di Carlo Musilli

Esistono opinioni che fanno immediatamente pensare a un’alta concentrazione di alcol nel sangue di chi le esprime. Rientra fra queste l’ultima sparata di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e oggi alfiere della Brexit, che nel weekend è arrivato a paragonare l’Ue nientemeno che ad Adolf Hitler.

D’accordo, scagliare anatemi contro l’Europa è attualmente il suo mestiere, ma stavolta il fulvo politico tory si è spinto oltre i confini della propria dialettica e, verosimilmente, della propria cultura. Per convincere gli elettori britannici a votare in favore dell’uscita dall’Unione europea il prossimo 23 giugno, data in cui si terrà il referendum che terrorizza mezzo mondo, Johnson si è prodotto in un’esegesi storica parente stretta dello sproloquio.

In un’intervista al Sunday Telegraph, il rubizzo conservatore ha sentenziato che l’Ue persegue un obiettivo simile a quello del dittatore nazista nella creazione di un sovrastato europeo. Per dare sostanza a questa tesi, Johnson ha quindi allargato l’orizzonte cronologico della propria dissertazione, risalendo addirittura all’epoca classica. A suo modo di vedere, c’è un leitmotiv che caratterizza gli ultimi 2mila anni di storia europea: il periodico tentativo di riunificare il continente sotto un’unica insegna per far rivivere “l'età dorata dell'impero romano”.

Di chi parla il caro vecchio Boris? Carlo Magno? Carlo V? Non facciamo i pedanti. Siamo in campagna elettorale, meglio andare sul sicuro: “Napoleone, Hitler, varie persone ci hanno provato, ed è finita tragicamente”, continua l’argomentazione di Johnson, che poi, finalmente, arriva alla morale della favola: “L'Ue è un tentativo di fare lo stesso con metodi diversi”.

E dopo la storia, un po’ di politica: secondo l’ex sindaco, “l'eterno problema è che manca una sottostante lealtà all'idea di Europa. Non esiste una singola autorità che tutti rispettino o capiscano e questo crea un grande vuoto democratico”. Infine, Johnson veste i panni del vate, invoca lo spirito di Winston Churchill, e invita i britannici ad essere di nuovo “gli eroi dell'Europa” votando per l'uscita della Gran Bretagna dall’Ue, i cui “disastrosi fallimenti” hanno consentito alla Germania di “rilevare” l'economia italiana e “distruggere” la Grecia.

La prima cosa che viene da chiedersi è cosa direbbe lo stesso Churchill di fronte a cotanta approssimazione e superficialità. Certo, l’Unione europea è una creatura malata, controversa, problematica e il progetto che l’ha ispirata sembra ormai fallito sotto molti aspetti. La sfiducia è comprensibile: la gestione della crisi del debito ha dimostrato i danni che può fare l’egemonia politica ed economica di Berlino, mentre gli egoismi nazionali esplosi sulla questione dei migranti rischiano di mandare a rotoli perfino Schengen, ossia quel principio di libera circolazione che finora rappresenta probabilmente il traguardo più importante raggiunto dall’Ue.

Ma naturalmente niente di tutto questo giustifica il paragone con un’ideologia razzista, votata allo sterminio e responsabile di milioni di morti. Ammettere accostamenti così assurdi significa nel migliore dei casi perdere di vista i problemi dell’Europa di oggi, nel peggiore sminuire il nazismo. 

D’altra parte, l’ex sindaco è riuscito nell’intento di polarizzare ulteriormente il dibattito sulla Brexit, trasformando quest’ultimo mese di campagna in una sorta di bagarre da tempo di guerra fra interventisti e neutralisti. “Johnson fa un gioco veramente sporco – ha detto l'ex ministro laburista Yvette Cooper –, non dovrebbe fare giochetti con il periodo più buio e sinistro della storia europea. Più usa questo tipo di affermazioni isteriche, più dimostra la sua mancanza di giudizio”.

