di Fabrizio Casari

Si deve all’abilità della sicurezza dello stadio dove si svolgeva la partita tra Francia e Germania se il bilancio degli attentati terroristici non è arrivato a contare migliaia di morti. Aver immediatamente chiuso le uscite dallo stadio ha impedito la fuga generale di decine di migliaia di tifosi nel pieno del panico, che avrebbe potuto replicare moltiplicando per cento quanto avvenuto all’Heysel nel 1985.

Nella dinamica degli attentati emergono alcuni dati che vanno evidenziati. La scelta del Venerdì, giorno santo dedicato alla preghiera per i musulmani non sembra casuale. I luoghi scelti, in primo luogo il teatro Bataclan (dove si svolgeva un concerto di musica metal), ma anche lo stadio, sono luoghi per eccellenza dove si recano i parigini.

Sono posti difficilmente meta di turisti che, invece, sono soliti muoversi in altre zone, dal Quartiere Latino a Montmartre, dagli Champs Elysees e Place de la Concorde, al Louvre, alla Tour Eiffel.

C’è, con tutta evidenza, un salto in avanti rispetto agli scorsi attentati contro Charlie Hebdo. Se nei confronti della rivista satirica si poteva leggere, per quanto folle e omicida, la risposta di presunti musulmani presumibilmente offesi per le cialtronate che venivano pubblicate e dunque la scelta di colpire a Parigi poteva essere una sorta di effetto collaterale dovuto alla collocazione fisica della redazione, quelli di ieri non hanno un bersaglio in qualche modo identificabile con l’avversione all’Islam.

In questo senso, volendo cercare una linea unificante con gli attacchi di pochi mesi orsono, quelli di ieri più che ad un obiettivo preciso ed identificato nell’occasione con la redazione del giornale satirico, sembrano inserirsi nello stesso orribile solco di quanto avvenne nel supermercato. Il nemico dichiarato è la gente comune, il normale vivere quotidiano di una città europea. A maggior ragione di una capitale che contiene milioni di musulmani, la maggior parte stipati in banlieues che, a semplice vista, ricordano la vita in cattività di ormai tre generazioni di maghrebini.

Il silenzio assoluto delle guide musulmane di Francia colpisce non poco. E’ forse figlio di una difficoltà a pronunciarsi, stretti tra un dovere di cittadinanza europeo e un obbligo di solidarietà e comprensione con i giovani assassini che uccidono in nome del Corano. Colpisce ed inquieta, quel silenzio, perché ridurrà ulteriormente i margini di manovra di coloro che cercheranno di differenziare la caccia agli assassini dalla caccia all’Islam.

La rivendicazione arrivata dall’ISIS accusa la Francia di essere “la capitale dell’abominio e della perversione”, ma se così fosse gli attentati avrebbero avuto luogo a Pigalle o in altri luoghi dove le libertà negli usi e costumi francesi si manifesta con maggiore nettezza. E quindi più credibil l’obiettivo fosse il terrore per il terrore, fosse cioè infondere la paura a 360 gradi.

E così come avvenne nello scorso Gennaio, non si realizzano attacchi singoli, ma più nuclei in posti diversi per quanto relativamente vicini. Il che dice qualcosa sugli assassini e qualcos’altro su chi dovrebbe difendere l’incolumità delle città.

Sono circa una decina i commandos suicidi. Il che significa che, includendo ideazione, organizzazione, logistica e comunicazioni, sono state perlomeno una quarantina le persone coinvolte nell’organizzazione della strage. La domanda, dunque, è inevitabile: i servizi segreti francesi hanno esaurito la loro fama nelle cantine dove torturavano i resistenti algerini negli anni 60? Dove e su quale qualità dell’intelligence riposa l’ostinata riproposizione di una grandeur che ormai risulta drammaticamente imbelle?

E’ evidente che i protagonisti, per quanto abili possano essere (ma certo, vista la giovane età, non si tratta di veterani guerriglieri) sono riusciti a bucare completamente le maglie della rete di controllo che dalle banlieues al resto di Francia, la DGSE e il Ministero dell’Interno hanno teso successivamente all’assalto a Charlie Hebdo.

La notizia secondo la quale uno dei componenti del commando era schedato e “attenzionato” dai servizi francesi, aumenta gli interrogativi. Perché era libero? Ed era almeno sorvegliato? E chi lo sorvegliava non aveva notato nulla nei suoi movimenti che potesse insospettire? Qui non ci si trova di fronte alla scheggia impazzita, al gesto isolato di un esaltato obiettivamente difficile da prevenire, ma all’azione di un nucleo organizzato al quale la retata di 24 ore prima in Italia e Germania può aver solo spinto ad accelerare l’azione.

Il Presidente Hollande, una delle maggiori delusioni nella storia politica della Francia, ha invitato tutto il Paese alla mobilitazione, com’era inevitabile. Ma forse, più concretamente, dovrebbe decidere di proporre una modifica sostanziale alle linee operative dei suoi organi d’intelligence, in primo luogo dismettendo quella di punta di lancia degli interessi delle imprese d’Oltralpe per concentrarsi invece sulla difesa dell’integrità e inviolabilità del suo territorio dalla minaccia interna ed estera.

