alla sinistra del partito in questo senso avrebbe potuto arrivare dalla scelta di un candidato “liberal”, come la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Invece, Hillary ha optato per un solido “centrista” i cui precedenti non lasciano molti dubbi. La candidata Democratica alla Casa Bianca aveva addirittura considerato un vice-presidente ancora più gradito all’establishment militare e dell’intelligence, come l’ex comandante supremo della NATO in Europa, generale James Stavridis.

Il nome di quest’ultimo era circolato nei giorni scorsi ma la sua scelta sarebbe stata probabilmente interpretata come un aperto affronto a Sanders e alla maggior parte degli elettori Democratici. La situazione tra la leadership del partito pro-Clinton e la base è oltrettutto già sufficientemente tesa, in particolare dopo la pubblicazione settimana scorsa di circa 20 mila e-mail del Comitato Nazionale Democratico da parte di WikiLeaks, in molte delle quali veniva discusso di come indebolire Bernie Sanders durante le primarie e favorire Hillary.

Le inclinazioni di Tim Kaine sono in ogni caso inequivocabili e rivelano gli indirizzi di una possibile amministrazione Clinton. Molto vicino e ben visto da Wall Street, il senatore della Virginia ha presieduto da governatore in questo stato a tagli alla spesa pubblica per svariati miliardi di dollari tra il 2006 e il 2010.

Kaine è poi un fermo sostenitore della deregolamentazione dell’industria finanziaria. Solo qualche giorno prima di essere nominato ufficialmente candidato alla vice-presidenza, Kaine, assieme ad altri senatori, aveva indirizzato due lettere - una alla numero uno della Fed americana, Janet Yellen, e l’altra all’agenzia federale deputata alla protezione dei clienti del settore finanziario - per chiedere un’implementazione meno stringente delle regolamentazioni previste per le banche medio-piccole.

Nemmeno in materia di politica estera vi sono particolari differenze tra Kaine e Hillary. Anche il primo chiede da tempo un impegno militare ancora maggiore degli Stati Uniti in Medio Oriente, mentre appoggia in pieno le provocazioni nei confronti di Russia e Cina, rispettivamente in Europa orientale e in Estremo Oriente. Come Hillary, Kaine aveva appoggiato la cosiddetta Partnership Trans Pacifica (TPP), il controverso trattato di libero scambio che intende promuovere il capitale USA tra una decina di paesi asiatici e del continente americano, prima di dichiarasi contrario vista l’avversione ad esso degli elettori Democratici.

Anche sui temi sociali Kaine può essere considerato oggettivamente conservatore, se non reazionario. Di fede cattolica, l’ex governatore della Virginia è contrario all’aborto, anche se assicura di voler difenderne il diritto previsto dalla legge. Al contrario, della pena capitale si dice oppositore ma, essendo essa prevista nel suo stato, da governatore ha ratificato numerose condanne a morte.

Molti sostenitori “liberal” di Hillary Clinton temono che la scelta di Kaine possa alienare ancor più gli elettori Democratici che si erano mobilitati nelle primarie per Bernie Sanders. Inoltre, i malumori di questi ultimi potrebbero essere sfruttati dal candidato Repubblicano alla presidenza.

Donald Trump ha infatti già attaccato la coppia di rivali, ricordando anche i guai legali di Kaine, in passato finito sotto accusa  per avere accettato “regali” del valore di 160 mila dollari da aziende e ricchi uomini d’affari con interessi in Virginia, stato dove era stato non solo governatore ma in precedenza anche vice-governatore.

A Kaine era stato in realtà riconosciuto di non avere violato alcuna legge, ma questi precedenti potrebbero comunque fornire ai Repubblicani l’occasione per attaccare il “ticket” presidenziale Democratico, già gravato dalla percezione degli elettori, del tutto corretta, della scarsa integrità morale di Hillary Clinton.

di Mario Lombardo

L’assegnazione ufficiale della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali di novembre a Donald Trump è avvenuta martedì sera a Cleveland nell’atmosfera quanto mai appropriata di una convention che ha dato libero sfogo alle tendenze più retrograde e reazionarie di una politica e di una società americane in stato di profondissima crisi.