Di tutt’altro avviso Nigel Farage, leader del partito britannico euroscettico Ukip, che, in caso di vittoria del sì al referendum, si è detto pronto a sostenere l’ex primo cittadino di Londra (già in prima fila per la successione a Cameron alla guida dei Conservatori) nella corsa per diventare primo ministro. Parlando con il Daily Mail, Farage ha paragonato Johnson all'ex presidente americano Ronald Reagan e si è sperticato in dichiarazioni a dir poco entusiaste: “Amo Boris, lo rispetto, lo ammiro – ha detto –. Sono un fan di Boris. Potrei lavorare per lui? Certo. Posso immaginare uno scenario in cui diventi primo ministro e mi chieda qualcosa? Non lo escluderei”. C’è da sperare che lo escludano gli inglesi, il 23 giugno.

di Michele Paris

L’ormai quasi certezza della conquista della nomination Democratica ha già determinato una parziale svolta a destra da parte di una Hillary Clinton che sembra ben decisa a sottrarre un numero consistente di voti Repubblicani al suo sfidante, Donald Trump. La prevedibile evoluzione dell’ex segretario di Stato, per il momento solo all’inizio, sta avvenendo nelle fasi finali di elezioni primarie che hanno dimostrato un chiaro spostamento a sinistra dell’elettorato Democratico, evidente anche questa settimana nel voto in West Virginia, vinto a mani basse dal senatore “democratico-socialista” Bernie Sanders.

Hillary ha salutato l’uscita di scena dei rivali di Trump con un certo cambiamento dei toni e degli argomenti della sua campagna elettorale, abbandonando in parte quelli di carattere progressista per cominciare a dedicarsi al corteggiamento di leader e finanziatori Repubblicani spaventati dal candidato del loro partito.

Nelle dichiarazioni pubbliche dei giorni scorsi, Hillary ha sottolineato l’imprevedibilità di Trump e la minaccia che una sua presidenza rappresenterebbe per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti. Soprattutto l’ala conservatrice del Partito Repubblicano vede con sospetto le tendenze isolazioniste di Trump, così come le sue critiche ai trattati di libero scambio.

Per conquistarsi l’appoggio quanto meno di esponenti della diplomazia, degli ambienti militari e dell’intelligence che gravitano attorno ai Repubblicani, la ex first lady può d’altra parte vantare un lungo curriculum da “falco”, modellato attraverso il sostegno a svariate avventure belliche degli USA, da ultima quella in Libia che ha letteralmente devastato il paese nordafricano.

Gli sforzi di Hillary in questo senso sono sostenuti da giornali “liberal” come ad esempio il New York Times, il quale in almeno un paio di recenti articoli ha celebrato le attitudini guerrafondaie della candidata Democratica. La stessa testata ha spiegato inoltre come Hillary, “dopo un anno trascorso promuovendo politiche progressiste e concentrandosi in larga misura sugli appartenenti a minoranze etniche”, stia ora “riprogrammando la propria campagna per attrarre gli elettori bianchi indipendenti e quelli orientati a votare per i Repubblicani ma disgustati da Donald Trump”.

Alcune delle armi a disposizione della Clinton per riuscire in questo obiettivo le ha spiegate la commentatrice di destra Anne Applebaum in un editoriale pubblicato lo scorso fine settimana dal Financial Times. Mettendo a confronto le credenziali “conservatrici” di Hillary e di Trump in ambito “fiscale”, “del libero commercio” e “della sicurezza nazionale”, secondo la Applebaum non vi è dubbio che l’ex capo della diplomazia dell’amministrazione Obama sia la candidata migliore.

La stessa opinione è condivisa anche da esponenti di spicco negli ambienti Repubblicani. L’imprenditore multimiliardario Charles Koch, super-finanziatore di cause conservatrici e tradizionale bersaglio di “liberal” e progressisti americani, ha recentemente affermato che un presidente Clinton sarebbe preferibile a un presidente Trump.

David Petraeus, ex direttore della CIA ed ex comandante delle Forze di occupazione USA in Iraq e in Afghanistan sotto Bush e Obama, ha dichiarato invece che Hillary sarebbe un “meraviglioso presidente”. Quest’ultima, infine, ha incassato il sostegno ufficiale di Mark Salter, già consigliere del Repubblicano John McCain nella corsa alla Casa Bianca del 2008.

Se una svolta moderata, una volta messa in cassaforte la nomination del loro partito, è tipica dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, così da allargare la propria potenziale base elettorale, la tempestività di Hillary Clinton e il clima del tutto particolare che si è respirato in questa stagione di primarie la rendono piuttosto insolita.

Evidentemente, Hillary sente di poter dare per scontato che gli elettori di Bernie Sanders, dopo averlo appoggiato per la sua agenda progressista, finiscano per sostenerla a novembre, in modo da impedire la conquista della presidenza a un candidato al limite del fascismo. Se ciò succederà senza troppe defezioni dipenderà in parte anche dalle decisioni dello stesso senatore del Vermont, il quale rimane per ora ufficialmente in corsa per la nomination ma ha già lasciato intendere che appoggerà la sua sfidante dopo la convention Democratica di luglio a Philadelphia.