Si può - anzi si deve - ricordare che l’orrore provato ieri in Francia è solo una minima parte di quello provato in tutto il Medio Oriente ogni giorno, ma più che replicare all'unisono la retorica da boyscout e l’elegia del modello di democrazia occidentale contro la barbarie, è meglio che l’azione di ieri sia contestualizzata politicamente è della sua condotta in Siria che Parigi è chiamata a rispondere.

Che viene vista dall’ISIS come un tradimento, evidentemente. Perché in particolare in Libia, ma anche in Siria, la Francia è stata in prima linea contro i legittimi governi di Tripoli e Damasco ed anche in Irak Parigi non ha mai rappresentato un sostegno al governo sciita. Dunque, l’affermazione dell’ISIS è stata certamente agevolata dalla linea politica di Parigi, oltre che da quella di Londra e Washington.

Dallo scorso Settembre, però, pur con molte più parole che proiettili, Parigi ha dato un giro diverso con la sua partecipazione all'alleanza internazionale contro l'ISIS e, a seguito di questa nuova collocazione, ha effettuato alcune missioni di attacco in Siria.

Quello che però ha cambiato il quadro complessivo è la recente Conferenza di Vienna, nella quale hanno cominciato a delinearsi i primi contorni per un processo di pace. Nata a seguito dell’intervento russo in Siria, la consultazione tra le nazioni vede la presenza del governo di Damasco e di quello di Teheran, cominciando così a delineare un totale cambio di rotta verso l'ISIS da parte di Parigi e Londra. Nel comunicato dell'ISIS che rivendica gli attentati di ieri a Parigi, vengono indicate Londra, Washington e Roma come le tappe successive del terrore camuffato da religione. Dunque, sebbene i distinguo sono evidenti, la sfida è a l'Occidente tutto.

Tra dieci giorni, i 17 paesi che stanno scegliendo il percorso possibile per la soluzione politica alla guerra siriana torneranno a riunirsi. Ebbene sarà opportuno intraprendere un deciso e definitivo percorso che abbandoni l’ostilità politica contro Assad e sappia invece costruire un’alleanza militare con il governo di Damasco e l’esercito lealista per sconfiggere definitivamente il Califfato di Al Baghdadi.

Gli iraniani e i curdi in Irak, i Peshmerga curdi e i russi in Siria, stanno già facendo sul serio. E’ ora che l’Occidente si aggiunga e metta con le spalle al muro i suoi alleati sauditi e turchi invece di continuare ad individuare in Assad il problema.

In questo senso, le dichiarazioni di ieri del Ministro degli Esteri italiano, Gentiloni, che ritiene come l'obiettivo sia la cacciata di Assad, risultano particolarmente stupide. Per carità, non è certo Gentiloni la figura di riferimento per la politica estera del nostro Paese, ma sarebbe opportuno che fosse ricondotto al silenzio da chi decide.

Se si vuole pacificare la Siria, Assad è parte della soluzione, non il problema. Impossibile chiedergli di lasciare il comando perché il vuoto di potere produrrebbe solo una nuova Libia, dove pure l'Occidente e la Francia in particolare stanno sperimentando il fallimento totale. Serve piuttosto una rapida disfatta militare dell’islamismo per ridurre l’aureola del terrore e preparare un nuovo inizio per la Siria.

Ci sarà tempo successivamente per analizzare errori e fallimenti di chi per liberarsi dell’asse tra Teheran, Damasco, Beirut e Gaza ha pensato di costruire un Frankestein del terrore. Che poi, come già in Afghanistan, gli si è rivoltato contro facendogli pagare il prezzo più alto.

di Michele Paris

Il neonato governo di minoranza di centro-destra in Portogallo è caduto questa settimana ancor prima di iniziare il proprio mandato dopo l’incerto esito del voto dello scorso mese di ottobre. Come annunciato da settimane, una coalizione di centro-sinistra, che detiene la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, ha sfiduciato il gabinetto del primo ministro, Pedro Passos Coelho, alla presentazione del suo programma di governo, rimettendo nuovamente le sorti della crisi nelle mani del discusso presidente, Anibal Cavaco Silva.

L’esecutivo formato dal Partito Social Democratico (PSD) e dal Centro Democratico Sociale-Partito Popolare (CDS-PP) ha raccolto appena 107 voti a favore, contro i 123 contrari che hanno segnato una fine decisamente prematura per il secondo mandato di Passos Coelho alla guida del suo paese.

L’esito del voto parlamentare di martedì a Lisbona potrebbe spianare finalmente la strada alla formazione di un nuovo governo di centro-sinistra con il Partito Socialista, il Partito Comunista (PCP), i Verdi (PEV) e il Blocco di Sinistra (BE). Queste formazioni avevano ottenuto complessivamente quasi il 51% dei consensi nelle elezioni del 4 ottobre, pur non presentandosi in un’alleanza formale.

