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di Mario Lombardo
La pesante sconfitta patita dal partito della Cancelliera tedesca, Angela Merkel, nel voto di domenica per il rinnovo del parlamento della città-stato di Berlino suona come un serio avvertimento in vista delle elezioni federali del prossimo anno. Al tracollo della CDU (Unione Cristiano Democratica) non ha però corrisposto il trionfo della SPD (Partito Social Democratico).
Anzi, il partito che governa assieme alla Merkel a livello federale e nella stessa capitale della Germania, ha fatto segnare anch’esso un’emorragia di consensi, garantendosi la possibilità di continuare a guidare Berlino solo grazie ai progressi del suo probabile prossimo partner di coalizione, Die Linke (La Sinistra).
Tutti le principali formazioni politiche tedesche hanno registrato risultati deludenti o non particolarmente entusiasmanti nell’appuntamento con le urne di domenica. Le scelte degli elettori berlinesi hanno così ricalcato quelle negli altre tre “Länder” che hanno votato negli ultimi mesi (Baden-Württemberg, Renania-Palatinato, Meclemburgo-Pomerania Anteriore), ad eccezione del passo in avanti di Die Linke.
Quello della CDU - 17,6% (-5,7%) - è stato il risultato peggiore della storia di questo partito a Berlino, mentre ancora più voti ha perso la SPD (-6,7%), anche se resta comunque la prima forza nella capitale con il 21,6%. Il successo di Die Linke appare poi relativo. Rispetto alle precedenti elezioni, ha guadagnato quasi 4 punti percentuali, salendo al 15,6%, ma nel recente passato aveva fatto segnare risultati anche migliori. Ad esempio, il predecessore di Die Linke, il Partito del Socialismo Democratico (PDS), nel voto per il parlamento di Berlino nel 2001 aveva toccato addirittura il 22,6%.
A completare un quadro caratterizzato dalla flessione dei partiti tradizionali, i Verdi sono scesi del 2,5% per fermarsi al 15,2%. La formazione che ha beneficiato di questa situazione è stata ancora una volta il partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania), mentre si è sgonfiato il fenomeno del cosiddetto Partito Pirata, in grado di sfiorare il 9% nel 2011 ma in questa occasione ben al di sotto della soglia di sbarramento del 5%.
L’AfD ha chiuso in doppia cifra anche a Berlino (14,2%) dopo aver fatto lo stesso nelle tre precedenti elezioni regionali. L’ascesa di questo partito populista ed euroscettico, fondato soltanto nel 2013, viene generalmente spiegata con il crescere di una presunta ondata di malcontento in Germania verso le politiche di “accoglienza” agli immigrati del governo federale della Merkel.
Più in generale, questa sarebbe la ragione del crollo elettorale registrato dalla CDU nel corso del 2016, anche se, in realtà, l’attitudine del governo federale nei confronti di profughi e immigrati può essere considerata accomodante solo se paragonata alla retorica xenofoba della destra e dell’estrema destra.
La stessa Merkel ha ad ogni modo indicato proprio l’approccio del suo governo alla questione dei migranti nella giornata di lunedì quando si è assunta la responsabilità della sconfitta a Berlino. La Cancelliera ha espresso un certo rammarico per come è stata gestita la “crisi” in questo ambito nei mesi scorsi, prospettando una svolta a destra nel prossimo futuro sul trattamento dei migranti.
Se l’AfD, come altri movimenti di questa natura in Europa, ha indubbiamente fatto leva sulle paure generate dal fenomeno dell’immigrazione, e ingigantendone i problemi che da esso derivano, la maggior parte dei consensi ottenuti rappresentano piuttosto un voto di protesta che ha a che fare prevalentemente con questioni di natura economica.
Il candidato sindaco a Berlino della CDU, Frank Henkel, aveva d’altra parte preso le distanze dalla Merkel in campagna elettorale, invocando politiche repressive nei confronti degli immigrati, soprattutto quelli di fede islamica. Questa strategia non ha però avuto particolare successo, visto che la maggioranza dei voti è andata a partiti nominalmente progressisti.
Mentre la stampa ufficiale ha continuato a ripetere che la Merkel perde voti per essere troppo poco rigida nei confronti dell’immigrazione, i sondaggi di opinione a Berlino hanno mostrato che il cambiamento degli equilibri elettorali è una reazione determinata dalle frustrazioni legate alla “giustizia sociale, all’economia locale”, all’aumento dei canoni di affitto e alle condizioni del sistema scolastico statale.