Com’è ovvio, Hillary deve comunque continuare a proporre una certa immagine di candidata progressista e alcuni argomenti, come ad esempio quello dell’assistenza sanitaria, stanno fornendo la possibilità di compensare le aperture già mostrate nei confronti dei Repubblicani. Proprio questa settimana, la Clinton si è infatti detta favorevole all’allargamento del piano sanitario “Medicare” a una parte più ampia della popolazione.

Questo programma è garantito dal governo federale e copre attualmente gli americani di età superiore ai 65 anni. La promessa, con pochissime possibilità di essere implementata, dovrebbe servire per rispondere alla proposta avanzata da tempo da Sanders per un piano di assistenza pubblico universale sul modello dei paesi europei.

Hillary come il marito Bill, ad ogni modo non ha mai mostrato troppi problemi nell’adattare la propria retorica e le proprie azioni a seconda della convenienza politica e dell’interesse personale. Soprattutto, entrambi si sentono perfettamente a loro agio con le politiche e gli ambienti di destra, come testimoniano le numerose iniziative di legge approvate durante la presidenza Clinton e che hanno in sostanza perfezionato l’evoluzione del Partito Democratico in uno strumento delle élite economiche e finanziarie degli Stati Uniti.

L’affidabilità quindi di Hillary agli occhi dei poteri forti è tutt’altro che sorprendente e un’ulteriore conferma si è avuta da un’indagine apparsa lunedì sul Wall Street Journal. In essa viene documentato come la candidata Democratica alla Casa Bianca stia “consolidando l’appoggio dei finanziatori di Wall Street… in vista della sfida con Donald Trump” e abbia perciò ottenuto “donazioni per la propria campagna elettorale dal settore finanziario in misura maggiore rispetto a tutti gli altri candidati messi assieme”.

Analizzando i dati del Center for Responsive Politics, un’organizzazione che si batte per la trasparenza dei contributi alla politica, il Journal ha rilevato come Hillary abbia ricevuto in questa stagione 4,2 milioni di dollari dall’industria finanziaria USA, di cui 334 mila nel solo mese di marzo, l’ultimo per il quale siano disponibili informazioni.

Il denaro ottenuto da Wall Street a marzo rappresenta il 53% di tutte le donazioni a suo favore, mentre era il 32% del totale nel 2015 e il 33% nel mese di gennaio. Questa impennata dimostra come i banchieri americani abbiano dirottato i loro dollari sulla candidata ritenuta più affidabile dopo il ritiro dei loro preferiti Repubblicani, principalmente Jeb Bush e Marco Rubio.

A dare l’idea degli orientamenti della finanza d’oltreoceano è il dato relativo alle donazioni a favore di Donald Trump. Il businessman di New York ha raccolto in media da Wall Street non più dell’1% del totale dei fondi, anche perché finora ha finanziato in gran parte di tasca propria la sua campagna elettorale. Gli equilibri potrebbero variare nel prossimo futuro, quando Trump avrà bisogno di aumentare le entrate per affrontare una lunga campagna contro Hillary Clinton. Il flusso di denaro verso quest’ultima, tuttavia, dimostra chiaramente le preferenze dei vertici dei grandi istituti finanziari americani.

Oltre che direttamente alla campagna di Hillary, Wall Street ha donato abbondantemente anche all’organizzazione parallela che sostiene la sua candidatura, la “Super PAC” Priorities USA Action. Questo ente, nominalmente indipendente e che secondo la legge non può coordinare la propria attività con il candidato che appoggia, fino a marzo ha ricevuto 18,7 milioni di dollari dall’industria finanziaria, di gran lunga il settore più generoso nei confronti della Super PAC pro-Clinton.

Ciò a cui si sta assistendo, come ha ricordato il Wall Street Journal, è quindi un cambio di rotta dei grandi donatori di Wall Street, dopo che nel 2012 avevano mostrato di prediligere il candidato Repubblicano, Mitt Romney, staccando assegni pari a ben 90 milioni di dollari per la sua campagna.

A spiegare la disposizione di banchieri e grandi investitori verso i due candidati alla presidenza è stato Andrew Weinstein, ex “stratega” Repubblicano e consulente della Securities and Exchange Commission, l’agenzia federale deputata alla vigilanza della borsa. Weinstein ha spiegato che Wall Street “non ama l’incertezza sulla politica fiscale, commerciale” e sulla regolamentazione del settore finanziario. Per questa ragione, in molti potrebbero prendere le distanze da Trump.