Il presidente Cavaco Silva aveva però assegnato l’incarico di formare il nuovo gabinetto al premier uscente, la cui coalizione dispone della maggioranza relativa, giustificando la sua decisione con le preoccupazioni dei mercati per il possibile ingresso al governo di forze di sinistra e l’inopportunità di consegnare il paese nelle mani di partiti anti-europeisti.

Il leader Socialista, António Costa, si era peraltro mostrato inizialmente favorevole alla creazione di un governo di minoranza di centro-destra ma pochi giorni più tardi aveva annunciato la sottoscrizione di un’intesa con gli altri tre partiti per far nascere un esecutivo di centro-sinistra.

Dopo le polemiche per la decisione anti-democratica del presidente portoghese, in molti prevedono ora l’assegnazione dell’incarico a Costa, se non altro per evitare il diffondersi di ulteriori malumori nel paese, a causa del mancato rispetto della volontà della maggioranza degli elettori, e provocare una nuova erosione del sostegno per il PSD e il CDS-PP.

L’alternativa che resta a Cavaco Silva è quella di tenere in vita il governo di minoranza di centro-destra con funzioni limitate e in modalità transitoria in attesa di elezioni anticipate. Questa ipotesi prolungherebbe però i tempi della risoluzione della crisi, visto che secondo le regole costituzionali un nuovo voto non può tenersi prima di giugno, con il rischio di far salire le pressioni internazionali su un paese che è ancora vincolato ai diktat di Bruxelles dopo il “salvataggio” del 2011 sottoforma di un pacchetto di “aiuti” da quasi 80 miliardi di euro.

I nuovi sviluppi di questa settimana hanno prodotto numerose analisi e commenti sui giornali europei e americani, quasi tutti concordi nel prospettare un’inversione di rotta riguardo le politiche economiche che verranno adottate a Lisbona con un governo di centro-sinistra.

I media di orientamento conservatore hanno poi ipotizzato scenari da catastrofe nell’eventualità che i Socialisti e i loro partner abbandonino le misure di austerity. Il ministro delle Finanze del gabinetto uscente, Maria Luís Albuquerque, ha alimentato questi timori, affermando martedì in Parlamento che “la fiducia degli investitori è già diminuita”, mentre “il mancato taglio del deficit di bilancio, in linea con gli impegni presi da Lisbona con l’UE, potrebbe causare una nuova crisi del debito e rendere necessario un altro intervento di salvataggio”.

La stessa esponente del PSD si è unita al coro di quanti hanno minacciato un futuro per il Portogallo simile alla Grecia nel caso si dovesse provare a mettere fine all’austerity, con “maggiore recessione, più povertà, disoccupazione e dipendenza dall’Europa e dal Fondo Monetario Internazionale”.

La campagna mediatica scatenata per cercare di spaventare una popolazione che intende manifestare l’ovvia volontà di liberarsi da oppressive politiche di rigore, dall’impoverimento e dalla precarietà non è d’altra parte nuova né in Europa né altrove.

Il caso del Portogallo è però significativo per come la sola ipotesi di un lieve rallentamento delle impopolari misure antisociali imposte da organismi come UE o FMI sia visto come una minaccia mortale al dominio assoluto dei mercati sulle politiche dei governi. Ciò non è dovuto tanto a una reale prospettiva di cambiamento determinata da un’elezione e dal cambio alla guida di un paese, ma piuttosto dal rischio di generare aspettative di cambiamento tra le popolazioni che si trasformino potenzialmente in un movimento di massa contro la classe dirigente europea.

A ben vedere, per quanto riguarda il Portogallo, le rassicurazioni dei leader dei partiti di centro-sinistra, nonché la loro storia recente – in particolare quella del Partito Socialista – e i precedenti negli ultimi anni di partiti con simili orientamenti in altri paesi dell’Unione non lasciano intravedere alcun cambiamento drastico rispetto al percorso seguito dal governo uscente.

I Socialisti, per cominciare, erano al governo con il premier José Socrates quando nel 2011 venne siglato il “bailout”, ovvero l’orwelliano “Programma di Aggiustamento Economico”, con l’UE in cambio di pesantissime misure di “ristrutturazione”.

Dopo il voto e i quattro anni di governo di centro-destra, il Partito Socialista ha percepito chiaramente l’ostilità dei portoghesi all’austerity e ha proposto in campagna elettorale un’agenda diametralmente opposta. Le misure promesse includono, tra l’altro, l’aumento della spesa pubblica in vari ambiti, la revoca delle “riforme” del mercato del lavoro degli ultimi anni, l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, la riduzione delle trattenute fiscali sulle pensioni più basse e l’imposizione di una nuova tassa di successione.

