di Michele Paris

A giudicare dalla stampa ufficiale negli Stati Uniti, il principale responsabile per il caos e le divisioni che sta attraversando il Partito Democratico mentre è in corso di svolgimento la convention nazionale a Philadelphia non sarebbe altri che il presidente russo, Vladimir Putin. Le trame del capo del Cremlino per “distruggere la democrazia americana” favorirebbero intenzionalmente il candidato Repubblicano alla presidenza, Donald Trump, a sua volta definito dai media come una sorta di fantoccio pronto a fare il gioco di Mosca.

Il livello di isteria anti-russa raggiunto dai media d’oltreoceano, impegnati a propagandare l’agenda del governo di Washington, sarebbe giornalisticamente di scarso interesse se non per il fatto che si inserisce in una delicatissima campagna elettorale per la presidenza e, soprattutto, nel pieno di una rivalità tra le due potenze nucleari che rischia seriamente di sfociare in un conflitto rovinoso.

Com’è noto, Putin è stato trascinato nel dibattito politico statunitense dopo la pubblicazione la settimana scorsa da parte di WikiLeaks di circa 20 mila e-mail scambiate durante le primarie dai membri del Comitato Nazionale del Partito Democratico (DNC). Da molti di questi messaggi si comprende, tra l’altro, come i vertici del partito abbiano manovrato dietro le spalle degli elettori per favorire la candidatura di Hillary Clinton e far naufragare quella di Bernie Sanders.

Già una prima serie di documenti del DNC era apparsa in rete nel mese di giugno e i leader Democratici, così come la stampa allineata al partito di Obama e Hillary, avevano puntato il dito contro hacker al servizio del governo russo. In quell’occasione, un hacker indipendente che opera sotto il nome di Guccifer 2.0 aveva però rivendicato la responsabilità unica della violazione dei server del Partito Democratico. Le accuse contro la Russia non erano inoltre sorrette da nessuna prova concreta, ma si basavano per lo più su presunte ricerche di esperti informatici di compagnie spesso legate ad ambienti Democratici di Washington.

Le accuse a Mosca sono così tornate prevedibilmente a occupare le prime pagine dei giornali americani anche dopo le più recenti rivelazioni di WikiLeaks. Anzi, la ferocia con cui giornali come il Washington Post o il New York Times hanno attaccato Putin per le interferenze nella campagna per la Casa Bianca è apparsa ancora più accentuata visti gli affanni di Hillary e la pessima figura fatta dal Partito Democratico nelle fasi di apertura della convention.

Un durissimo editoriale contro la Russia, pubblicato martedì proprio dal Washington Post, ha dato l’idea di quanto sia ritenuta essenziale la vittoria dell’ex segretario di Stato nelle elezioni di novembre da una parte consistente della classe dirigente americana, quella cioè legata all’apparato militare e dell’intelligence che non vede altra soluzione al declino degli Stati Uniti se non in una politica estera sempre più aggressiva.

Il delirio del giornalismo “mainstream” negli USA, riassunto nella presa di posizione del Post, non fa dunque che giustapporre una serie di fatti non provati all’interno di una ricostruzione della realtà del tutto capovolta, così da sostenere una tesi preconfezionata a sostegno di un preciso obiettivo politico. Ovvero la promozione della candidatura di Hillary Clinton.

L’editoriale si apre con una frase che lascia poco spazio ai dubbi. A Vladimir Putin, cioè, “dovrebbe andare la responsabilità del caos fratricida che ha agitato il Partito Democratico alla vigilia della convention”. “Esperti di cyber sicurezza - continua l’articolo - ritengono probabile che l’intelligence russa sia penetrata nei server del DNC”. Quindi, le rivelazioni di WikiLeaks sono giunte perfettamente a tempo per alimentare le tensioni in casa Democratica, in particolare tra i sostenitori di Sanders e quelli di Hillary, con il preciso intento di penalizzare quest’ultima.

Putin, d’altronde, per i vertici del Washington Post ha cercato in molte occasioni di “intervenire nelle vicende politiche interne di numerosi paesi europei”, come l’Ucraina o la Moldavia, ma anche la Francia e l’Italia. Eventuali interferenze russe, se pure esistono, sono peraltro trascurabili in confronto a quelle degli Stati Uniti, di cui non è possibile rendere conto in maniera anche solo superficiale per ragioni di spazio.