Anche il risultato ottenuto dall’AfD, che ha permesso al partito di superare per la decima volta consecutiva la soglia di sbarramento in elezioni statali, non costituisce in nessun modo uno spostamento massiccio a destra dell’elettorato. Recenti indagini di istituti di ricerca tedeschi hanno dimostrato che solo una minima parte di coloro che votano per l’AfD, ovvero circa un quarto, afferma di condividerne le posizioni, mentre il resto, in mancanza di alternative, intende esprimere il proprio malcontento verso gli altri partiti.
Queste stesse motivazioni promettono di animare anche le elezioni federali del 2017 che il partito della Cancelliera rischia seriamente di perdere. Il voto del fine settimana è stato per molti una prova generale del voto nazionale del prossimo anno. La SPD, non meno screditata della CDU, sarà infatti difficilmente in grado di governare senza il sostegno di partiti minori, così che la classe dirigente tedesca sta gettando le basi per un gabinetto “rosso-rosso-verde”.
Quest’ultima è la soluzione che si prospetta anche a Berlino, con la SPD che ha già avviato i negoziati con Die Linke e i Verdi. Che nella capitale tedesca e a livello federale una simile alleanza rappresenti una svolta progressista sarà in ogni caso tutto da dimostrare e i dubbi sono più che legittimi.
Il governo di coalizione SPD-Verdi, nato dopo il voto del 1998, fu protagonista dell’invio all’estero di militari tedeschi con incarichi da combattimento per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nonché di tagli senza precedenti al welfare tramite le “riforme” contenute nella famigerata “Agenda 2010” dell’allora primo ministro Social Democratico, Gerhard Schröder.
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di Michele Paris
La strage di soldati siriani compiuta dalle forze aree americane nel pomeriggio di sabato è stata subito condannata dalla Russia come un atto intenzionale, volto con ogni probabilità a far saltare la tregua precariamente in vigore nei cinque giorni precedenti e, di fatto, a favorire l’offensiva dello Stato Islamico (ISIS/Daesh). Gli Stati Uniti hanno sostenuto invece che l’attacco si è trattato di un “errore”, ma la situazione militare consolidata nella città colpita - Deir ez-Zor - e le contraddizioni interne al governo e ai vertici delle forze armate americane sull’approccio al cessate il fuoco rendono improbabile la versione ufficiale proposta da Washington.
Le bombe sulle postazioni dell’esercito regolare di Damasco hanno ucciso più di 60 soldati e fatto un centinaio di feriti. Subito dopo il blitz, gli uomini dell’ISIS/Daesh sono andati all’assalto nel tentativo di guadagnare terreno in una città che da tempo tengono sotto assedio.
Il ministero della Difesa russo ha reagito molto duramente al bombardamento, non solo definendolo intenzionale ma accusando apertamente gli Stati Uniti di sostenere l’ISIS/Daesh. La rappresentanza russa all’ONU ha poi richiesto la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, previsto per la serata di domenica a New York. I toni provenienti da Mosca indicano un serio aggravarsi delle tensioni tra le due potenze e il rischio sempre più concreto di un confronto militare diretto con gli Stati Uniti in Siria.
L’ambasciatrice americana, Samantha Power, da parte sua ha deciso sabato di parlare subito alla stampa e, dopo avere espresso il dispiacere del suo governo per il bombardamento delle postazioni siriane, si è concentrata su una serie di accuse contro il governo di Mosca. Secondo l’ambasciatrice USA, quest’ultimo sarebbe responsabile di una mossa politica “cinica e ipocrita” nel chiedere la convocazione del Consiglio di Sicurezza, visto che la stessa iniziativa non era mai stata presa in considerazione dopo gli attacchi contro i civili siriana da parte del regime di Assad.
Domenica, anche il segretario di Stato americano, John Kerry, ha attaccato la Russia per non avere fatto pressioni su Assad, ritenuto responsabile del mancato ingresso in Siria degli aiuti umanitari. Kerry non ha fatto alcun riferimento al massacro del giorno precedente e la sua versione sullo stato della tregua è stata del tutto parziale, visto che gli stessi “ribelli” non hanno ancora garantito la sicurezza dei convogli umanitari che dovrebbero attraversare le aree del paese sotto il loro controllo.