Il miliardario di New York è riuscito alla fine a scongiurare tutti i tentativi di quanti all’interno del partito intendevano ostacolare la sua nomina a candidato alla Casa Bianca, nonostante il record di consensi ottenuto durante le primarie. Il conteggio dei voti espressi dai delegati riuniti nella città dell’Ohio ha però mostrato le forti resistenze alla scelta di Trump. Il numero dei contrari alla nomination del candidato Repubblicano che correrà quest’anno per la presidenza degli Stati Uniti è stato infatti il più alto dal 1976, quando a Kansas City Gerald Ford sconfisse di misura Ronald Reagan.

Anche per coloro che hanno una qualche esperienza nelle convention dei due principali partiti americani, cioè notoriamente eventi che offrono spesso uno spettacolo degradante, il livello toccato da quella Repubblicana in corso è oggettivamente difficile da commentare.

Non solo i delegati del partito hanno consegnato la nomination per la prima volta a un candidato dalle inclinazioni apertamente fasciste, ma praticamente tutti gli interventi sul palco della convention sono stati all’insegna della celebrazione dell’autoritarismo, dell’ultra-liberismo, del razzismo e del presunto “eccezionalismo” statunitense.

Se la desolazione di Cleveland è la manifestazione di un processo che ha visto da almeno tre decenni lo spostamento a destra della classe politica americana, è opportuno domandarsi, visti gli scenari odierni, cosa ne sarà, anche a livello soltanto formale, dei rimanenti principi democratici negli USA in caso di una presidenza Trump o che spazio resterà per questi ultimi tra quattro o otto anni.

Visti i discorsi dei vari leader Repubblicani e il clima della convention, dunque, è apparso meno sorprendente che a correre per la presidenza sia un individuo come Donald Trump. In un panorama segnato dalle esplosive tensioni sociali, generate da un sistema che tende ad ampliare sempre più la forbice tra i super-ricchi e il resto della popolazione, e dalla crescente indifferenza della classe dirigente americana per i meccanismi della democrazia rappresentativa, il degno rappresentante del Partito Repubblicano non può che essere un uomo d’affari miliardario che incarna la natura corrotta e fondamentalmente criminale del capitalismo a stelle e strisce.

La stagione elettorale 2016 e l’epilogo della competizione interna tra i Repubblicani segnano insomma una tappa cruciale nella degenerazione della “democrazia” negli Stati Uniti. Con buona pace di quanti, soprattutto a destra, vedono l’emergere di Trump come un’anomalia transitoria in un sistema tutto sommato sano.

I suoi successi nelle primarie non sono stati peraltro casuali né dovuti alla sua notorietà derivata dall’ampia esposizione mediatica di cui gode da decenni. Di fronte a una schiera di candidati che erano l’emanazione dell’establishment Repubblicano, Trump ha saputo intercettare un malessere radicato tra gli elettori americani, in buona parte bianchi e di reddito medio-basso.

Trump ha in definitiva riconosciuto la situazione di crisi dell’economia e della posizione internazionale degli Stati Uniti, prospettando una visione populista che contrasta, almeno a parole, con il sistema di governo consolidato e promettendo la salvaguardia dei programmi di assistenza sociale, la creazione di posti lavoro nell’industria, lo stop all’immigrazione clandestina e il relativo ridimensionamento degli impegni militari all’estero.

Le problematiche sollevate da Trump sono effettivamente sentite dagli americani e gli hanno permesso di trionfare contro un partito che ha abbandonato da tempo ogni pretesa anche esteriore di difendere interessi che vadano al di là di quelli dei super-ricchi. Le frustrazioni raccolte da Trump vengono in ogni caso convogliate in una direzione completamente reazionaria, evidente da alcune delle proposte avanzate in campagna elettorale. Tristemente nota è ad esempio la costruzione di un muro lungo tutto il confine con il Messico, ma anche l’espulsione dagli USA di 11 milioni di immigrati clandestini, lo stop all’ingresso nel paese di chiunque professi la fede islamica e l’autorizzazione alle torture negli interrogatori di presunti terroristi.