Tutto ciò e altro ancora risulta però difficile, se non impossibile, da applicare nel quadro del programma di “aggiustamento” promosso da Bruxelles e senza una qualche ristrutturazione – per non dire un ripudio – del debito pubblico portoghese. Come nel caso greco, in sostanza, se anche dovessero esistere spazi di manovra per un governo teoricamente anti-austerity, essi sarebbero decisamente molto limitati, tanto da incidere in maniera trascurabile sulle condizioni di vita di milioni di persone.

Nonostante le ipotesi rovinose che si sono sprecate sui giornali nei giorni scorsi, i partiti della coalizione portoghese di centro-sinistra hanno fatto di tutto per mandare segnali rassicuranti a Bruxelles e ai mercati finanziari. Il principale candidato alla carica di ministro delle Finanze in un eventuale governo a guida PS, Mário Centeno, in un’intervista al Financial Times ha garantito ad esempio che “non verrà gettato denaro nell’economia”, non vi saranno cioè aumenti significativi della spesa pubblica.

Lo stesso economista portoghese ha poi aggiunto che il paese “resterà sulla strada del consolidamento fiscale” con una previsione di ridurre il rapporto deficit/PIL dal 3% attuale all’1,5% nel 2019 e il debito totale dal 128% al 112% del PIL nello stesso periodo di tempo. Queste cifre sono solo parzialmente diverse da quelle proposte dal centro-destra e, infatti, Centeno ha ipotizzato tutt’al più un “rallentamento” delle politiche di rigore, non un abbandono di esse.

Anche soltanto una qualche attenuazione del “consolidamento fiscale” dovrà essere discussa e concordata con i padroni di Bruxelles e, come ricorda ancora una volta il caso della Grecia, a livello europeo non sembra esserci particolare disponibilità in questo senso.

Soprattutto per il Partito Socialista o, quanto meno, per una parte di esso, non vi è comunque un particolare entusiasmo all’idea di provocare uno scontro con l’Unione Europea. Ciò è sembrato pensarlo probabilmente anche il presidente portoghese quando il 30 ottobre scorso ha incaricato Passos Coelho di provare a mettere assieme un nuovo governo.

Cavaco Silva auspicava cioè che la popolarità del premier conservatore tra il business domestico e i governi stranieri, assieme alle pressioni internazionali, avrebbero potuto convincere almeno un certo numero di parlamentari Socialisti a fornire il loro appoggio esterno al governo di minoranza di centro-destra per continuare senza scosse sulla strada dell’austerity.

Le stesse pressioni dei mercati e dei leader europei, ad ogni modo, non diminuiranno nel prossimo futuro con un eventuale governo di centro-sinistra. Anzi, la minaccia di una nuova crisi in Portogallo e nell’intera Europa viene già agitata da molti in questi giorni, con l’obiettivo di convincere da subito i leader Socialisti ad archiviare il loro programma e gli accordi con gli alleati.

Proprio l’atteggiamento del Partito Comunista, dei Verdi e del Blocco di Sinistra risulterà decisivo sul futuro del probabile prossimo esecutivo, nel caso quest’ultimo dovesse ripiegare in fretta su politiche di rigore, mettendo queste formazioni di fronte a una scelta tra un’imbarazzante permanenza al governo e un’uscita da esso per non compromettere la loro relativa popolarità tra gli elettori portoghesi.

di Vincenzo Maddaloni

E' da quando il presidente dell’Iran, Hassan Rohani ha scelto l’Italia per la sua “prima visita ufficiale” in Europa, che  la domanda è: “Incontrerà il Papa?”. Le prime voci su un possibile incontro erano circolate alla fine di settembre durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove entrambi si erano alternati alla tribuna. Fin da allora si cominciò a parlare con insistenza di una visita del Presidente iraniano al Papa, tant'è che da qualche giorno si è iniziato una sorta di countdown, poiché leader politico di Teheran sarà a Roma il 14 e il 15 di  novembre.

Naturalmente l’incontro ufficiale del presidente Rohani è il bilaterale con Renzi. L'obiettivo di entrambi è di lavorare a un rilancio del dialogo politico e preparare il terreno al ritorno delle aziende italiane in Iran, dopo l’intesa sul nucleare di Vienna. L'Italia è da lungo tempo uno dei principali partner commerciali di Teheran, il secondo tra i paesi Ue dopo la Germania. Lo confermano i dati Eurostat del 2014 secondo i quali, in ambito Ue, Italia e Germania sono i soli Paesi ad aver avuto significativi volumi di esportazione verso l’Iran, superando il miliardo di euro. Sono gli unici in Europa.

Infatti, la Germania si conferma il principale fornitore dell’Iran, con un export di 2.390 milioni di Euro nel 2014, seguita dall’Italia che ha esportato verso l’Iran beni per 1.156 milioni di Euro. Il più 9,5 per cento di esportazioni italiane ed il più 28,7 per cento di esportazioni tedesche trainano l’aumento complessivo dell’export dell’intera Ue, che si attesta al 5,8 per cento.