L’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro, Vitaly Churkin, sempre sabato ha invece fatto notare come sia altamente sospetto il tempismo con cui gli Stati Uniti hanno colpito l’esercito siriano. Il blitz è avvenuto cioè a un paio di giorni dall’ipotetico inizio della collaborazione militare tra USA e Russia contro l’ISIS/Daesh in Siria, come previsto dalle condizioni della tregua.
La considerazione del diplomatico russo va probabilmente al cuore del problema relativo alla tregua stessa e all’insolubilità della crisi siriana. Nei giorni precedenti si erano infatti verificate numerose violazioni delle condizioni del cessate il fuoco da parte delle forze “ribelli” appoggiate dagli Stati Uniti e dai loro alleati mediorientali.
Le iniziative dei gruppi dell’opposizione armata anti-Assad indicavano la problematicità nell’implementazione di un punto decisivo della tregua e che già aveva fatto naufragare l’accordo raggiunto tra Mosca e Washington a inizio anno per ridurre il livello di violenza in Siria. Secondo la recente intesa, gli USA avrebbero cioè dovuto garantire la separazione tra “ribelli” moderati, o presunti tali, e le formazioni con tendenze fondamentaliste.
Una volta raggiunto questo obiettivo, Stati Uniti e Mosca avrebbero avviato operazioni congiunte dirette contro le forze estremiste. Essendo evidentemente queste ultime inestricabilmente legate ai gruppi “ribelli” presentati come accettabili dall’Occidente, la separazione è apparsa però impossibile da mettere in atto se non al prezzo di decimare il fronte anti-Assad.
L’attacco contro le postazioni siriane a Deir ez-Zor è giunto anche dopo alcuni giorni durante i quali i giornali americani e non solo avevano descritto nel dettaglio lo scontro tra il Dipartimento di Stato e il Pentagono sulla tregua sottoscritta con la Russia.
Svariati alti ufficiali dell’esercito USA avevano messo in dubbio l’opportunità di collaborare con la Russia in Siria, con più di uno che si era detto tutt’altro che certo del rispetto del dettato della tregua anche in caso di sviluppi positivi dopo una settimana dall’entrata in vigore.
Lo stesso segretario alla Difesa, Ashton Carter, sarebbe intervenuto nel dibattito interno all’amministrazione Obama assumendo una ferma posizione contro il collega del dipartimento di Stato, John Kerry, protagonista dei colloqui che avevano portato all’intesa con Mosca.
L’opposizione dei militari al cessate il fuoco, che è sconfinato nell’insubordinazione aperta al potere civile, e l’episodio di sabato sera a Deir ez-Zor mette ulteriormente in discussione la strategia siriana della Casa Bianca. Non solo l’amministrazione Obama sembra essere sopraffatta dalla contraddizione tra gli sforzi per rimuovere Assad tramite forze integraliste e il tentativo di prendere tempo per stabilizzare la situazione sul campo dialogando con la Russia. La strage di soldati siriani di sabato legittima anche un interrogativo sul livello di controllo che il presidente sia in grado di esercitare sui propri vertici militari.
Che le bombe sull’esercito siriano siano state deliberate per far crollare l’accordo con la Russia è dunque possibile e i fatti di sabato vanno anche collegati a un altro evento accaduto venerdì in Siria. In un villaggio nel nord del paese, gruppi islamisti armati del cosiddetto Libero Esercito della Siria (FSA) avevano costretto alla fuga uomini delle Forze Speciali americane che avrebbero dovuto operare al loro fianco.
Filmati postati in rete hanno documentato l’accaduto, con i “ribelli” che insultavano pesantemente i militari statunitensi a causa proprio della decisione dell’amministrazione Obama di sottoscrivere un accordo con la Russia sul cessate il fuoco in Siria.
Per molti, l’attacco contro l’esercito di Assad di sabato potrebbe essere stato allora un messaggio indirizzato ai “ribelli” circa la volontà da parte della coalizione guidata da Washington di colpire direttamente il regime di Damasco, nonostante il valzer diplomatico con Mosca.
In definitiva, al di là delle prese di posizione ufficiali degli Stati Uniti e delle dichiarazioni di professionisti degli interventi “umanitari”, come l’ambasciatrice USA all’ONU Samantha Power, da Washington non vi è nessuna volontà a lavorare per la pace in Siria né a collaborare seriamente con le forze che si battono realmente contro il terrorismo.