Ancor più, queste tesi cercano deliberatamente di occultare i veri motivi di tensioni e divisioni emerse alla convention di Philadelphia. Non sono infatti Trump, Putin o WikiLeaks a infiammare gli animi tra i Democratici, quanto piuttosto la realtà di un partito che vede su posizioni opposte da una parte i vertici e una candidata guerrafondaia e al servizio di Wall Street e, dall’altra, una base animata in gran parte dal desiderio di vedere attuata un’agenda progressista e che alle primarie aveva illusoriamente appoggiato Sanders.

In ogni caso, secondo la versione ufficiale, cyber-agenti russi avrebbero ottenuto l’accesso alle e-mail dei dirigenti del Partito Democratico per colpire Hillary Clinton e favorire l’ascesa alla presidenza di Trump, notoriamente ammiratore di Putin e del suo regime.

L’equazione Putin-Trump è sostenuta in questi giorni da quasi tutti i principali giornali americani e, al di là delle considerazione insensate su una teorica alleanza tra i due, essa aiuta a comprendere la natura dei timori nutriti da molti verso il candidato Repubblicano negli ambienti di potere di Washington.

Non solo Trump in questi mesi ha espresso varie volte una certa ammirazione per il presidente russo, ma ha anche manifestato l’intenzione di ristabilire relazioni distese con Mosca. Inoltre, in un’intervista rilasciata al New York Times durante la convention Repubblicana di Cleveland, Trump aveva fatto rabbrividire la galassia “neo-con” al servizio dell’imperialismo americano, prospettando un relativo disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO e dai vincoli che li legano agli alleati.

Ciò comporterebbe un arretramento dalle politiche egemoniche perseguite in maniera aggressiva dagli USA in ogni angolo del pianeta e, in particolare, nei confronti di potenze rivali come Russia e Cina. Che poi un eventuale presidente Trump farebbe una rapida marcia indietro a causa delle pressioni dell’establishment, è più che probabile. Tuttavia, in un’atmosfera dominata dalla demonizzazione di Mosca, sentire un candidato alla Casa Bianca mettere ad esempio in dubbio l’appoggio della NATO ai paesi baltici in caso di aggressione russa deve avere turbato seriamente molti anche all’interno del Partito Repubblicano.

Gli attacchi contro il Cremlino e le critiche a Trump per le sue tendenze isolazioniste servono così anche alla strategia del clan Clinton di consolidare l’immagine della ex first lady come la candidata più idonea a proseguire e, anzi, intensificare le aggressive politiche anti-russe dell’amministrazione Obama.

Sempre con lo stesso obiettivo, lunedì la testata on-line americana The Daily Beast ha poi dato la notizia del sospetto da parte dell’FBI che l’hackeraggio ai danni del DNC, presumibilmente in corso da un anno, e la consegna del materiale così ottenuto a WikiLeaks sarebbero opera dell’intelligence russa.

Come se l’intervento della polizia federale USA fosse prova della veridicità delle accuse, lo stesso sito cerca poi di convincere i suoi lettori circa l’esistenza di un piano del Cremlino per “sottrarre a Hillary Clinton la possibilità di diventare il prossimo presidente”, poiché il “candidato preferito [di Putin] è Donald Trump”. A questo scopo vengono inutilmente elencate una serie di manovre messe in atto durante la Guerra Fredda dal KGB per screditare la “democrazia” americana.

Se è con ogni probabilità vero che il presidente russo vedrebbe con minore preoccupazione una vittoria di Trump, ciò non costituisce prova che ci sia un intervento clandestino nelle vicende politiche interne degli USA da parte del suo governo, cosa che invece ha fatto e continua a fare proprio quello americano in moltissimi paesi.

La campagna in atto per collegare Putin a Trump sta sfruttando infine anche gli interessi economici di quest’ultimo in Russia che risalirebbero addirittura agli ultimi anni dell’era sovietica. Precedenti incarichi del numero uno della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, vengono poi citati come ulteriore prova dei suoi legami con il Cremlino. Manafort aveva infatti lavorato come consulente per l’ex presidente ucraino filo-russo, Viktor Yanukovych, deposto nel 2014 da un golpe di estrema destra organizzato e appoggiato dall’amministrazione Obama.

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