La Germania - a differenza dell'Italia da sempre incollata agli Usa - è anche l'unica nazione europea che si è espressa benevolmente sulla coalizione creata da Mosca, con Siria, Iraq ed Iran, e il conseguente rilancio dell’asse tra Teheran e Mosca. Tuttavia Hassan Rohani ha scelto Roma come prima tappa del suo viaggio in Europa, e sicuramente nella sua decisione molto avrà pesato l’opportunità di una visita in Vaticano. Il fatto poi che Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana non abbia confermato (ma  nemmeno smentito) che l’hojjatoleslam  Hassan Rohani  potrebbe varcare la sacra soglia,  suona - alle orecchie dei vaticanisti più esperti - come una conferma che il sensazionale incontro ci sarà.

Certamente, entrambi i presuli hanno problemi comuni sui quali discutere, a cominciare dal terrorismo che è una tattica di estremismo interna a ogni religione, come pure alle religioni laiche del marxismo o del nazionalismo. Poiché nessuna religione - Islam compreso - predica la violenza indiscriminata contro degli innocenti.

La posizione della Chiesa di Roma su come andrebbe affrontato il terrorismo è largamente condivisa tra gli altri credi. Essa considera pericolosa la dissociazione della repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale, poiché trascura le ragioni profonde che stanno all’origine delle azioni terroristiche. Sottolineare esclusivamente il lato criminale del terrorismo, com’è in uso nella mediacrazia, senza analizzarne le motivazioni e quindi agire di conseguenza, non basta per dare una soluzione definitiva al problema, soprattutto in situazioni - come quella palestinese - dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella frustrazione di genti che non vedono prospettive per il proprio futuro.

Dopotutto l’integralismo islamico non è nato oggi e la disfatta araba del 1967 ne rappresenta uno dei culmini. L’Occidente non ha mai percepito l’intensità di quella umiliazione. Da allora i musulmani hanno la conferma che l’Occidente sarà sempre al fianco di Israele.

Di fronte al fallimento del nazionalismo progressista, del nasserismo, del baathismo, i musulmani militanti, eredi del risveglio arabo, continuano a sostenere che «invece di modernizzare l’Islam, bisogna islamizzare la modernità», come l’ISIS sta facendo a suon di bombe. Da qui si capisce la preoccupazione della diplomazia vaticana di fronte alla grossolanità con la quale i responsabili dell’amministrazione Obama, (come prima lo erano quelli di Bush) presentano l´intervento in Medio Oriente come una crociata.

I riferimenti alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana, sono temuti di là del Tevere come la peggiore delle disgrazie, proprio per l´impatto che può avere in Medio Oriente, dove le comunità cristiane hanno tutto da perdere in un conclamato scontro tra civiltà.

Naturalmente uno scambio di pensieri con il presidente dell’Iran Rohani su questo argomento, potrebbe rivelarsi prezioso. Egli è un militante della rivoluzione iraniana della prima ora, un convinto assertore della bontà del messaggio e dell’azione politica dell’ayatollah Khomeini, il quale trasformò lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. E va oltre.

Ispirandosi a varie teorie, non ultima quella marxista, giunse a costruire una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali.  Rohani è stato uno stretto e fidato collaboratore di Khomeini, e - particolare che va sottolineato - è stato eletto due anni fa presidente dell’Iran al primo turno, con 18.613.329 voti pari al 52,5 per cento dei voti validi e al 50,68 per cento di quelli espressi, in una tornata elettorale caratterizzata da un’affluenza del 75 per cento dei 50,5 milioni di aventi diritto al voto.

Malauguratamente, dopo le guerre del Golfo scatenata dai Bush sono riapparse e si sono rafforzate nel mondo musulmano le profonde separazioni dottrinarie, ma anche ideologiche, poiché l’Islam contemporaneo non è più soltanto teologia, ma è rinato per mille motivi come ideologia politico-sociale,  coinvolgendo le diverse interpretazioni del dogma, dell’idea di Stato, di «risveglio» come rilancio del tradizionalismo o come irredentismo legato alla nozione di progresso. Così facendo si sono ridisegnate, esasperandole, le vecchie frontiere etniche fra arabi e non arabi; fra arabi e turchi e persiani.

L’hojjatoleslam Hassan Rohani è il presidente di una nazione, l’Iran, che svolge una sua funzione peculiare nella civiltà musulmana. Gli sciiti persiani sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto, ma il più delle volte complementare a quello ufficiale dell'arabismo. Sono meno chiesastici degli arabi, più inclini a sintonizzarsi con le società in perenne mutamento.

Negli ultimi anni, però, gli equilibri complessivi di tutto il Medio Oriente sono stati modificati dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli eventi dell’11 settembre 2001. L’intervento militare in Afghanistan ed in Iraq, l’appoggio sempre più incondizionato prestato alla politica dei falchi israeliani, la guerra all’ISIS, sono gli esempi più clamorosi delle iniziative che si inquadrano in un disegno molto più ambizioso, che mira ad assicurare agli Stati Uniti il controllo incondizionato delle risorse energetiche di quella regione.

