di Michele Paris

Nella giornata di giovedì, il primo ministro giapponese Shinzo Abe è stato il primo leader di un paese straniero a incontrare di persona il presidente eletto degli Stati Uniti. Nonostante la confusione che ha caratterizzato la preparazione logistica del faccia a faccia, dovuta al caos in cui versa il processo di transizione verso la Casa Bianca in atto, la scelta di Donald Trump di dare udienza al premier nipponico prima di qualsiasi altro leader mondiale è tutt’altro che casuale e risponde soprattutto all’apprensione diffusasi rapidamente a Tokyo in seguito al risultato delle presidenziali americane di martedì scorso.

Abe era già stato tra i primissimi capi di stato o di governo a parlare con Trump nelle ore immediatamente successive alla sua vittoria su Hillary Clinton. I due avevano stabilito di incontrarsi a New York il prima possibile, in modo da permettere ad Abe di verificare di persona la predisposizione verso il suo paese del neo-presidente, protagonista in campagna elettorale di uscite non esattamente confortanti per la classe dirigente giapponese.

Nei pochi discorsi tenuti in campagna elettorale sulle questioni di politica estera, il populismo di Trump si era scagliato, tra gli altri, anche sull’alleato nipponico. Ad esempio, l’allora candidato Repubblicano non aveva usato giri di parole per accusare il governo di Tokyo di “manipolare” la propria valuta, al fine di favorire le esportazioni. Inoltre, Trump aveva minacciato di ritirare le truppe americane dal Giappone o di privare l’alleato asiatico dello scudo nucleare di Washington a meno che quest’ultimo non avesse accettato di contribuire maggiormente alle spese militari sostenute dagli USA.

Trump si era anche spinto a ipotizzare che il Giappone e la Corea del Sud avrebbero dovuto creare il proprio arsenale nucleare, in modo da provvedere per conto loro alla difesa da ipotetiche minacce cinesi o nordcoreane. Particolare ansia aveva generato inoltre negli ambienti di governo in Giappone l’opposizione di Trump al trattato di libero scambio TPP (Partnership Trans Pacifica), su cui Abe aveva puntato per rivitalizzare l’economia del suo paese.

Il probabile naufragio del TPP dopo l’elezione di Trump sta avendo un fortissimo impatto sul governo Abe, poiché il primo ministro aveva speso buona parte del suo capitale politico per farlo digerire al business giapponese, in particolare a quello rurale che rappresenta la tradizionale base di potere del suo Partito Liberal Democratico (LDP).

La promessa di congelare il TPP corrisponde all’orientamento protezionistico ostentato da Trump, anch’esso temuto da Tokyo, dal momento che l’applicazione di eventuali tariffe doganali finirebbe per penalizzare fortemente le aziende giapponesi, per le quali gli Stati Uniti sono il terzo mercato delle loro esportazioni, dopo Cina e Unione Europea.

I timori provocati da queste prese di posizione di Trump, sommati alle speranze frustrate per una vittoria di Hillary Clinton che appariva quasi certa, hanno prodotto a Tokyo una lunga serie di dichiarazioni volte ad affermare il vincolo che lega Giappone e Stati Uniti, ma anche a garantire la disponibilità del governo Abe a lavorare in armonia con la nuova amministrazione Repubblicana.

Lo stesso Abe, prima di lasciare Tokyo per Washington questa settimana, ha ribadito alla stampa domestica che l’alleanza con gli Stati Uniti è il “fondamento” della diplomazia e della sicurezza del Giappone. Un consigliere del primo ministro aveva poi detto alla Reuters che quest’ultimo avrebbe ricordato a Trump “l’importanza dell’alleanza nippo-americana”, non solo per i due paesi ma “per l’intera regione indo-pacifica” se non, addirittura, per gli equilibri del pianeta.

Questo stesso consigliere del premier giapponese giovedì ha anche sostenuto di avere incontrato vari uomini dell’entourage di Trump a partire da lunedì a New York, dove era stato inviato per preparare l’incontro con Abe, e tutti lo avrebbero invitato a non prendere alla lettera le dichiarazioni sulla politica estera rilasciate in campagna elettorale dal presidente eletto.

Anche i consiglieri di Trump, se pure non si sono espressi ufficialmente sulla direzione che potrebbero prendere i rapporti con i tradizionali alleati americani, alla vigilia della trasferta newyorchese del primo ministro giapponese hanno anticipato per lo più in forma anonima alla stampa che il neo-presidente intende riaffermare l’impegno a lungo termine degli USA in Asia orientale.

Tutte queste rassicurazioni sembrano suggerire uno stato d’animo tutt’altro che disteso, soprattutto a Tokyo, e lasciano appunto intuire come la classe dirigente giapponese sia in agitazione per i possibili riflessi di una svolta isolazionista di Washington dopo i proclami e le iniziative asiatiche in funzione anti-cinese dell’amministrazione Obama.

Se, a ben vedere, la traiettoria del governo Abe in questi anni ha delineato un percorso potenzialmente indipendente nei confronti degli Stati Uniti, attraverso l’impulso al militarismo o, ad esempio, il tentativo di dialogo con la Russia, una simile evoluzione è tutt’al più ipotizzabile in un lontano futuro. Per ora, le élites nipponiche continuano a vedere nella partnership con gli Stati Uniti il mezzo imprescindibile per la promozione dei propri interessi.

