di Michele Paris

Le proteste più massicce dalla fine del regime stalinista di Ceausescu, che animano da giorni le principali città della Romania, potrebbero proseguire anche nel prossimo futuro nonostante la decisione presa domenica dal governo Social Democratico di ritirare un decreto di emergenza che prospettava una sorta di amnistia per i politici corrotti del paese balcanico. Il provvedimento, assieme al discredito della classe politica romena, ha spinto oltre mezzo milione di persone nelle strade a partire da mercoledì scorso per manifestare contro un gabinetto formato poche settimane fa in seguito a quella che era apparsa a tutti gli effetti come una netta vittoria nelle elezioni parlamentari di dicembre del Partito Social Democratico (PSD).

Il rapido mutare delle fortune dei governi romeni non è d’altra parte cosa nuova. Sempre i Social Democratici erano stati bersaglio di proteste popolari già nel corso del 2015, quando, nel mese di novembre, l’allora primo ministro Victor Ponta era stato costretto alle dimissioni. In quel caso, le accuse di corruzione si erano saldate alla rabbia dovuta a un incendio scoppiato in una discoteca di Bucarest, nel quale erano morte 64 persone.

Se le proteste rappresentavano e rappresentano in buona parte uno sfogo genuino contro il degrado della politica in Romania e le condizioni di vita della maggior parte della popolazione, sia quelle del 2015 sia quelle attualmente in atto sono state sfruttate dall’Occidente e da determinare fazioni della classe dirigente indigena per regolare i propri conti.

In seguito alle dimissioni di Ponta, il presidente romeno filo-tedesco Klaus Iohannis, membro del Partito Nazionale Liberale (PNL) di centro-destra prima di diventare “indipendente”, aveva nominato a capo di un governo tecnico l’ex commissario europeo Dacian Ciolos. Dopo appena un anno, le dure politiche di austerity implementate da quest’ultimo avevano però riconsegnato la maggioranza al PSD.

Il nuovo esecutivo è guidato ora dal primo ministro Sorin Grindeanu, dal momento che il leader del partito, Liviu Dragnea, risulta ineleggibile a causa di una condanna per frode elettorale, mentre deve far fronte anche a ulteriori accuse per abuso di potere. Dragnea sarebbe stato perciò uno dei principali beneficiari del provvedimento presentato martedì scorso dal governo. Tra le misure da esso previste vi erano l’amnistia per sentenze inferiori ai cinque anni, anche se solo per certi crimini, e la depenalizzazione di alcune forme di corruzione nel caso le somme passate di mano fossero state inferiori a circa 44 mila euro.

I leader delle proteste hanno comunque promesso di continuare la mobilitazione. I timori riguardano la possibilità che alcune delle misure previste dal decreto, ritirato dal governo nella serata di domenica, possano rientrare in un disegno di legge da presentare al parlamento, dove la coalizione tra il PSD e l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici (ALDE) di centro-destra detiene la maggioranza. Secondo alcuni, l’obiettivo dei manifestanti potrebbe anche essere la caduta del governo Social Democratico di Grindeanu.

Il primo ministro, per cercare di limitare i danni ha chiesto un rapporto al ministro della Giustizia, Florin Iordache, sulla gestione della vicenda relativa al decreto sull’amnistia, in previsione di un possibile allontanamento di quest’ultimo dal governo.

I casi di corruzione che coinvolgono personalità politiche, anche di spicco, sono numerosissimi in Romania e riguardano praticamente tutti i principali partiti. Fin dal 2002 è stata creata una speciale Direzione Nazionale Anti-Corruzione (DNA) che negli ultimi anni ha incrementato notevolmente la propria attività, tanto che oggi si contano procedimenti aperti a carico di oltre duemila politici.

In uno scenario simile, era inevitabile e legittimo che una legge come quella avanzata dal governo settimana scorsa venisse accolta con rabbia dalla gran parte della popolazione romena. Dietro alle proteste e allo scontro politico sul decreto in questione vi è però anche un’aspra lotta di potere, all’interno della quale la crociata anti-corruzione è stata frequentemente usata come arma politica.