Dopotutto, benché Forbes definisca per il terzo anno consecutivo, Vladimir Putin l'uomo più potente della Terra, è Obama il capo dell’incontrastata superpotenza globale in termini militari. E dunque gli Stati Uniti, anche se privi di risorse culturali indispensabili alla gestione planetaria, hanno più dei russi la concreta possibilità di mettere in atto le loro minacce.

E’ con questa situazione che la politica del Vaticano è costretta a confrontarsi soprattutto in Medio Oriente. Deve valutare se la strategia seguita fino ad ora ha bisogno di correzioni dopo che sullo scenario è comparsa la Russia di  Putin. Da sempre essa si è prefissa il compito di tutelare tre obiettivi - difesa delle comunità cristiane, tutela dei luoghi santi, ricerca della pace - indispensabili per la serena coabitazione dei fedeli di religioni differenti. Questo spiega la prudenza e la marcata indipendenza della Chiesa di Roma dalle potenze occidentali e, in particolare, dagli Stati Uniti.

Un atteggiamento che essa mantiene fin dal conflitto israelo-palestinese del 1948, dalla crisi di Suez, dalla prima e della seconda guerra del Golfo, fino ad oggi. La Chiesa continua a mantenersi distante dalla linea politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. L’assenza, fino a dodici anni fa, di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, il partner più fedele di cui Washington dispone nella regione, è la manifestazione più evidente di questa divergenza. Anche se non è mancata e non manca la rincorsa agli spunti provocatori, che si sono moltiplicati con questo papato, per costringerlo a  riaccorciare le distanze.

Francesco resiste. C’è nell’azione di questo Papa che proviene dal Terzo Mondo un sapere sottile e consapevole che il Medio Oriente - insieme alla guerra contro il terrorismo - costituisce oggi il campo principale della politica mondiale. Egli evidenzia - diversamente dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger -  le deformazioni del capitalismo che è nato in Europa e vi si è sviluppato per secoli estendendosi al resto del mondo. Anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale.

Visto dai musulmani, l’Occidente appare in larga parte incomprensibile. Nel loro mondo le fortune eccessive sono il più delle volte confiscate, quasi sempre ridistribuite ai poveri o impiegate nella costruzione di edifici religiosi. Poiché queste società musulmane non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Nel più o nel meno è il modello che  questo nuovo Papa raccomanda ai suoi fedeli.

L’Iran sciita fa storia a sé. Il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Esso viene accettato - come la partecipazione alle recenti elezioni presidenziali dimostra - perché l’assenza di un'alternativa laica seria e popolare, stimola a ripensare a  quanto scrisse il poligrafo egiziano Suyûtî (sunnita).

Egli narrò (sec XVI) che, «quando Hussein fu ucciso nella piana di Kerbala si fermò il mondo, il sole divenne giallo come zafferano, le stelle caddero. L’orizzonte fu rosso per sei mesi. E il rosso dell’orizzonte si vide ogni giorno, dopo quel fatto, mentre prima non si vedeva». Tutto questo vuol dire anche che 36 anni dopo la rivoluzione khomeinista ancora rimane negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità”, nella quale essi coniugano novità e tradizione, e che li ha resi peculiari agli occhi del mondo.

Allora perché stupirsi se folle di pellegrini si recano ogni giorno dell’anno sulla montagna di Radwa (a sette giorni di marcia da Medina, in Arabia), dove Sâhib al zamân (colui che domina questo tempo), è nascosto: «in una fonda caverna fra pantere e leoni, invisibile ai sensi, ma presente al cuore dei fedeli». La devozione del pio fedele sciita si è polarizzata su di lui, il Mahdî della Resurrezione che non si rivelerà finché il genere umano non sarà capace di trovare, con il trionfo dell’ecumenismo, la sua unità.

I cristiani, con altri sacri riferimenti, viaggiano in sintonia. Insomma, ci sono le premesse ideali per due ministri della trascendenza che sono pure due capi di Stato. La mistura è sorprendente. Vediamo sullo scenario mondiale l’effetto che  fa.

 

*Vincenzo Maddaloni, giornalista e saggista, negli anni 1978 -79 ha raccontato da Teheran la caduta dello Scià e la presa del potere da parte di Khomeini. Dall’Iran ha firmato negli anni numerose corrispondenze. Ha scritto il libro “L’atomica degli Ayatollah. Il ruolo strategico dell’Iran, la crisi con gli Usa” (con lo scrittore iraniano Amir Modini).


di Mario Lombardo

I vertici militari americani stanno progettando l’invio in Europa di migliaia di altri soldati, in aggiunta a quelli già presenti, in previsione di un futuro conflitto armato con la Russia. L’ipotesi è stata avanzata nel corso di una recente conferenza sulla sicurezza nazionale in California, durante la quale alcuni dei rappresentanti più autorevoli della macchina da guerra USA hanno dipinto ancora una volta Vladimir Putin e il suo governo come gli unici responsabili delle tensioni nel vecchio continente.