Per una parte di esse, come sta accadendo in altri paesi del continente asiatico, la forza di attrazione della Cina è tuttavia enorme e, pur aborrendo un qualsiasi sganciamento da Washington, vi sono voci che auspicano un atteggiamento più equilibrato nei confronti di Pechino, vista l’importanza dei legami economici, finanziari e commerciali.

A queste tendenze Abe ha probabilmente fatto riferimento in maniera obliqua durante un recente intervento di fronte alla speciale commissione per il TPP della camera alta del Parlamento di Tokyo (Dieta). Il primo ministro ha avvertito che la morte del trattato guidato dagli Stati Uniti determinerebbe un drammatico riorientamento delle priorità commerciali - e, di conseguenza, strategiche - del Giappone.

Tokyo potrebbe cioè considerare prioritari i negoziati per la ratifica della cosiddetta Partnership Economica Globale Regionale (RCEP), ovvero un trattato di libero scambio considerato alternativo al TPP da cui sono esclusi gli USA e che include i paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) più Cina, Australia, India, Corea del Sud, Nuova Zelanda e, appunto, Giappone.

Senza dubbio, Abe avrà spiegato questa ipotesi a Trump nel corso del loro incontro di giovedì, così come il premier giapponese avrà ricordato le implicazioni di un eventuale disimpegno, sia pure relativo, degli Stati Uniti in Asia, a cominciare dall’occupazione da parte della Cina degli spazi lasciati liberi da Washington.

Le iniziative concrete che l’amministrazione entrante a Washington metterà in atto in questo come in altri ambiti saranno comunque da verificare, anche a seconda della scelta degli uomini che condurranno la politica estera americana, ma è legittimo immaginare che gli elementi di conflitto tra i due alleati, rivelatisi solo a tratti negli ultimi anni e a causa soprattutto dell’impronta ultra-nazionalistica del governo Abe, possano intensificarsi durante la presidenza Trump.

Ciò potrebbe portare a un rimescolamento degli scenari strategici in un’area cruciale del pianeta, oggetto di sforzi significativi ma spesso infruttuosi da parte dell’amministrazione Obama, dando con ogni probabilità ancora maggiori spazi di manovra anche agli elementi più estremi e destabilizzanti all’interno della destra di governo giapponese.

di Michele Paris

Il delicato processo di transizione che dovrebbe portare Donald Trump alla Casa Bianca e alla sostituzione dei membri dell’amministrazione Obama con quelli nominati dal presidente eletto, sembra essere già precipitato in piena crisi soltanto alcuni giorni dopo la chiusura delle urne. L’inesperienza politica del miliardario di New York, assieme alla necessità di premiare i suoi più fedeli sostenitori e di dare un’impronta marcatamente populista - se non apertamente fascista - al governo entrante, hanno contribuito a generare il caos e ad alienare una parte dell’establishment Repubblicano che lo ha sempre visto con estremo sospetto.

In maniera insolita e a conferma del carattere eccezionale dell’elezione di Trump, le manovre di questi giorni sono sfociate in una serie di licenziamenti e dimissioni all’interno del team incaricato della gestione della transizione del neo-presidente.

La prima “purga” era arrivata venerdì scorso con la rimozione improvvisa dall’incarico di capo della transizione del governatore del New Jersey, Chris Christie, rimpiazzato dal vice-presidente, Mike Pence. Questa decisione è stata dettata in parte dai problemi di immagine di Christie, ritenuto sempre meno utilizzabile nella nuova amministrazione dopo il coinvolgimento nello scandalo della chiusura al traffico di un ponte, che collega il suo stato a New York, come ritorsione contro alcuni sindaci di città del New Jersey che non lo avevano sostenuto nella rielezione a governatore.

Soprattutto, però, i giornali americani hanno assegnato la responsabilità dell’allontanamento di Christie al genero e consigliere di Trump, Jared Kushner, coinvolto nel processo di transizione. Da procuratore federale, nel 2005 Christie aveva infatti aveva ottenuto la condanna a due anni di carcere del padre di quest’ultimo, il costruttore Charles Kushner, per evasione fiscale.

A fare le spese della possibile vendetta del marito della primogenita di Trump, Ivanka, sono stati così anche altri membri della squadra del presidente eletto vicini a Christie, tra cui l’ex deputato Repubblicano del Michigan, Mike Rogers, già indicato come possibile candidato alla direzione della CIA.

Consiglieri e consulenti vari, estromessi dalle attività che dovrebbero sfociare nella nomina dei membri del prossimo gabinetto e di migliaia di altre cariche nei dipartimenti che lo compongono, fanno capo anche alla precedente amministrazione Repubblicana di George W. Bush o, in generale, alla corrente “moderata” del Partito Repubblicano.

Diffusamente citata dalla stampa è stata ad esempio la vicenda di Eliot Cohen, ex consigliere del dipartimento di Stato all’epoca di Condoleezza Rice, ostile a Trump durante la campagna elettorale ma mostratosi disposto a collaborare dopo il voto. Le raccomandazioni di Cohen allo staff del neo-presidente sarebbero state respinte bruscamente, tanto da spingerlo a consigliare pubblicamente ai Repubblicani che condividevano il suo giudizio critico su Trump di “stare lontani” dalla nascente amministrazione.

Se il processo di transizione è dunque ancora in alto mare, gli scossoni di questi giorni hanno spinto ancora più a destra sia la squadra di Trump sia i candidati ad assumere posizioni di spicco nel nuovo governo. L’esempio più lampante è quello del possibile futuro segretario di Stato americano, carica per la quale sarebbero favoriti l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite, John Bolton.