Alcune delle proposte di Trump sono finite per entrare nella piattaforma del Partito Repubblicano approvata dalla convention a inizio settimana. Nel documento spiccano iniziative come l’abbattimento del carico fiscale che grava sulle aziende, il sostanziale smantellamento delle rimanenti regolamentazioni al business statunitense, la drastica riduzione del programma pubblico di assistenza sanitaria per i redditi più bassi, Medicaid, e la trasformazione di quello riservato agli anziani, Medicare, in semplici sussidi per l’acquisto di polizze private.

Ancora, il programma Repubblicano include la costruzione del muro per ostacolare l’immigrazione da sud, teoricamente a spese del governo messicano, mentre minaccia di rendere illegale l’aborto, respinge la legalizzazione dei matrimoni gay, definisce la pornografia come una “crisi sanitaria pubblica” e il carbone come una fonte di “energia pulita”.

Dalle implicazioni inquietanti è inoltre la sezione dedicata alla politica estera degli Stati Uniti. In sostanza, tutto il mondo dovrebbe sottomettersi agli interessi del capitalismo americano e, in particolare, vengono enunciate posizioni estremamente rigide nei confronti di Cina, Russia, Iran e Siria, nonostante in varie occasioni Trump abbia prospettato rapporti più distesi, ad esempio, con Mosca.

Come già anticipato, il Partito Repubblicano è ben lontano dall’essere integralmente allineato al proprio candidato alla Casa Bianca. Alcune personalità invitate a parlare alla convention hanno lasciato trasparire le differenze con Trump e gli imbarazzi provocati dalla presenza di quest’ultimo alla guida del “ticket” presidenziale.

Uno degli esempi più evidenti delle divisioni interne al partito è stato il discorso dello “speaker” della Camera del Rappresentanti di Washington, Paul Ryan. Il candidato alla vice-presidenza con Mitt Romney nel 2012 ha parlato più che altro della propria visione per il futuro degli Stati Uniti, praticamente senza nessun riferimento a Trump. I due leader Repubblicani hanno opinioni parzialmente diverse su varie questioni, con Trump che, soprattutto per ragioni elettorali, non ha finora sposato le idee “riformistiche” di Ryan in materia di spesa pubblica.

Trump, in ogni caso, ha cercato di placare gli animi attorno alla sua candidatura scegliendo settimana scorsa come candidato alla vice-presidenza un politico legato all’ala conservatrice del partito. Il governatore dell’Indiana ed ex deputato, Mike Pence, ha messo in atto nel suo stato misure discriminatorie nei confronti degli omosessuali e ha reso più complicato l’accesso all’aborto, mentre durante la sua permanenza al Congresso ha appoggiato le guerre degli Stati Uniti all’estero e svariati provvedimenti anti-immigrazione.

La qualità principale di Pence è però quella di avere stretti legami con la rete dei ricchi finanziatori del partito, a cominciare dai multi-miliardari ultra-conservatori fratelli Koch, finora decisamente cauti nell’elargire fondi proprio a causa della presenza di Donald Trump.

di Michele Paris

L’aspetto più indicativo del fallito colpo di stato contro il presidente Erdogan in Turchia è forse il momento scelto dagli ambienti ribelli delle forze armate per mettere in atto il loro piano. Il tentativo di rovesciare il governo eletto di Ankara è giunto cioè a poche settimane da quella che è sembrata essere a tutti gli effetti l’inaugurazione di un cambio di rotta strategico deciso da Erdogan dopo le drammatiche conseguenze della disastrosa politica estera degli ultimi anni e osservabile principalmente nel ritorno a rapporti cordiali con la Russia di Putin.

Tra le svariate ipotesi circolate sul web e sulla stampa internazionale attorno alle origini del tentato golpe, la più vicina alla realtà è probabilmente quella del contributo degli Stati Uniti, o quanto meno di sezioni dell’intelligence americana, al progetto di presa del potere dei militarti turchi.