La popolazione siriana, martoriata da oltre cinque anni di una guerra sanguinosa, continuerà così ancora a lungo a rimanere ostaggio delle contraddizioni e delle mire strategiche di un governo americano incapace di uscire dalla logica distruttiva che caratterizza la propria politica estera.
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di Michele Paris
Un recente studio condotto dalla Brown University negli Stati Uniti ha provato a stimare il costo complessivo dal 2001 a oggi della “guerra al terrore” condotta dalle amministrazioni dei presidenti George W. Bush e Barack Obama. I risultati sono nulla di meno che sbalorditivi e consentono di percepire, anche se con ogni probabilità in maniera parziale, gli effetti distruttivi di un’impresa lanciata per ragioni legate esclusivamente agli interessi economici e strategici di un’altrettanto distruttiva classe dirigente americana.
A tutto il mese agosto di quest’anno, la spesa complessiva sostenuta dagli USA per le guerre ha sfiorato i 5 mila miliardi di dollari. Le voci considerate includono le somme stanziate dal Congresso di Washington per finanziare le operazioni nei teatri di guerra veri e propri, gli interessi sul debito contratto per queste ultime, il bilancio del Dipartimento della Sicurezza Interna e l’assistenza ai reduci fino all’anno 2053.
Il solo costo delle operazioni di guerra all’estero è ammontato in quindici anni a 1.700 miliardi di dollari. Questa cifra viene peraltro considerata a parte rispetto al bilancio ordinario del Dipartimento della Difesa che, nello stesso arco di tempo, si è aggirato addirittura attorno ai 7 mila miliardi di dollari.
Il finanziamento dei conflitti in cui sono coinvolti gli Stati Uniti avviene regolarmente tramite stanziamenti separati, anche se il carattere eccezionale o di emergenza, che spiega appunto le modalità con cui il denaro pubblico viene destinato a questo scopo, ha ormai lasciato spazio alla normalità della guerra permanente. In questo modo risulta evidentemente più facile aggirare eventuali tetti di spesa fissati per le spese militari ordinarie.
I fondi per garantire la sicurezza interna di un paese che, dal 2001, ha assistito a un numero irrisorio di attentati o minacce legate in qualche modo al terrorismo islamico sono stati invece pari a 548 miliardi di dollari. La spesa sostenuta finora per i veterani delle guerre al terrore è stata di 213 miliardi, ma entro il 2053 salirà a quota mille miliardi.
Ingente è anche il peso degli interessi sul debito accumulato dal governo federale per finanziare le guerre, uguale cioè a 453 miliardi. Secondo gli autori dello studio, se gli USA non cambieranno le modalità di finanziamento delle guerre, i soli interessi aumenteranno di mille miliardi nel 2023, per arrivare all’incredibile cifra di 7.900 miliardi nel 2053.
La spesa totale, anche se gigantesca, è destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che non è in vista alcun disimpegno degli Stati Uniti all’estero sul fronte militare. Per la guerra in Afghanistan, dove sono tuttora presenti 15 mila soldati americani, l’amministrazione Obama ha chiesto ad esempio più di 44 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2017.
A questa cifra vanno aggiunti, sempre per il prossimo anno, 13,8 miliardi per le operazioni contro lo Stato Islamico (ISIS/Daesh) in Iraq e in Siria e 35 miliardi per il funzionamento del Dipartimento della Sicurezza Interna. Per i ricercatori della Brown University, oltretutto, i fondi di cui il Pentagono sostiene di avere bisogno nei prossimi anni sono sottostimati, soprattutto se verranno implementati i piani militari attualmente allo studio.
Se i numeri sono già di per sé estremamente significativi, lo studio sottolinea nondimeno che essi non possono rendere conto delle conseguenze della guerra sulle popolazioni di Iraq e Afghanistan, né di quelle di paesi come Siria o Pakistan, a cui nel corso degli anni si è allargata la “guerra al terrore”. Nel solo Iraq, la cui società è stata letteralmente distrutta, alcune stime valutano in oltre un milione le vittime seguite all’invasione americana del 2003, mentre i profughi dei paesi interessati dalle guerre degli ultimi quindici anni superano abbondantemente i 12 milioni.