Se il leader del PSD Dragnea ha prevedibilmente accusato i manifestanti di essere manipolati e “organizzati in maniera professionale” per colpire il governo guidato dal suo partito, in un’intervista alla televisione romena, riportata dall’agenzia di stampa locale Agerpres, ha anche collegato gli eventi degli ultimi giorni nel paese all’evolversi del quadro internazionale.

Dragnea ha fatto una serie di riferimenti obliqui, citando “la situazione complicata in Moldavia”, ma anche “il contesto europeo e internazionale” dopo “l’elezione del nuovo presidente americano”. In effetti, il calcolo politico immediato dell’opposizione di centro-destra ha indubbiamente influito sulle proteste, come conferma ad esempio la partecipazione del presidente Iohannis a una delle prime manifestazioni anti-governative lo scorso mese di gennaio.

In gioco ci sono però anche gli equilibri strategici in Europa orientale nella competizione tra Stati Uniti, Unione Europea – in prima linea nel condannare l’iniziativa del governo di Bucarest – e Russia in una fase di transizione tra un’amministrazione Obama ferocemente anti-russa e il nuovo governo di Donald Trump che sembra intenzionato a ristabilire rapporti più distesi con Mosca a discapito di quelli con Bruxelles.

Una parte della classe dirigente americana e di quella europea teme inoltre che anche in Romania si possa insediare un governo meglio disposto verso la Russia, come già accaduto, sia pure con gradazioni diverse da caso a caso, in Ungheria, Slovacchia o Repubblica Ceca.

I Social Democratici romeni sono stati in realtà fedeli esecutori delle direttive europee e americane dopo la caduta del regime stalinista, nonché sostenitori della NATO. Ciononostante, i partiti “post-comunisti” in Europa orientale continuano a essere visti con un qualche sospetto nelle cancellerie occidentali, perché esposti presumibilmente all’influenza di Mosca e, quindi, potenzialmente pronti a farsi carico di un’eventuale svolta strategica se le circostanze internazionali lo richiedessero.

Ciò è precisamente quanto sta accadendo nella vicina Bulgaria, dove lo scorso mese di novembre un candidato “indipendente” sostenuto dal Partito Socialista ha vinto le elezioni presidenziali promettendo un riavvicinamento alla Russia. A marzo, inoltre, si voterà anticipatamente per il rinnovo del parlamento di Sofia con i Socialisti favoriti per riconquistare la maggioranza.

L’elezione di Trump ha poi complicato il quadro, con le prime avvisaglie di un conflitto tra USA e Germania già più che evidenti. I leader del PSD romeno, da parte loro, fin dall’approdo di Trump alla Casa Bianca hanno cercato di entrare nelle grazie del nuovo presidente americano, provocando i malumori del presidente Iohannis e degli ambienti di potere legati a Berlino e a Bruxelles.

Per quanto riguarda infine la lotta alla corruzione in Romania, condotta dall’apposita Direzione Nazionale e minacciata dal decreto del governo Grindeanu, l’operato di questa agenzia è messo in discussione da molti e non solo tra i membri del partito – il PSD, appunto – che conta finora il maggior numero di indagati e condannati.

La DNA opera infatti a stretto contatto con i servizi segreti romeni (SRI), suscitando i sospetti di quanti attribuiscono a questi ultimi la manipolazione delle accuse di corruzione a fini politici. Questi timori erano stati sollevati ad esempio in un approfondimento pubblicato dalla testata online Politico.eu già nell’aprile del 2016.

L’articolo, pur elogiando gli sforzi per combattere la corruzione fatti dalla Romania, ammetteva come in molti nel paese balcanico percepivano l’esistenza di uno “stato parallelo legato alla struttura della Securitate” che muove tuttora i fili della politica dietro le quinte. Ciò appariva tanto più preoccupante alla luce dell’importanza “cruciale” dell’intelligence per il successo della DNA.

Viste le implicazioni della vicenda che sta interessando la Romania, dunque, è facile prevedere che la crisi politica non si chiuderà tanto facilmente, anche nel caso il governo Social Democratico dovesse riuscire a contenere le proteste e a evitare clamorose dimissioni ad appena un mese dal proprio insediamento.

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