Oltre alla ormai nota reazione estremamente fredda del segretario di Stato, John Kerry, nelle ore seguite alla notizia del golpe, è stata quella del governo di Ankara a dare la netta impressione dello strappo tra i due paesi alleati a causa del possibile ruolo giocato da Washington nei fatti di venerdì notte.

Il più esplicito era stato il ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Suleyman Soylu, il quale sabato scorso aveva appunto accusato gli USA di essere dietro al colpo di stato. Solo un po’ più moderate erano state invece le dichiarazioni del primo ministro, Binali Yildirim, intenzionato da subito a collegare la sollevazione all’influente predicatore turco Fehtullah Gulen, arcinemico di Erdogan, nonché uomo della CIA, in esilio negli Stati Uniti.

Il governo turco è giunto a bollare come nemico della Turchia qualsiasi paese assicuri protezione a Gulen, per il quale Ankara starebbe preparando una richiesta di estradizione da presentare a Washington. Richiesta che gli USA respingerebbero peraltro quasi certamente per non privarsi di uno strumento che garantisce una certa influenza sulle vicende interne alla Turchia.

Ancora più significative sono state le misure prese da Erdogan sul fronte militare e che hanno rappresentato un chiaro messaggio agli Stati Uniti. Il governo turco, una volta ripreso il controllo della situazione, aveva di fatto tagliato fuori gli USA dalle proprie armi atomiche, custodite nella base aerea di Incirlik nell’ambito del cosiddetto programma di “condivisione nucleare” della NATO.

Ciò è avvenuto in seguito alla decisione di imporre una no-fly zone sui cieli della Turchia e di tagliare le forniture di energia elettrica alla base, il cui comandante, generale Bekir Ercan Van, sarebbe poi finito agli arresti in quanto coinvolto nel tentato golpe.

Il risentimento di Washington, ma anche di Berlino e Bruxelles, nei confronti di Erdogan è apparso decisamente più forte rispetto alla condanna dei ribelli che hanno tentato di sovvertire gli equilibri democratici in Turchia. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, politici e commentatori hanno infatti lanciato avvertimenti al presidente turco, invitandolo al rispetto del diritto e dei principi democratici dei militari golpisti.

La cancelliera Merkel ha minacciato lo stop alle discussioni in corso sull’ingresso nell’Unione Europea se la Turchia dovesse ripristinare la pena di morte per punire i responsabili della rivolta, mentre Kerry ha addirittura ipotizzato l’espulsione dalla NATO di Ankara in caso di mancato rispetto dei principi di democrazia che sarebbero alla base dell’Alleanza.

Alla luce dello scarso interesse per il rispetto anche solo delle formalità democratiche, se esse ostacolano i loro interessi, com’è accaduto ad esempio in Ucraina, i governi occidentali, a cominciare da quello americano, hanno inteso in realtà inviare un messaggio al presidente Erdogan che ha a che fare quasi esclusivamente con questioni strategiche.

Se il golpe potrebbe essere stato un tentativo per impedire una svolta strategica che minaccia il deterioramento dei rapporti tra l’Occidente e un paese cruciale per gli equilibri euroasiatici, allo stesso modo gli avvertimenti indirizzati ad Ankara nei giorni successivi alla fallita rivolta servirebbero a far capire a Erdogan che un’eventuale riallineamento strategico del suo paese a favore di Russia, Iran e forse anche Siria, non resterebbe senza conseguenze.

I media americani in questi giorni sono letteralmente inondati da commenti e analisi sulla Turchia che manifestano forti preoccupazioni per il futuro dei rapporti tra questo paese e gli Stati Uniti. In molti hanno dunque correttamente identificato il tentato golpe come una sorta di spartiacque nelle relazioni tra Ankara e l’Occidente.

La stampa ufficiale e i governi sollevano le questioni strategiche però solo marginalmente, mentre provano a far credere che le ansie della classe politica di Washington o Berlino siano legate alle tendenze autoritarie di Erdogan, accentuate dai provvedimenti adottati o minacciati contro i rivoltosi, trascurando il fatto che la deriva autoritaria era già evidente da tempo.