Quest’ultimo, in particolare, sarebbe una scelta inquietante, visti i suoi precedenti al dipartimento di Stato sotto la presidenza Bush, durante la quale si distinse come uno dei principali architetti dell’invasione dell’Iraq, mentre a tutt’oggi continua a promuovere l’adozione di misure estreme, inclusa l’aggressione militare, nei confronti dell’Iran.

L’eventuale nomina di individui come Giuliani o Bolton per la carica di primo diplomatico degli Stati Uniti prospetta anche una marcia indietro di Trump dalle promesse di mettere fine agli interventi militari dell’ultimo decennio. Sia Giuliani sia soprattutto Bolton sono infatti accesi sostenitori dell’interventismo USA nel mondo e il primo, nel candidarsi apertamente al posto occupato oggi da John Kerry, ha mostrato un atteggiamento bellicoso verso la Russia e di avere tutta l’intenzione di continuare a fare della “guerra al terrore” la principale priorità della prossima amministrazione.

Le speranze dei Repubblicani moderati e di quanti auspicano un approccio relativamente cauto agli scenari internazionali risiedono per il momento in una possibile nomina a segretario di Stato del senatore del Tennessee, Bob Corker, ma alcuni giornali americani hanno rivelato che Trump sarebbe orientato ad escluderlo dalla rosa dei candidati. Giuliani e Bolton restano comunque scelte problematiche, visti i loro precedenti, e il timore di provocare scontri o polemiche al Senato, incaricato di confermare i membri della nuova amministrazione, lascia ancora aperti i giochi per questa nomina cruciale.

Gli orientamenti di Trump in politica estera sono probabilmente oggetto di accese discussioni in casa Repubblicana e negli ambienti di potere che fanno capo in particolare alla corrente “neo-con”. Il senatore dell’Arizona, John McCain, è stato tra quelli che hanno espresso pubblicamente queste preoccupazioni, ammonendo in questi giorni Trump a non allentare le pressioni su Putin e il governo russo.

In ogni caso, a dare la misura della deriva reazionaria che si prospetta negli Stati Uniti, Giuliani e Bolton non sono nemmeno le personalità più estreme coinvolte nelle manovre in atto per l’avvicendamento alla Casa Bianca. La nomina più preoccupante annunciata finora da Trump è piuttosto quella di Stephen Bannon, ex Goldman Sachs e numero uno del sito di estrema destra Breitbart News, scelto come “capo stratega” del presidente.

A Bannon era stata affidata la direzione della campagna elettorale di Trump nel mese di agosto, suscitando già una valanga di polemiche per le sue posizioni apertamente razziste e anti-semite. Il suo possibile ingresso alla Casa Bianca in una posizione che avrà profonda influenza sul presidente americano fa intravedere fin da ora gli orientamenti della nuova amministrazione Repubblicana.

La nomina di Bannon, compensata in maniera trascurabile da quella a capo di gabinetto del “centrista” Reince Priebus, già segretario nazionale del partito, appare significativa. L’agenda ultra-reazionaria che essa prospetta sembra non essere giustificata dal mandato ottenuto da Trump, vista la bassa affluenza alle urne e ancor più la conquista da parte di Hillary Clinton del voto popolare con un margine superiore al milione.

La sicurezza con cui Trump e il suo entourage hanno proceduto con la scelta di Bannon, così come con la selezione di candidati ugualmente di estrema destra per gli incarichi di governo, deriva anche dal singolare atteggiamento dei leader Democratici  dopo l’elezione di martedì scorso.

A parte la richiesta del leader uscente di minoranza al Senato, Harry Reid, di ritirare la nomina di Bannon, da Hillary a Obama, da Bernie Sanders alla “icona liberal” Elizabeth Warren, le personalità più influenti del partito di opposizione hanno tenuto finora posizioni generalmente accomodanti nei confronti di Trump. Molti di questi ultimi si sono detti disponibili a collaborare con la nuova amministrazione, chiudendo di fatto gli occhi sulla natura reazionaria che essa inevitabilmente avrà. Un atteggiamento, questo, che lascia intendere come i vertici Democratici temano molto di più una rivolta popolare contro un governo di tendenze fasciste che la nascita e il consolidamento di quest’ultimo.

Trump, da parte sua, continua a proiettare sicurezza nonostante le difficoltà. Mercoledì il presidente eletto è tornato a parlare su Twitter per garantire che la transizione sta procedendo senza problemi e per attaccare i giornali “liberal”, colpevoli a suo dire di diffondere notizie false sullo scontro in atto all’interno della sua squadra.

di Michele Paris

Ad alimentare le preoccupazioni occidentali per i riflessi che potrebbero avere sulla politica estera USA le possibili tendenze isolazioniste di Donald Trump, sono arrivati nel fine settimana i risultati del voto per le presidenziali in due paesi dell’Europea orientale - Bulgaria e Moldavia - considerati di importanza strategica fondamentale in chiave di contenimento della Russia di Putin. A Sofia e a Chisinau, sia pure senza sorprese, si installeranno infatti due presidenti considerati decisamente meglio disposti nei confronti di Mosca rispetto ai loro predecessori e ai governi attualmente in carica.

Se in molti sui media occidentali hanno caratterizzato le elezioni di Bulgaria e Moldavia come la conferma delle mire espansionistiche del Cremlino sugli ex satelliti sovietici, l’esito delle consultazioni di domenica è solo la logica conseguenza delle disastrose politiche economiche e di confronto con la Russia promosse da Washington e Bruxelles in questi ultimi anni.