Il numero di vittime tra le forze armate americane e i “contractors” privati in Iraq e Afghanistan è inoltre superiore a 7 mila, mentre più di 50 mila sono i feriti e i mutilati. Difficili da quantificare sono invece i reduci che soffrono di stress post-traumatico e altre forme di disturbo mentale connesse all’esperienza bellica, così come quelli resi permanentemente disabili. Il numero di coloro che rientrano in queste categorie, per i soli Stati Uniti, è certamente nell’ordine delle centinaia di migliaia.
L’intera “guerra al terrore” risulta anche una sorta di enorme inganno ai danni dei cittadini americani e del resto del mondo. Non solo le giustificazioni non corrispondevano alle motivazioni reali che l’hanno innescata, com’è stato dimostrato negli anni successivi all’11 settembre, ma la stessa entità dell’impegno militare e finanziario è stata nascosta all’opinione pubblica.
Lo studio della Brown University ricorda a questo proposito come nell’autunno del 2002, durante la preparazione dell’invasione dell’Iraq, il consigliere economico dell’allora presidente Bush, Lawrence Lindsey, aveva stimato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari il tetto massimo del costo della guerra che sarebbe stata lanciata di lì a poco.
Addirittura, Lindsey fu attaccato da più parti e, in particolare, il dipartimento della Difesa del segretario Donald Rumsfeld e la commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti avevano previsto un costo complessivo non superiore ai 60 miliardi di dollari.
Lo spreco di risorse rappresentato dalla “guerra al terrore” documentato per la prima volta dalla ricerca della Brown University è tale da essere quasi difficile da concepire. I 5 mila miliardi di dollari andati perduti in questo modo, sostanzialmente per promuovere o conservare la posizione internazionale del capitalismo americano, possono avere maggiore senso se si considera l’utilizzo che se ne sarebbe potuto fare a beneficio di decine o centinaia di milioni di persone.
Ad esempio, le infrastrutture pubbliche americane, secondo quanto calcolato dalla società USA degli ingegneri civili, sono in uno stato di degrado tale da avere bisogno di investimenti pari a circa 3.200 miliardi nei prossimi dieci anni. Ancora, il debito scolastico complessivo che grava su studenti ed ex studenti negli Stati Uniti ammonta a più di 1.200 miliardi.
La spesa per i buoni alimentari da destinare alle fasce più disagiate della popolazione, soggetta a continui drastici tagli in questi anni perché ritenuta “insostenibile”, è costata infine “solo” 70 miliardi nel 2014 e poco più di 50 nel 2015.
Le voci di spesa sotto continuo assedio nei bilanci federali e che potrebbero essere finanziate con il denaro destinato alle guerre sarebbero molteplici, dall’assistenza sanitaria alle indennità di disoccupazione, dall’edilizia popolare ai fondi pensione dei dipendenti pubblici.
Al contrario, gli stanziamenti per guerre e “sicurezza nazionale” sono destinati a crescere in parallelo agli sforzi per invertire il declino del peso degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale. Se l’impegno per combattere, almeno ufficialmente, qualche migliaia di terroristi ha richiesto quasi 5 mila miliardi di dollari dal 2001 a oggi, c’è da chiedersi quale livello di spesa e quale impatto sulle popolazioni potrebbero avere le guerre del prossimo futuro con potenze militari come Russia o Cina.
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di Michele Paris
Quello che sembra ormai sempre più un processo di riallineamento strategico da parte del governo delle Filippine ha fatto segnare in questi giorni una tappa importante, quanto meno nei toni, in seguito a una serie di dichiarazioni rilasciate dal neo-presidente, Rodrigo Duterte, che prospettano un futuro complicato nelle relazioni con l’alleato americano.
Se una rottura tra Washington e Manila appare ancora molto lontana, le forze che si nascondono dietro la retorica spesso colorita di Duterte rivelano tuttavia un’evoluzione degli equilibri in Asia sud-orientale che mette seriamente a rischio i piani degli Stati Uniti in una regione sempre più nell’orbita del colosso cinese.
Nell’arco di due giorni, l’ex sindaco della città filippina di Davao ha smontato, o minacciato di smontare, alcuni dei pilastri della strategia americana di contenimento della Cina nel continente asiatico. Per cominciare, lunedì ha invitato a lasciare il paese i circa 200 soldati delle forze speciali USA di stanza sull’isola meridionale di Mindanao, dove forniscono assistenza militare e di intelligence ai militari filippini nell’ambito della lotta ai guerriglieri musulmani di Abu Sayyaf.