Inoltre, per il lobbysta Repubblicano Ed Rogers, i grandi interessi finanziari non sono convinti che Trump sia il candidato meglio disposto verso il business, tanto più che si fatica a prevedere quale sarà la sua condotta alla Casa Bianca. Al contrario, Hillary “è ben nota” a Wall Street ed è risaputo che le sue inclinazioni non sono certamente “anti-business”.

di Michele Paris

La determinazione con cui il governo Socialista in Francia intende smantellare i diritti dei lavoratori si è risolta martedì in una nuova manovra anti-democratica che ha di fatto negato il voto dell’Assemblea Nazionale su un pacchetto legislativo dalle conseguenze enormi. Con un’iniziativa che dà al tempo stesso la misura della profonda impopolarità del presidente Hollande e del livello di crisi che attraversa la democrazia francese, il primo ministro Manuel Valls ha fatto appello all’articolo 49, paragrafo terzo, della Costituzione per forzare l’approvazione della cosiddetta “legge Khomri” di fronte all’opposizione di decine di deputati dello stesso Partito Socialista.

Il nome del provvedimento deriva da quello del ministro del Lavoro transalpino, Myriam El Khomri, e la sola presentazione di esso aveva scatenato settimane di scioperi e proteste in tutto il paese. Tra le misure più impopolari vi è in primo luogo la possibilità data ai vertici delle aziende di negoziare direttamente le condizioni di lavoro con i propri dipendenti, aggirando i contratti e le regolamentazioni nazionali per sfruttare la posizione di debolezza dei lavoratori. Inoltre, la nuova legge renderà più facili i licenziamenti e apre la strada alla cancellazione della settimana lavorativa di 35 ore.

Il governo francese continua a sostenere che la “legge Khomri” è necessaria per dare un impulso all’occupazione nel paese, anche se, come dimostrano i precedenti assalti alle conquiste dei lavoratori in altri paesi, la promozione della flessibilità corrisponde a precise politiche di classe e serve unicamente a consegnare maggiori poteri ai datori di lavoro, nonché a favorire i loro profitti.

Alla luce della fortissima opposizione tra i francesi, il governo aveva acconsentito ad alcuni modesti cambiamenti della legge, lasciando cadere ad esempio il tetto massimo di risarcimento che un giudice può ordinare per i lavoratori licenziati senza un valido motivo. Le modifiche avevano spinto gli industriali a ritirare il proprio appoggio al provvedimento, anche se esse non hanno fatto nulla per ammorbidire giovani e lavoratori. Un recentissimo sondaggio ha mostrato come il 78% dei francesi sia tuttora contrario alla “legge Khomri”.

Tramite l’invocazione dell’articolo 49 della Costituzione, il consiglio dei ministri può decidere di fare approvare una legge senza il voto della camera bassa (Assemblea Nazionale). In tal caso, la legge in questione passa direttamente all’attenzione del Senato e, in caso di approvazione, torna di nuovo all’Assemblea Nazionale, dove però il governo ha sempre la facoltà di appellarsi allo stesso articolo 49.

L’unica arma a disposizione dei deputati per bloccare la legislazione è a questo punto la presentazione, entro 24 ore, di una mozione di “censura” firmata da almeno un decimo dei membri dell’Assemblea. Il voto su tale mozione deve poi avvenire entro due giorni e, nel caso essa ottenga la maggioranza, la legge è respinta e il governo viene di fatto sfiduciato.

L’articolo 49 è stato utilizzato 84 volte dai governi francesi a partire dal 1958 e in nessun caso le mozioni di sfiducia che sono seguite hanno avuto successo. Ciò non accadrà nemmeno in questa occasione, nonostante le mozioni già presentate dall’opposizione di centro-destra, in quanto per ottenere la maggioranza avrebbero bisogno dell’appoggio di una sessantina di deputati Socialisti.

Questi ultimi, malgrado le proteste contro la legge, non hanno nessuna intenzione di precipitare una crisi di governo che, nell’eventualità di elezioni anticipate, manderebbe senza dubbio il Partito Socialista all’opposizione. Le ultime rilevazioni di opinione indicano infatti il livello di gradimento del presidente Hollande ben al di sotto del 20%.

Il colpo di mano di Valls e Hollande è dunque la prova dell’estrema debolezza di un governo che, dopo avere perso il sostengo di lavoratori, studenti e pensionati a causa di una lunga serie di misure anti-sociali, cerca in tutti i modi di mantenere una parvenza di legittimità facendo appello, peraltro senza nemmeno troppo successo, all’unica base di sostegno rimastagli, cioè i grandi poteri economico-finanziari domestici e internazionali.