In Bulgaria, il ballottaggio per la scelta del nuovo presidente ha confermato il risultato del primo turno, con il candidato appoggiato dal Partito Socialista di opposizione (BSP), Rumen Radev, in grado di ottenere il 59% dei consensi contro appena il 36% della sfidante, Tsetska Tsacheva, del partito di governo GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria).

Radev, presentatosi al voto come indipendente, è un ex pilota e comandante dell’aeronautica bulgara con precedenti di studio  negli Stati Uniti. In campagna elettorale aveva auspicato un approccio più moderato nei confronti della Russia, dicendosi favorevoli alla cancellazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea in seguito all’annessione della Crimea.

Allo stesso tempo, il neo-presidente bulgaro si era impegnato a mantenere il suo paese nella NATO e a non rompere i rapporti con i partner occidentali. Complessivamente, nel quadro dei poteri relativamente limitati della carica di presidente, l’obiettivo di Radev è quello di mantenere la Bulgaria in bilico tra Occidente e Russia, nel tentativo di ricavare i maggiori vantaggi possibili per il paese balcanico. Proprio facendo riferimento all’elezione di Trump alla Casa Bianca e alla promessa distensione con Mosca di quest’ultimo, il neo-presidente bulgaro ha detto domenica di confidare in un abbassamento dei toni tra Stati Uniti e Russia.

L’allineamento di Sofia all’Unione Europea sulla questione dei rapporti con Mosca è costato d’altra parte caro alla Bulgaria sia in termini economici, basti pensare alla cancellazione del progetto per la costruzione del gasdotto South Stream, sia di stabilità politica, considerando soprattutto che l’ingresso nell’UE e le iniziative adottate in conseguenza di ciò hanno determinato un peggioramento nelle condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

I governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida di questo paese hanno poi dovuto quasi sempre fare i conti con una serie di scandali che ne hanno scosso le fondamenta e accorciato la vita, così che lo scontro tra l’Occidente e la Russia, esploso dopo la crisi in Ucraina, ha costituito un ulteriore elemento di destabilizzazione e di divisione tra le diverse fazioni della classe dirigente bulgara.

Il riassetto strategico della Bulgaria promesso dal nuovo presidente era comunque in qualche modo già stato indicato dal governo di centro-destra del primo ministro, Boiko Borisov. Lo scorso mese di giugno, ad esempio, Sofia aveva bocciato la proposta del presidente rumeno, Klaus Iohannis, di creare una flotta permanente della NATO nel Mar Nero, ufficialmente per rispondere alla “aggressione” russa dell’Ucraina.

Come aveva promesso alla vigilia del voto, in ogni caso, il premier Borisov lunedì ha annunciato le proprie dimissioni con una mossa che apre con ogni probabilità la strada a elezioni anticipate di qui a pochi mesi. I leader Socialisti hanno infatti escluso di volere tentare di mettere assieme un nuovo esecutivo. Quello che verrà indetto dal prossimo presidente sarà così il terzo voto in cinque anni prima della scadenza naturale del mandato del Parlamento bulgaro.

L’elezione di Rumen Radev e le dimissioni del governo non prospettano però una soluzione immediata della crisi politica della Bulgaria. Mentre il gabinetto uscente non ha fatto nulla per limitare la corruzione e la povertà dilagante, il Partito Socialista continua a essere gravemente screditato agli occhi degli elettori. Fino alle elezioni del 2014, nelle quali ha incassato una clamorosa sconfitta, il DPS appoggiava un governo di minoranza che fu costretto a dimettersi sull’onda di proteste popolari provocate, tra l’altro, da casi di corruzione e da una crisi bancaria dai contorni oscuri.

In precedenza, peraltro, il governo di centro-destra guidato ancora da Borisov nel 2013 si era a sua volta dimesso in seguito a manifestazioni di piazza seguite a rincari vertiginosi delle tariffe dell’energia elettrica che erano andati a sommarsi a durissime misure di austerity implementate dallo stesso esecutivo.

Radev assumerà il suo incarico di presidente il prossimo 22 gennaio e, fino ad allora, sarà con ogni probabilità un governo tecnico di transizione a guidare la Bulgaria. Secondo le previsioni, il neo-presidente procederà allora con lo scioglimento anticipato del Parlamento e il voto dovrà tenersi almeno 60 giorni più tardi. Nella campagna elettorale che si prospetta è più che probabile che a tenere banco sarà soprattutto la questione dei rapporti con la Russia e i paesi occidentali.

Anche se apparentemente di importanza minore rispetto alla Bulgaria, più di un grattacapo a Bruxelles e Washington deve avere causato domenica anche l’elezione al secondo turno nella piccola Moldavia di un nuovo presidente intenzionato a ristabilire i legami politici ed economici che legano tradizionalmente il suo paese a Mosca.

Anche qui, il quadro politico interno è stato caratterizzato nell’ultimo periodo da una grave instabilità a causa di scandali vari e, più in generale, dalla sovrapposizione ad essi dello scontro strategico tra Russia e Occidente.

Il nuovo presidente sarà il 41enne Igor Dodon, leader del Partito Socialista e della fazione politica che rappresenta le élites moldave che beneficiano dei rapporti con la Russia. Secondo i sondaggi, Dodon avrebbe dovuto essere superato al primo turno dalla sua principale sfidante, Maria Sandu, del Partito Liberal Democratico (PLDM) filo-occidentale, per poi imporsi in maniera relativamente agevole al secondo turno.