Per il presidente turco, il colpo di stato rientrato nella nottata di venerdì ha rappresentato effettivamente un’occasione per accelerare il consolidamento del potere nelle sue mani, ma questo processo era già in atto e a uno stadio avanzato. Piuttosto, i fatti dello scorso fine settimana potrebbero costituire lo scenario ideale per lanciare il mutamento degli indirizzi di politica estera di cui si è parlato in precedenza.

La portata delle implicazioni di questa svolta sono tali da mandare brividi lungo la schiena dei leader politici e militari di Washington, Berlino e Bruxelles. Innanzitutto, il ristabilimento di normali relazioni diplomatico-energetico-commerciali con Mosca mettono potenzialmente a repentaglio la strategia occidentale di contenimento della Russia. I riflessi di ciò si potranno ad esempio osservare sul fronte delle forniture di gas all’Europa, facendo saltare gli sforzi di emarginazione delle compagnie energetiche russe dal mercato continentale, ma anche su quello mediorientale.

Qui, è inutile sottolineare le preoccupazioni americane per le conseguenze che potrebbero esserci sui progetti legati alla Siria, mirati in sostanza alla rimozione del regime di Assad, ovvero l’unico alleato di Mosca nella regione. D’altra parte, la serietà degli sforzi di Erdogan nel cercare la distensione con la Russia sarà testata dalla disponibilità a mettere fine ai legami a dir poco ambigui intrattenuti dalla Turchia con i gruppi fondamentalisti che combattono contro Damasco, incluso lo Stato Islamico (ISIS).

Già una settimana fa, in un’apparizione televisiva il premier Yildirim aveva affermato di essere sicuro che i rapporti con la Siria sarebbero tornati alla normalità. Le dichiarazioni sarebbero state parzialmente corrette in seguito ma difficilmente l’uscita può essere considerata casuale.

Un’evoluzione di questo genere, da parte di un paese che ha svolto un ruolo fondamentale nel finanziamento e nel supporto logistico all’opposizione armata in Siria, rappresenterebbe perciò un colpo mortale per i disegni americani in Medio Oriente.

La svolta strategica di Erdogan rischia così di trasformarsi in una nuova clamorosa sconfitta per un’amministrazione Obama che, a pochi mesi dall’uscita di scena, nel proprio fascicolo dedicato alla politica estera ha dovuto registrare una lunga serie di fallimenti e operazioni disastrose.

Le ragioni del guastarsi dei rapporti tra Washington e Ankara e la conseguente distensione tra Erdogan e Putin sono dovute non solo alla presa di coscienza da parte turca delle conseguenze rovinose delle proprie iniziative per tentare di incidere sugli equilibri regionali. A influire sono state anche e soprattutto le scelte degli Stati Uniti che hanno in sostanza generato caos e destabilizzazione, principalmente in seguito alla decisione di sostenere una finta rivoluzione in Siria per effettuare il cambio di regime attraverso il sostegno a forze di matrice jihadista.

A tutto ciò va aggiunto poi il sostegno americano alle formazioni curde siriane, di fatto le uniche in grado di combattere efficacemente l’ISIS, ma considerate dalla Turchia l’equivalente del PKK che opera sul proprio territorio. I successi dei curdi siriani sono perciò visti dal governo di Ankara come una minaccia alla sicurezza nazionale, visto che la creazione di una provincia autonoma oltre il confine meridionale potrebbe alimentare simili aspirazioni anche in Turchia.