Questa situazione non è nuova per l’esecutivo di Parigi, visto che già lo scorso anno era dovuto ricorrere all’articolo 49 per far passare in maniera forzata un pacchetto di legge sulle liberalizzazioni economiche, preparato dal ministro dell’Economia, Emmanuel Macron.

Il ricorso a simili manovre dimostra come le misure di austerity e di ristrutturazione in senso ultra-liberista dell’economia e della società, adottate dalla classe dirigente francese e non solo, non sono ormai più compatibili con le regole consolidate della democrazia parlamentare. La loro implementazione è perciò possibile solo grazie a scorciatoie anti-democratiche che rischiano però di aggravare le tensioni sociali già alle stelle, per non parlare delle conseguenze disastrose in termini elettorali che attendono partiti come quello Socialista in Francia.

La sostanziale assenza di scrupoli democratici e per la sorte dei lavoratori anche da parte dei “frondisti” Socialisti era già apparsa chiara all’indomani dell’approvazione della legge Macron, andata in porto senza conseguenze parlamentari per il governo. Le decine di deputati della maggioranza che si sono dichiarati contrari alla più recente iniziativa di Valls e Hollande sono ben consapevoli sia delle pressioni esistenti nel paese per bloccare la legge sia degli effetti rovinosi che essa avrà sul partito.

Tuttavia, la maggior parte di essi non è pronta a far cadere il governo, ma preferisce attaccare soltanto verbalmente Valls e perpetuare così la finzione dell’esistenza di un’opposizione interna all’austerity nel Partito Socialista, la quale, se anche presente, risulta evidentemente del tutto inefficace nonostante possa contare sul potenziale appoggio di milioni di francesi.

Mercoledì, in realtà, i partiti della sinistra all’Assemblea Nazionale hanno cercato di presentare una mozione di “censura” contro il governo, ma gli sforzi sono alla fine falliti per la mancanza di due firme sulla petizione. Secondo la stampa francese, i deputati Socialisti firmatari sarebbero stati appena una trentina.

Le organizzazioni sindacali e quelle degli studenti hanno intanto annunciato nuove manifestazioni e scioperi. La mobilitazione popolare è però andata relativamente scemando nelle ultime settimane in Francia, visto anche che varie sigle sindacali, pur opponendosi alla “legge Khomri”, hanno manifestato la loro disponibilità a negoziare cambiamenti al testo del provvedimento. Ciò ha indubbiamente contribuito a convincere il governo a procedere con la presentazione della legge e con il tentativo di imporne l’approvazione.

Le ultime vicende politiche in Francia confermano così il percorso verso l’inevitabile tracollo del Partito Socialista in vista delle elezioni presidenziali del 2017. Come ha già evidenziato il voto amministrativo dello scorso anno, a beneficiarne saranno inevitabilmente l’opposizione “moderata” e, soprattutto, l’estrema destra del Fronte Nazionale.

di Mario Lombardo

Il risultato delle elezioni presidenziali di lunedì nelle Filippine è stato probabilmente accolto negli Stati Uniti con una certa apprensione per il futuro delle relazioni bilaterali con l’alleato asiatico e del disegno strategico in atto per cercare di contenere l’espansionismo cinese. Se il presidente eletto, Rodrigo Duterte, non è certo un nemico di Washington, né intende rinnegare gli accordi sottoscritti tra i due paesi negli ultimi anni sotto la presidenza di Benigno Aquino, i suoi precedenti e la condotta tenuta in campagna elettorale rendono però complicata qualsiasi previsione circa gli orientamenti della sua nascente amministrazione.

Duterte è stato sindaco per più di vent’anni della città di Davao, nelle Filippine meridionali, durante i quali si sono accumulate nei suoi confronti accuse di violazioni dei diritti umani. Il neo-presidente filippino è stato ad esempio indicato come il facilitatore di squadre della morte, responsabili, secondo stime di alcune organizzazioni non governative, dell’assassinio extra-giudiziario di oltre mille presunti criminali, minori inclusi.

La sua campagna elettorale è stata segnata da numerose uscite offensive nei riguardi di molti, dalle vittime di stupri ai governi di paesi come USA, Australia e Cina. Duterte, inoltre, non ha mai rinnegato il proprio passato da “poliziotto” a Davao, anzi, per convincere gli elettori ha puntato precisamente sulla lotta al crimine con ogni mezzo, arrivando addirittura a minacciare di gettare 100 mila cadaveri di criminali nella Baia di Manila o di uccidere i lavoratori che dovessero provare a creare un sindacato nelle zone franche che intende creare per favorire le esportazioni e attirare capitali dall’estero.

