di Michele Paris

Nella giornata di lunedì è andata in scena negli Stati Uniti una delle ultime procedure di un complicato processo elettorale che culminerà il 20 gennaio prossimo con l’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente. La convocazione del cosiddetto Collegio Elettorale in ognuno dei 50 stati americani ha ratificato il voto popolare dello scorso 8 novembre ma, nonostante anche in questa occasione non si siano verificate sorprese, l’evento ha attirato l’attenzione dei media e degli attivisti del Partito Democratico, dal momento che esso era sembrato essere l’ultima opportunità, sia pure in larga misura teorica, di impedire l’installazione di Donald Trump alla presidenza.

Di per sé, già il fatto che una procedura solitamente ignorata dalla stampa e, ancor più, dagli elettori, sia diventata quest’anno oggetto di discussione, se non di scontro, è il sintomo delle scosse al sistema politico americano provocate da un’aspra campagna elettorale e dalla vittoria inaspettata di Trump su Hillary Clinton.

Come è noto, nelle presidenziali americane gli elettori non scelgono direttamente il candidato alla Casa Bianca, bensì i 538 membri del Collegio Elettorale che, suddivisi proporzionalmente secondo la delegazione al Congresso di Washington di ogni singolo stato, dovranno appunto votare materialmente per il nuovo presidente.

Questi “grandi elettori” non sono teoricamente vincolati al risultato delle elezioni nei loro rispettivi stati, anche se alcuni di questi ultimi hanno attuato leggi che impediscono di fare una scelta diversa da quella degli elettori. I giornali americani in questi giorni hanno spiegato però che queste leggi, le quali prevedono una serie di provvedimenti e sanzioni per coloro che si discostano dal voto del loro stato, potrebbero non sopravvivere a un eventuale ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

In ogni caso, nelle settimane dopo l’election day si sono diffuse ipotesi di un clamoroso voltafaccia dei membri del Collegio Elettorale o, quanto meno, si sono moltiplicate le iniziative per convincerli a privare Trump della maggioranza necessaria per conquistare ufficialmente la presidenza.

Una petizione on-line ha raccolto ad esempio quasi 5 milioni di firme, mentre il regista Michael Moore ha chiesto ai “grandi elettori” Repubblicani di “votare secondo la loro coscienza”, promettendo loro di pagare personalmente le sanzioni che avrebbero potuto essere applicate per la scelta di un candidato diverso da Trump.

Un membro del Collegio Elettorale in Texas ha invece dichiarato pubblicamente che non avrebbe votato per Trump. Un altro ancora si era dimesso per evitare di votare per un candidato che non riteneva legittimo.

Ancora più significativa è stata però la lettera aperta indirizzata al direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, da alcune decine di “grandi elettori” per chiedere di essere informati dettagliatamente sulla presunta intrusione di hacker al servizio del governo russo nel processo elettorale americano.

Questa iniziativa, appoggiata anche dal capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, dimostra come le pressioni sul Collegio Elettorale americano derivano per lo più proprio dalle accuse rivolte a Mosca di avere favorito l’elezione di Trump, nonostante di simili azioni non vi sia prova se non nelle dichiarazioni di esponenti dell’intelligence americana.

Clapper ha comunque bocciato la richiesta, a conferma di come anche nel campo anti-Trump ci siano divisioni e molti auspichino prudenza per non mettere in discussione il sistema elettorale americano. Secondo il sito Politico.com, svariati membri Democratici del Collegio Elettorale in stati vinti da Trump erano pronti a cambiare il proprio voto, ma attendevano un segnale da parte di Hillary Clinton, che invece non è mai arrivato.

Anche considerando legittima la libertà di scelta dei “grandi elettori”, è singolare che la campagna per cercare di privare Trump della presidenza non si sia basata su fattori ben più importanti e reali. In primo luogo sul fatto che Hillary Clinton ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più del suo rivale su scala nazionale.

Poi, sulla costruzione da parte di Trump di un gabinetto ultra-reazionario, composto da figure con inclinazioni chiaramente fasciste e che prefigura la distruzione di ciò che rimane dello stato sociale in America e delle regolamentazioni al business privato.

L’ossessione per il ruolo attribuito alla Russia nel decidere le elezioni americane ha trasformato perciò anche la formalità del voto del Collegio Elettorale per il nuovo presidente in un terreno di scontro sulle scelte strategiche di Washington.

Gli attacchi portati contro Trump da parte dei leader del Partito Democratico vengono cioè in sostanza da destra, visto che non hanno nulla a che vedere con il profilo ultra-reazionario della nascente amministrazione, ma intendono alimentare un clima di scontro con una potenza nucleare per promuovere gli interessi planetari di quelle sezioni dell’establishment USA a cui fanno riferimento.

Se, pure, il tentativo di far cambiare idea ai “grandi elettori” era fin dall’inizio destinato a fallire, come peraltro ben sapevano i vertici Democratici, il vero obiettivo di questa iniziativa, così come più in generale della caccia alle streghe in atto, non era e non è quello di impedire a Trump di insediarsi alla Casa Bianca, quanto piuttosto di rendere complicata se non impossibile una possibile svolta strategica che si risolva in una qualche riconciliazione con Mosca.

L’intenzione del Partito Democratico e degli ambienti di potere che a esso fanno capo non è insomma quella di combattere la presidenza Trump sulla base di un’agenda progressista, bensì tramite la promozione del militarismo e del confronto con quello che viene considerato come il principale rivale strategico degli Stati Uniti.

A livello popolare, al contrario, continua a essere presente una forte opposizione a Trump e al suo progetto politico reazionario. Lunedì si sono tenute infatti manifestazioni di protesta di fronte alle sedi dei parlamenti locali in svariati stati, dove erano riuniti i “grandi elettori”, tutte o quasi all’insegna dell’ostilità per le politiche di estrema destra che il presidente eletto sta mettendo in cantiere.

Durante la giornata sono così giunti a poco a poco a Washington i risultati del voto tenuto nei vari stati che hanno confermato l’elezione di Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti. Mentre polemiche e accuse proseguiranno, il prossimo appuntamento sarà il 6 gennaio, quando i membri di Camera e Senato si riuniranno per il conteggio dei voti espressi dal Collegio Elettorale. A presiedere la seduta sarà il vice-presidente uscente e presidente del Senato, Joe Biden, il quale, in assenza di obiezioni, proclamerà ufficialmente l’inizio dell’era Trump negli Stati Uniti.

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