Il possibile allontanamento di quest’ultimo paese dagli Stati Uniti e dall’Europa si preannuncia ad ogni modo come un processo tutt’altro che lineare, tanto più che Ankara resta uno dei pilastri del sistema militare della NATO. Il riallineamento strategico ai confini sud-orientali dell’Europa sembra essere però un dato di fatto e il golpe sventato sul nascere venerdì notte ne ha forse accelerato le dinamiche. Quali saranno le conseguenze è difficile prevedere, ma gli Stati Uniti, costretti a incassare l’ennesimo rovescio in Medio Oriente, difficilmente assisteranno da spettatori passivi alle vicende della regione nell’immediato futuro.

di Michele Paris

L’attesa pubblicazione di una parte finora classificata del rapporto del Congresso americano sugli eventi dell’11 settembre 2001 ha riportato in questi giorni l’attenzione sul ruolo del regime dell’Arabia Saudita negli attacchi o, per meglio dire, nel facilitarne l’organizzazione grazie al supporto materiale assicurato ad alcuni degli attentatori. Nonostante le 28 pagine messe a disposizione del pubblico venerdì scorso fossero state tenute sotto chiave da 13 anni, nella sostanza esse non fanno però che confermare ipotesi e prove concrete già note da tempo.

Per questa ragione, in molti si sono interrogati sulle vere ragioni che hanno portato alla diffusione di questa porzione del rapporto e, soprattutto, sulle responsabilità più ampie nei fatti che hanno cambiato radicalmente il corso della storia degli Stati Uniti e dell’intero pianeta.

Il primo aspetto da considerare è il tempismo della pubblicazione del documento in questione, arrivata non solo nel pomeriggio del venerdì che ha segnato l’inizio della lunga pausa estiva del Congresso, ma all’indomani della strage di Nizza, la quale ha comprensibilmente monopolizzato l’attenzione dei media. Come se non bastasse, il giorno successivo il tentato colpo di stato in Turchia ha ulteriormente emarginato la notizia sul rapporto relativo al ruolo saudita nell’11 settembre.

Singolari e per molti incomprensibili sono state poi le dichiarazioni dell’amministrazione Obama, di alcuni membri del Congresso e dello stesso governo di Riyadh. Tutti hanno affermato che le 28 pagine del rapporto finalmente accessibili alla lettura confermerebbero l’estraneità dell’Arabia Saudita agli attentati del 2001 o, quanto meno, l’assenza di prove schiaccianti a carico dei vertici della monarchia assoluta del Golfo Persico.

In realtà, anche una lettura superficiale conferma esattamente il contrario e offre, secondo la definizione offerta da vari giornali negli USA, “prove circostanziali” del coinvolgimento di uomini legati al regime saudita negli attentati dell’11 settembre. Individui facenti parte del governo saudita hanno cioè fornito assistenza logistica e finanziaria ad almeno alcuni degli attentatori, di cui 15 su 19 erano appunto cittadini del Regno.

Per il presidente della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, Devin Nunes, le informazioni contenute nelle 28 pagine del rapporto non sarebbero comunque “conclusioni accertate”, bensì indizi non provati su cui l’intelligence USA avrebbe fatto in seguito piena luce.

Vista l’ovvia sensibilità della vicenda, è semplicemente ridicolo sostenere che gli “indizi” contenuti nella parte del rapporto sull’11 settembre dedicato all’Arabia Saudita non siano sufficienti nemmeno a far scattare un’indagine approfondita sul ruolo di questo paese. La decisione di insabbiare le responsabilità saudite, sia da parte dell’amministrazione Bush sia di quella guidata da Obama, che per oltre sette anni ha tenuto nascoste le 28 pagine del rapporto, è dunque interamente politica e dettata dalla necessità di occultare le responsabilità di un alleato fondamentale in Medio Oriente, ma anche, di riflesso, quelle dello stesso governo americano.

Per comprendere questa realtà, assieme al livello di ipocrisia della classe politica USA, è sufficiente immaginare quale sarebbe stata la reazione a Washington se nella posizione dell’Arabia Saudita ci fosse stato l’Iran o l’Iraq di Saddam Hussein. Lo stesso fatto di dedicare una parte del rapporto specificatamente al regno saudita e a nessun altro paese suggerisce dove gli Stati Uniti, che com’è noto invasero l’Afghanistan poco dopo gli attacchi dell’11 settembre, avrebbero dovuto se mai guardare per colpire i responsabili o i mandanti.