Nonostante le Filippine vengano dipinte dalla stampa e dagli ambienti finanziari internazionali come un modello, grazie a una crescita economica attestata a una media del 6,2% nei sei anni di presidenza Aquino, la realtà per decine di milioni di persone continua a essere ben poco incoraggiante. Duterte, da abile populista di destra, ha saputo cavalcare il malumore degli elettori verso una classe dirigente incompetente e ultra-corrotta, presentandosi come un outsider in grado di risolvere i problemi del paese, se necessario con il pugno di ferro.

La sua candidatura è per certi versi paragonabile a quella di Donald Trump negli Stati Uniti e, come quello del miliardario newyorchese, anche il successo dell’ex sindaco di Davao ed ex procuratore è in sostanza il risultato dello spostamento a destra e del progressivo ricorso a politiche anti-democratiche da parte della classe dirigente del suo paese in un clima di crescenti tensioni sociali.

Rodrigo Duterte ha in ogni caso raccolto quasi il 39% dei consensi nelle elezioni di lunedì, beneficiando della legge elettorale filippina a turno unico che premia il candidato presidente in grado di ottenere la maggioranza semplice dei voti espressi. Come già anticipato, Duterte è una sorta di incognita per Washington, da dove le presidenziali nelle Filippine devono essere state seguite con particolare interesse.

I candidati preferiti dagli USA erano il favorito del presidente Aquino, l’ex ministro dell’Interno Mar Roxas, e, in seconda battuta, la ex cittadina americana, Grace Poe. Questi due candidati si sono fermati rispettivamente al 23% e al 22%, davanti al vice-presidente uscente, Jejomar Binay (13%). Tra gli aspiranti alla presidenza, quest’ultimo era quello che maggiormente auspicava un approccio più equilibrato nei confronti della Cina e, dopo essere stato a lungo in vantaggio nei sondaggi, la sua candidatura è stata di fatto affondata da una serie di scandali in cui è stato opportunamente coinvolto.

Lunedì si è votato anche per la carica di vice-presidente che, nelle Filippine, viene assegnata separatamente da quella di presidente. I dati non ancora definitivi indicano un testa a testa tra la candidata del Partito Liberale di Aquino, Leni Robredo, data in leggero vantaggio, e Ferdinand “Bongbong” Marcos, senatore e figlio dell’omonimo ex dittatore filippino.

L’interesse per il voto nelle Filippine deriva principalmente dal fatto che il governo di questo paese negli ultimi anni ha rappresentato uno dei punti di riferimento della politica asiatica dell’amministrazione Obama. Durante la presidenza Aquino, Manila è stata in prima linea nel confronto con Pechino, focalizzato sulle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, alimentate proprio da Washington.

Oltre a svariati episodi che hanno messo di fronte le flotte commerciali e militari dei due paesi, la disputa ha registrato una grave escalation da parte delle Filippine con la presentazione di un esposto presso il tribunale dell’ONU a L’Aia, in Olanda, per dichiarare nulle le rivendicazioni cinesi in base alla Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS). La denuncia è stata sollecitata direttamente dagli USA, i quali non hanno peraltro mai sottoscritto la Convenzione, e un eventuale verdetto contrario alla Cina sarà utilizzato per esercitare ulteriori pressioni e provocazioni nei confronti di Pechino.

Proprio l’atteggiamento che Duterte terrà verso la Cina dopo il verdetto del tribunale ONU, atteso nelle prossime settimane, servirà agli Stati Uniti per giudicare l’amministrazione entrante a Manila. Non solo, il governo del nuovo presidente dovrà di fatto implementare anche l’accordo di cooperazione militare stipulato da Aquino con Washington e che prevede l’accesso a un certo numero di basi nelle Filippine da parte delle forze navali della ex potenza coloniale.

Il trattato aveva sollevato seri dubbi di costituzionalità ma la Corte Suprema filippina ha alla fine dato la propria approvazione, anche grazie alla presenza al proprio interno di giudici nominati dal presidente Aquino. L’amministrazione Obama considera questo accordo fondamentale nel quadro della propria strategia di accerchiamento militare della Cina.

Le riserve americane nei confronti di Rodrigo Duterte non riguardano dunque le sue inclinazioni tendenti al fascismo o i precedenti crimini commessi dal neo-presidente. Piuttosto, a sollevare più di una perplessità a Washington sono le dichiarazioni contrastanti rilasciate negli ultimi mesi e che al momento non lasciano intravedere una chiara idea dell’atteggiamento che Duterte prediligerà in ambito strategico.