Nonostante il ritiro alla vigilia del voto di un altro aspirante alla presidenza gradito all’Occidente, Marian Lupu del Partito Democratico (PDM), la Sandu era invece finita da subito dietro a Dodon, mentre nel ballottaggio di domenica quest’ultimo ha prevalso nuovamente con il 52% dei voti espressi.

Ancor più rispetto al presidente appena eletto in Bulgaria, il nuovo leader moldavo aveva impostato la propria corsa sul ristabilimento dei legami con la Russia. Dodon aveva promesso di abrogare l’accordo commerciale siglato dalla Moldavia con l’Unione Europea nel 2014 per aderire all’Unione Economica Eurasiatica, promossa dalla Russia e di cui fanno parte anche Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan. L’avvicinamento all’Europa aveva provocato la dura reazione di Mosca, da dove erano state prese misure per colpire l’economia moldava, prima fra tutte lo stop alle esportazioni di prodotti alimentari verso la Russia.

Igor Dodon ha definito un grave errore la sottoscrizione dell’accordo con Bruxelles, cavalcando di fatto uno scetticismo diffuso per l’UE tra la popolazione moldava. In molti identificano infatti la classe politica europeista con gli innumerevoli episodi di corruzione emersi in questi anni, a cominciare dalla clamorosa sparizione di un miliardo di euro - pari a circa un ottavo del PIL del paese - dalla banca centrale e finito su conti esteri.

Lo scandalo aveva costretto alle dimissioni il primo ministro, Valeriu Strelet, e il governo a chiedere aiuti finanziari internazionali per evitare il tracollo del paese. La vicenda aveva innescato massicce proteste popolari, culminate tra l’altro nella reintroduzione dell’elezione diretta del presidente, decisa anche per sbloccare la paralisi politica.

Dodon ha fatto sapere lunedì che il suo primo viaggio all’estero da presidente sarà proprio a Mosca e, nel caso dovesse confermare gli orientamenti mostrati in campagna elettorale, provocherà serie preoccupazioni a Bruxelles, dal momento che i vertici europei cercano da tempo di attrarre la Moldavia nella propria orbita in funzione anti-russa, vista la posizione strategica che occupa tra l’Ucraina e la Romania.

Sviluppi favorevoli a Mosca potrebbero verificarsi infine anche nella regione autonoma della Transnistria, dove sono presenti circa duemila soldati russi a difesa del governo indipendentista.

L’Occidente aveva soffiato sul fuoco del nazionalismo a Chisinau per provocare la cacciata del contingente militare russo. Il neo-presidente Dodon, invece, subito dopo la sua elezione ha escluso iniziative di questo genere in relazione allo status della Transnistria, mostrando piuttosto l’intenzione di volerne ratificare l’autonomia, di fatto sotto la protezione del Cremlino.

di Michele Paris

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali di martedì ha fatto trarre un sospiro di sollievo a molti, soprattutto al di fuori dei confini degli Stati Uniti, per avere scampato, nel caso fosse stata Hillary Clinton a conquistare la Casa Bianca, una quasi certa escalation militare americana all’estero e un aggravamento del confronto con le potenze emergenti del pianeta.

Se pure esiste la possibilità che la politica estera del presidente-eletto sia improntata a una maggiore prudenza, le sue attitudini e i suoi orientamenti saranno tutti da verificare. Quel che è certo fin da ora, invece, è che sul fronte domestico gli Stati Uniti saranno guidati da un governo dalle connotazioni di estrema destra, improntato alla promozione di politiche nazionaliste, ultra-liberiste e, in sostanza, di duro confronto con lavoratori e classe media.

Con tutta la retorica anti-establishment e gli attacchi ai poteri forti, a cominciare da quelli di Wall Street, su cui Trump ha costruito la sua campagna elettorale, gran parte delle proposte da lui avanzate in ambito economico, energetico e delle regolamentazioni al business sono infatti ascrivibili alla più tradizionale dottrina neo-liberista.

Molti giornali americani già giovedì hanno avanzato ipotesi circa le iniziative che la nuova amministrazione Repubblicana adotterà per stimolare la massiccia crescita economica promessa da Trump. Anzi, proprio uno dei consiglieri economici di quest’ultimo, Stephen Moore, ha indicato la rotta, avvertendo che Trump sarà “il presidente con la maggiore inclinazione alla ‘riforma’ delle regolamentazioni dai tempi di Ronald Reagan”.

In concreto, l’amministrazione Trump intende cioè smantellare quanto più possibile le normative che regolano l’attività del settore privato negli Stati Uniti, da quello bancario a quello industriale, da quello sanitario a quello energetico. A guidare l’azione di Trump in questo campo è il dogma della non ingerenza del governo negli affari come presupposto per la crescita dell’economia.

Su questi temi, oltretutto, il prossimo presidente potrebbe essere in particolare sintonia con un Congresso che, pur essendo a maggioranza Repubblicana, conta numerosi deputati e senatori che nutrono serie riserve sulla sua persona. Soprattutto lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, anch’egli molto tiepido sostenitore di Trump in campagna elettorale, mostra da sempre una chiara tendenza a favore della deregolamentazione dell’economia.