Protagonisti dell’evento, organizzato presso la Biblioteca Presidenziale Ronald Reagan di Simi Valley, nei pressi di Los Angeles, e di una successiva intervista al Wall Street Journal sono stati il comandante supremo delle forze NATO, generale Philip Breedlove, e il capo di Stato Maggiore dell’Esercito USA, generale Mark Milley.

Entrambi gli alti ufficiali hanno fatto a gara per dare una rappresentazione della realtà dei fatti in Europa completamente ribaltata, così da trasformare il destabilizzante interventismo diplomatico e militare americano in un impegno per la sicurezza e il mantenimento della pace.

Il Pentagono intende far fronte alla “minaccia” di Mosca aggiungendo almeno una brigata -composta da 3.500 uomini - alle due che già si trovano in pianta stabile sul territorio europeo, ovviamente dotata dei dovuti mezzi. Per aggirare gli ostacoli legali e le prevedibili reazioni russe, gli Stati Uniti dichiarerebbero le nuove truppe come “provvisorie”, utilizzando il consueto espediente della “rotazione” dei soldati per evitare, almeno ufficialmente, un dispiegamento a carattere permanente.

Una proposta sul nuovo contingente sarà predisposta non prima di due mesi e dovrà essere approvata dalla Casa Bianca ed eventualmente ottenere i necessari finanziamenti dal Congresso. Le parole di Breedlove e Milley nel fine settimana sono però servite ad aprire la strada all’iniziativa e a stabilire le basi sulle quali altri soldati USA potrebbero giungere a occupare le installazioni militari in Europa.

Intanto, a procedere già nelle prossime settimane dovrebbe essere la decisione di stabilire una forza NATO di reazione rapida in Europa orientale, sempre in funzione anti-russa, secondo il piano delineato in un vertice dell’alleanza tenuto a Varsavia lo scorso luglio.

Il generale Milley ha apertamente fatto riferimento alla necessità di far fronte alla “guerra ibrida” che caratterizzerebbe le operazioni russe in Crimea e in Ucraina orientale, vale a dire condotte da una combinazione di forze regolari e irregolari.

Ciò ha inevitabilmente riproposto la versione propagandata dall’Occidente sulla guerra in Ucraina, secondo la quale sarebbe la Russia l’aggressore, così che, di conseguenza, anche gli altri paesi dell’Europa orientale - a cominciare da quelli baltici - risultano esposti alla minacca di invasione o di attacco da parte di Mosca.

Per fronteggiare questo fantomatico scenario, i militari americani necessitano di una maggiore presenza in Europa, anche se essi stessi, in caso di esplosione di un conflitto, si aspettano “interferenze” da parte della Russia, a cominciare dalle stesse operazioni di trasferimento dei soldati da una sponda all’altra dell’Atlantico.

A spiegare la gravità della situazione, il generale Milley ha di fatto proposto di rispolverare un’esercitazione che veniva condotta durante la Guerra Fredda per fare appunto pratica nello spostare migliaia di uomini dall’America all’Europa.

Questa considerazione rispecchia le apprensioni del Pentagono per il grado di sofisticatezza raggiunto dalle forze armate russe, in particolare per quanto riguarda le cosiddette “anti-access, area denial forces”, cioè l’insieme dei sistemi difensivi di un determinato paese. Altri ufficiali americani hanno espresso invece preoccupazione per il trasferimento di sistemi missilistici nell’enclave russa di Kaliningrad, situata tra Polonia e Lituania, e la modernizzazione degli armamenti situati presso una base di Mosca in Bielorussia.

L’ipocrisia di simili dichiarazioni, pur essendo tutt’altro che insolita in relazione agli Stati Uniti, raggiunge livelli difficilmente immaginabili, visto che, nel caso specifico, l’apparato militare americano, responsabile di innumerevoli invasioni, aggressioni e devastazioni varie nell’ultimo mezzo secolo, dispone di qualcosa come 800 basi all’estero contro le poche decine mantenute da tutti gli altri paesi del pianeta combinati.

Sia Breedlove sia Milley hanno comunque messo in guardia dalla presunta tendenza a prestare attenzione esclusivamente all’intervento russo in Siria, poiché così facendo si rischierebbe di considerare come un fatto compiuto e ormai accettato l’annessione della Crimea. Infatti, secondo il generale, “un’aggressione rimasta senza risposte conduce probabilmente ad altre aggressioni”, nonostante la grandissima maggioranza della popolazione della Crimea avesse votato in un referendum a favore dell’unione con la Russia e, soprattutto, l’intera crisi ucraina sia stata orchestrata da Washington per strappare questo paese all’influenza di Mosca.

La stessa retorica anti-russa è stata proposta nel corso del forum di Simi Valley anche dal segretario alla Difesa, Ashton Carter. Il numero uno del Pentagono ha posto l’attenzione sull’aggressività russa, criticando poi il Cremlino sostanzialmente per una serie di atteggiamenti che caratterizzano piuttosto la politica estera degli Stati Uniti.