Oltre che a una personalità vulcanica e imprevedibile, l’ambivalenza mostrata dal presidente eletto delle Filippine dipende anche e soprattutto da fattori oggettivi che hanno a che fare con l’importanza per il suo paese sia della partnership con gli Stati Uniti sia, e forse ancor più, dei legami economici con la Cina. Questo dilemma assilla in definitiva le classi dirigenti di tutti i paesi asiatici coinvolti in qualche modo nei meccanismi della rivalità tra USA e Cina.

Per queste ragioni, Duterte ha oscillato spesso in campagna elettorale tra posizioni filo-americane e altre molto più concilianti verso Pechino. Ad esempio, in varie occasioni si è mostrato pronto a prendere iniziative per favorire gli investimenti cinesi nelle Filippine, mentre sul fronte delle dispute territoriali è sembrato appoggiare alternativamente entrambi gli estremi del dibattito in corso.

Soltanto settimana scorsa aveva sposato un’ipotesi sgradita a Washington, mostrando la sua disponibilità a condurre colloqui bilaterali con Pechino per risolvere la crisi riguardante il Mar Cinese Meridionale. Subito dopo il voto, invece, Duterte ha operato una svolta di 180 gradi, optando per una soluzione questa volta invisa alla Cina, appoggiando cioè negoziati multilaterali che dovrebbero includere, oltre ai due paesi direttamente interessati, anche gli USA, il Giappone e l’Australia.

di Michele Paris

Il presidente americano Obama è finito qualche giorno fa al centro di una causa legale con implicazioni che toccano in maniera diretta i limiti costituzionali e di legge del potere esecutivo negli Stati Uniti. Il procedimento è stato insolitamente avviato da un giovane capitano dell’Esercito USA, preoccupato per la palese illegalità della guerra scatenata dalla Casa Bianca nel 2014 contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio iracheno e siriano.

Il 28enne ufficiale, Nathan Michael Smith, lavora per l’intelligence militare in Kuwait e, come egli stesso ha spiegato, accetta in pieno la logica della “guerra al terrore”, così come considera necessaria la guerra all’ISIS. Tuttavia, la sua iniziativa è motivata dal fatto che il presidente non ha alcuna autorizzazione a condurla, visto che il Congresso di Washington non ha mai approvato con un voto l’impegno americano su questo fronte.

Per Smith, decidendo i bombardamenti in Iraq e in Siria, ma anche inviando in questi paesi soldati e membri delle Forze Speciali, Obama avrebbe violato la Costituzione, secondo la quale solo il Congresso detiene il potere di dichiarare guerra, e la legge del 1973 che regolamenta questa stessa materia (“War Powers Resolution”).

Quest’ultima legge era stata approvata nel corso della guerra in Vietnam e stabilisce che il presidente degli Stati Uniti, entro 48 ore dall’inizio di una qualsiasi azione militare, deve renderne conto al Congresso. Inoltre, il presidente deve richiedere e ottenere l’approvazione del Congresso entro 60 giorni dall’inizio delle ostilità. In assenza di una simile autorizzazione, entro i successivi 30 giorni deve essere posta fine alla guerra stessa.

Se le ragioni del capitano Smith possono essere discutibili, la sua denuncia ha l’indubbio merito di riportare all’ordine del giorno il dibattito sulla legittimità legale dalla più recente guerra lanciata dagli USA in Medio Oriente e, ancor più, sulla trasformazione dell’esecutivo in questo paese, da anni ormai dotato di poteri virtualmente illimitati, quanto meno sul fronte dell’azione militare.

Il presidente degli Stati Uniti è il “comandante in capo” durante i conflitti ma è il Congresso a dichiarare guerra e a concludere i trattati di pace, nel rispetto della separazione dei poteri e per impedire l’accumulo di eccessiva autorità da parte di un’unica carica o istituzione.

Come probabilmente mai accaduto nella storia americana, l’amministrazione Obama ha tenuto una condotta straordinariamente contraria ai principi legali e costituzionali nel perseguire gli interessi della classe dirigente USA all’estero. Il presidente Democratico, in questo ambito, è andato ben al di là dell’amministrazione Bush, la quale aveva per lo meno fatto approvare specifiche autorizzazioni del Congresso, in modo da ottenere un mandato formale per scatenare guerre all’estero.