Le 28 pagine appena declassificate iniziano in maniera inequivocabile, affermando che “mentre si trovavano negli USA, alcuni dirottatori dell’11 settembre erano in contatto con, e avevano ricevuto supporto da, individui che potevano essere legati al governo dell’Arabia Saudita”. Secondo l’FBI, alcuni di questi “individui” erano agenti dell’intelligence saudita.

Tra i nomi che emergono dal rapporto vi è quello di Omar al-Bayoumi, uno degli agenti segreti del regno sunnita attivi in territorio americano. Bayoumi era in stretto contatto con due futuri attentatori, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Midhar, fin dal loro arrivo a San Diego all’inizio del 2000.

Ai due membri di al-Qaeda di nazionalità saudita, Bayoumi fornì denaro e aiuto nel trovare un alloggio in California, dove avrebbero poi preso lezioni di volo. Bayoumi, sempre secondo il rapporto del Congresso, riceveva uno stipendio per un lavoro che non svolgeva da una compagnia collegata al ministero della Difesa saudita. La somma passata a Bayoumi era salita vertiginosamente proprio in seguito all’arrivo di Hazmi e Midhar negli USA.

Non solo, la moglie di Bayoumi riceveva 1.200 dollari ogni mese dalla consorte dell’allora ambasciatore saudita negli Stati Uniti, Bandar bin Sultan, successivamente capo dell’intelligence del Regno e talmente vicino alla famiglia Bush da conquistarsi il soprannome di “Bandar Bush”.

La moglie di Bandar elargiva un fisso mensile, questa volta attorno ai duemila dollari, anche alla moglie di un altro agente saudita citato dal rapporto, Osama Bassnan, il quale, come scriveva l’FBI, già nel 1998 aveva incassato un assegno da 15.000 dollari direttamente dall’ambasciatore saudita.

Per il governo americano, Bassnan era un “estremista e sostenitore di Osama bin Laden”, ma nel 2000 viveva nella stessa strada di San Diego dove avevano trovato un appartamento i due attentatori citati in precedenza. Bassnan sembra avesse messo in contatto questi ultimi con un pilota di aerei in California, con cui avrebbero discusso di come “imparare a pilotare un Boeing”.

Tra le notizie più interessanti contenute nel rapporto c’è anche il riferimento a una rubrica telefonica appartenuta ad Abu Zubaydah, esponente operativo di al-Qaeda tuttora detenuto a Guantanamo. In essa erano riportati i numeri di telefono, non disponibili pubblicamente, di compagnie che si occupavano del servizio di sicurezza presso la residenza in Colorado dell’ambasciatore Bandar e di una guardia del corpo dell’ambasciata saudita a Washington.

Saleh al-Hussayen è un altro cittadino saudita indagato dall’FBI e citato nel rapporto del Congresso. Hussayen lavorava per il ministero dell’Interno di Riyadh e si trovava nientemeno che nello stesso hotel della Virginia dove alloggiavano tre dei dirottatori, tra cui Hazmi e Midhar, la notte prima degli attentati dell’11 settembre. Durante un successivo interrogatorio con agenti dell’FBI, Hussayen simulò un malore e, dopo alcuni giorni in ospedale, avrebbe lasciato indisturbato gli Stati Uniti.

Le informazioni contenute nelle 28 pagine non esauriscono le indagini condotte dall’FBI e da altre agenzie federali americane sul ruolo dell’Arabia Saudita nella preparazione degli attacchi del 2001. Ad esempio, come aveva rivelato recentemente la stampa USA, lo stesso FBI sarebbe in possesso di 80 mila documenti segreti sull’argomento, attualmente al vaglio di un giudice federale in Florida che presiede a una causa intentata da tre reporter che ne chiedono la pubblicazione.

In queste carte potrebbero esserci ulteriori dettagli scottanti sul contributo di uomini legati al regime saudita ai fatti dell’11 settembre. L’aspetto decisivo della vicenda consiste però nel fatto che le 28 pagine appena pubblicate, così come l’intero rapporto sugli attentati, occultano deliberatamente le responsabilità del governo e dei servizi segreti americani.