In ambito finanziario, il primo bersaglio di Trump potrebbe essere la già debole riforma di Wall Street approvata dal Congresso all’indomani della crisi del 2008 (“Dodd-Frank”). Se l’intera legge finirà forse per sopravvivere, se non altro perché l’industria finanziaria vi si è in gran parte adattata, potrebbero venire cancellate alcune norme che limitano i profitti, così come i rischi, delle banche, tra cui la cosiddetta “Volcker Rule”, che proibisce alcune attività speculative degli istituti con capitali propri e non a beneficio dei clienti.

Per quanto riguarda l’industria energetica, Trump minaccia di dare seguito alle sue prese di posizione in senso negazionista sul cambiamento climatico e le fonti rinnovabili. Un nuovo impulso all’industria del carbone è da tempo nelle previsioni del miliardario newyorchese, assieme a una marcia indietro sui provvedimenti presi da Obama per ridurre le emissioni inquinanti, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015.

Secondo le aziende di questo settore, misure e regolamentazioni già adottate e da adottare creano vincoli operativi che limitano i loro profitti. La stesura delle regole è affidata soprattutto all’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA), sulla quale il prossimo governo avrà facoltà di agire per determinare un’impostazione più cauta e ancora più favorevole al business.

Trump potrebbe inoltre ampliare ancor più le aree territoriali e marittime degli Stati Uniti soggette all’estrazione di gas e petrolio, mentre è altrettanto probabile lo sblocco dei permessi per la costruzione del contestato oleodotto Keystone XL che dovrebbe trasportare petrolio dal Canada al Golfo del Messico passando attraverso aree considerate eccezionalmente sensibili da un punto di vista ambientale.

Particolare impegno verrà poi messo da Trump nell’erosione dei diritti del lavoro e delle normative che limitano lo strapotere delle imprese. Anche in questo caso, a essere spazzate via per prime potrebbero essere le già modeste iniziative prese da Obama, come l’aumento del salario minimo e la garanzia di un certo numero di giorni di malattia retribuiti per alcuni dipendenti pubblici e dipendenti di aziende private appaltatrici del governo federale.

Nel quadro neo-liberista in cui si inserirà l’azione di governo di Donald Trump non potranno nemmeno mancare i tagli al carico fiscale delle aziende e dei redditi più elevati. Una delle promesse centrali della sua campagna elettorale è stata appunto la riduzione della tassa sulle imprese, da quella nominale del 35% al 15%. Questa e altre misure fiscali accelererebbero il trasferimento di ricchezza verso le fasce più ricche della popolazione, già favorito durante i due mandati di Obama, e aprirebbero una voragine nei conti pubblici.

Gli orientamenti di Trump sono stati d’altra parte ben compresi dai mercati, visto che dopo un’iniziale crollo degli indici di borsa, seguito all’annuncio della sua vittoria su Hillary, si è verificata una netta risalita, a conferma di come, per il mondo degli affari, le possibilità che si prospettano di maggiori profitti prevalgano sulle incertezze e il rischio di instabilità.

Che gli orientamenti di Trump saranno sostanzialmente quelli descritti è evidente anche dai nomi che già circolano sui possibili membri della sua nascente amministrazione. A scanso di equivoci, il Wall Street Journal ha ad esempio aperto mercoledì un pezzo di analisi post-voto affermando che “svariati banchieri di Wall Street e imprenditori di successo” potrebbero essere nominati a incarichi di primo piano nella nuova amministrazione.

Emblematico è uno dei principali candidati alla guida del dipartimento del Tesoro. Per questo incarico Trump potrebbe scegliere l’ex Goldman Sachs, Steven Mnuchin, amministratore delegato della banca d’investimenti Dune Capital Management e direttore finanziario della campagna elettorale del neo-presidente. L’eventuale nomina di Mnuchin e di altre personalità gradite al mondo degli affari, come ha spiegato un consigliere economico di Trump sempre al Wall Street Journal, servirebbe a dare garanzie circa la condotta della nuova amministrazione in ambito economico-finanziario.

L’entourage presidenziale sarà infatti composto da economisti “conservatori” e uomini d’affari che da sempre promuovono “la deregolamentazione del settore privato e una tassazione più bassa per le imprese”. A conferma di ciò, giovedì è circolata la notizia che il team di Trump che si occupa del processo di transizione alla presidenza avrebbe contattato il “CEO” di JPMorgan, Jamie Dimon, per offrirgli il posto da segretario al Tesoro. Durante la campagna elettorale, Trump aveva in un’occasione definito Dimon come “il peggiore banchiere americano”.

Anche in altri ambiti, Trump sembra propenso a selezionare uomini con salde credenziali reazionarie, molti dei quali hanno fatto campagna elettorale attiva a suo favore negli ultimi mesi. Tra di essi spiccano l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, o il governatore del New Jersey, Chris Christie, entrambi considerati per il ministero della Giustizia. L’ex rivale nelle primarie Repubblicane, Ben Carson, sarebbe in corsa a sua volta per il dipartimento della Salute e dell’Educazione.

Per il dipartimento dell’Interno, che negli USA ha competenze relative alla gestione del territorio e dell’ambiente naturale, i papabili sarebbero invece, tra gli altri, il fondatore di una compagnia petrolifera - Forrest Lucas - e il “venture capitalist” Robert Grady. Sulla stessa linea appaiono i criteri di scelta per il prossimo segretario all’Agricoltura, che per i media americani potrebbe essere uno tra gli imprenditori del settore agricolo Charles Herbster e Mike McCloskey.