L’attitudine dell’attuale inquilino della Casa Bianca, ironicamente anche ex docente di diritto costituzionale, è d’altronde la logica evoluzione di un processo segnato dalla crescente ostilità per le forme democratiche di governo, inclusa la “War Powers Resolution”, in parallelo alla “guerra al terrore” e, di conseguenza, all’emergere di altre caratterizzate da una chiara tendenza all’autoritarismo.

La legge sui poteri di guerra era stata violata dall’amministrazione Obama già nel 2011 con l’aggressione della Libia per forzare il rovesciamento del regime di Gheddafi. In quell’occasione, il presidente non aveva nemmeno provato a cercare un’autorizzazione del Congresso e svariati deputati e senatori Repubblicani avevano criticato anche aspramente la decisione della Casa Bianca.

Con l’emergere nel 2014 di un nuovo nemico in Medio Oriente - l’ISIS - Obama aveva nuovamente avviato una guerra in maniera unilaterale. In questo caso, la giustificazione legale per l’intervento era stata indicata nell’Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (AUMF), ovvero la legge votata a larga maggioranza dal Congresso di Washington all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 e che aveva permesso all’amministrazione Bush di utilizzare tutti i mezzi necessari a perseguire i responsabili degli attentati.

Queste fondamenta legali appaiono però estremamente fragili e controverse. La guerra lanciata nel 2014 è infatti contro un’organizzazione fondamentalista che nemmeno esisteva al momento dell’approvazione dell’AUMF e che nulla ha a che fare con l’Afghanistan, paese dove secondo gli USA avevano trovato rifugio i pianificatori degli attentati del 2001.

Inoltre, la filiale di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra, ha da tempo sconfessato l’ISIS. Per Washington, tuttavia, la nascita dell’ISIS è da collegare alle operazioni di al-Qaeda durante il conflitto in Iraq e, dunque, la giustificazione legale fondata sulla legge del 2001, che intendeva punire l’organizzazione che fu di bin Laden, sarebbe del tutto legittima.

Il Dipartimento di Giustizia di Washington fa notare poi come la guerra all’ISIS sia giustificata legalmente anche da un'altra autorizzazione, quella che il Congresso garantì all’amministrazione Bush nel 2002 per invadere l’Iraq. Su questa misura, Obama ha però affermato di non voler basare la guerra all’ISIS, dal momento che tale “autorizzazione” è ancora meno difendibile di quella del 2001 e che diede il via libera alla distruzione di un intero paese.

Se l’amministrazione Obama sostiene pubblicamente di agire in Iraq e in Siria nel pieno rispetto dei poteri costituzionali, più di un dubbio deve però attraversare i pensieri del presidente. Infatti, lo scorso anno la Casa Bianca aveva richiesto formalmente al Congresso un’autorizzazione a combattere l’ISIS, sia pure senza vincolare la continuazione delle operazioni militari al voto di Camera e Senato.

Il Congresso non ha mai agito, visto che a prevalere sembrano essere le divisioni tra quanti vogliono riaffermare i limiti legali del presidente in ambito bellico e coloro che, al contrario, auspicano l’attribuzione di poteri ancora più vasti al capo dell’esecutivo.

Secondo il New York Times, la causa avviata contro Obama la settimana scorsa potrebbe sfociare proprio in un provvedimento che amplia le facoltà del presidente di condurre guerre. Se cioè la richiesta del capitano Smith trovasse accoglimento in tribunale, il Congresso potrebbe agire per evitare lo stop alla guerra, finendo anche per attribuire maggiori poteri al presidente.

L’ufficiale americano si troverà comunque di fronte ostacoli enormi. Tra di essi vi è il comportamento dello stesso Congresso, il quale, secondo molti, ha dato il proprio implicito appoggio alla guerra all’ISIS attraverso lo stanziamento del denaro necessario a finanziarne le operazioni.

Oltre alla causa in sé, è infine significativo che a sollevare in un’aula di tribunale la questione della legalità e costituzionalità dell’ultima incarnazione della “guerra al terrore” degli Stati Uniti sia l’iniziativa individuale di un ufficiale dell’Esercito. Il silenzio o il disinteresse dei politici e dei media per una questione vitale come questa testimonia dell’avanzato stato di degrado delle istituzioni democratiche americane.

Tutti le parti in causa, dal governo al Congresso alla stampa, hanno d’altra parte svolto il loro compito per favorire la promozione degli interessi nascosti dietro la “guerra al terrore”, contribuendo così al processo di accentramento di poteri nelle mani del presidente e a trasformare in un dato di fatto praticamente indiscutibile lo smantellamento di alcuni dei più fondamentali principi democratici fissati dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti.


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