Duterte e il suo portavoce, Ernesto Abella, hanno cercato di attenuare una presa di posizione che può essere facilmente definita clamorosa, precisando che l’evacuazione dei soldati americani dovrebbe avvenire per la loro stessa sicurezza, visto che l’offensiva del governo contro i ribelli li esporrebbe alle ritorsioni di questi ultimi.
Il governo americano è stato preso evidentemente di sorpresa dalle parole di Duterte. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha affermato che Washington non ha ricevuto alcuna richiesta formale di rimuovere i propri uomini da Mindanao, per poi paragonare il presidente filippino a Donald Trump per le sue uscite “colorite”. Il riferimento è andato immediatamente alla conferenza stampa di Duterte di settimana scorsa, nella quale diede a Obama del “figlio di p…”.
La richiesta di Duterte alle forze speciali americane rischia di fissare un precedente nei rapporti con le Filippine, con il potenziale di compromettere lo stazionamento di soldati sul territorio di questo paese, previsto dall’accordo di cooperazione (EDCA) sottoscritto nel 2014 dagli Stati Uniti con l’ex presidente filippino, Benigno Aquino.
L’EDCA garantisce ai militari americani l’accesso a una serie di basi nelle Filippine e la sua ratifica era stata oggetto di forti contrasti all’interno della classe dirigente indigena fino alla sentenza della Corte Suprema di Manila a inizio anno che ne aveva confermato la legittimità.
Viste le implicazioni delle parole di Duterte, il suo portavoce si è affrettato ad assicurare gli Stati Uniti che il suo governo intende rispettare i termini dell’EDCA, così come un altro accordo militare, quello del 1999 sulla permanenza provvisoria di soldati americani nelle Filippine in occasione di esercitazioni congiunte.
A conferma delle posizioni tutt’altro che univoche sugli orientamenti strategici di Manila, i vertici militari filippini si sono mossi per cercare di tranquillizzare l’alleato americano. Il portavoce delle forze armate, generale Restituto Padilla, ha infatti definito “solide” le relazioni tra i due paesi in ambito militare e confermato le attività congiunte in programma nell’anno in corso, “nel 2017 e oltre”.
Nella giornata di martedì, Duterte è però tornato sulla questione, annunciando lo stop alle operazioni di pattugliamento con le forze navali statunitensi nelle acque contese con Pechino del Mar Cinese Meridionale. Solo lo scorso aprile, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, e l’allora ministro degli Esteri filippino, Voltaire Gazmin, avevano rivelato nel corso di una conferenza stampa a Manila che le navi dei due paesi avevano iniziato a pattugliare congiuntamente le acque al centro di accese dispute tra la Cina e svariati altri paesi della regione.
Duterte, in un esplicito messaggio indirizzato a Washington, ha chiarito che il suo governo non intende “mettersi nei guai” con operazioni che sono considerate estremamente provocatorie dalla Cina, le cui forze navali controllano buona parte delle isole e degli atolli contesi nel Mar Cinese Meridionale.
Il passo indietro di Manila sui pattugliamenti deve essere stato accolto dagli Stati Uniti con profonda irritazione, visto che queste operazioni sono considerate cruciali nella loro strategia anti-cinese in Estremo Oriente. Washington ha già condotto un certo numero di pattugliamenti ai limiti delle acque territoriali delle isole rivendicate da Pechino in nome della “libertà di navigazione” e insiste da tempo con i propri alleati – come Filippine e Australia – per convincerli a partecipare a queste stesse operazioni.
Nel caso i messaggi non fossero stati abbastanza chiari, sempre martedì il presidente filippino ha poi assestato il colpo definitivo alle aspettative americane, dichiarando senza mezzi termini che il suo paese intende perseguire “una politica estera e militare indipendente”.
Ciò significa che le Filippine potrebbero declinare gli inviti degli Stati Uniti ad assumere posizioni intransigenti nei confronti della Cina. L’attitudine prudente di Duterte era apparsa peraltro chiara dalle esitazioni nell’utilizzare la recente sentenza del Tribunale Arbitrale Permanente de L’Aja, sfavorevole a Pechino, sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, per esercitare pressioni sulla Cina.
Inoltre, Duterte ha avvertito che il suo governo intende rivolgersi a Russia e Cina per gli approvvigionamenti militari, spezzando potenzialmente il quasi monopolio americano nelle forniture in questo ambito che dura almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Duterte ha spiegato che Mosca e Pechino sono disposte a vendere armi “senza condizioni”, al contrario degli USA.