Un altro ambito nel quale si prospetta un’evoluzione preoccupante, in linea peraltro con la tendenza registrata negli ultimi otto anni, è quello della “sicurezza interna”. Trump non è esattamente un paladino del diritto alla privacy e sono in molti a temere un nuovo assalto alle residue garanzie contro l’invadenza delle agenzie governative. Uno dei primi obiettivi, perseguito senza successo anche da Obama, potrebbe essere così l’accesso del governo alle informazioni criptate garantite ai propri utenti dalle compagnie tecnologiche americane.

Da tempo nelle mire dei Repubblicani è anche la “riforma” del settore sanitario di Obama. Trump sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi colleghi di partito al Congresso e l’intera legislazione rischia di essere cancellata nel prossimo futuro. Politicamente, questa mossa avrebbe tuttavia conseguenze negative, visto che decine di milioni di americani si ritroverebbero nuovamente senza nessuna copertura.

La “riforma” conosciuta come Obamacare è in ogni caso ben lontana dal garantire l’assistenza sanitaria universale gratuita o a basso costo ed è basata principalmente sul settore privato, nonché sul principio del contenimento dei costi. Gli attacchi dei Repubblicani a Obamacare vengono portati però da destra e ciò che viene proposto in alternativa è un sistema che attribuisce ancora più peso alle compagnie private.

Il segno più profondo e duraturo dell’amministrazione Trump potrebbe essere lasciato infine sulla Corte Suprema. Il tribunale costituzionale americano funziona con solo otto dei nove membri che lo compongono fin dal decesso nel mese di febbraio del giudice ultra-conservatore Antonin Scalia. I leader Repubblicani al Senato si sono finora rifiutati anche solo di considerare il candidato nominato da Obama, il giudice Merrick Garland, così che nei prossimi mesi toccherà a Trump indicare un nuovo membro.

La scelta ricadrà su un giudice conservatore e gli equilibri della Corte Suprema torneranno a essere favorevoli alla destra. Tre attuali membri, di cui due moderati e uno moderato-conservatore, sono inoltre vicini o hanno superato gli 80 anni e Trump potrebbe perciò avere la possibilità di effettuare altre nomine nei prossimi quattro anni che suggellerebbero forse per decenni l’orientamento reazionario del più alto tribunale americano. In questo caso, potrebbero essere teoricamente messe in discussione conquiste cruciali, come quella dell’aborto, o affermati in maniera sempre più decisa i diritti del business rispetto a quelli del lavoro.

In definitiva, se pure l’elezione di Trump è il risultato delle legittime frustrazioni di ampie fasce in affanno di una popolazione americana che vede nell’establishment di Washington, incluso quello rappresentato dal Partito Democratico, solo uno strumento dei grandi interessi economici e finanziari, il suo ingresso alla Casa Bianca non costituisce in nessun modo uno sbocco progressista della crisi politica e sociale che attraversa gli Stati Uniti.

Con tutte le leve del potere in mano all’estrema destra - dalla presidenza al Congresso alla Corte Suprema - l’unica prospettiva possibile è infatti un’evoluzione in senso reazionario e l’ulteriore restringimento degli spazi democratici, con tutte le conseguenze che ne deriveranno sul piano dello scontro sociale, come confermano le proteste contro Trump già esplose nelle principali città americane poche ore dopo la sua elezione alla presidenza.

di Fabrizio Casari

La vittoria schiacciante di Donald Trump ha sorpreso l’intero sistema mediatico e politico, dentro e fuori dagli USA. Benché s’intuissero le debolezze di Hillary Clinton, si riteneva che l’impresentabilità di Donald Trump portasse, per consunzione, a votare per la candidata democratica. Il presupposto fondamentale per l’errore di valutazione é stato l’idea che il voto sia ormai ridotto ad esercizio di stile più che a scelta politica, a consuetudine più che a una richiesta di ascolto da parte di un elettorato privato di ogni interlocuzione politica.

E invece no. Il voto, proprio in assenza di una demarcazione ideologica netta tra le forze politiche, quando si manifesta assume le sembianze di un grido destinato a squarciare il silenzio di una globalizzazione che rende possibile una sola idea, un solo programma, un solo destino.

Trump è riuscito a saldare in una candidatura di rottura con l’establishment politico (sia democratico che repubblicano) la parte peggiore degli Stati Uniti e le vittime del suo sistema. Ovvero ha messo insieme l’America più buia, quella dei razzisti e dei suprematisti bianchi, dei fanatici delle armi, del fondamentalismo religioso e del Tea Party - patrimonio elettorale della destra Repubblicana . con l’America più profonda, quella del disagio sociale, che avrebbe dovuto essere rappresentata dai Democratici. Quella che dal 2008 ha visto precipitare nella crisi la sua stessa coesione sociale, determinando l’impoverimento della classe media e lo sprofondamento delle classi più svantaggiate. In una simbolica linea parallela, Trump ha unito le due sponde opposte che sono diventate un unico mare.

Il voto è stato una risposta gridata contro una crisi sociale e di rappresentanza. E’ stato una rivolta contro le elites. Una dichiarazione di sfiducia verso un sistema guidato dal capitale finanziario che ha dichiarato guerra al lavoro, ai diritti sociali e alle politiche di accompagnamento ai settori più deboli. Sono le politiche che hanno innescato un darwinismo sociale che ha strappato il tessuto sociale del paese. L’America muta e quella dei millennials, dei disoccupati e della casse operaia ha votato, magari turandosi il naso ma gridando l’insostenibilità della sua condizione.