Tra l’altro, Carter ha accusato il governo del presidente Putin di “gettare benzina sul fuoco” del conflitto siriano e di agitare lo spettro della guerra nucleare. Un’altra accusa che il governo e i militari americani rivolgono con insistenza in questo periodo sia alla Russia per quanto riguarda il Medio Oriente e l’Europa, sia alla Cina nel teatro dell’Estremo Oriente, è poi quella di volere mettere a repentaglio la stabilità e l’ordine internazionale.

In realtà, proprio l’imperialismo americano è di gran lunga la vera forza destabilizzatrice del 21esimo secolo e l’ordine che i paesi emergenti starebbero minacciando non è altro che la declinante egemonia USA nelle aree strategicamente più importanti del globo. A questa dinamica, gli Stati Uniti non hanno da offrire alcuna contromossa di carattere progressista ma soltanto una pericolosissima escalation militare, rivolta oltretutto contro due potenze nucleari.

di Carlo Musilli

Più che una presa di posizione convinta sembra una mossa tattica imposta da ragioni di politica interna, ma arriva pur sempre da Westminster e bisogna far mostra di prenderla sul serio. Martedì 10 novembre il premier britannico David Cameron ha scritto al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e al numero uno della Commissione europea Jean Claude Junker.

Nella lettera, il Primo ministro avanza una serie di richieste a Bruxelles per scongiurare la prospettiva del Brexit, ovvero l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, tema su cui gli elettori britannici saranno chiamati a esprimersi via referendum entro il 2017 (forse già nell'autunno del 2016).

In sintesi, Londra pone quattro condizioni: la possibilità di chiamarsi fuori da eventuali progetti che puntino a una maggiore integrazione europea; il potenziamento della sussidiarietà, concedendo a gruppi di parlamenti nazionali il potere di correggere la legislazione comunitaria; una maggiore tutela della sterlina e in generale dei diritti dei Paesi che non fanno parte dell'Eurozona; il diritto di porre limiti al numero di immigrati dagli altri Paesi Ue e al Welfare di cui questi beneficiano.

I cambiamenti richiesti - ha ammesso Cameron - sono "grandi, ma non impossibili" e "con pazienza, buona volontà e inventiva" potranno essere raggiunti per fare "della Gran Bretagna, ma anche dell'Ue", un posto più "sicuro e prospero" negli anni a venire. Il Premier britannico mantiene un atteggiamento conciliante, ribadisce che vuole mantenere il Paese all'interno dell'Ue, ma avverte che, se le autorità europee non prenderanno in considerazione le richieste sue "e dell’elettorato", potrebbe anche cambiare idea.

La reazione di Bruxelles è stata piuttosto fredda. Il portavoce della Commissione ha definito alcune richieste di Londra "fattibili", altre "difficili" e altre ancora "altamente problematiche", perché causerebbero discriminazioni e comprometterebbero "le libertà fondamentali" dei cittadini europei (ad esempio quella di circolazione sancita dal trattato di Schengen, probabilmente l'accordo più vituperato dalle destre europee).

Fin qui le dichiarazioni ufficiali. Lettere e comunicati, però, non rispondono alla domanda fondamentale: per quale ragione Cameron ha sollevato un polverone di cui - è evidente - lui stesso avrebbe fatto volentieri a meno? In realtà, è stato costretto. Il numero uno di Downing Street, che euroscettico non è, deve fare i conti ormai da tempo con la crescente ostilità della maggior parte dei suoi connazionali nei confronti dell'Unione europea.

Questo sentimento è stato cavalcato con abilità dall'Ukip, il partito populista e conservatore guidato da Nigel Farage (peraltro alleato del Movimento Cinque Stelle all’europarlamento) che negli ultimi anni ha moltiplicato i propri consensi usando proprio l'euroscetticismo come propellente elettorale. Fondato nel 2009, l'Ukip ha ottenuto alle elezioni locali del 2013 il 23% dei consensi (contro il 25% del Partito Conservatore di Cameron) e alle europee del 2014 ha trionfato con il 27,5% dei voti, diventando il primo partito della Gran Bretagna.

Com'era prevedibile, Farage ha criticato le richieste di Cameron alla Ue, bollandole come "non sostanziali", perché "non c’è alcuna promessa di ridare supremazia al Parlamento britannico, non c’è niente sulla necessità di porre fine alla libertà di movimento delle persone e non c’è alcun tentativo di ridurre l’enorme contributo britannico al budget europeo".

Posizioni che la maggior parte dei sudditi di Sua Maestà sembra condividere. Secondo un sondaggio realizzato da YouGov per il Times e pubblicato lo scorso 28 settembre, infatti, se si tenesse oggi il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Ue il fronte del No conquisterebbe il 40% delle preferenze, mentre i favorevoli si fermerebbero al 38%.

Il quotidiano inglese sostiene che la crescita dell'euroscetticismo riflette una divisione sull'Ue all'interno dei Tory e dei Labour. Per sanare questa frattura, Cameron sa che l'unica strada è rassicurare l'elettorato conservatore. Il che significa rincorrere Farage verso destra.


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