di Fabrizio Casari

La vittoria schiacciante di Donald Trump ha sorpreso l’intero sistema mediatico e politico, dentro e fuori dagli USA. Benché s’intuissero le debolezze di Hillary Clinton, si riteneva che l’impresentabilità di Donald Trump portasse, per consunzione, a votare per la candidata democratica. Il presupposto fondamentale per l’errore di valutazione é stato l’idea che il voto sia ormai ridotto ad esercizio di stile più che a scelta politica, a consuetudine più che a una richiesta di ascolto da parte di un elettorato privato di ogni interlocuzione politica.

E invece no. Il voto, proprio in assenza di una demarcazione ideologica netta tra le forze politiche, quando si manifesta assume le sembianze di un grido destinato a squarciare il silenzio di una globalizzazione che rende possibile una sola idea, un solo programma, un solo destino.

Trump è riuscito a saldare in una candidatura di rottura con l’establishment politico (sia democratico che repubblicano) la parte peggiore degli Stati Uniti e le vittime del suo sistema. Ovvero ha messo insieme l’America più buia, quella dei razzisti e dei suprematisti bianchi, dei fanatici delle armi, del fondamentalismo religioso e del Tea Party - patrimonio elettorale della destra Repubblicana . con l’America più profonda, quella del disagio sociale, che avrebbe dovuto essere rappresentata dai Democratici. Quella che dal 2008 ha visto precipitare nella crisi la sua stessa coesione sociale, determinando l’impoverimento della classe media e lo sprofondamento delle classi più svantaggiate. In una simbolica linea parallela, Trump ha unito le due sponde opposte che sono diventate un unico mare.

Il voto è stato una risposta gridata contro una crisi sociale e di rappresentanza. E’ stato una rivolta contro le elites. Una dichiarazione di sfiducia verso un sistema guidato dal capitale finanziario che ha dichiarato guerra al lavoro, ai diritti sociali e alle politiche di accompagnamento ai settori più deboli. Sono le politiche che hanno innescato un darwinismo sociale che ha strappato il tessuto sociale del paese. L’America muta e quella dei millennials, dei disoccupati e della casse operaia ha votato, magari turandosi il naso ma gridando l’insostenibilità della sua condizione.

E anche l’America dei migranti, di quei latinos verso i quali Trump ha pronunciato le parole peggiori, ha preferito votare contro, esprimere un gesto di rottura contro l’establishment. Persino una parte consistente dell’immigrazione messicana, benché si senta minacciata direttamente e sia stata insultata ignobilmente, ha votato per lui. Lo ha fatto per votare contro Hillary. Perché la protesta sostiene gli outsider e non il potere consolidato. E’ naturale che il rovesciamento del tavolo sul quale si gioca la partita colpisca chi amministra e non chi è fuori dalle logiche.

Proprio per questa caratteristica quella di Trump é una rivoluzione ancor più forte di quella di Reagan. Se la prima ha offerto le premesse ideologiche per il monetarismo neoliberista, questa ne ha raccolto la sua insopportabilità. E sebbene il partito Repubblicano controllerà Camera dei Rappresentanti e Senato, il suo gruppo dirigente non ha molto di cui gioire. Trump ha avuto nella relazione diretta con gli elettori la sua forza e non nel lavoro organizzativo del suo partito, e ha nel suo programma elettorale una sostanziale sconfessione di parti importanti del disegno Repubblicano.

Peraltro, oltre ad essere un outsider, a differenza di Reagan con la sua vittoria ha dichiarato anche la messa in mora dello stato maggiore del partito che, salvo rare eccezioni, ha ritenuto di non doverlo sostenere e che quindi avrà ora una scarsa capacità di condizionarlo nelle scelte presidenziali. Le elezioni hanno chiarito come Trump non sia un prodotto del partito Repubblicano, semmai sono i Repubblicani che devono a Trump la loro affermazione.

Per i Democratici la sconfitta è bruciante, anche per come è maturata. Hillary era la peggior candidata che potessero scegliere. Solo con Sanders avrebbero potuto vincere, perché la candidatura del Senatore del Vermont avrebbe rappresentato l’intenzione di riposizionare il partito all’ascolto delle vittime di un sistema iniquo ed opprimente. Ma il partito Democratico è ormai privo di qualsivoglia profilo coerente con il suo nome e la cacciata di Sanders è stata solo la conferma di ciò.

E nonostante le volgarità sessiste di Trump, nemmeno il voto femminile ha sostenuto la prima campagna elettorale per una donna alla Casa Bianca; perché più che delle donne Hillary Clinton è stata percepita come la rappresentante dell’establishment, dei poteri forti e dei grandi gruppi finanziari. “Voglio una donna alla Casa Bianca, ma non questa donna” è stato il claim di molte elettrici.

Hillary é stata vista come icona dei compromessi e dell’inganno, delle bugie e della lotta sordida per il potere. E l’endorsment di grandi banche e gruppi di potere finanziario, delle corporations, dei grandi media e dello star-siystem, hanno ulteriormente rafforzato questa sua immagine.

Priva di ogni possibile empatia, arrogante e bugiarda, incapace di comunicare con le persone normali, quelle che non siedono nei board delle società finanziarie, ha solo minacciato un inasprimento della guerra con la Russia e il proseguimento delle guerre mediorientali.

Di fronte alla pubblicazione delle sue mail segrete non ha avuto il coraggio di affermare la verità, preferendo inoculare rabbia e veleno contro chi aveva reso pubblico quanto affermava in segreto e minacciare rappresaglie. In una notte, 24 anni di potentato della famiglia Clinton è stato rimosso.

Sconfitti anche i sondaggisti, che avevano vaticinato ben altro risultato. Ma non c’è da stupirsi se non hanno compreso quanto succedeva nel ventre della società americana. Per definizione lavorano in superficie e non scendono verso la parte più profonda del paese, che non considerano negli algoritmi che sottintendono la cultura del marketing politico.

A forza di credere che a politica è solo marketing e che il candidato è solo un brand, ci si dimentica che le persone non sono solo consumatori. Che utilizzano lo spazio minimo concesso per esprimere quello che provano, quello che chiedono e quello che rifiutano. Dunque, se il contesto è quello rappresentato da una globalizzazione che ha distrutto l’identità socioeconomica di milioni di persone, quel voto sarà esattamente il grido di protesta contro la loro perdita di cittadinanza.

Identico errore hanno commesso i media, schierati pancia a terra con Hillary Clinton perché incapaci di leggere la società. Infastiditi da tutto ciò che non emana il profumo del potere, emarginano o nascondono ogni contraddizione sociale, confondendo il popolo con i loro lettori e scambiando il ruolo di giornalisti con quello dei funzionari al servizio dell’ideologia.

Il primo discorso di Trump dopo l’annuncio della sua vittoria è stato improntato su uno stile corretto, completamente diverso per parole e toni da quelli della campagna elettorale. Non solo perché l’immagine di rottura serve per vincere e non per governare, ma perché il compito che lo aspetta non consente una spaccatura netta nel paese.

Difficile immaginare quali saranno le sue prime mosse, ma intanto il temuto crollo dei mercati non c’è stato e le Borse hanno risposto positivamente al nuovo assetto di Washington.

La dose del programma che vorrà o potrà applicare dipenderà da diversi fattori ma con la sua vittoria le scelte di politica estera subiranno modifiche profonde. Quanto e come esse si verificheranno dipenderà dal livello di mediazione con il complesso militar-industriale che il tycoon, ora Presidente, sarà in grado di stabilire.


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