E anche l’America dei migranti, di quei latinos verso i quali Trump ha pronunciato le parole peggiori, ha preferito votare contro, esprimere un gesto di rottura contro l’establishment. Persino una parte consistente dell’immigrazione messicana, benché si senta minacciata direttamente e sia stata insultata ignobilmente, ha votato per lui. Lo ha fatto per votare contro Hillary. Perché la protesta sostiene gli outsider e non il potere consolidato. E’ naturale che il rovesciamento del tavolo sul quale si gioca la partita colpisca chi amministra e non chi è fuori dalle logiche.

Proprio per questa caratteristica quella di Trump é una rivoluzione ancor più forte di quella di Reagan. Se la prima ha offerto le premesse ideologiche per il monetarismo neoliberista, questa ne ha raccolto la sua insopportabilità. E sebbene il partito Repubblicano controllerà Camera dei Rappresentanti e Senato, il suo gruppo dirigente non ha molto di cui gioire. Trump ha avuto nella relazione diretta con gli elettori la sua forza e non nel lavoro organizzativo del suo partito, e ha nel suo programma elettorale una sostanziale sconfessione di parti importanti del disegno Repubblicano.

Peraltro, oltre ad essere un outsider, a differenza di Reagan con la sua vittoria ha dichiarato anche la messa in mora dello stato maggiore del partito che, salvo rare eccezioni, ha ritenuto di non doverlo sostenere e che quindi avrà ora una scarsa capacità di condizionarlo nelle scelte presidenziali. Le elezioni hanno chiarito come Trump non sia un prodotto del partito Repubblicano, semmai sono i Repubblicani che devono a Trump la loro affermazione.

Per i Democratici la sconfitta è bruciante, anche per come è maturata. Hillary era la peggior candidata che potessero scegliere. Solo con Sanders avrebbero potuto vincere, perché la candidatura del Senatore del Vermont avrebbe rappresentato l’intenzione di riposizionare il partito all’ascolto delle vittime di un sistema iniquo ed opprimente. Ma il partito Democratico è ormai privo di qualsivoglia profilo coerente con il suo nome e la cacciata di Sanders è stata solo la conferma di ciò.

E nonostante le volgarità sessiste di Trump, nemmeno il voto femminile ha sostenuto la prima campagna elettorale per una donna alla Casa Bianca; perché più che delle donne Hillary Clinton è stata percepita come la rappresentante dell’establishment, dei poteri forti e dei grandi gruppi finanziari. “Voglio una donna alla Casa Bianca, ma non questa donna” è stato il claim di molte elettrici.

Hillary é stata vista come icona dei compromessi e dell’inganno, delle bugie e della lotta sordida per il potere. E l’endorsment di grandi banche e gruppi di potere finanziario, delle corporations, dei grandi media e dello star-siystem, hanno ulteriormente rafforzato questa sua immagine.

Priva di ogni possibile empatia, arrogante e bugiarda, incapace di comunicare con le persone normali, quelle che non siedono nei board delle società finanziarie, ha solo minacciato un inasprimento della guerra con la Russia e il proseguimento delle guerre mediorientali.

Di fronte alla pubblicazione delle sue mail segrete non ha avuto il coraggio di affermare la verità, preferendo inoculare rabbia e veleno contro chi aveva reso pubblico quanto affermava in segreto e minacciare rappresaglie. In una notte, 24 anni di potentato della famiglia Clinton è stato rimosso.

Sconfitti anche i sondaggisti, che avevano vaticinato ben altro risultato. Ma non c’è da stupirsi se non hanno compreso quanto succedeva nel ventre della società americana. Per definizione lavorano in superficie e non scendono verso la parte più profonda del paese, che non considerano negli algoritmi che sottintendono la cultura del marketing politico.

A forza di credere che a politica è solo marketing e che il candidato è solo un brand, ci si dimentica che le persone non sono solo consumatori. Che utilizzano lo spazio minimo concesso per esprimere quello che provano, quello che chiedono e quello che rifiutano. Dunque, se il contesto è quello rappresentato da una globalizzazione che ha distrutto l’identità socioeconomica di milioni di persone, quel voto sarà esattamente il grido di protesta contro la loro perdita di cittadinanza.

Identico errore hanno commesso i media, schierati pancia a terra con Hillary Clinton perché incapaci di leggere la società. Infastiditi da tutto ciò che non emana il profumo del potere, emarginano o nascondono ogni contraddizione sociale, confondendo il popolo con i loro lettori e scambiando il ruolo di giornalisti con quello dei funzionari al servizio dell’ideologia.

Il primo discorso di Trump dopo l’annuncio della sua vittoria è stato improntato su uno stile corretto, completamente diverso per parole e toni da quelli della campagna elettorale. Non solo perché l’immagine di rottura serve per vincere e non per governare, ma perché il compito che lo aspetta non consente una spaccatura netta nel paese.

Difficile immaginare quali saranno le sue prime mosse, ma intanto il temuto crollo dei mercati non c’è stato e le Borse hanno risposto positivamente al nuovo assetto di Washington.

La dose del programma che vorrà o potrà applicare dipenderà da diversi fattori ma con la sua vittoria le scelte di politica estera subiranno modifiche profonde. Quanto e come esse si verificheranno dipenderà dal livello di mediazione con il complesso militar-industriale che il tycoon, ora Presidente, sarà in grado di stabilire.



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