Le politiche indipendenti invocate da Duterte non comportano in ogni caso una rottura definitiva con Washington. Il presidente filippino ha aggiunto infatti che il suo paese “non volterà le spalle a nessuno”, mentre il ministro degli Esteri, Perfecto Yasay, solitamente più moderato di Duterte, ha garantito che “la solida amicizia” con gli Stati Uniti non verrà intaccata.
L’atteggiamento di Rodrigo Duterte sulle questioni di politica estera è dettato principalmente dalla consapevolezza dell’importanza della Cina per mantenere livelli di crescita economica sostenuti in un paese che continua ad avere un tasso di povertà elevatissimo e infrastrutture fatiscenti.
Duterte ha già intrapreso iniziative per sviluppare i rapporti economico-commerciali con la Cina, come aveva fatto la presidente delle Filippine fino al 2010, Gloria Macapagal Arroyo, prima della svolta strategica del successore di quest’ultima, Benigno Aquino, considerato un fedelissimo di Washington.
L’equilibrismo di Duterte rischia però di diventare insostenibile già nel breve periodo, poiché la crescente rivalità con la Cina spinge gli Stati Uniti a esigere posizioni chiare dai propri alleati circa la disponibilità ad abbracciare le politiche provocatorie adottate contro Pechino.
Le tensioni con le Filippine dimostrano però allo stesso tempo anche la declinante influenza americana in Asia orientale e le difficoltà a conservare rigide alleanze in una realtà segnata sempre più dal multipolarismo, nonché dall’ascesa della Cina e dalla sua capacità di condizionare le scelte strategiche dei paesi vicini.
Un’ulteriore dimostrazione degli affanni americani in Asia si è avuta nel recente summit dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico) in Laos, al termine del quale gli Stati Uniti hanno dovuto incassare l’ennesimo rifiuto dei paesi membri di condannare apertamente le operazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
Non solo, la Cina e i paesi ASEAN, incluse le Filippine, hanno finito per approvare all’unanimità un codice di condotta per regolare i conflitti ed eventuali situazioni di crisi nelle stesse acque contese, proprio come chiedeva da tempo il governo di Pechino.
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di Mario Lombardo
Dopo il quinto test nucleare effettuato dal regime della Corea del Nord venerdì scorso, la Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno prevedibilmente risposto in maniera molto dura, minacciando nuove sanzioni se non addirittura un devastante attacco militare. Martedì, poi, due bombardieri B-1 americani hanno provocatoriamente sorvolato i cieli della Corea del Sud, in segno di “solidarietà” con l’alleato di Seoul.
Nella capitale sudcoreana ha parlato anche l’inviato dell’amministrazione Obama per la Corea del Nord, Sung Kim, il quale ha ribadito che l’intenzione del suo governo è quella di fare approvare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “la più dura risoluzione possibile”.
Il diplomatico americano ha affermato che anche la Cina, cioè il principale alleato di Pyongyang, considera necessaria una risoluzione ONU in risposta al più recente test nucleare nordcoreano. Il Quotidiano del Popolo cinese ha infatti scritto martedì che Pechino ritiene che l’iniziativa del regime di Kim Jong-un “non favorisca la pace e la stabilità nella penisola di Corea”.
Allo stesso tempo, l’organo del Partito Comunista Cinese ha sottolineato la preferenza per il dialogo e i negoziati, peraltro in fase di stallo dal 2009 nella forma delle cosiddette “6 parti” (Corea del Nord, Corea del Sud, USA, Cina, Russia, Giappone).
I due B-1 americani sono giunti da una base a Guam, nell’Oceano Pacifico, e sono stati scortati da aerei da guerra sudcoreani fino a poco meno di 80 chilometri dal confine con la Corea del Nord. La manovra rientra nelle consuete modalità di risposta di Washington alle provocazioni di Pyongyang e, puntualmente, finiscono per aggravare lo scontro, suscitando reazioni e minacce decisamente al di sopra delle righe da parte del regime stalinista nordcoreano.
Le stesse misure adottate da Washington e Seoul dopo i “colloqui strategici” bilaterali di questa settimana non lasciano intravedere alcuna disponibilità ad aprire un vero dialogo con la Corea del Nord. I ministeri della Difesa dei due alleati hanno ribadito infatti che il regime di Kim deve rinunciare preventivamente al proprio programma nucleare in maniera “completa, verificabile e irreversibile”.