Ciò appare evidente, ad esempio, nel caso dei dirottatori Hazmi e Midhar, in relazione ai quali si citano gli appoggi ottenuti negli USA grazie a esponenti dell’intelligence saudita. Nulla viene detto invece sulle responsabilità americane che consentirono l’ingresso negli Stati Uniti ai due uomini di al-Qaeda dopo l’atterraggio del loro volo a Los Angeles il 15 gennaio del 2000.

Hazmi e Midhar erano infatti noti alla CIA, la quale chiese alle autorità della Malaysia di tenerli sotto sorveglianza durante un meeting tra membri di al-Qaeda organizzato a Kuala Lumpur ai primi giorni del 2000. Dopo il vertice nella capitale malese, ai due futuri attentatori fu consentito di organizzare il loro viaggio in California tramite un’organizzazione yemenita che la CIA sapeva fungere da supporto logistico per al-Qaeda.

Questi e altri episodi che hanno facilitato l’ingresso negli USA degli attentatori dell’11 settembre sono stati in seguito ricondotti puntualmente a “errori” o “sviste” della CIA e delle altre agenzie che operano nell’ambito della sicurezza nazionale. Gli stessi “errori” hanno rappresentato anche in anni più recenti la giustificazione ufficiale proposta in seguito ad attentati terroristici condotti da individui ben noti all’intelligence americana, come nel caso delle bombe alla maratona di Boston nell’aprile del 2013.

A ben vedere, il moltiplicarsi di indizi e rivelazioni simili dopo il 2001 ha sollevato fortissimi dubbi sul ruolo del governo americano, non solo negli ambienti del cospirazionismo. Le ultime informazioni rese pubbliche grazie alle 28 pagine del rapporto del Congresso sull’11 settembre  descrivono ad esempio attività condotte da agenti sauditi che, visti anche i legami con Riyadh, è difficile credere avvenissero a totale insaputa dell’intelligence USA.

Queste perplessità sono alimentate anche dall’insistenza con cui vengono messe in luce le responsabilità saudite negli attentati da parte di esponenti politici negli Stati Uniti che, nonostante l’immagine propagandata dalla stampa ufficiale, a fatica possono essere considerati “outsider”.

Tra i più noti sono l’ex senatore Democratico della Florida, Bob Graham, e l’ex segretario della Marina, il Repubblicano John Lehman, entrambi già membri della commissione d’inchiesta sull’11 settembre. I due sono spesso citati da coloro che continuano a ritenere ci sia un’altra verità dietro l’11 settembre, anche se per altri la loro presenza nello schieramento di coloro che contestano la versione ufficiale sarebbe precisamente la conferma dell’esistenza di ben altre responsabilità di quelle attribuite all’Arabia Saudita.

In altre parole, l’insistenza sulla necessità di far luce sul ruolo dei sauditi potrebbe servire a sviare qualsiasi indagine proprio sul comportamento dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti che avrebbe facilitato gli attentati del 2001. L’interpretazione a cui conducono le 28 pagine è esattamente quella della collaborazione nell’organizzazione degli attacchi di elementi del regime saudita, quanto meno in maniera indipendente se non sotto gli ordini dei vertici del Regno.

In questa prospettiva, gli Stati Uniti, che hanno tutt’al più mancato di vigilare a sufficienza sulla sicurezza del paese, sarebbero stati vittime di terroristi senza scrupoli e di un alleato che, nella migliore delle ipotesi, non ha saputo tenere sotto controllo alcune mele marce al proprio interno.

Se la recente pubblicazione dell’ultima parte del rapporto sull’11 settembre che era ancora segreto non ha spazzato via le nubi sui tragici fatti di quasi 15 anni fa, quel che è certo è che la verità non potrà mai venire a galla nel quadro di un sistema di potere che, sia pure non sapendo ancora in che misura, ha responsabilità dirette negli attentati e, soprattutto, grazie a essi ha potuto mettere in atto i propri piani strategici su scala globale allo studio da tempo che nulla hanno a che vedere con la “guerra al terrore”.


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