I due governi hanno anche confermato la volontà di installare sul territorio sudcoreano il sistema missilistico americano THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”), ufficialmente per rafforzare le capacità difensive di Seoul in caso di attacco dalla Corea del Nord ma visto correttamente da Pechino come una seria minaccia al proprio deterrente nucleare.
La questione del THAAD complica perciò ulteriormente la crisi coreana. L’accelerazione di Washington e Seoul su questo sistema anti-missilistico rischia infatti di irrigidire e rendere ancora più delicata la posizione della Cina.
Pechino si trova da tempo di fronte a un dilemma per quanto riguarda la Corea del Nord. Da un lato, il governo cinese assiste con preoccupazione alle provocazioni dell’alleato nordcoreano, poiché non fanno che offrire l’occasione agli Stati Uniti per procedere sempre più con la militarizzazione della penisola di Corea.
D’altra parte, Pechino esita però a esercitare pressioni su Pyongyang per il timore che un ulteriore isolamento del regime possa rischiare di destabilizzarlo o farlo crollare. Un esito di questo genere potrebbe sfociare nell’unificazione della penisola di Corea sotto il controllo americano, le cui forze armate sarebbero a quel punto direttamente al confine con la Cina.
Gli scrupoli cinesi sono alimentati anche dalle recenti minacce americane e sudcoreane indirizzate verso Pyongyang. L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha citato questa settimana un funzionario del governo di Seoul che ha descritto un piano del ministero della Difesa per distruggere la capitale della Nordcorea se dovessero emergere i preparativi da parte del regime per un attacco con armi nucleari.
Qualche mese fa alcuni organi di stampa avevano inoltre riportato l’esistenza di un piano segreto (OPLAN 5015) di Stati Uniti e Corea del Sud che prevede attacchi preventivi contro i centri di comando del Nord, assieme alla “decapitazione” della leadership del regime.
I preparativi americani per contrastare la minaccia di Pyongyang sono dunque in larga misura diretti contro la Cina e rappresentano, nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica promossa dall’amministrazione Obama, il corrispettivo nella penisola coreana delle provocazioni di Washington nel Mar Cinese Meridionale, sempre nei confronti di Pechino.
La condotta spesso imprevedibile e apparentemente irrazionale di Kim Jong-un consente fin troppo facilmente al governo americano e ai media ufficiali negli Stati Uniti, così come in Corea del Sud o in Giappone, di additare il regime nordcoreano come una minaccia esistenziale, la cui rimozione, anche con la forza, sarebbe tutto sommato giustificata.
Emblematico degli sforzi per rafforzare questa impressione è stato ad esempio un commento dell’esperto della Corea del Nord, Joel Wit, pubblicato martedì dal New York Times. Fondatore del sito 38north.org, Wit sostiene che gli Stati Uniti, e non la Cina, siano l’unica potenza in grado di risolvere la crisi coreana.
Per questa ragione, Washington dovrebbe utilizzare “il potenziale diplomatico, militare ed economico a sua disposizione”, prendendo parallelamente “tutte le misure necessarie a proteggere i propri alleati”, incluse quelle che “possono irritare la Cina”, come appunto la recente decisione di installare il sistema missilistico THAAD in Corea del Sud.
Eventuali ulteriori sanzioni contro Pyongyang dovrebbero essere poi adottate unilateralmente, visto che le pressioni su Pechino risulterebbero sempre “insufficienti” per via della necessità, da parte cinese, di preservare la stabilità del regime. Il ritorno al tavolo dei negoziati non viene escluso da Wit, anche se ciò sarebbe di fatto impossibile, dal momento che le iniziative preventive che gli Stati Uniti dovrebbero adottare non farebbero che peggiorare i rapporti già virtualmente inesistenti con una Corea del Nord che, da sempre, mostra di essere disponibile al dialogo soltanto se condotto su un piano paritario.
Simili proposte, valutate con ogni probabilità da molti all’interno del governo e dell’apparato militare americano, prospettano dunque l’illusione della possibilità di una soluzione sostanzialmente unilaterale alla crisi coreana. La Cina molto difficilmente potrebbe tuttavia rimanere fuori dall’equazione, se non al prezzo di alimentare ancor più le tensioni in Asia nord-orientale e far salire pericolosamente il rischio di un conflitto tra potenze nucleari.